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Curry si stava portando il bicchiere di whisky alla bocca quando il suo cellulare prese vita. Non lo sentì, era in modalità silenziosa, si limitò a vibrare sul tavolo davanti a lui come un’ape infuriata. Percepì la propria mano attraversare l’aria per pigiare il pulsante verde, ma fortunatamente si rese conto in tempo che non era il caso di rispondere. Erano appena le cinque ed era già ubriaco fradicio. Merda. Aveva pensato di fare un salto dentro per un giretto. Salutare Luna. Schiarirsi le idee. Vedere se riusciva a trovare qualcosa negli appunti che aveva portato con sé. Come faceva Mia. Scuse, nient’altro che scuse, ovvio. Aveva una fottuta voglia di un drink. E poi erano diventati uno di troppo.

Alla fine il telefono smise di vibrare. Cominciarono ad arrivare dei messaggi. Prima uno. Poi altri due. Sollevò l’apparecchio nella luce fioca e riuscì a leggerli. Anette Goli. Munch. A quanto pareva era successo qualcosa. Gli chiedevano di vedersi in sede. Merda. No, così non andava. Non ora. Non poteva farsi vedere in quello stato. Vuotò il bicchiere di whisky e fece segno a Luna dal tavolo.

«Un altro» mormorò battendo il dito sul bordo del bicchiere. La ragazza lo guardò di traverso.

«Sei sicuro, Jon?»

«Che vuoi dire?» mormorò lui, accorgendosi che farfugliava.

«Va tutto bene, o...?»

Lo accarezzò rapida sui capelli.

«Sì, sì. Un altro, tutto qui.»

Qualcuno infilò una moneta nel vecchio jukebox in fondo al locale e una vecchia canzone country cominciò a scivolare lungo le pareti scure. Le palle da biliardo schioccavano sul tavolo. Uno dei pub più bui di Oslo, così malridotto che nemmeno agli hipster andava di metterci piede. Tatuaggi da marinaio, giacche da motociclista. Anime sole, ciascuna nel proprio angolo, labbra biascicanti chine su sudici bicchieri di birra. Due uomini in giacca sportiva seduti al bar, sembrava avessero sbagliato posto. L’avevano guardato con la coda dell’occhio, all’inizio lui non aveva capito perché. Un istante di paranoia, cazzo, erano poliziotti? Lo stavano forse tenendo d’occhio? Ma a metà del terzo bicchiere di whisky aveva capitolato. Lì seduto, non era che una visione penosa. Gli sguardi che gli avevano lanciato erano di compassione. Un altro alcolizzato con le mani tremanti.

Cazzo.

Quando era successo esattamente? Aveva sempre avuto il controllo prima? Un drink ogni tanto, ma mai così. Come una spugna. Come un albero a cui mancasse l’acqua. Qualche giorno prima aveva visto un annuncio sul tabloid VG, l’aveva letto con interesse. Clinica di Sollia. Conosci qualcuno che ha bisogno d’aiuto? Scacciò quel pensiero alla vista di Luna che stava arrivando con un altro drink e una birra.

«Chiamo Katrine? Le chiedo di sostituirmi?»

Si fece più vicina, lo accarezzò sulla guancia con le dita calde.

«Perché?»

Cercò di mettere a fuoco, ma non riuscì a centrare lo sguardo di lei.

«Così andiamo a casa. Vuoi?»

Curry si drizzò sulla schiena e la scacciò agitando la mano.

«No, no, sto bene, volevo solo...»

Uno dei tipi con la giacca sportiva al bar tornò a guardarli.

«Sicuro?»

«Hai dei clienti» farfugliò lui cercando di sorridere.

«Posso farlo, basta che tu me lo dica, ok?»

«Va bene» disse lui, ma lei era già dietro il banco.

Portò il bicchiere alla bocca e sentì che per fortuna il tremore si era alleviato. Sentì che faceva più caldo adesso, a mano a mano che quel tonico svaniva giù per la gola e raggiungeva lo stomaco.

Non aveva mangiato nulla.

Ovviamente.

Era per quello.

Lo tollerava l’alcol, semplicemente non aveva mangiato.

Cura, ma tu pensa.

Ridacchio tra sé e vuotò per metà il bicchiere di birra mentre la canzone country scemava per lasciare il posto a un nuovo pezzo.

Un po’ troppo presto, è solo questo.

Scordato di mangiare.

L’uomo con la giacca sportiva gettò un altro sguardo nella sua direzione e a Curry venne voglia di fare una smorfia, mandare il tipo a quel paese, ma non lo fece. Portò invece lo sguardo alla finestra e all’improvviso vide un volto noto che lo fece trasalire.

Allan Dahl?

Cazzo, pure lui adesso!

Quel bastardo chiacchierone ficcanaso della Narcotici. Al lavoro erano tutti in riunione e lui era lì ad affogare nel bicchiere. Se Dahl l’avesse visto, la cosa sarebbe giunta alle orecchie di Munch. Si ritrasse nel suo cubicolo mentre il collega attraversava la strada, ma fortunatamente non entrò. Una macchina parcheggiata in attesa accanto al marciapiede. Allan Dahl vi prese posto e poi, grazie a Dio, svanì.

Il tizio alla guida?

Non aveva già visto da qualche parte quella faccia?

Provò a riflettere, ma solo per un attimo.

Chissenefrega.

La tv dietro il banco del bar. C’era il notiziario. La ballerina nel lago di montagna. Il giovane alla pensione. Non parlavano d’altro. Due volti seri in studio, poi apparve Anette Goli. All’inizio non la riconobbe, indossava l’uniforme della polizia. Repliche delle notizie del giorno. La conferenza stampa. I flash lampeggianti delle macchine fotografiche, un formicolare di microfoni nell’aria. Di nuovo i volti in studio e poi all’improvviso qualcosa che sembrava un collegamento in diretta. Sobbalzò quando vide dove si trovavano.

Dannazione.

Si alzò e si trascinò barcollante verso il bar.

«Alza il volume!»

«Cosa?»

I due in giacca sportiva lo guardavano torvi.

«Il volume!» biascicò di nuovo indicando il telecomando.

Luna capì finalmente di che cosa stava parlando.

«Ci troviamo ora fuori della scuola media di Hedrum a Larvik» disse una donna con il logo di TV 2 sulla giacca, «dove lavora l’uomo che, a quanto si dice, è il maggior sospettato.»

Ora lampeggiava una scritta sullo schermo, bianca su sfondo rosso.

Raymond Greger.

Maledizione.

Quelle dannate questure locali.

Qualcuno aveva parlato.

Munch sarebbe andato su tutte le furie.

«Che cos’è?» domandò Luna preoccupata mentre il telefono di Curry riprendeva a vibrare di nuovo, da qualche parte in lontananza.

«Devo andare al lavoro» mormorò facendo per sedersi su uno degli sgabelli del bar che però non c’era.

Vide che stava per finire sul pavimento, cercò di aggrapparsi a qualcosa, ma le braccia non gli obbedirono.

«Tutto a posto?»

Il bel viso era sopra di lui, e anche le due giacche sportive si erano alzate.

«Devo andare in ufficio» farfugliò cercando di rimettersi in piedi, ma le gambe non rispondevano come avrebbero dovuto.

«Telefono a Katrine.»

Un’ombra grigia.

Una voce che bisbigliava.

Dal fondo del mare.

Prima che la musica svanisse all’improvviso lasciandolo solo sul pavimento freddo.