VIII

Il vento era caduto, e Leonardo camminava adagio adagio fra le piante immobili del giardino pubblico. La torre si profilava netta in lontananza, ed egli si mise a pensare: “Una volta, bastava il latrato di un cane la notte, o il rumore del secchio nella cisterna, o quello della scarpa che mio fratello, nella camera accanto, si lasciava cadere dal piede mentre andava a letto, perché la gioia, che avevo dentro, si facesse d’un tratto più forte; come quando torna alla mente, più lucido che mai, il ricordo della cosa per la quale si è felici. Ma qual era la cosa per cui ero felice in quel tempo? Non era una, ma tutte le cose. Io trovavo in qualunque avvenimento, anche nel più triste, come un piccolo segno d’intesa dal quale io solo ero in grado di capire che, perfino in quella sventura, si nascondeva un atto d’infinita gentilezza: specie verso di me. Tutto era amato a quel tempo, ma io in modo particolare. Sguardi intenti e affettuosi mi piovevano dal cielo e talvolta mi svegliavano di notte e mi facevano domandare: ‘Chi mi guarda così?’. La domanda mi moriva sulle labbra. A che, sapere donde venisse tanto amore? Mi bastava che quell’amore si volgesse a me… Poi tutto cambiò! Senza ragione! Come il bambino che, tenuto fra gli agi da un benefattore sconosciuto, il quale manda a ogni fin di mese molto denaro, d’un tratto viene a sapere che il denaro non arriva più e il benefattore non si fa più vivo, e dunque egli deve lasciare cavalli, casa, collegio, servitori, e rassegnarsi a tornar povero; così io d’un tratto non mi sentii più svegliato da sguardi d’amore, non vidi più, non solo nelle sventure, ma pure nelle cose comuni, quel piccolo segno d’intesa che io solo sapevo leggere; mi trovai abbandonato e povero! La luce s’era spenta! Tutto era buio! E allora, cosa ho fatto? Visto ch’era buio, ho dormito. Alle cose che sono accadute, non ho dato alcuna importanza, come se fossero sogni. Così questi quattordici anni di Natàca, la volta che tornerà la luce, io potrò considerarli come una sola notte, una sola ora perduta!”.

Le ultime parole, egli non le aveva soltanto pensate, ma anche dette, a Lisa Careni che gli stava accanto da qualche minuto.

«Bene!» fece Lisa. «Bene, bene! Sapete cosa vi dico? Che, fra i tanti pigri di quaggiù, voi meritate la corona di re!»

«Perché, cara Lisa? Tutto era scuro: quello che avrei fatto non lo sarebbe stato di meno! Così, ho preferito di non far nulla!»

«Voi ragionate come l’ubriaco che, dopo una notte di sonno, si alzò dal letto e aprì l’armadio, scambiandolo per la finestra. Accortosi in tal modo ch’era ancora notte, tornò sul letto e dormì per sette giorni, confortato sempre dal pensiero che il sole non si fosse levato. Codesta chiacchierata sulla luce, la tenebra, l’amore misterioso, la gioia che aspettate invano da quattordici anni, comincio adesso a capire cos’è!»

«Dite, dite sino in fondo il vostro pensiero! Cos’è?»

«È la vigliaccheria di uno che non vuol far nulla, e tenta di buttare polvere negli occhi suoi e degli altri con grosse parole che dovrebbero spiegare perché egli sta a letto e, invece di lavorare seriamente, si dà a costruire una torre panoramica.»

«Sentite, Lisa! Il giorno in cui tornerà a me quella gioia che tanto più mi appartiene, in quanto le son rimasto fedele sino al punto di non far nulla e di considerarmi come morto, nel tempo in cui essa non c’è stata; quel giorno, verrò da voi! E solo mostrandovi gli occhi, io vi avrò spiegato tutto!»

«Ma questo giorno, mi pare che tardi a venire.»

«Oh, io sono ancora giovane!»

«Giovane? Guardatevi, prego!»

E cavato lo specchietto dalla borsa, glielo mise entro le mani, che per un poco strinse con le sue, sorridendogli in faccia fieramente; quindi gli voltò le spalle e s’allontanò.

Non appena ella scomparve dietro le palme, Leonardo si guardò nello specchietto. E per la prima volta, s’accorse, vide che i quattordici anni di Natàca erano stati un pugno che uno sconosciuto, senz’alcuna ragione, gli aveva dato in piena faccia, perdendosi poi nella folla.

Chi era quello sconosciuto? E che male gli aveva fatto lui, poveretto, perché ora ne ricevesse un tal pugno? Oh, lui non ha fatto male a nessuno! Mai a nessuno del male, povero Leonardo!

“Povero Leonardo! Povero Leonardo! Povero Leonardo!” Da questo pensiero, che si faceva sempre più dolce e piagnucoloso, egli ricevette un buon conforto, come talvolta lo si trova nel canticchiare un motivo che torna molto a proposito per la strada che dobbiamo percorrere da soli e le cose che vogliamo dimenticare. “Povero Leonardo!…”

* * *

Buscaino era giunto a Mn, ultima città del territorio al quale apparteneva Natàca. Faceva colazione con un amico, in un’osteria del porto. Davanti a lui, moriva la terra del Sud, fra onde che non eran più quelle assonnate del lido di Natàca, ma altre, con occhi, se non aperti, socchiusi, le quali facevano un rumore di mattinata in paese, quando la gente si sveglia, e sbatte le imposte, e si lava il petto fuori dell’uscio.

«Caro mio» disse egli, «nessuno riesce a partire da quella città! Io solo, forse! Ma io sono di un’altra pasta.»

L’amico lo guardò con una curiosità mista di sorriso: «Sai perché ti guardo?… Perché mi somigli alla mosca che giunge stentatamente all’orlo del bicchiere, dopo esser uscita dal latte! E che farai adesso?».

«Ma veramente io non so» disse Buscaino, rattristato dal paragone della mosca, nel quale si sentiva infilato come in un vestito fradicio d’acqua. «Non so!»

«Perché non torni in America?»

«Eh, non è facile!» Buscaino si mise a guardare i monti che, al di là del mare, si confondevano con le nubi. «Non è facile!… Anche perché non ci sono mai stato!»

E pensò: “Che stranezza! Non sono mai stato in America! Davvero non ci sono mai stato!”. Mandò un altro sguardo ai monti e alle nuvole. “Io devo avere, dentro di me, un personaggio molto serio col quale non sono riuscito mai a entrare in confidenza! Infatti non ho mai osato confessare a me stesso per intero quello che ho fatto e quello che non ho fatto! Sì, quel me stesso dev’essere un personaggio molto, molto importante! Io, sono un pover’uomo qualsiasi! Ma lui, il me stesso, è ben altro!… Ora, per esempio, io dico timidamente a me stesso che l’America non l’ho vista neppure in sogno; io cerco di sorridere e di farlo sorridere; ma il me stesso scuote severamente la testa!… Se però, invece di scuotere la testa, come fa, questo me stesso, che è così autorevole e senza dubbio molto ascoltato e temuto, visto che io poveretto sono stato così disgraziato, volesse prendere lui le redini del comando e accomodare la mia vita? Eh? Non sarebbe una buona cosa?”

«Che pensi?» disse l’amico.

«Mah!»

«Natàca è bella?»

«Caro mio, caro mio, caro mio! Natàca non ha il tempo di essere né bella né brutta, affaccendata com’è ad esser triste e noiosa. La noia e la tristezza vi si tagliano col coltello! Non c’è uomo, non c’è petto d’uccello che sia mai stato veramente allegro a Natàca, sia pure per un istante!»

E così dicendo, scattò dalla sedia come se avesse visto qualcuno passare veloce al pari di una freccia, e gli premesse di raggiungerlo. All’amico, che rimaneva seduto, gridò, scusandosi col gesto: «Per favore, regola tu!».