V

Uscita la donna, il cavaliere fece sedere in circolo i quattro visitatori e si pose dietro il manoscritto: «Signori, non mi farò pregare. Comincio subito a leggere. Si tratta di piccole cose semplici: così come saltano dal cuore, scritte nella lingua che ci ha insegnato la mamma».

Buscaino mandò tre o quattro colpettini di tosse, abbassò la falda del cappello sugli occhi, ritrasse le mani entro le maniche, e tutto si raggomitolò come il gatto vicino al fuoco.

«Sono poesie scritte con l’anima di un contadino. Perché io, in fondo, sono un uomo semplice come l’erba. Vi giuro che talvolta, mentre sono sdraiato sotto un albero, mi riduco a uno stato di semplicità tale che l’uccellino, che mi saltella accanto, deve avere di sicuro lo sguardo di un professore in confronto a quello che io mi sento negli occhi!… In queste poesiole, io immagino che le grandi cose, che affaticano l’umanità, siano vedute da un contadino, da un povero legno umano, e cantate in un modo semplice e rozzo…»

Rientrò, a questo punto, la signora con un gran vassoio sulle braccia.

«Di già cominci!» mormorò rivolta al marito. «Potevi almeno aspettare che i signori prendessero il caffè. Non cascava il mondo, diavoli!»

«Signora» disse Buscaino, «sorbire una tazza di caffè che, da quello che mi dice il profumo, sarà eccellente, e ascoltare poesie che, da quello che ho capito, e si dice in città, saranno sublimi, è una gioia che gli americani chiamerebbero provvidenziale.»

«Vedi?» fece il cavaliere. «In città, si parla bene delle mie poesie.»

«Bene?» aggiunse Buscaino. «Bene è poco: se ne parla con vero entusiasmo!»

La signora fece una spallucciata e mise nelle mani di Buscaino una gran tazza, piena rasa di caffè.

«Maria, adesso siedi e lasciami leggere!»

«Seggo, seggo, diavoli!»

Con una voce, che d’un tratto divenne sottile, come se il cavaliere avesse dato la parola al minuscolo bambino che gli si nascondeva nel petto, vennero pronunciati lentamente nove sonetti e quindici strambotti. In essi, si cantava a voce spiegata quello che i contadini pensano della luna e delle stelle, del sistema copernicano contrapposto a quello tolemaico, delle idee platoniche, delle monadi di Leibniz, del concetto kantiano di spazio e di tempo, della relatività di Einstein, dell’intuizione di Bergson, della tecnocrazia, degli elettroni e degl’ioni, delle vitamine, del latifondo, della teoria dei quanta, della degradazione della materia, della teosofia, degli ormoni, della macchina che ha sostituito vuoi l’uomo vuoi l’animale… Un contadino raccontava che il suo bove, guardando una piccola trattrice, aveva pensato, naturalmente in vernacolo: “Sì, omino, guida pure la macchina, ma cos’è la macchina? È l’irradiazione, col conseguente raffreddamento e, diremmo, cristallizzazione, dello spirito. Quella che tu guidi non è una macchina, ma un pezzo del tuo spirito morto per sempre!”. In sostanza, il bove assisteva all’orribile spettacolo di un uomo che andava a cavallo della propria anima morta!… Un altro contadino cantava alla propria sposa: “Mia cara, un giorno esisteva l’amore, trallarallà; ma adesso i cuori sono più freddi del ghiaccio, trallarallù; un giorno tu avresti cercato in me l’infinito, trallarallì; ma ora cerchi il finito, trallarallì”… Un ragazzino, figlio di un pastore, si svegliava nel cuore della notte e gridava alla madre: “Perché mi hai cantato una ninna nanna in cui si dice che bello è riposare? Mammà, fammi il piacere di non adoperare eufemismi (proprio così: eufemismi), e dillo pure apertamente che bello è morire!”… Un vecchio zappatore, passando la mano sul filo della zappa, pensava: “La linea che divide l’essere dal non essere è più sottile di questo filo!… Oh, c’è più filosofia nella mia zappa che nel Protagora di Platone!”… Un mendicante, rannicchiato nell’angolo di un cortile, mugolava ch’è meglio esprimersi per metonimia che per sineddoche… Negli strambotti, c’erano anche parole francesi, ridotte però al suono del vernacolo; nei sonetti, le parole eran tutte rigorosamente vernacole. Le rime scrosciavano in fondo ai versi come, a un segno violento della bacchetta, i piatti dell’orchestra. A mano a mano che leggeva, il cavaliere si trasfigurava come un ferro bianco e ribollente, sul quale però lo sguardo severo della moglie, al pari d’una goccia d’acqua, riportava il nero e la consistenza. Ma alla fine, il calore interno fu tale che lo sguardo ostile non ebbe più alcun potere sull’immagine del cavaliere, decisamente contorta, rossa sfavillante.

«Bene, bene, bene!» fece Buscaino. «Non finirò di dirvi bene! Se voi stesso non mi costringete a tacere, io dirò bene! e bravo! sino a domattina…»

«Benissimo!» esclamò Tommasini. «E perché, cavaliere, non recitate codesti versi all’ospedale Rossini?»

«All’ospedale Rossini?» domandò il cavaliere, con voce trasognata.

«Sì, certo… Mio zio dirige l’ospedale. Egli sarà lieto di procurare ai convalescenti un’ora di gioia come quella che ci avete regalato stasera.»

«Non date retta, cavaliere!» fece Buscaino, dopo aver cercato invano, con due colpi di tosse e una pestatina, di costringere al silenzio Tommasini. «O almeno, è una cosa alla quale si potrà pensare in un secondo tempo. Tommasini, vi prego, non fate progetti! Non c’è spazio per i vostri progetti, quando ci sono i miei.»

«Avete qualche progetto?» domandò il cavaliere, fissando in alto la pupilla bianca.

«Caro cavaliere, i vostri versi sono come la musica, e la musica ha il torto d’ispirare quel povero uomo d’azione che sono io. Ascoltandovi, ho avuto un’idea, un’idea che, naturalmente, è andata a far parte del progetto della torre… Perché, in questi giorni, se mi spaccate il cervello, troverete una torre, se mi tagliate il petto, troverete una torre, e perfino nel più piccolo ossicino del mio dito mignolo, se vi guardate bene, troverete una torre. È un chiodo che non riesco a strappare, ma un chiodo, penso, che non mi disonora. A New York, ov’ero ben conosciuto, gli amici mi chiedevano: “Mister Buscaino, qual è il vostro chiodo oggi?”. Una volta, alzai un piede e mostrai, nella pianta della scarpa, un piccolo chiodo che vi s’era conficcato. “Questo!” dissi.»

Enzo De Mei scoppiò a ridere, così d’un tratto e in un modo così forte, che la signora De Filippi venne subito trascinata in un piccolo riso penoso come una gallina da una piena. Ma nemmeno gli altri rimasero indifferenti a quel rimbombo che tuonava nel petto del giovane e lo piegava verso terra. Buscaino stava per esserne veramente lusingato, quando Enzo De Mei, asciugandosi le lacrime e riportando i capelli sulla testa, spiegò che non aveva riso per la storiella del chiodo, ma perché quel giorno era contento, e tutto gli sembrava così carino, specialmente la quiete che entrava dai balconi, i mobili, questo tipo di sala dal tetto alto; in modo particolare, aveva riso perché gli s’era fatto chiaro, tutto a un tratto, che i poveri pazzi non sono degl’infelici, ma dei burloni che, a un certo punto della loro vita, hanno puntato i piedi come gli asini, non han voluto più andare avanti, son rimasti fissi, fissati.

«Come mai?» disse Buscaino, alquanto disilluso, «avete pensato a questo, proprio quando io raccontavo la storia della scarpa?»

«Forse» rispose De Mei, mentre il riso accennava a ripassare nel suo petto come il risucchio di un cavallone, «forse per via di quel chiodo. Chiodo fisso, idea fissa…»

«Ah, capisco!»

«Ma professor Buscaino» intervenne il cavalier De Filippi, intrecciando le mani sul manoscritto, «non volete esporre la vostra idea?»

«Ve la espongo subito. Nella torre, al secondo piano, ci sarà qualcosa che vi farà molto, molto piacere.»

«Che cosa?» domandò, con impazienza, il cavaliere.

«Una sala di lettura. Mi capite? Leggeremo dei versi. Un altoparlante, collocato sul balcone, farà sentire i versi all’esterno.»

«E chi leggerà i versi?»

«Cavaliere, cavaliere! Siete un fanciullo! Mi piacete veramente! Chi leggerà i versi?… C’è bisogno di dirlo?»

«Non hai capito?» fece la signora, rivolta al marito. «Li leggerai tu. Diventerai il pulcinella della città.»

«Perché, signora, dite così?» esclamò Buscaino. «Fate male a dire così!»

«Ecco, bene, professore! Fatela convinta, una buona volta, che l’essere autore di poesie dialettali non è un disonore per nessun galantuomo.»

«Disonore? Altro che disonore! Ditemi un po’, cara signora: voi amate i santi?»

«I santi? I santi del paradiso?»

«I santi del paradiso, cara signora.»

«Oh, che astrologo! Padre, Figliuolo e Spirito Santo! Ma i santi, una cristiana, non li ama, li venera.»

«Brava! E cosa trovate voi, nelle chiese, in onore di questi santi?»

La donna raggrinzò la fronte, guardò con sospetto Buscaino, poi spianò la fronte e disse: «Ma la chiesa!».

«Sì, va bene, ma dentro, dentro la chiesa?»

«Gli altari.»

«E poi?»

«L’organo.»

«E poi?»

«I quadri.»

«E poi ancora, dentro le nicchie?»

«Le statue.»

«Benissimo, le statue. Dunque, ai santi, che sono, non diciamo rispettabili persone, ma venerabili persone, gli uomini alzano le statue. E ai poeti, cosa alzano gli uomini ai poeti, dopo s’intende, la loro morte?… Ma statue, cara signora! Dunque, i poeti sono rispettati dagli uomini al pari dei santi.»

«Padre, Figliuolo e Spirito Santo! I poeti come i santi! Padre, Figliuolo e Spirito Santo!» La donna si voltava e rivoltava sulla sedia, lanciando con la coda dell’occhio uno sguardo cattivo sui piedi di Buscaino e mormorando a bassa voce parole incomprensibili. Poi alzò gli occhi e, con una penosa espressione, come di una che sia caduta in un laccio e non riceva alcun aiuto dal Signore, disse: «I poeti, bene, i poeti! Ma quelli veri!».

«E chi sono, gentile signora, i poeti veri?»

«Ma quelli che scrivono in lingua! Dante Alighieri.»

«L’Alighieri? Oh, cara signora, ma l’Alighieri scrisse in vernacolo!»

«In vernacolo?» fece la donna ancora più rabbuiata e sospettosa.

«Certo, nobile signora. Tutti allora scrivevano e parlavano in latino. E l’Alighieri, così come fa oggi il cavaliere vostro marito, s’impuntò e scrisse in vernacolo.»

«Hai visto?» fece il cavaliere, alzando per un attimo la falda del cappello e mostrando l’altro occhio, quello con la pupilla nera, soddisfatto e luccicante come una stella. «Hai visto?»

«E perché» disse la donna, inviperita, «e perché allora tutti parlano l’italiano e non il latino?»

«Perché l’Alighieri vinse, gentile signora. Perché l’Alighieri scrisse così bene in vernacolo, che tutti si dissero: “Suvvia, questo vernacolo è più bello del latino, parliamo il vernacolo!”. Il quale da allora divenne la lingua ufficiale. Similmente domani, se il cavaliere saprà esprimersi, nel nostro vernacolo, così bene come fece l’Alighieri nel suo, domani questo vernacolo potrà diventare la lingua della Penisola, e sentiremo che i disegni di legge, alla Camera, vengono discussi nel dialetto di Natàca.»

«Questo mi pare troppo!» disse il cavaliere beato.

«Questo pare troppo anche a me!» gridò la signora, offesa dalla logica di Buscaino come da una prepotenza brutale. «Diavoli, che va dicendo? Il dialetto, il latino latinorum! Diavoli, diavoli!» E rimase sulla sedia, più piccola di prima, sollevandosi col pugno chiuso le labbra fino al naso e girando a destra e a sinistra gli occhi inveleniti. «Ebbene» disse poi al marito, «ti potranno fare cento statue dopo morto! Ma io non ti darò un centesimo per quel libraccio che vuoi stampare!» E così detto, si alzò ed uscì.

“Dio, Dio, Dio!” pensò Buscaino. “Che affare è codesto? È lei che dà il denaro?”

Il cavaliere s’avvicinò a Buscaino e gli mise le mani sulle spalle: «Non vi curate, mio caro professore, e scusatela!».

«Ma io non sapevo che la signora tenesse… che non permettesse… insomma, che la posizione della signora fosse tale per cui…»

Queste frasi monche e prive di significato misero in soggezione il cavaliere. Egli assicurò, in tutti i modi, che la signora si calmerebbe presto, che darebbe il denaro, non solo per la stampa di quel benedetto libro, ma anche per la torre, per la cara torre, che il cavaliere adesso ama come una figliola adottiva. Venga, il professor Buscaino, e anche i suoi nobili amici, se vogliono, ad ascoltare due volte la settimana una piccola lettura di versi, dia i suoi preziosi consigli senz’alcun ritegno, entri a poco a poco nelle grazie della signora, e in capo a un mese, vedrà…

Così dicendo il cavaliere drizzava l’orecchio verso la parte della casa in cui si era ritirata la moglie e in cui tutto il suo essere anelava di correre, malgrado l’apparente calma con cui accompagnava, o per dir meglio: spingeva i visitatori per il tetro corridoio, fino alla porta d’uscita…

«Un mese!» ripeté Buscaino, ritto sul secondo pianerottolo dello scalone. «Avete sentito? Un mese. Così come se dicesse: mezz’ora. Ma che idea hanno della vita umana, quaggiù?… Dov’è Tommasini?»

«Parla ancora col cavaliere… Mi pare che s’abbraccino» fece Rodolfo, aguzzando gli occhi verso l’alto della scala.

«Purché quel ragazzo non mi combini qualche pasticcio!… Un mese! Un mese!… Uomini vecchi, sdruciti, lisi! Non vi poggerei sopra un dito, per paura che si dissolvano in polvere. Ma dovranno svegliarsi, caro il mio Rodolfo! Dovranno camminare svelti, anche a calci nel sedere! Domani andremo dal professor Federico Solco. Sono io che devo vincere, Cristo Re!…»