IX

Le donne della pensione Fior d’arancio sono irrequiete e agitate come le signorine: e con le signorine si confondono a mezzogiorno, quando vanno a bere l’aperitivo, nella dolceria più elegante di Natàca, ove i piccoli venditori di stuzzicadenti e di sale da cucina tirano, per un lembo della veste, le signore, e della giacca i signori, tentando di richiamare quegli occhi così curati sulla loro povera merce. Le donne della pensione sono irrequiete come le signorine, e incapaci di ascoltare a lungo un pianoforte senza piangere, o di essere servite lentamente senza stizzirsi, perché anch’esse, come le signorine, cercano marito fra i giovanotti di Natàca. Così le signorine di Natàca si trovano, senza volerlo, in gara con simili donne. E il guaio è che non sempre dalla gara escono vincenti. I giovanotti, da un certo tempo in qua, usano trascorrere la sera nella sala da pranzo della pensione Fior d’arancio, uno di loro suonando al piano, altri ballando, altri conversando con le ragazze, il cui spirito di donne che han viaggiato il mondo, espresso con l’accento del Nord, li pone in uno stato di suggezione, che presto dà luogo all’amore. E amore coniugale! A causa di ciò, i salotti di Natàca sono ora minacciati dall’ingresso, che si dice imminente, di talune signore impacciate ma scontrose, dalla bocca nuda di belletti ma larga e amara, dalle pupille mobili ma prive di curiosità e incapaci di stupore, almeno per quelle cose di cui le altre si stupiscono… Cotali giovanotti, che arrivano al punto di piangere quando, a Natale, ricevono da simili donne telegrammi di “cuore mio adorato” e “nostra santa felicità di domani”, parole a cui essi rispondono con parole ancora più dolci; cotali giovanotti poi, alle signorine di Natàca, rivolgono domande come la seguente che, in questi giorni, è molto in voga nei salotti: “Signorina, qual è l’animale che tiene il becco sotterra?”. “Il fagiano” risponde la signorina. “No! Il fagiano tiene il becco sott’acqua. Io ho detto: sotterra!” “Non saprei!” “Ma signorina! la vedova!” Ieri sera, in un palchetto di proscenio, al teatro lirico, un giovanotto in frac s’è tolto una scarpa e l’ha messa sotto l’ascella di un signore che aveva poggiato il gomito sul parapetto di velluto: il signore, rapito dalla musica, ha tenuto per qualche minuto la scarpa sottobraccio come un libro; poi, a causa di un movimento subitaneo, l’ha lasciata cadere nel palcoscenico, sulle palme che il soprano, nell’atto di prendere un acuto, aveva rivolto al cielo… Questi, questi sono i giovanotti di Natàca! Ben degni che la torre sia loro dedicata e d’ora innanzi chiamata “la torre dei giovanotti” anche per prevenire una voce che minaccia di diventare comune e che già s’è messa in cammino, per la quale la torre sarebbe detta “delle signorine”… Come sembra naturale e bene intonata al panorama di Natàca, questa torre che gli cala sopra come il manico sul piattello, ora che di essa si conosce con esattezza che non serve a nulla! Davvero senza questa torre, Natàca avrebbe in meno alcunché d’indispensabile come lo è il naso per un volto!…

Così parlano le signorine, radunate nel salotto di casa Careni, attorno al pianoforte, sulla tastiera e il coperchio del quale stan posati alcuni bicchierini di liquore. Le signorine, profittando di esser sole, lungi dalle signore e dagli uomini, si son date per la prima volta a bere senza ritegno, come han visto fare, nel film della sera avanti, a talune ragazze americane. Bevono, toccano i tasti del piano con un dito, sparlano degli uomini. Poi sparlano di se stesse e della loro vita. Noia, noia, noia, e noia! Sciocchezze, sciocchezze, sciocchezze e sciocchezze! Una dice: «Se continua così, do un calcio a tutto e faccio qualcosa di poco bello!». «Veramente?» dice un’altra preoccupata. Tutte diventano pensierose, mentre la prima batte con l’indice sopra un basso del piano, poi sopra un la, poi di nuovo sopra il basso, senza mai riuscire a trarre da quei tasti un suono che non sia: noia, noia, noia, noia!

Ma d’un tratto Lisa Careni vien presa da un sentimento nuovo e forte, come un respiro tanto largo da aprire il petto in modo da ingrandirlo per sempre. È una felicità, ma non come le solite: qualcosa davvero che, una volta incominciato, forse non avrà termine.

Ella prende con la destra la bottiglia del liquore, con la sinistra un bicchiere, e va al balcone.

Il sole è ancora sulla strada e le case; il cielo è chiaro e scintillante. Una donna, nel portone dirimpetto, disfascia un marmocchio, lo solleva nudo in alto, se lo pone sulla faccia arrovesciata. Come nei film, dietro un ritratto si vede talora muoversi la persona viva; così dietro le cose di prima, slavate e tristi come immagini stinte, Lisa vede ora muoversi per la prima volta quelle vere, e uscir fuori belle e splendide.

“Sarebbe questa la gioia di Leonardo?” pensa Lisa. “Ma come? L’aspettava lui, ed è venuta a me!”

Ma non importa! A chiunque sia venuta, essa è qui! E come chi soffre nel nome del Signore, sente che tutti i suoi cari, intorno a lei, diventan sempre più buoni per questa sua sofferenza, ed ella a poco a poco salva le loro anime; così Lisa, gioendo nel nome del Signore, pensa che tutti gli amici di Natàca diventino sempre meno scuri e pigri per questa sua gioia, ed ella a poco a poco li salvi tutti. Ma questa gioia, cos’è? Un momento di bene? No, essa non ha nulla di momentaneo. In essa, al contrario, si perdono, come i momenti di un sogno al rialzarsi delle palpebre, quegli anni d’inezie faticose, quei lamenti, quelle vanità, quelle tetre sciocchezze, quella torre panoramica; e il punto, in cui tutto questo si squaglia nella luce, è così chiaro e fermo che non solo la buona Lisa pensa che sia vero quello che disse Leonardo: essere stati quei quattordici anni di Natàca il sogno di una notte; ma che perfino Leonardo, che ha parlato a quel modo, e Giovanni, Rodolfo, Buscaino, e la propria età avanzata, e gli affetti delusi, tutto, tutto sia stato uno stupido sogno che, ecco, finalmente, è finito!

Sicché nessuno vorrà essere severo, se barcollando un poco, con la bottiglia in una mano, il bicchiere nell’altra, questa buona Lisa, di solito tanto modesta, silenziosa e timida, gridi d’un tratto, dal balcone, in fronte al cielo scintillante, nientemeno che: «Evviva la vita!». E non una sola volta, ma due, ma tre.

Catania, novembre 1934-marzo 1936