Lillian Lund era già seduta a uno dei tavoli accanto alla finestra e si alzò quando lo vide entrare. Lui non la riconobbe subito. In borghese. Senza tutte quelle protezioni che le coprivano la testa e la bocca. I capelli scuri le cadevano sciolti sulle spalle e al posto della divisa bianca da laboratorio indossava un abito giallo con un giacchino di lana grigio.
«Ciao, Holger» gli sorrise. «Mi spiace di averti imposto la cucina giapponese.»
«Ma figurati» rispose Munch, sbottonandosi il montgomery.
«Solo che io...» proseguì la Lund. «Mangiare da sola proprio non mi va. Non so, mi sembra sbagliato. Secondo te?»
«Va benissimo» sorrise Munch, sedendosi. «E quando si tratta di mangiare in genere io non ho problemi.»
Lei gli sorrise mentre una cameriera giapponese si avvicinava quasi invisibile al tavolo per lasciare loro due menu.
«Ti suggerisco i maki» sorrise ancora la Lund. «Non hai assaggiato davvero i maki se non sei mai stato da Alex. Lo dicono tutti, ma io non capivo che cosa intendessero la prima volta che sono venuta. Sei allergico a qualcosa?»
«Cosa? No» rispose Munch con la sensazione che forse avrebbe dovuto fare un rapido salto a casa. Indossava gli abiti del giorno prima... o erano quelli di due giorni prima? Cercava di non sollevare le braccia per paura che l’odore di giorni di lavoro potesse disturbare gli altri ospiti. Ma a chi interessava, aveva cose più importanti a cui pensare.
«Hai qualcosa in contrario se ordino io?» disse la Lund facendo un cenno alla cameriera.
«Assolutamente no» rispose Munch.
«Bene» fece la Lund, poi disse qualcosa alla giovane senza guardare il menu.
«Allora?» riprese il discorso Munch quando furono di nuovo soli.
«Sì» disse la Lund posando in grembo il tovagliolo. «Ho pensato fosse meglio che ne parlassimo a quattr’occhi.»
«Non c’è problema, te l’ho detto» ribadì Munch cercando di non apparire curioso.
«I campioni» disse la Lund e bevve un sorso dal bicchiere d’acqua che aveva davanti, «erano... sì, se devo essere sincera, avevo paura che fossero...»
«Dimmi.»
«O meglio, il termine è sbagliato: paura forse è una parola troppo forte, ma sì...»
Gettò uno sguardo rapido fuori dalla finestra.
«Scopolamina, iosciamina e atropina» recitò la bella dottoressa catturando nuovamente lo sguardo di Munch.
«Ebbene? Che significa?»
«Hai già sentito parlare di queste sostanze? Della scopolamina?»
«Al momento non mi viene in mente nulla» rispose Munch.
«La lingua del diavolo» disse la Lund.
«Del diavolo cosa...?»
«Lingua. È così che la chiamano. La scopolamina. C’è molta incertezza riguardo a questa sostanza, molti in realtà ritenevano che fosse un mito.»
Si schiarì la voce prima di proseguire.
«Abbiamo rapporti, provenienti principalmente dal Sudamerica e dall’America centrale, su criminali che l’hanno utilizzata per avere il controllo totale delle loro vittime. In realtà non compare nell’elenco delle sostanze narcotiche in Norvegia, ma si dice che sia così forte da avere un effetto immediato. Ne basta una puntina, il contatto con la pelle per esempio attraverso una rapida stretta di mano, da cui il nome.»
«Lingua del diavolo?»
«Esatto» disse la Lund.
«Ed è ciò di cui parliamo nel nostro caso?»
«Sì, purtroppo non ci sono dubbi.»
«Scolo...?»
«Scopolamina. In Norvegia si può ricavare da una pianta chiamata stramonio. La trovi nei giardini botanici. Se sai qual è, ovviamente. Può avere un effetto ipnotico fortissimo. Strano, in realtà, che molta gente non lo sappia. È un bene però.»
Gli lanciò un rapido sguardo e sorrise.
«E qui in Norvegia si trova facilmente?»
«Sì, senza problemi. Alcuni queste piante le coltivano, ho sentito.»
«E tu credi...?»
«Le ferite alla bocca» disse la Lund chinandosi per avvicinarsi a lui. «Sono state queste a spingermi a chiedere nuovi campioni più dettagliati. Credo si sia trattato di una reazione.»
«Dici sul serio?»
«È un veleno, no?» rispose la dottoressa. «Mortale. Estremamente pericoloso, così si dice. Se ne prendi troppo. Attraverso un’esposizione diretta. Qualcuno, credo, deve averlo spruzzato sulla bocca alle vittime, qualcosa del genere, non saprei.»
«Scopolamina...» ripeté Munch, meravigliato. «Perché non ne ho mai sentito parlare?»
«Come ti dicevo, non è molto conosciuta» proseguì la Lund scostandosi i capelli dietro l’orecchio. «L’effetto dev’essere una specie di paralisi cerebrale. Gli studi scientifici a proposito sono molto pochi, ma riportano casi in cui diverse persone in seguito all’incontro con uno sconosciuto per strada sono cadute in uno stato di trance. L’aggressore, o, sì, non saprei quale altro termine usare per definirlo, ha poi accompagnato le vittime a casa. Case svaligiate. Vittime accompagnate al bancomat e conti svuotati. Le persone si sono svegliate diversi giorni dopo senza ricordare che cosa fosse accaduto. Capisci? Si è come svegli, ma non completamente presenti. Una cosa inquietante.»
«E sei sicura che fosse questa la sostanza che avevano in corpo?»
«Sì.»
«Perché?»
«Una mistura. Scopolamina, iosciamina e atropina. Datura. O, sì, stramonio, come si dice comunemente.»
«Ma per la miseria» mormorò Munch. «Perché qualcuno lo coltiverebbe?»
«Per... sballarsi?» rispose la Lund sollevando le sopracciglia. «L’allucinogeno è quasi come l’LSD, soltanto più forte.»
«Ma perché...?» mormorò Munch.
«Non vorrei parlarne, ma...»
La Lund si schiarì rapidamente la voce e tornò a guardare fuori della finestra, poi bevve un altro sorso d’acqua dal bicchiere che aveva davanti.
«Hai figli?»
«Una figlia, perché?»
«Io ho un figlio» disse la Lund. «Benjamin. Ventisei anni. È... come posso dirlo?, particolare. Ha qualche difficoltà a trovare il suo posto nel mondo, capisci cosa intendo dire?»
«Sì, certo, assolutamente» sorrise Munch.
«Benjamin» la Lund si schiarì la voce prima di continuare, «sì, come ti ho detto. Ha qualche problema di adattamento. Ha sempre avuto una vena artistica... Scusami se parlo di questioni personali.»
«Non c’è problema» disse Munch.
«Grazie» sorrise lei, e proseguì. «Si è trasferito a Trondheim. Per studiare. Antropologia. Alla NTNU, l’Università norvegese di scienza e tecnologia. Una scelta del tutto casuale, credo, comunque. Lì è andato a vivere in un collettivo, con gente, come la posso definire, un po’ alternativa? Musicisti, cose del genere. Avevano sentito delle voci, allora sono andati in un orto botanico, hanno cercato quella pianta. Roba da incoscienti, senza dubbio. Uno dei ragazzi è tornato in sé solo dopo alcuni giorni, si è ritrovato dalla parte opposta della città, senza avere idea di cosa fosse accaduto nel frattempo. A me Benjamin ha detto che lui non l’aveva provata quella roba, ma sai com’è. Voleva risparmiare la preoccupazione a sua madre.»
Munch non riuscì a nascondere un sorriso.
«Perché ridi?» chiese la Lund, aggrottando le sopracciglia.
«Scusami» disse Munch. «Non sapevo esattamente che cosa pensare quando mi hai detto che non volevi parlarne al telefono.»
«Sono stata un po’ sciocca, eh?» disse la Lund sorridendo lievemente. «Ma sono sola, nel mio lavoro, sai com’è.»
«Certo. Quando si tratta dei propri figli. Capisco» disse Munch mentre la cameriera tornava con le pietanze.
«Allora, dunque» disse la Lund scartando le bacchette dalla confezione. «La lingua del diavolo.»
«Hai ragione, questo risponde a molte delle nostre domande» disse Munch. «Solo che non riesco a capire perché non ne ho mai sentito parlare prima.»
«America centrale e Sudamerica. Non si trovano nemmeno molti studi in materia, ma a quanto pare è un fenomeno che si sta diffondendo, a giudicare dai rapporti pubblicati in internet.»
«E non è illegale?»
«Per il momento no, ma presto lo sarà. Comunque, qui non è obbligatorio usare le bacchette.»
«Sicura?» disse Munch.
Lei ridacchiò.
«Se non vuoi, no. In Giappone molti mangiano con le mani. Ma noi in Norvegia abbiamo sempre paura di fare qualcosa di sbagliato. Tipico. Quello verde è wasabi. Devi scioglierlo nella salsa di soia.»
«Ok.»
«Ah, scusa» disse la Lund. «Ho scordato di chiederti se volevi una birra o altro.»
«Non bevo alcol» rispose Munch.
«No?»
«No.»
«Mai?»
«No, una volta ho provato. Non fa per me.»
«Ma pensa. Un uomo come piace a me» ammiccò il medico legale dai capelli scuri, sollevando il bicchiere d’acqua per un brindisi.