Mia camminava per la strada a caso, irritata, rabbiosa, sconvolta, non sapeva come interpretare la tempesta che infuriava dentro di lei. Aveva cominciato la giornata con un pensiero: E se mi stesse semplicemente ingannando? È un fottuto bastardo? John Wold al pub la sera prima. Aveva visto lo scetticismo negli occhi di lei, non è così? Cazzo, eppure glielo aveva detto fuori dai denti. Non è Curry. Non ho intenzione di aiutarvi in nessun modo. Furbo, no? Venirsene fuori con una stronzata di storia che sapeva l’avrebbe scossa. Spingerla a dubitare. Farla entrare nel gioco. C’è un tossico là fuori. Tua sorella è coinvolta. Sigrid. Porco maledetto. Aveva pure funzionato. Eccome se aveva funzionato. Le sofferenze della perdita. La mancanza. Aveva sfruttato i suoi sentimenti più intimi, non era così? Soltanto per spingerla a dire di sì.
Imprecò a fior di labbra e attraversò nuovamente la strada. Chi se ne importava di dove era diretta, purché le gambe restassero in movimento. Ecco com’era andata, non era così? L’aveva ingannata? Cisse? Un piumino rosso. Un’informazione qualsiasi. Avrebbe dovuto capirlo subito, ovvio, ma non era stata pronta. Accarezzò leggermente il bracciale che aveva al polso, si fermò di colpo mentre un taxi suonava il clacson sfiorandole una coscia.
Dannazione.
Un ottimo inizio di giornata. Svegliata nel comodo letto di Charlie Brun e con la mente lucidissima. Curry? Ovvio che non aveva nulla a che fare con quella situazione. Mia conosceva quel cucciolone da dieci anni. Magari aveva l’aspetto di un balordo, ma dietro quella faccia da duro si nascondeva un’anima che non avrebbe potuto fare male a una mosca.
No, no, doveva essere qualcun altro.
Un poliziotto.
Poteva essere uno qualsiasi.
E adesso l’avevano pure estromessa dai giochi.
Attraversò un altro incrocio, ma una mano improvvisamente le afferrò il giubbotto e la tirò indietro. Indicò la luce rossa mentre un’altra auto sfrecciava suonando il clacson. Accennò un ringraziamento con il capo a quel volto gentile e infilò la mano in tasca alla ricerca di una pasticca.
Cinquanta persone?
Una di queste?
Quella con il soprabito giallo che passeggiava con il cane?
Il ragazzino sullo skateboard?
Dannazione.
Si calmò un po’, mentre il semaforo diventava verde e una moltitudine di persone si riversava pacifica sulla strada. Verso casa. Al lavoro. Uscendo da scuola. Sorridenti, appagati, stanchi. Sporte con la spesa, mamme con i passeggini, un giorno normalissimo nella minuscola Oslo con la primavera proprio dietro l’angolo.
Maledizione.
Si fermò all’angolo di una strada e tirò fuori di tasca il telefono.
Ok.
Rimetti la testa a posto.
Cisse?
Cecilie?
Una tossica con il piumino rosso?
Un caso semplice.
Bastava trovare conferma.
La città non era così grande. Un paesotto in realtà, e lei sapeva esattamente a chi doveva telefonare.
«Centro di accoglienza di Prindsen, buongiorno.»
«Sì, buongiorno, mi chiamo Mia Krüger, è possibile parlare con Mildrid Lind?»
«Un istante.»
Venne messa in attesa.
Un giovane tatuato uscì dalla scala di un edificio proprio davanti a lei, un mazzo di chiavi tintinnante pendeva dalla tasca lisa dei calzoni, la chiave della porta. Usciva per pranzo. Una giornata normalissima.
«È al telefono in questo momento, ma non credo ci vorrà molto, la faccio richiamare?»
«Sì, grazie.»
Mia ripose il telefono nella tasca del giubbotto, stava per rimettersi in moto quando all’improvviso vide qualcosa alla finestra davanti a lei.
Ma che...?
La bottega di un tatuatore.
Una serie di fotografie dietro la vetrata sporca.
Ma che...?
Fabbriche. Il logo dei Motörhead su un avambraccio. Una grande aquila su un pettorale. Fiamme gialle e rosse su una gamba sottile.
E poi là.
Nel centro dell’esposizione.
Non poteva...?
Mia restò immobile a bocca aperta, si avvicinò lentamente alla vetrata.
Cosa?
Lei?
Una pallida schiena nuda. In mezzo alle scapole. I lunghi capelli scuri. Gli occhi azzurri.
No, non poteva...
E invece sì, cazzo.
Lì dentro. In mezzo a cuori, colombe della pace e teschi infuocati.
Era un tatuaggio del suo viso.
Ma che...?
Un suono prolungato in lontananza, la tasca che vibrava.
«Sono Mildrid. Hai chiamato?»