I

Eran passati tredici anni da quando Leonardo, Giovanni e Rodolfo giunsero a Natàca, dieci da quando vi giunse Buscaino, sette da quando furono gettate le fondamenta della torre. E se in questo tempo non avessero risuonato le martelline dei muratori, come a canticchiare: “Tu fai qualche cosa! Tu alzi questa torre! Tu esisti! Tu vivi”, davvero si penserebbe che Dio vuole far passare una sola giornata, vuota, come tredici anni, e truffarci nel peso della vita.

I lavori della torre non erano stati né svelti né continui; incidenti di varia sorta li avevano intramezzati; ma il loro riprendere era stato sempre, per i nostri amici, come il ritorno di un suono caro, piacevole, profondo, attraverso la nebbia, il quale ci assicuri che la nave, in cui siamo imbarcati, non va in pieno oceano, ma lungo la terra ferma. Oh, certo, se in questi tredici anni non si fosse fatto nulla di concreto e di utile, quella parola, che sembrava così strana e talvolta priva di senso: “Quarant’anni! Io ho quarant’anni!”, la notte, quando si rimane soli sul letto da scapoli, e si cerca il tasto per spegnere la luce, sarebbe diventata cattiva e fastidiosa. Ma non era così: perché bastava andare ai vetri del balcone e cancellarvi il velo dell’alito, per vedere lontano, sul dorso nero dei tetti, la torre panoramica, con la sua terrazzina coperta da una guglia verde e la scala che tutta l’avvolgeva dall’esterno. Lontano, nel buio del cielo vuoto, la solida torre! Essa è lì ferma, altissima; essa dichiara che si è lavorato; nel giorno del giudizio, quando Dio domanderà: “Che avete fatto?”, essa verrà piano piano, e risponderà per loro: “Hanno fatto me!”.

Però, nonostante la torre e le buone parole che essa faceva piovere su Natàca, c’era qualcosa che si lagnava e reclamava: c’era un punto dell’aria, a una certa altezza dal pavimento (il punto preciso in cui si troverebbe la testa di un ragazzo nato tredici anni avanti), che diceva a Leonardo, a Giovanni e a Rodolfo: “Tu non mi hai fatto nascere! Tu non hai voluto che qui ci fossi io! Perché?”.

Questo punto era davvero insopportabile; esso si spostava e camminava; ti veniva dietro; ti si metteva al fianco; ti si parava davanti.

Ma i tre amici possedevano qualche rimedio contro di lui. Rimedi che, anch’essi, li forniva la torre panoramica del provvidenziale Buscaino. “Basta!” gridavano in se stessi. “Non sei nato tredici anni fa, per non nascere povero! Se nascerai fra un anno, nascerai ricco! Ormai la torre è terminata! Non le manca che un mese di lavoro, e il permesso delle autorità perché possa venire aperta al pubblico!”

Nel frattempo, si facevano e disfacevano migliaia di progetti. Si calcolava che, dopo quattro mesi di lavoro, la torre avrebbe guadagnato una tal somma da permettere, a Francesco Buscaino e ai tre amici, di lasciare Natàca.

Giovanni sarebbe andato per mare; Leonardo e Rodolfo per via terra. Leonardo avrebbe trascorso un mese a Napoli e sette giorni a Roma. Di Roma aveva paura come di una città che, non appena lo ricevesse fra le sue mura, lo rimandava a Natàca mezzo squinternato. Rodolfo sarebbe andato… non sapeva bene dove, ma voleva passare intere settimane in treno, voleva riposarsi su quei divani sussultanti, delle tanti notti di quieto e impassibile letto.

Giovanni, invece, desiderava scorrazzare per il Mediterraneo, a bordo di un piccolo vapore mercantile, sdraiato sopra un mucchio di corde, il petto al sole e al vento: «Siamo giovani, no?».

«Giovani?» disse Rodolfo. «Pensa che abbiamo quarant’anni!»

Giovanni si rannuvolò tutto: «Quarant’anni!» si toccò il mento e la fronte: sempre gli stessi; dentro, nulla di nuovo. Perché aveva quarant’anni, dunque? Che sciocchezza, questa di avere già quarant’anni!

* * *

Come le nuvole puntavano alla guglia verde della torre, ma poi passavano senza riuscire a portarla via, così i pensieri malinconici, pur dirigendosi verso la parte più alta e delicata della persona, non riuscivano a farla minimamente vacillare.

Dopo tanti giorni, e ormai possiamo dire: anni, di ansie e di fatiche, dopo aver strappato alla lentissima Natàca, pietra per pietra, quell’alta torre, che adesso era tutta sguainata nel cielo, e spesso aveva un aspetto incoraggiante, come chi, spintosi più in alto degli altri e guardando più cose che non gli altri, li rassicuri che tutto va bene; dopo averla vinta sulla diffidenza, neghittosità, ironia, degli abitanti di Natàca; ora che si stava per celebrare la vittoria, sarebbe stato ingiusto diventare malinconici.

Un mese ancora; un mese per aggiungere gli ultimi gradini alla scala, un piccolo mese!

I primi giorni di quel mese furono occupati a predisporre un pranzo di molti coperti, che si sarebbe svolto di sera, nella grande sala al secondo piano della torre. Saranno invitati tutti gli amici e gli azionisti; saranno invitate molte ragazze (ragazze? donne ch’eran ragazze quando si cominciò a pensare alla torre). Rodolfo De Mei, che non aveva più nulla da disegnare, ora che tutti i suoi colpi di lapis, buttati su quei fogli che durante la notte scivolavano ai piedi del letto, eran fuggiti fuori dello studio, e lo guardavano quasi con superbia, dall’alto di quel loro esser pietra, ferro battuto e cemento; Rodolfo scriveva, cancellava e tornava a scrivere la nota del pranzo. S’era d’accordo sugli ossi di morto, graziosi biscotti che, a sera, fermavano i passanti, dalle vetrine illuminate del Caffè del Principe: essi arriveranno in tavola entro vassoi grandi come ruote di carro. S’era d’accordo sul capretto che, nonostante le accuse di Masolino Ricasoli, rimaneva un caro animale: indigesto talvolta, ma il sentirsi nello stomaco quegli occhi così dolci e buoni, o per lo meno la carne di cui simili occhi facevan parte, consolava misteriosamente, e ripagava, con una letizia tutta del cuore, di ogni pena, fosse pure aspra, del chilo. S’era anche d’accordo che alla cena sarebbe subito seguito un ballo: manderanno il capretto dallo stomaco ai calcagni, con tre buoni salti! Si riderà, si riderà molto!

«Ecco quello che è necessario» diceva Buscaino, «ora che abbiamo vinto: ridere, ridere, ridere!»

«E partire!» disse Rodolfo.

«Partire dopo, con calma! Voi siete troppo agitati, cari miei!»

Ma non erano soltanto i tre amici ad agitarsi. Tutta Natàca era in subbuglio. Era la prima volta che un sogno di questo tipo, così intimo, così di Natàca e, dunque, così caro, diventasse realtà. Gli sguardi che, la notte, partendosi dalle finestre dei terzi e quarti piani, erravano per il cielo, quando poi urtavano nell’alto stelo della torre, tornavano a precipizio dal loro padrone, come quei bambini che, avventuratisi per le stanze di un appartamento, hanno scoperto d’un tratto qualcosa che ha fatto loro paura per il modo con cui corrisponde a taluni desideri e aspirazioni del loro essere più profondo. La mattina, invece, la torre era meta, non di sguardi, ma di persone intere che si ponevano in circolo ad ammirare la base ch’era molto più grossa della parte media, e la parte media ch’era molto più grossa della cima. «Questa torre somiglia a tre scatole che escano l’una dall’altra» osservava qualcuno. «L’unico torto, secondo me» osservava qualche altro, «è di avere la scala troppo stretta e appesa all’esterno.» «Credo» diceva un terzo, «che sarebbe stato preferibile costruire la sala di ricevimento al primo piano, piuttosto che al secondo.» «E la guglia?» diceva un quarto. «Perché la guglia sulla terrazza? Non fa che nascondere il cielo.»

Ma la più parte ammirava: bella torre, solida torre, buona torre, necessaria torre, simpatica torre, elegante torre!

Leonardo, Giovanni e Rodolfo venivano complimentati a ogni passo. Il telefono delle loro case trillava di continuo, portando nelle stanzette semibuie grosse parole di elogio, talune pronunziate così forte che bisognava spostare il ricevitore dall’orecchio, e poi buttarlo sopra una poltrona, dove esso continuava a sobbalzare, in preda alle parole tonanti. Talvolta in preda a puri e semplici colpi di tosse: quelli dell’onorevole De Marchi, nel cui petto la musica s’era trasformata tutta in raucedine, e ormai non c’era discorso ch’egli potesse, non diremo portare alla fine, ma spingere al di là della seconda parola, senza che tutto si perdesse in una penosa e rumorosa espettorazione.

Lisa Careni, che adesso aveva trentadue anni, fece anche lei pervenire la sua voce in casa di Leonardo, ed era una voce ancor giovane, ancora tintinnante, in cui stava sospeso da anni un riso di gioia che non aveva trovato mai l’occasione per scendere giù e farsi sentire.

La vecchia domanda: «Quand’è che si parte per Roma?» messa a dormire per alcuni anni, tornò di nuovo a bussare alle orecchie dei tre amici. I quali adesso rispondevano, con la letizia degli ammalati in via di guarirsi del tutto: «Presto! Presto! Questa volta, davvero!».

«Anche voi, Giovanni?» domandò Lisa Careni.

«Anch’io, certo!»

«E cosa andrete a fare?»

«Oh bella: andrò a vivere a Roma!»

«Avete un posto?»

«Non ho un posto. Ma che importa?»

Infatti, il generale non aveva mantenuto la promessa: Giovanni non era riuscito ad ottenere un posto remunerato. E d’altronde, come sperare più nel generale, se il problema del proprio posto pendeva ora su di lui, e in maniera assai grave: che, essendo morto dopo aver meritato bene della patria, non si sapeva ancora se sarebbe stato disseppellito e trasmigrato in un luogo ben più augusto che non sia un comune cimitero?

Buscaino, al solito, portava in codesta agitazione il senso della realtà e uno scopo pratico. «Bisogna far presto!» diceva. «Ormai siamo alla fine del tunnel! Fra poco, usciremo a riveder le stelle! Non ho più pazienza, miei cari! Dieci anni son dieci anni! Bisogna che i lavori non subiscano più ritardi!»

Ma la serie degl’intoppi non era ancora terminata. Tra l’altro, un pomeriggio, Lello Raveni che, in quegli ultimi tempi, era diventato un soggetto indispensabile, rimase vittima di una triste sciagura. Il padre aveva ormai consentito acché egli sposasse Luisa, la cameriera. E Lello era felice. Luisa, da parte sua, era felice in un modo inquietante; passando, nella casa in cui aveva perfino lavato i piatti, al posto di fidanzata, un’angoscia, quasi una paura, s’era impadronita di lei: sul letto di cameriera, aveva dormito in tal modo che nessuna sveglia, per quanto a doppia o tripla suoneria, era stata capace di svegliarla; su quello di fidanzata, non riusciva più a chiudere occhio. Dimagriva, ma diventava sempre più fine e graziosa, come se la carne che metteva giù fosse proprio quella rozza di donna del popolo; e la gentilezza cominciava a trasparire da tutta la sua persona assottigliata, come la luce da un vetro su cui si passa e ripassa lo strofinaccio. Ma un giorno, a Brighella, durante la sosta di una gita in macchina, cosa accadde? Lello era sceso giù, in cerca di un fattore al quale doveva impartire alcuni ordini; Luisa, vedendo, a pochi passi da lei, la porta socchiusa di una chiesetta, domandò cinque minuti di permesso alla mamma di Lello, ed entrò, segnandosi due o tre volte rapidamente, nella casa del Signore. Passa un quarto d’ora, passa mezz’ora; Lello ritorna; e di Luisa non c’è più nuova. «Ma cosa fa tutto questo tempo?» domanda Lello infastidito. «Lasciala stare!» risponde la madre. «Ne avrà per molto ancora, se vuole ringraziare di tutto la Madonna!» Finalmente Lello spazientito entra in chiesa; e getta un grido. Luisa, piegata davanti a un inginocchiatoio, ha reclinato per sempre il capo sul leggio, davanti all’altare della Madonna, con uno straccetto in mano, e un’espressione così umile in viso, proprio come se chiedesse alla Signora dei cieli di assumerla al suo servizio. Lello era svenuto, e adesso stava avvoltolato entro una coperta e buttato sul letto, con l’intenzione di rimanere così per anni. Il padre andava su e giù, cercando ora uno specchio ora un altro, per insultarvi la propria figura e chiamarla: bestia! pazzo! canaglia! perché avrebbe dovuto capire che la povera ragazza era in fin di vita.

Lello Raveni non andrà più, con la sua veloce macchina da corsa, ad acquistare in una città, né vicina né lontana, taluni tipi di mattonelle, destinate a pavimentare l’ultimo piano della torre; non si recherà nemmeno in una seconda città, prossima alla prima, a sollecitare i buoni uffici di un autorevole personaggio, perché venga accordato subito il permesso di aprire la torre al pubblico.

Buscaino non era nuovo agl’intoppi, ma ora la sua pazienza cominciava a richiamare alla memoria, con troppa insistenza, uno straccio logoro. Molta acqua le era passata sopra; e acqua nemica, e acqua “non certo della più bell’acqua”. C’era anche un debituccio coll’albergo, che solo l’intrepido gusto dei vezzeggiativi poteva continuare a chiamarlo così. Certo, la prima legge morale è: vivere!; la seconda è: vincere!; e solo la terza è: seguire la legge morale! Ma i debiti si rivolgevano alla coscienza per una via così poco astratta e interna; a mezzo di visi così bui e impellenti; che davvero se la più alta legge morale è: vivere!, per poterla ubbidire, si deve prima poter ubbidire la meno alta: segui la legge morale!, cioè a dire: paga i tuoi debiti!

Buscaino aveva rimediato, da principio, contraendo debiti con persone di fuori l’albergo per pagare i debiti dell’albergo; in sostanza: allontanando il più possibile e cacciando fuori dal proprio tetto quei visi di creditori. Ma a poco a poco ai debiti, contratti fuori per pagare l’albergo, s’erano aggiunti i debiti contratti dentro l’albergo per pagare quelli di fuori, e infine tutto s’era imbrogliato in tal modo che Buscaino aveva contratto debiti, fuori e dentro l’albergo, per non pagare nessun creditore, ma solo per acquistare a rate un qualche oggetto indispensabile alla vita d’un uomo civile, e dunque per contrarre un nuovo debito. Tutto questo, però, non sarebbe stato gran che, se la ruota della ricchezza, ch’egli vedeva con la fantasia issata in cima alla torre, avesse potuto iniziare i suoi giri. Ormai il tempo scottava. E Buscaino non aveva lo stile d’una volta nel sollecitare gli azionisti perché facessero l’ultimo versamento, quello che avrebbe permesso di completare i lavori della torre e mettere punto a questa lunghissima vigilia. Gli azionisti rispondevano di non esser venuti mai meno ai loro impegni: non sarà proprio all’ultimo momento che essi diventeranno avari.

«Lo so, lo so, nobili signori!» faceva Buscaino. «Ma questa è la terra degl’intoppi e dei ritardi.»

«Che intoppi volete che ci siano?» disse un vecchio, tossendo entro il pugno chiuso. «Ormai gl’intoppi non han più di dove entrare!»

«Già» assentì Buscaino, «non han più di dove entrare!»

Tuttavia un ultimo intoppo, lo sa il diavolo di dove sia entrato per potersi parare così d’un tratto davanti a Buscaino.