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Mia gettò una rapida occhiata all’interno dalle finestre del Lorry e cambiò idea. Il suo posto era occupato e inoltre c’era troppa gente. L’oscurità si era impossessata delle strade di Oslo e lei ancora una volta non aveva dormito. Era tornata a casa, aveva fatto un altro tentativo, ma a quanto pareva il circo sulle scale non si placava. Di nuovo quella vecchia. Questa volta per via di un qualche animale da compagnia scappato. Hai visto il mio gatto? Anche il vicino stava uscendo di casa, gli occhi che ancora non avevano abbandonato del tutto la speranza. Com’è andata poi con le ferie? Aveva udito quella domanda prima ancora che fuoriuscisse dalla bocca ed era riuscita a sgattaiolare nel suo appartamento prima che venisse formulata. La testa per un istante sul cuscino, con i vestiti indosso. Un martellamento al piano di sopra. Una voce maschile che sbraitava e una femminile che rispondeva con lo stesso tono indiavolato. La trivialità quotidiana. Aveva serrato forte le palpebre, ma l’anima non accennava a darle pace. Non riusciva a chiudere fuori il mondo. Tutte quelle persone. Era sempre stata una sua responsabilità. Che fossero al sicuro. In modo da potersi dedicare alla ricerca del gatto. Aiutare la sorella. Litigare con il marito. Dipendeva da lei. Che non finissero in un lago di montagna con indosso un costume da ballo. Su un letto di un lugubre hotel. Soli e senza vestiti in un parcheggio in piena notte, senza possibilità di difendersi.

Il tuo lavoro ti fa ammalare.

Lo sai questo?

Che avresti dovuto fare altro?

Un altro psicologo benevolo, e lei l’aveva scansato, ma quelle osservazioni emergevano di nuovo mentre attraversava la strada alla ricerca di un altro luogo in cui nascondersi. Il pub degli artisti. Un buco nella parete. Un uomo barbuto al banco del bar, davanti a un drink e a un taccuino. Tre volti silenziosi davanti a una scacchiera, mani ruvide intorno a bicchieri di birra appannati. Trovò un tavolo in un angolo mentre il suo telefono squillava. Gabriel. Posò la borsa sulla sedia e uscì in strada per rispondere.

«Hai due minuti?»

«Ovvio, Gabriel, come procede?»

«Ho tutto» mormorò il giovane hacker. «Che cosa vuoi che ne faccia?»

«C’è molta roba?»

«Parecchia, sì. Avevo quasi paura a guardarla, sono cose intime, private.»

«La ricerca è libera?»

«Che vuoi dire?»

«Nei file, se inserisci una parola, o un nome, il sistema ti trova le occorrenze?»

Gabriel ridacchiò.

«No. Non è un database. Sono soltanto migliaia di documenti. Scansioni in PDF di appunti personali. Non si può fare ricerca.»

«Ritter avrà pure un modo per cercare tra i suoi appunti.»

«Ovviamente lui conosce i nomi di tutti, non è difficile. Se mi dai un nome, mi ci vogliono dieci secondi, o una data di nascita, un indirizzo, cose del genere.»

«Si può fare» disse Mia. «Era solo un’idea che mi è venuta.»

«Hai un nome o qualcosa?»

«No, se non c’è scritto Karl Øverland da qualche parte.»

«In effetti ci avevo già provato, ma niente. Era solo un alias, no?»

«Lascia stare» disse Mia. «Finché non troviamo qualcosa che possiamo collegare.»

«Ok» disse Gabriel. «Hai parlato con Munch? Della droga che hanno trovato? La scopolamina?»

«Sì, lo so» rispose Mia.

«Quindi è per questo che Vivian Berg è salita nel bosco da sola? E nessuna delle vittime ha opposto resistenza?»

«Così pare» mormorò Mia impaziente.

Doveva rientrare.

«Che cosa brutta» commentò Gabriel. «Pensare che potrebbe prendere chiunque di noi in qualsiasi momento senza che possiamo fare nulla per difenderci, non trovi?»

«Senti, Gabriel, adesso sono occupata, ti chiamo se trovo qualcosa, d’accordo?»

«Va bene» rispose Gabriel e riagganciò.

Mia avrebbe dato qualsiasi cosa per un po’ di sonno, ma cercò di non pensarci. Ordinò un caffè e una Farris e tirò fuori le sue carte dalla borsa. Nonostante la tentazione delle spine della birra dietro al bancone del bar. Era stato molto semplice, no? Scacciare via il mondo con una birra e uno Jäger. Da codardi, certo, ma adesso le avrebbe fatto comodo, doveva ammetterlo.

Il caffè sapeva di acqua sporca, ma lo trangugiò. Posò la penna sul foglio davanti a sé.

Una casetta per le bambole in fiamme?

La stessa traccia, no?

I fratelli Cuordileone?

Una casa in fiamme?

Bambù?

Fatta a mano?

Inessenziale.

I numeri?

Quattro? Sette? Tredici?

Una data di nascita?

No.

4 del 7, 13.

Non aveva senso.

E se invece non era così?

Li rigirò sul foglio, ma nessuno di loro si trasformava in altro. 7 aprile, 4 agosto, il 13 di qualcos’altro? 74?

Poteva significare qualcosa.

13, nuova vittima, 1974?

Bevve un altro sorso della brodaglia amara.

Cazzo.

Che danno avrebbe mai fatto una birra piccola?

Solo per fare sgorgare i pensieri?

Si scrollò di nuovo di dosso quel pensiero, bevve invece della Farris.

Costume da bagno.

Era la stessa cosa qui, no?

Acqua.

Ghiaccio.

Look what I can do?

Magari si era sbagliata. Magari Bambi non c’entrava nulla, perché poi avrebbe dovuto? Un milione di altre ragioni.

Mi vedete?

Vi sto ridendo in faccia.

Vedete che cosa so fare?

Senza che siate in grado di fermarmi?

Look what I can do.

La penna adesso si muoveva più velocemente sui fogli.

Vittima 1.

Vivian Berg.

Costume da ballo.

Costume?

Perché?

Questo è importante, no?

Vittima 2.

Kurt Wang.

Musica nel telefono?

My funny Valentine.

Dov’era... il costume?

Il sassofono? L’intera messinscena?

Questo è importante.

Sentiva che adesso si muoveva qualcosa.

Qui c’è qualcosa.

Vittima 3.

Ruben Iversen.

L’età? L’età significava qualcosa?

Il costume da bagno?

Non era simbolico?

No?

Niente acqua?

Più concretamente?

Guarda... l’abbigliamento?

Un nuovo costume?

Un gioco mentale?

Le dita ora più frenetiche sul foglio.

Wolfgang Ritter?

Lo psichiatra?

Una danza di morte...

Cazzo, l’aveva quasi scordato.

Wolfgang Ritter.

Doveva tornare su di lui

Lì doveva esserci qualcosa di più.

Sottolineò quel nome e infilò la penna in bocca.

Klaus Heming?

Ancora vivo?

No, impossibile.

Mia non aveva fatto caso alla porta che si era aperta, si accorse di lui soltanto quando fu accanto al tavolo. Un volto nella nebbia.

«Il tuo telefono non funziona?» disse la voce cupa lasciandosi cadere sulla sedia davanti a lei.