II

Per mezzo di quel telefono, al quale Leonardo non era voluto venire, la signorina Lisa Careni aveva da comunicare una sua lieta scoperta: il modo di passare la serata. Ella aveva avuto un’idea, così, d’un tratto, mentre sedeva in una poltrona e leggeva un libro noioso. Allora aveva lanciato un piccolo strido d’uccello che vede il cielo rompere fra le nubi, ed era corsa al telefono a comunicare a tutte le amiche e agli amici (pochi, perché a una signorina di Natàca non era permesso avere amici) questa lieta scoperta.

Il modo di passare la serata e, in generale, il tempo, era una faccenda di gran peso a Natàca. Dopo il crepuscolo, le comitive dei giovanotti stavano ritte in circolo a discutere dove e come si dovesse passare la sera. La discussione veniva interrotta da uno della comitiva che, svegliandosi come da un brutto sonno e notando che da un’ora si stava fermi sotto lo stesso annunzio d’asta pubblica, pronunciava la solita frase: «Ma chi è morto, qui?». La frase, molto frequente a Natàca, voleva dire che s’era stati fermi intorno a uno spazio di marciapiede, proprio come se in quello spazio ci fosse un morto da identificare.

Il sabato, tutta la città era affaccendata a discutere dove e come si dovesse passare la domenica. Sebbene molti cittadini fossero lavoratori e studiosi, tuttavia accadeva sempre che, dopo le ore del lavoro e dello studio, essi si trovassero con una grande quantità di tempo da far passare. La cosa si aggravava per coloro che non avevano nulla da fare: questi ultimi erano, per la maggior parte, dei possidenti, dei ricchi; e purtroppo, fra gli oggetti principali di cui la ricchezza adorna un giovanotto, c’è un orologio, un grosso orologio d’oro, un orologio di precisione, con quattro lancette, una per le ore, una per i minuti primi, una per i secondi, e una quarta, esilissima, per le frazioni di secondo. Fermi sulla soglia delle dolcerie, questi giovanotti, per poco che alzassero la manica, avevan la facoltà di misurare la loro noia nella maniera più meticolosa. I loro scherzi consistevano spesso nel mettere in moto la lancetta delle frazioni di secondo nel momento in cui, per esempio, l’amico Erasmo Veni, noto giovanotto della città, dalle lenti tremolanti sulla faccia scura, cominciava a sorbire la sua tazza di caffè. Quando Erasmo deponeva sul banco la tazza vuota, eran passati duecentotré secondi e due quarti di secondo… In questo modo, s’era venuti a sapere che un baciamano di Federico Reali, il più lento e garbato tra i figli della nobiltà, durava due secondi; che la colta e buona signora Galli, prima di attraversare la strada, soleva fermarsi sul marciapiede per cinquanta secondi, e Carlo Dalbi imprimeva allo sputo, che, malgrado i giuramenti di non farlo più e di essere del tutto un giovane elegante, gli sfuggiva sempre dalle labbra, la velocità di due metri al secondo, dunque di sei chilometri l’ora.

Naturalmente questi calcoli non si fermavano ai fatti esteriori; anche di cose molto delicate e intime, si conosceva la velocità, almeno per i giovanotti più in vista, con abbastanza precisione. Tuttavia il calcolo di avvenimenti così diversi non riusciva mai ad occupare un’ora per intero. La lancetta delle frazioni di secondo si precipitava come un ragno che avesse veduto una mosca impigliata nella sua tela, e si fermava di scatto, e poi di scatto tornava a precipitarsi, ma l’altra, quella nera, quella tozza, quella più corta, non faceva mai seri passi innanzi.

Accanto a questi calcoli per far passare il tempo, ne esistevano altri per risparmiarlo. Carlo Dalbi, rincasando la sera, a dieci metri dal portone si toglieva il guanto sinistro, a sette metri il destro, a cinque conservava i guanti nella tasca del soprabito e, allorché la falda del suo cappello sfiorava il portone, egli teneva già la chiave in mano e non doveva aspettare un solo attimo per infilarla nella toppa. Rodolfo De Mei, il giovane architetto, ch’era stato sempre studioso e modesto, non aveva mai fatto nulla e ora improvvisamente, non si sapeva bene per quale ragione, si lasciava sfuggire frasi come: «Noi artisti… Io, come artista…» anche Rodolfo De Mei cercava di risparmiare i minuti, leggendo, durante il pranzo, enormi riviste di architettura che lasciavano nell’ombra più tetra il piatto del fratello minore.

Ma questi sforzi per risparmiare il tempo nascondevano anch’essi il desiderio di farlo passare. C’erano a Natàca ore lentissime che non volevano muoversi né con le buone né con le cattive. Tuttavia il modo di consumarle, lo si trovava sempre. I cervelli erano sottili! Il triste era che, una volta passate, quelle ore non lasciavano nel ricordo più nulla, nemmeno la stanchezza di averle dovute spingere innanzi con tanta fatica. Si somigliavano tutte stranamente, sicché di molte sere se ne ricordava una sola, e di molte domeniche appena una. Il pensiero dell’avvenire era faticoso, ma quello del passato non lo era per nulla. L’impressione di essersi svegliati vecchi, dopo una settimana o due di giovinezza, era una delle impressioni più consuete nei vecchi di Natàca. Da ciò derivava quella loro aria insoddisfatta, quel loro carattere arzillo e petulante, quella loro penosa smania di avventure. Il Circolo dei Conti, che era frequentato solamente da vecchi, quando in primavera metteva fuori le sedie di vimini, diventava come una grotta dell’orco: le ragazze, che vi passavano innanzi quasi di corsa, sentivano il circolo risuonare d’inviti cavernosi, di schiocchi di baci e di sedie buttate faticosamente indietro da qualcuno che voleva alzarsi e correre dietro la selvaggina.

Se i vecchi erano così poco rassegnati, i giovani erano inaciditi. Tutto questo, secondo Ninì Padeni, ex tenente dei bersaglieri, bel giovanotto, alto, magro, che sbalordiva le donne della pensione Fior d’arancio salendo sui tavoli e mettendosi la testa fra le gambe, tutto questo si doveva alla “brutale separazione dei sessi” in cui la città viveva da secoli. Tutto questo, secondo altri, si doveva al caldo, allo scirocco… Tutto questo, in fondo, non si sapeva a che lo si dovesse. Ma è certo che, fra gente che andava su e giù per ore intiere sullo stesso marciapiede, facendo qualche volta un vago gesto d’impazienza, ma in realtà non aspettando nessuno, e gente che stava ferma per ore intiere ad ascoltare una musica che non le piaceva affatto, i cani randagi, con la loro corsa diritta, con la loro aria di chi ha uno scopo e una meta (tanto che i cittadini si domandavano con un senso d’invidia: ma dove vanno, questi cani?) erano i soli che tenessero alto il prestigio dell’Occidente.

Quando Leonardo ebbe deciso di venire al telefono che squillava ancora una volta, la signorina Lisa Careni gli disse: «Avevo trovato un modo, un bellissimo modo di passare una mezza giornata. Ma purtroppo non si può. Per il pomeriggio, il rimedio c’è: daremo una lezione di ballo a mio cugino. Ma che faremo stasera?».

«Non so» fece Leonardo. «Proprio non so.»

«Nemmeno voi, dunque, avete un’idea?»

«Nemmeno io.»

«Non importa. Domani sera, vi aspettiamo lo stesso: anche così, senza idee.»

«Bene!» mormorò Leonardo, e tornò a sdraiarsi sul letto.