Gabriel Mørk sedeva in sala riunioni con il computer in grembo, incapace di raccogliere i pensieri. La parete davanti a lui era quasi completamente coperta. Piccola opera d’arte di Ludvig Grønlie. Fotografie, fogli e foglietti di tutti i colori. E sul piccolo spazio accanto alla porta, solo:
IVAN HOROWITZ
Munch si era tenuto sul vago. Anche la Goli era stata ugualmente evasiva. L’incontro del mattino era stato strano, ma Gabriel aveva comunque trascorso la giornata facendo quello che gli era stato ordinato. Il nuovo sospettato. Ivan Horowitz. Scomparso dal mondo senza lasciare tracce dal 2012, ma poteva aver lasciato qualcosa in rete?
Gabriel non aveva trovato granché. Almeno, nulla che non fosse già in qualche modo noto. Soltanto una vecchia pagina Facebook. Qualche immagine di Horowitz in uniforme con gli occhi socchiusi verso il sole e un fucile semiautomatico in mano. Ultima apparizione, primavera 2011. Tra non molto a casa in licenza, faccina sorridente. A presto, Ivan! Soltanto un commento, una certa Caroline, alla quale aveva anche telefonato, ma che non sapeva nulla, come il resto del mondo. Non l’aveva più visto. Purtroppo. Non aveva idea. Non sembrava nemmeno le interessasse granché di lui, curiosità a parte, beninteso, il brivido, qualcosa da raccontare alle amiche. Conosco Ivan, eravamo amici su Facebook. Sai, il serial killer che stanno cercando? La polizia mi ha contattata. Ho dato un contributo importante alle indagini.
A metà conversazione Gabriel aveva provato disgusto e aveva riagganciato.
Ivan Horowitz.
Nato a Gjøvik, 21.11.1988.
Suo coetaneo. Gabriel scrollò lievemente il capo e spostò lo sguardo sugli appunti.
Madre: Eva Horowitz, morta nel 2007 (incidente automobilistico).
Padre: Anatol Horowitz, morto nel 2007 (idem).
Fratelli: nessuno.
Scuola superiore di Gjøvik. 2006-2008.
Esercito, Battaglione Telemark. 2008-?
Congedato dalle forze armate. 2010.
Ricovero nell’ospedale psichiatrico di Blakstad. 2011-?
Ed era quello che l’aveva colpito, l’ospedale psichiatrico di Blakstad. Paziente? Gabriel ricordava bene quanto fosse stato nervoso e teso nell’ambulatorio del dottor Ritter accanto all’Ullevaal Stadion. Tutto inutile? Tutto da buttare?
Lui c’era rimasto male, però doveva ammettere che non era riuscito a districarsi in mezzo a quel mare di dati. Gli era venuta anche la tentazione di chiedere a Mia se non potevano rovistare ancora un po’ in quei file, magari con un lavoro di squadra, ma poi aveva lasciato perdere. Del resto, Mia era sparita, e la cosa più inquietante era che Munch faceva finta di niente, come se fosse tutto normale. Era tutto molto strano, invece, e le cose erano cambiate da quando era entrato in scena Ivan Horowitz. Spuntato così, dal nulla, all’improvviso. Né Munch né Anette avevano dato loro spiegazioni, si sapeva solo che da quel momento quello sarebbe stato l’uomo da cercare. Fonti dell’intelligence della Difesa, gli avevano detto. Niente domande.
Tutti i giornali parlavano solo della caccia a Horowitz.
Il soldato.
Il serial killer.
Che girava ancora libero per le strade di Oslo.
Poco prima, quel giorno, aveva fatto una breve passeggiata fino a casa e aveva scorto la paura negli occhi della gente. Si muovevano rapidi da un punto all’altro tenendo stretti i bambini, i vicini con cui prima Gabriel si fermava a scambiare due chiacchiere in Frankrikegården si erano dileguati, quasi di corsa, per mettersi al sicuro dietro le porte rosse.
Li poteva capire.
Aveva mandato Tove ed Emilie dalla madre di lei, a Hadeland.
«Sul serio, Gabriel?»
«Va tutto bene, sono solo io che...»
«Sì, sì, sarà sicuramente felice di vederci.»
Le aveva baciate velocemente alla partenza e si era sentito sollevato quando i fanalini rossi sul retro della Volvo erano svaniti.
«Tutto molto interessante, non trovi?»
Un’ironica Ylva entrò nella sala e si afflosciò sulla sedia accanto a lui.
«Qualche novità?»
«No, dall’ultima volta niente di nuovo.»
«Ma dovrà pur esserci qualcosa che possiamo fare invece di starcene seduti qui...»
L’islandese sospirò e si massaggiò gli occhi. Gabriel annuì, capiva perfettamente quello che pensava. L’ufficio, che di solito era sempre in subbuglio, con i telefoni che suonavano in continuazione e la gente che correva per i corridoi, all’improvviso era diventato un mortorio. Erano rimasti solo loro due. Ludvig era a Grønland. Munch e Anette alla chiesa, un’altra vittima, un prete. Gabriel forse aveva sperato che sarebbero tornati, che ci sarebbe stata una riunione di aggiornamento, ma niente, pareva che tutti avessero altro da fare. E Mia che era sempre latitante.
«Allora quand’è che me lo dici?» gli chiese Ylva dandogli una leggera spinta sulla spalla.
«Cosa?»
«Uhm, guarda che non mi prendi in giro» buttò lì la dolce islandese.
«Ma di che parli?» ribatté Gabriel.
«La tua piccola missione segreta?» insisté Ylva, stuzzicandolo. «Eddai! Sei trasparente come una finestra. Non era una cosa per Mia?»
Gabriel era diventato paonazzo.
«Ok, e va bene, missione segreta» disse l’islandese, offesa. «E non mi dici nulla? E andiamo, su! Cos’è che dovevi fare?»
Gabriel Mørk sospirò. Decise di confidarsi. Sicuramente a Munch non importava più nulla. E in ogni caso non avrebbero utilizzato quel materiale.
«Ho hackerato il database di Wolfgang Ritter» disse d’un fiato.
«Stai scherzando?» fece Ylva. «Senza il permesso?»
«Ma che permesso e permesso...» mormorò Gabriel. «È un compito che mi ha assegnato Mia.»
«Però!» ridacchiò Ylva. «E che hai fatto? Sei entrato nel suo ufficio? Hai preso il suo computer?»
«Ho fatto tutto dalla sala d’attesa» rispose Gabriel torcendosi sulla sedia. «Secondo te, avrei dovuto rifiutarmi di farlo?»
«Ossignore! Ma certo che dovevi! Al diavolo! Cos’hai trovato? Ce l’hai qui?»
Spostò la sedia per avvicinarsi a Gabriel e guardò zelante il computer del collega.
«È roba inutilizzabile» disse Gabriel, secco. «Ma sai, è strano, ci pensavo proprio ora. Horowitz...» Accennò col capo alle annotazioni di Ludvig.
«Blakstad? Ricoverato in psichiatria?»
«Perché è inutilizzabile?» domandò Ylva curiosa. «E se Ivan Horowitz fosse stato un paziente di Ritter? Allora dovremmo trovarlo qui dentro...»
«Ho già controllato» tagliò corto Gabriel scuotendo il capo. «Non c’è.»
«E come lo sai?»
«Ho controllato, te l’ho detto» ripeté Gabriel.
«Ma non hai appena detto che è roba inutilizzabile?»
«Sono gli appunti presi a mano dallo psichiatra e scansionati in PDF, capisci? Non si può fare una ricerca. Non nei documenti.»
«Cioè?»
«Diciamo per esempio che io voglia cercare la parola incendio, ok? O I fratelli Cuordileone. Non c’è modo di far sì che il programma esegua la ricerca. Dev’esserci qualcuno in grado di riconoscere i segni, no?»
«Ok...» rispose Ylva.
«Se voglio che la macchina faccia una ricerca, devo prima programmarla perché riconosca la grafia di Ritter. La A è fatta così, la B così eccetera, ma sarebbe ancora difficile. Vedi che le lettere si confondono? La L è attaccata alla K, la M è appoggiata alla N, capito?»
«Uhm...» fece Ylva che finalmente aveva afferrato.
«Voglio dire, sicuramente è possibile» proseguì Gabriel. «Ma, bah, ci vorrebbero settimane...»
«Ma come...» provò Ylva spingendosi gli occhiali sul naso.
«Ma come che cosa?»
«No, è solo... come fai a essere sicuro che Ivan Horowitz non c’è?»
«I titoli» rispose Gabriel.
«Che vuoi dire?»
«Guarda qui» continuò Gabriel tirando fuori uno dei documenti. «Ha dato loro un nome. Vedi? Nome e data di nascita. E questi li posso controllare, ovvio, nessun problema. Come in tutti gli altri file che ho qui.»
«Ma se...?» insisté Ylva riflettendo.
«Se cosa?»
«Conosciamo la data di nascita.»
«Che vuoi dire?»
«Possiamo cercare per data, no? Voglio dire, sarà pur scritta...»
«Sì, ma io già so che non è uno dei pazienti. Il suo nome non c’è.»
«E Karl Øverland?»
«Nemmeno, ho cercato.»
«Ok, ma guarda...»
Ylva puntò il dito verso la parete davanti a loro.
«I ritratti?»
«Sì...»
«Vedi che sono diversi, no?»
«Dove vuoi arrivare?»
«L’assassino evidentemente è uno, sì, io non lo so, ma sembra molto meticoloso, no? Nulla avviene per caso. Voglio dire, qui ha gli occhiali, nell’altra immagine ha una pettinatura diversa. E se Horowitz fosse comunque nei file? Sotto un altro nome, o che ne so...?»
«Ma non ha senso...» sospirò Gabriel. «Perché sarebbe dovuto andare dallo psichiatra con un altro nome? Non puoi, non funziona così, no?»
«No, hai ragione» rispose Ylva togliendosi gli occhiali. «Perché dovrebbe?»
«Non ti pare?»
Si strofinò gli occhi e inforcò di nuovo gli occhiali.
Rimasero seduti in silenzio nella piccola stanza con gli occhi puntati sulla parete variopinta.
«E se...?» riprese Ylva.
«A che pensi?»
«No, non ha senso» disse l’islandese tenendosi la testa tra le mani. «Però vorrei tanto rendermi utile.»
«Ti capisco.»
«Ma Blakstad? L’ospedale psichiatrico? Ci hai pensato anche tu, non è vero? Dovrà pur essere entrato in contatto con le sue vittime da qualche parte. Insomma, andiamo, sono del tutto casuali? Qualcosa deve pur aver innescato l’intera faccenda. E Vivian Berg? È stata la prima, no?»
«Sì...»
«Vivian Berg. La prima vittima? Paziente di Ritter, no? La conosci, Mia» disse Ylva alzandosi in piedi, accalorata. «Perché ti avrebbe mandato a rubare il database se non avesse avuto una qualche intuizione? Ha detto di che cosa avevano parlato quando erano andati lassù?»
«Quando?»
«Quando sono andati a interrogarlo. Ritter, intendo.»
«No.»
«Cazzo, Gabriel» sbottò Ylva. «Qualcosa dev’essere pur successo.»
«Sì, ma cosa?»
«Ma che ne so, però l’età la conosciamo, no?»
«Di Horowitz?»
«Sì.»
«Venticinque anni» disse Gabriel.
«Diamoci un margine più ampio, due anni di più o di meno...»
«Che vuoi dire?»
«Guarda le telecamere. I ritratti. Le descrizioni di quelli che l’hanno visto di persona, diciamo... da ventitré a, sì, ventisette, ok?»
«Non capisco dove vuoi arrivare.»
Ylva puntò il dito sullo schermo.
«Quanti file sono? Dal 1986 al 1990? Prova...»
Gabriel non capiva dove volesse arrivare, ma inserì comunque.
«Quanti?»
«Duecentosettantacinque» disse Gabriel.
«Guarda» sorrise Ylva picchiandolo soddisfatta sulla spalla.
«Vuoi dire che li dobbiamo leggere tutti? Hai idea di quanto tempo ci vorrà?»
«E allora? Hai altro da fare forse?»
Nella stanza all’improvviso calò il silenzio. Gabriel poteva sentire le automobili sulla strada in lontananza. Percepiva distintamente persino il ronzio del sistema di ventilazione.
«Sì, perché no...» mormorò infine.
«Bene» sorrise Ylva dandogli un buffetto. «Io prendo dalla A fino a.... dove arriva la metà?»
«N» rispose Gabriel.
«Ottimo. Tu prendi il resto? Mandami tutto via email, d’accordo?»
Ylva si alzò di scatto. Sembrava una scolaretta mentre batteva le mani con il sorriso da un orecchio all’altro.
«Ci troviamo qui quando abbiamo terminato, ok? A meno che non salti fuori qualcosa.»
«Ci vorrà qualche giorno» sospirò Gabriel.
«Pazienza. Me li mandi?»
«Fatto, stanno arrivando.»