LA COSA

Carissima Nora, da ultimo sai chi ho incontrato? Diana. Ricordi? Diana che era con noi al collegio delle suore francesi. Diana la figlia unica di quell’omaccione rustico, proprietario di terre in Maremma. Diana che non aveva mai conosciuto sua madre, morta dandola alla luce. Diana di cui dicevamo che, così fredda, bianca, pulita, sana, coi suoi capelli biondi e i suoi occhi azzurri e il suo corpo formato come una statua, sarebbe diventata uria di quelle donne insensibili e frigide che magari mettono al mondo una nidiata di figli, ma non conoscono l’amore.

Il ricordo di Diana è curiosamente legato agli inizi del nostro rapporto; e questo, a sua volta, ad una famosa poesia di Baudelaire che abbiamo "scoperto" insieme negli anni del collegio, e sulla quale oggi come allora siamo in disaccordo circa il senso da attribuirle. La poesia è "Donne dannate". Ricordi? Invece di appassionarci per i versi umanitari di Victor Hugo che le buone suore ci consigliavano, noi leggevamo di nascosto I fiori del male, con quella curiosità ardente che è propria della prima adolescenza (avevamo ambedue tredici anni) la quale è sempre alla ricerca di qualche cosa che non sa ancora cosa sia e che tuttavia si sente predestinata a conoscere. Eravamo amiche, molto amiche, forse già qualche cosa di più che amiche; ma certamente non ancora amanti e, così, quasi fatalmente (c’è una fatalità anche nelle letture), tra le tante poesie di Baudelaire ci siamo fermate su quella intitolata "Donne dannate". Ricordi? Sono stata io, a dire il vero, a "scoprire" questa poesia, io a leggertela ad alta voce e a spiegartene i significati, soffermandomi via via sui punti, diciamo così, fondamentali. I quali, poi, erano soprattutto due. Il primo, è nella strofa: "I miei baci sono lievi come le efemere / che sfiorano la sera i grandi laghi trasparenti, / quelli del tuo amante scaveranno in te rotaie / come se fossero carri o zoccoli di cavalli"; il secondo, nella strofa: "Maledetto sia per sempre il sognatore inutile / che volle per primo, nella sua stupidità / infatuandosi di un problema insolubile e sterile / mischiare le cose della morale a quelle dell’amore." Dove, come vedi, nella prima strofa viene privilegiato l’amore omosessuale, così delicato e affettuoso di contro all’amore eterosessuale così brutale e grossolano; e nella seconda si sgombra il terreno dagli scrupoli morali che nulla hanno a che fare con le cose dell’amore. S’intende che io stessa che ti spiegavo la poesia, capivo molto imperfettamente il senso di queste due strofe; ma le capivo abbastanza per sceglierle tra tutte le altre come quelle che avrebbero favorito la mia passione per te. A dire il vero, questa passione oggi così esclusiva e così consapevole, ha avuto un inizio confuso. Era, infatti, verso Diana che, a tutta prima, ho rivolto le mie attenzioni. Come forse ricorderai, ogni tanto, allorché c’erano degli esami presto nella mattinata, anche le allieve esterne del semiconvitto usavano restare a dormire nel collegio. Diana, che di solito passava la notte a casa, una di quelle sere è restata a dormire al collegio e il caso ha voluto che il suo letto fosse accanto al mio. Non ho esitato più che tanto sebbene, te lo giuro, fosse la prima volta; i miei sensi lo esigevano e ho ubbidito. Così, dopo una lunga, ansiosa attesa, mi sono alzata dal mio letto, con un solo balzo ho raggiunto il letto di Diana, ho sollevato le coperte e mi sono insinuata di sotto stringendomi subito a lei con un lento e irresistibile abbraccio, proprio come un serpente che senza fretta avvolge nelle sue spire i rami di un bell’albero. Diana si è certamente svegliata ma un po’ per il suo carattere torpido e passivo e un po’, forse, per curiosità, ha finto di continuare a dormire e ha lasciato fare. Ti dico la verità, appena mi sono accorta che Diana pareva d’accordo, ho provato lo stesso impulso vorace di un’affamata di fronte al cibo: avrei voluto divorarla coi baci e le carezze. Ma, subito dopo, mi sono imposta una specie di ordine e ho preso a strisciare sul suo corpo supino e inerte, dall’alto al basso; dalla bocca che ho sfiorato con le mie labbra (il mio desiderio, perché negarlo?, andava all’"altra" bocca) al seno che ho scoperto e baciato con cura; dal seno al ventre sul quale la mia lingua, lumaca innamorata, ha lasciato una lenta traccia umida; dal ventre giù giù fino al sesso, scopo ultimo e supremo di questa mia passeggiata, il sesso che ho messo alla mia mercé afferrandole le ginocchia con le due mani spalancandole le gambe. Diana ha continuato a fingersi addormentata e io mi sono gettata con avidità sul mio cibo d’amore e non ho smesso se non quando le cosce si sono strette convulsamente sulle mie guance come le morse di una tagliola di fresca, muscolosa carne giovanile.

Il mio ardimento, però, ha trovato un limite nell’inesperienza. Oggi, dopo avere suscitato l’orgasmo di una mia amante, rifarei di nuovo il cammino inverso, dal sesso al ventre, dal ventre al seno, dal seno alla bocca e mi abbandonerei, dopo tanto furore, alla dolcezza di un tenero abbraccio. Ma ero ancora inesperta, non sapevo ancora amare e poi temevo la sorpresa di una suora insospettita o di un’allieva insonne. Così sono uscita da sotto le coperte di Diana dalla parte dei piedi e, pur sempre al buio, sono rientrata nel mio letto. Ansimavo, avevo la bocca piena di dolce umore sessuale, ero felice. Ma il giorno dopo mi aspettava una sorpresa che, in fondo, avrei potuto prevedere dopo l’ostinato, finto sonno della prima amante della mia vita: quando mi ha visto, Diana si è comportata come se nulla, tra di noi, fosse successo; fredda e serena come il solito, ha mantenuto tutto il giorno un atteggiamento non ostile né turbato, soltanto completamente e perfettamente indifferente. Viene la notte; ci corichiamo di nuovo l’una accanto all’altra; ad un’ora tarda lascio il mio letto e faccio per entrare in quello di Diana. Ma la robusta e sportiva ragazzona veglia. Come mi insinuo sotto le coperte, una spinta violenta mi estromette, mi fa cascare in terra. In quel momento ho avuto come una specie di illuminazione. Il tuo letto era anch’esso accanto a quello di Diana, ma dall’altra parte. Mi sono detta ad un tratto che tu non potevi non avere sentito, la notte avanti, il trambusto del mio rumoroso amore e adesso "mi aspettavi". Così è stato con la sicurezza di chi va ad un appuntamento promesso, che sono strisciata fino al tuo capezzale. Come avevo preveduto, non mi hai respinto. Così è cominciato il nostro amore.

Adesso torniamo a Baudelaire. Siamo dunque diventate amanti ma con certe precauzioni che chiamerò rituali, volute da te, sempre un po’ esitante e spaventata. Mi hai chiesto e io, per farti piacere, ho accettato, che avremmo fatto l’amore soltanto in due precise occasioni: al collegio, di notte, tutte quelle rare volte che ci avremmo dormito; oppure a casa mia quando tua madre, una vedova bella e mondana, andava fuori Roma il week-end col suo amante e allora ti permetteva di venire a dormire da me. Salvo che in queste due occasioni, i nostri rapporti avrebbero dovuto essere casti. Allora, pur accettandola, non mi spiegavo questa singolare pianificazione; adesso, col tempo, ho capito: eri ossessionata da quella morale di cui parla Baudelaire e, per addormentare il tuo senso di colpa, volevi che tra di noi tutto avvenisse come in un sogno sognato tra due sonni, così in casa mia come al collegio. Ma egualmente non ti sei mai abituata del tutto al nostro rapporto, non l’hai mai accettato fino in fondo come definitivo e stabile modo di vita. E qui voglio citare ancora una volta Baudelaire che in un’altra strofa fornisce una perfetta descrizione del tuo atteggiamento verso di me. Ecco la strofa: "Le pigre lagrime degli occhi illanguiditi / l’aria spezzata, lo stupore, la fosca voluttà / le braccia vinte abbandonate come armi vane / tutto contribuiva al fascino della sua fragile bellezza. / Distesa ai suoi piedi, calma e piena di gioia, / Delfina la covava con occhi ardenti, / come un animale forte che sorveglia la preda / dopo averla segnata a tutta prima col suo morso."

Secondo te io sarei stata Delfina, la tiranna "calma e piena di gioia" e tu Ippolita, la povera creatura devastata dal mio desiderio, la preda "segnata" dai miei denti. Quest’idea bizzarra ti ispirava una invincibile paura che, ancora una volta Baudelaire ha descritto benissimo: "Sento piombare su di me pesanti terrori / e neri plotoni di indistinti fantasmi / che vogliono trascinarmi su strade erratiche / sbarrate d’ogni parte da sanguigni orizzonti." Tutto questo naturalmente è detto in maniera romantica come voleva l’epoca; ma rispecchia abbastanza bene l’aspirazione alla cosiddetta "normalità" che ti ossessionava dopo due anni del nostro amore. Curiosamente, questa aspirazione ha assunto in te la forma di una violenta insofferenza della tua verginità. Ero anch’io vergine, come lo sono tuttora, grazie a Dio, e non provavo alcuna insofferenza di una condizione naturale che non mi impediva in nulla di essere una persona, anzi una donna completa. Tu, invece, ricordi?, apparivi sempre più convinta che qualche cosa ti impedisse di vivere completamente e liberamente; e questo qualche cosa lo identificavi nella verginità, di cui dicevi che se il nostro rapporto fosse proseguito, non avresti più potuto liberarti. Rammento a questo proposito una tua frase per me offensiva: "Invecchierò accanto a te, diventerò quel triste personaggio che è la zittella vergine che se la fa con le donne."

Uno di quei giorni Diana, con la quale eravamo restate amiche anche dopo la fine degli studi al collegio, ci ha invitate a passare il week-end con lei nella sua villa in Maremma. Abbiamo viaggiato in treno fino a Grosseto; alla stazione ci aspettavano con la macchina, Diana e suo padre. Il padre di Diana alto, corpulento, barbuto, era vestito da buttero, col pastrano di casentino rosso, le brache di velluto a coste e gli stivali di vacchetta grezza; Diana, meno rusticamente, indossava un maglione bianco e pantaloni verdi da cavallerizza infilati negli stivali neri. Abbiamo corso per circa un’ora su e giù per certe colline pelate, in un sole sfarzoso che non riscaldava: era d’inverno, una giornata di tramontana. Siamo arrivate per una strada fangosa in cima ad un colle, ad una specie di cascinale molto rustico; per nulla, insomma, la villa signorile che ci eravamo aspettate. Intorno il cascinale non c’era giardino ma un suolo tutto fangoso e pesticciato come il terriccio di un cavalcatoio. I cavalli che coi loro zoccoli avevano ridotto a quel modo il terreno, pascolavano in quel momento per i prati sotto il cascinale, ne ho contati sei. Ma appena Diana e suo padre sono comparsi, eccoli risalire la china e venirgli incontro, più come cani che come cavalli. Diana e il padre hanno fatto qualche carezza ai cavalli, poi ci hanno invitate ad entrare in casa e lì aspettarci: dovevano andare a cavallo da certi fittavoli. Sono saliti in sella e si sono allontanati; noi siamo andate a sederci nel soggiorno, davanti ad un fuoco divampante dentro un grande camino. Ricordi? tu mi hai detto dopo un lungo silenzio: "Hai visto Diana? fresca, bianca e rossa, pulita, l’immagine stessa della salute fisica e morale." Mi sono ad un tratto offesa, per l’implicito rimprovero sottinteso in queste tue parole: "Cosa vuoi dire? Che io ti impedisco di essere come Diana, fisicamente e moralmente sana?" "No, non dico questo. Dico soltanto che mi piacerebbe essere come lei e che in qualche modo la invidio."

Basta, Diana e suo padre sono tornati; abbiamo mangiato le bistecche alla fiorentina arrostite direttamente dalle fiamme del camino; quindi, dopo il caffè, il padre è uscito di nuovo e noi tre siamo salite, per riposare, ad una camera del secondo piano. Ma non abbiamo riposato; abbiamo preso a chiacchierare, distese tutte e tre su un immenso letto matrimoniale. Non voglio indugiare sui discorsi di preambolo; ricordo soltanto che ad un certo momento tu hai preso a parlare del problema che in quel momento ti ossessionava: quello della verginità. Allora è avvenuto qualche cosa di straordinario: con la sua voce limpida e tranquilla, Diana ci ha informato che lei aveva già provveduto a risolvere il problema e, infatti, da qualche mese non era più vergine. Tu le hai domandato con malcelata invidia come aveva fatto, chi era colui che si era prestato a renderle questo servizio. Con candore lei ha risposto: "Chi? Un cavallo." Stupefatta, hai esclamato: "Ma scusa, un cavallo non è troppo grosso?" Diana si è messa a ridere; poi ci ha spiegato che il cavallo era soltanto la causa indiretta del suo sverginamento. In realtà, era avvenuto che a furia di cavalcare, uno di quei giorni lei aveva avvertito come uno strappo sottile e doloroso all’inguine. Poi, tornata a casa, aveva trovato delle macchie di sangue sullo slip. Insomma, lo sverginamento era avvenuto senza che lei quasi se ne accorgesse, a causa di quel suo continuo stare in sella con le gambe divaricate.

Dopo quella gita in Maremma, le cose tra noi due, sono cambiate molto in fretta. Una specie di impaccio è calato tra di noi; tu hai cominciato ad uscire con un uomo, un avvocato meridionale, bell’uomo sui quarant’anni; e io non ti ho più vista che di sfuggita, anche perché il collegio era finito e, quanto a tua madre, si era separata dall’amante e trascorreva i week-end a casa con te. E passato un anno e tu mi hai annunziato il tuo matrimonio con l’avvocato. Tre anni dopo, a soli vent’anni, ti sei separata da tuo marito per "incompatibilità di carattere", almeno così mi ha detto tua madre al telefono. Sei tornata da tua madre; io, a mia volta, sono tornata nella tua vita e abbiamo ricominciato a fare l’amore, sia pure di nascosto e con molte precauzioni. Finalmente, dopo due anni di amore clandestino, abbiamo, come si dice, gettata la maschera e ci siamo messe a vivere insieme, felicemente e liberamente, nella casa in cui tuttora abitiamo.

Adesso vorrai sapere perché ho mischiato alla nostra storia Baudelaire e Diana. Te lo dico subito: perché, in fondo, tu continui a identificarti con Ippolita e persisti nel vedere in me, Delfina, la prima, vittima succuba e la seconda, tiranna crudele. Cioè, continui a vederci, forse non senza un certo tuo masochistico compiacimento, come due "donne dannate". E invece, no, non è così. Non siamo due donne dannate neppure un poco; siamo due donne coraggiose che si sono salvate dalla dannazione. Tu domanderai: quale dannazione? E io ti rispondo: quella della schiavitù al membro maschile; cioè salvate da una illusione di normalità che, adesso, dopo la tua disgraziata esperienza matrimoniale, tu sai benissimo essere frutto dell’immaginazione.

Veniamo adesso a Diana. Il mio incontro con lei, dopo due anni che non la vedevo, mi ha fornito l’occasione di imbattermi proprio in quella coppia di donne alle quali si attaglia l’epiteto baudelairiano di "dannate". Devi infatti sapere che Diana non è più sola da molto tempo; si è unita con un legame apparentemente simile al nostro con una certa Margherita che non ho mai visto ma che tu, a quanto pare, conosci, perché, una volta, non ricordo più in quale occasione, me ne hai parlato e l’hai definita "orrenda". Tu dirai: va bene è una donna orrenda; ma tu stessa dici che è unita a Diana con un legame simile al nostro; dov’è, dunque, la dannazione? Io ti rispondo: piano, ho detto "apparentemente" simile al nostro; in realtà, ho scoperto che Diana e la sua amica sono rimaste più che mai adoratrici del membro, e per giunta in una maniera, per così dire, moltiplicata. Ma non voglio anticipare sul mio racconto. Ti basti sapere che il loro asservimento si è spinto molto al di là dell’umano, in una zona oscura che nulla ha a che fare con l’umanità, sia pure quella cieca e brutale che è propria dell’aggressione maschile.

È andata così. Dopo la tua partenza per gli Stati Uniti, uno di questi giorni mi arriva una lettera col timbro di un paese non lontano da Roma. Ho guardato in fondo e ho visto la firma di Diana. Allora ho letto la lettera. Era breve, così concepita: "Cara, carissima Ludovica, sei stata sempre così buona con me, sei così seria e intelligente che adesso, trovandomi in una situazione difficile, ho subito pensato a te. Sì, tu sei la sola che può capirmi, la sola che può salvarmi. Te ne prego, te ne supplico, aiutami, senza di te sento che non ce la farò, che sarò dannata per sempre. Vivo in campagna, a poca distanza da Roma; con un pretesto qualsiasi, per esempio il fatto che siamo state compagne di scuola, vieni a trovarmi. Ma vieni subito. A prestissimo, dunque. La tua Diana che non ti ha mai dimenticato durante tutti questi anni."

Debbo dirti che la lettera mi ha fatto una strana impressione. Avevo sempre presente alla memoria la poesia di Baudelaire che ci aveva fatto tanto discutere sulla dannazione; ed ecco che Diana, nella sua lettera, usava anche lei quella parola "dannata" rinforzandola addirittura con un disperato "per sempre". La parola era forte, molto più forte che nella poesia di Baudelaire, scritta dopo tutto in altra epoca; era non soltanto forte ma anche sproporzionata ad un rapporto d’amore, sia pure infelice. Certo, poteva anche darsi che Diana scrivesse "dannata" perché non riusciva a sciogliere il legame con l’ "orrenda" Margherita. Ma in quella parola c’era qualche cosa di più della smania di liberarsi di una servitù sentimentale insopportabile; qualche cosa di oscuro e di indecifrabile.

Così ho subito telefonato a Diana, in campagna, al numero che stava scritto nella lettera; ho finto, come mi era stato consigliato di voler fare una cosiddetta "rimpatriata"; sono stata prontamente invitata a colazione per il giorno dopo. La mattina seguente sono salita in macchina e sono partita alla volta della villa di Diana.

Sono arrivata poco prima dell’ora di pranzo. La mia macchina è entrata per un cancello spalancato, ha percorso un viale di lauri, è sbucata nello spiazzo di un ben pettinato giardino all’italiana, con aiuole verdi e vialetti ghiaiati, davanti ad una villa di bell’aspetto, a due piani. Sono andata a fermarmi davanti alla porta; non ho avuto il tempo di scendere e suonare il campanello; la porta si è aperta e Diana è apparsa, proprio come se fosse stata in agguato in anticamera ad aspettare il mio arrivo. Era in costume da bagno, col seno nudo, a causa del caldo estivo, ma con questa singolarità: invece che sandali calzava stivali rossi, dello stesso colore del costume. Il secondo sguardo però l’ho avuto per lei e ti dico la verità, ho avuto quasi un soprassalto di stupore vedendo quanto era cambiata e in che modo. In quell’istante che la guardavo, ho fatto una specie di fulmineo inventario di tutto ciò che c’era, una volta, nella sua persona, e che adesso mancava. Se ne era andata la sua formosità dura e risentita: in luogo del seno prepotente, due mammelle appena rilevate; in luogo del ventre tondo e nutrito, una depressione piatta tesa tra le due ossa sporgenti del bacino; invece delle belle gambe muscolose, due dinoccolati bastoni. Ma il cambiamento maggiore era nel viso: bianco e smunto, vi spiccavano gli occhi azzurri resi enormi dalla magrezza e segnati di sotto da due unghiate di fatica sessuale; e la bocca, un tempo di un rosa naturale mai imbellettato, adesso invece malamente ingrandita da uno sbaffato rossetto color geranio. Da tutta la persona poi, emanava una strana aria di liquefazione, come di candela consumata dalla fiamma. Si sarebbe detto che non si era tanto dimagrata quanto disciolta. Ha esclamato in tono gioioso: "Ludovica, finalmente! È dall’alba che ti aspetto!"; e allora non ho riconosciuto neppure la voce: la ricordavo, chiara, argentina; era rauca e bassa. Ha tossito e allora ho visto che tra le due lunghe dita scheletrite stringeva una sigaretta accesa.

Ci siamo abbracciate; poi mi ha detto con un’aria casuale che mi è sembrata in contrasto con il tono disperato e urgente della sua lettera: "Margherita è andata in paese, tornerà tra poco. Intanto vieni, ti mostro la casa, cominciamo dalla stalla. Ci sono dei cavalli veramente stupendi. Ti piacevano i cavalli, no?"

Così dicendo, senza aspettare la risposta, mi ha preceduto attraverso il giardino, da un viale all’altro, in direzione di un edificio lungo e basso che a tutta prima non avevo notato. La fila di finestre a bocca di lupo mi ha fatto capire che era la stalla. Diana camminava lentamente, a testa bassa, portando ogni tanto la sigaretta alla bocca, come chi mediti su qualche cosa di preciso. Alla fine, però, il risultato di questa meditazione è stato scarso. Ha annunziato: "Ci sono sei cavalli e un pony. I cavalli sono purosangue, niente a che fare con quelli di mio padre. Il pony poi, è semplicemente una meraviglia."

Siamo arrivate alla porta della stalla, siamo entrate. Ho visto un lungo e stretto ambiente rettangolare con cinque box da una parte e cinque dall’altra. I cavalli vantati da Diana occupavano sei dei box e sebbene non me ne intenda molto, ho notato subito che erano bestie molto belle, due bianchi, uno roano e tre marroni. Lustri e snelli, nei box puliti e rivestiti di lucida maiolica, davano un’impressione di lusso. Diana si è fermata davanti a ciascuno dei cavalli, nominandoli via via, facendomene notare le qualità, accarezzandoli; ma tutto questo piuttosto distrattamente. Quindi si è avvicinata al pony che per la piccola statura non avevo ancora notato e ha detto in tono staccato e leggero: "Questo, però, è il mio preferito. Vieni a vederlo." Così dicendo, entrava nel box; l’ho seguita incuriosita. Il pony, di un colore marrone chiaro come di daino, con la coda e la criniera bionde, stava fermo, come meditando, sotto il diluvio dei lunghi peli della criniera. Diana ha preso a vantarmene la bellezza e pur parlando andava accarezzando l’animale sul fianco. Ho avuto allora la strana impressione che Diana mi parlava a vuoto, tanto per parlare, e che piuttosto che ascoltarla io dovevo guardarla, perché quello che faceva era più importante di quello che diceva. Molto naturalmente i miei occhi si sono fermati sulla lunga mano magra e bianca, dalle dita sottili e dalle unghie scarlatte e appuntite che lei passava e ripassava sul fianco fremente dell’animale. E così non mi è sfuggito che ad ogni carezza la mano si abbassava un po’ di più, in direzione della pancia del pony. Intanto, però, con strana fretta quasi isterica lei continuava a parlare; ma io nonché ascoltarla, adesso neppure la sentivo. Guardavo, invece, come isolata da una improvvisa sordità, alla mano lenta e incerta e purtuttavia animata da non si capiva quale intenzione, che adesso si era spinta molto vicino al sesso del pony tutto chiuso nella sua guaina di pelo castano. Ci sono state altre due o tre carezze, quindi la mano ha fatto uno scarto quasi meccanico e si è francamente sovrapposta al membro e, dopo un momento di esitazione, vi ha richiuso sopra le dita. Allora, come se mi fossi ad un tratto liberata della mia transitoria sordità ho sentito improvvisamente Diana che diceva: "È il mio preferito, non te lo nascondo, ma dovrei dire qualche cosa di più che però non so come dire. Diciamo che è il mio preferito perché con lui avviene ’la cosa’. Per questa ’cosa’, io sto qui, per questa stessa ’cosa’ ti ho scritto." Stava ora molto addosso al pony, non si poteva capire cosa facesse; quindi ho visto distintamente che il suo braccio steso sotto la pancia dell’animale andava e veniva avanti e indietro e ho arguito logicamente ma non senza incredulità che Diana stava masturbando il pony. Intanto parlava e parlava come accompagnando con la voce il ritmo della carezza: "Ciò che chiamo ’la cosa’, poi non è tanto lui ma quello che Margherita ed io facciamo con lui. Di lui, poi, dovrei dire, come certe donne: il mio ragazzo, il mio uomo. Già, perché, come Margherita non cessa di ripetermi, non c’è nessunissima differenza tra lui e un uomo, proprio nessuna. Sì, ha la testa, il corpo, le gambe diverse da quelle dell’uomo; ma lì è fatto esattamente come un uomo, salvo forse la grossezza che, però, secondo Margherita, non è un difetto, anzi, al contrario, in certi momenti, un pregio. Non vergognarti, guardalo pure, e dimmi se non è una vera bellezza, di’, non è vero che è bello?" Improvvisamente, il pony si è impennato levandosi ritto sulle zampe posteriori e dando in un lungo, sonoro nitrito; Diana è stata pronta a blandirlo e calmarlo con le voci e le carezze; io sono uscita dal box. Doveva esserci sul mio viso un’espressione eloquente perché Diana ha interrotto il flusso del suo discorso, ha mormorato a voce bassa, come parlando al pony: "Via, non eccitarti, porco che sei"; quindi con tono diverso, improvvisamente implorante, mi ha chiamato: "Ludovica!" Stavo andando via; colpita dal tono della sua voce, mi sono fermata. "Ludovica, io ti ho scritto perché sono caduta in una trappola, in una vera e propria trappola, in una trappola infame, dalla quale tu soltanto puoi trarmi." Commossa ho balbettato: "Io farò quello che posso." "No, Ludovica non quello che puoi ma una cosa precisa: portarmi via di qui, oggi stesso." "Se vuoi, puoi venire via con me." "Ma tu devi insistere, Ludovica, perché io sono vile, tanto vile e all’ultimo momento potrei tirarmi indietro." Ho detto, un po’ annoiata: "Va bene, insisterò." Lei ha continuato, come parlando a se stessa: "Pranziamo e poi dirò addio a Margherita e tu mi porti via." Non ho detto nulla, l’ho preceduta in fretta fuori della stalla.

Nel giardino, Diana mi ha raggiunta, mi ha afferrato con forza il braccio, ha ripreso a parlare. Ma io non l’ascoltavo. Ricordavo quella sua incredibile e tuttavia logica affermazione secondo la quale "il pony era il suo uomo"; e non potevo fare a meno di dirmi che l’asservimento di tante donne al membro, nel caso di Diana trovava una conferma caricaturale e trasformava la cosiddetta "normalità" alla quale tu un tempo aspiravi, in qualche cosa di parodistico e di mostruoso. Sì, Diana e la sua amica si erano unite insieme non già per amarsi, come noi due, ma per adorare nel pony l’eterno fallo simbolo di degradazione e di schiavitù. Poi ho ricordato le nostre polemiche sulla poesia di Baudelaire, e mi sono detta che Diana e Margherita, loro sì, erano le "donne dannate" di cui parlava il poeta, non noi due come, nei tuoi momenti di dubbio e di malumore, ti ostini qualche volta a considerarci. Mi è tornata in mente, la chiusa della poesia: "discendete, discendete, lamentevoli vittime" e sono stata sicura che essa riguardava non già noi due, per nulla vittime, bensì la miserabile Diana e la sua "orrenda" Margherita. In realtà esse erano le vittime di se stesse sia perché non potevano fare a meno di prosternarsi di fronte al maschio, sia perché, soprattutto, fingevano di amarsi per meglio nascondere la loro perversione e così con questa indegna commedia profanavano l’amore puro e affettuoso che avrebbe potuto renderle felici.

Diana intanto diceva: "Verrò a stare da te, provvisoriamente. Così Margherita penserà che ci amiamo e mi lascerà stare." Ho risposto allora quasi con furia: "No, da me, non se ne parla neppure. E poi togli la mano dal mio braccio."

Si è lamentata: "Perché tutti sono così crudeli con me? Anche tu, adesso."

"Non posso dimenticare che poco fa con questa stessa mano stringevi quella ’cosa’. Ma come hai potuto?"

"È stata Margherita. Mi ha convinto gradualmente. Poi un giorno mi ha fatto un ricatto."

"Ma quale ricatto."

"O tu fai la ’la cosa’ oppure ci separiamo."

"E allora? Quello era il momento buono per andartene."

"Mi è sembrato impossibile lasciarla. Le volevo bene, ho pensato che sarebbe stato una volta sola, così: un capriccio."

"Ma dov’è Margherita."

"Eccola lì."

Ho alzato gli occhi e allora ho visto Margherita. Ho subito pensato a quel tuo aggettivo così deciso: "orrenda"; poi l’ho guardata a lungo come per trovare in lei una conferma al tuo giudizio. Sì, Margherita era veramente "orrenda". Stava sotto il portico della villa, ritta a gambe larghe, le mani sui fianchi. Alta, corpulenta, in camicia a quadri, cintura dalla grande fibbia, pantaloni da polo bianchi, stivali neri, non so perché, forse per il suo atteggiamento arrogante, mi ha ricordato il padre di Diana come l’avevamo visto quella volta in campagna, nel suo cascinale. L’ho guardata in viso. Sotto la massa rotonda dei capelli bruni e crespi, la fronte insolitamente bassa calava come un elmo su due piccoli occhi infossati e penetranti. Il minuscolo naso camuso, la bocca prominente ma dalle labbra sottili, facevano pensare al muso di certe grandi scimmie. Insomma, una gigantessa, un’atleta di lotta libera femminile, di quelle che, alla televisione, si vedono acciuffarsi per i capelli, vibrarsi dei calci in bocca, ballare coi piedi riuniti sullo stomaco dell’avversaria.

Ci ha lasciato venire quindi ha esclamato con una cordialità che mi è sembrata finta e premeditata: "Tu sei Ludovica, nevvero? Benvenuta in casa nostra, sento che diventeremo amiche, l’ho subito pensato appena ti ho vista, benvenuta, benvenuta." La voce era simile alla persona: apparentemente gioviale ma sotto sotto fredda e imperiosa. La voce di una direttrice di collegio, di una madre badessa, di una capo infermiera.

Naturalmente ci siamo abbracciate; e allora, con mio stupore, mi sono accorta che Margherita cercava di trasformare l’abbraccio dell’ospitalità in un bacio d’amore. Le sue labbra prominenti hanno strisciato, umide e tenaci, dalla guancia alla bocca; ho stornato per quanto potevo il viso ma lei mi stringeva saldamente tra le sue braccia poderose e così non ho potuto evitare che la punta della sua lingua penetrasse per un attimo nell’angolo della mia bocca. Sfacciata, compiaciuta, si è poi tirata indietro e ha chiesto: "Si può sapere dove eravate? Nella stalla, naturalmente! Diana ti ha mostrato la sua passione, quel pony biondo? Bello, no? Ma venite dentro, è pronto, è pronto!"

Siamo entrate nella casa. Eccoci in un soggiorno convenzionalmente rustico, con travi nere al soffitto, pareti imbiancate a calce, camino di pietra serena, mobili massicci e scuri ma non antichi. Una di quelle tavole lunghe e strette chiamate refettorio, appariva imbandita ad una delle estremità, con le posate per tre persone. Insomma tu vedi il quadro. Non sto adesso a riferirti i nostri discorsi durante il pranzo; in realtà era soltanto Margherita a parlare, rivolgendosi soltanto a me e come escludendo Diana dalla conversazione. Di che parlava Margherita? Come si dice, del più e del meno, cioè di cose insignificanti; ma intanto non cessava un solo momento di farmi capire i sentimenti invero stupefacenti per subitaneità e imprevedibilità, che da qualche minuto sembrava nutrire per me. Mi fissava con quei suoi piccoli occhi sprofondati, brillanti e come infiammati da non capivo che bestiale concupiscenza; sotto la tavola, i suoi due enormi polpacci mi stringevano la gamba in una morsa; è arrivata al punto di stendere la mano grassoccia e con la scusa di guardare all’amuleto che porto appeso al collo, accarezzarmi il seno esclamando: "Com’è bella la nostra Ludovica, no, Diana?" Quest’ultima non le ha risposto; torceva la grossa bocca in una smorfia come di dolorosa perplessità; ha stornato gli occhi da me, li ha rivolti verso il camino. Margherita allora le ha detto brutalmente: "Di’ un po’, ho parlato a te, perché non rispondi?" "Non ho nulla da dire." "Troia, di’ anche tu che Ludovica è bella." Diana mi ha guardato e ha ripetuto meccanicamente: "Sì, Ludovica è bella." Intanto, durante questa scena imbarazzante, cercavo di liberare la mia gamba dai polpacci di Margherita; ma non ci sono riuscita. Era proprio come avere messo il piede in una trappola; quella stessa trappola "infame" di cui Diana aveva parlato nella stalla.

Abbiamo mangiato un buonissimo prosciutto con melone, delle bistecche alla brace, un dolce. Dopo il dolce, Margherita ha fatto quelló che fanno gli speaker alla fine dei banchetti: ha battuto tre volte con la forchetta sul tavolo. L’abbiamo guardata, stupite. Lei allora ha detto: "Debbo annunziare qualche cosa di importante. L’annunzio adesso perché c’è Ludovica e così lei potrà testimoniare che ho parlato sul serio. Dunque, con decorrenza da oggi, ho messo in vendita questa casa."

Invece di Margherita, ho guardato Diana per la quale, ovviamente, era stato fatto l’annunzio. Storceva più che mai la bocca; poi ha chiesto: "Come sarebbe a dire: vendere la casa?"

"Ho incaricato un’agenzia. Da domani apparirà un annunzio in un giornale di Roma. Venderò tutta la proprietà, compresi i terreni che circondano la casa. Ma non venderò i cavalli, quelli no."

Diana ha chiesto un po’ meccanicamente: "Te li porti via in un’altra casa?"

Margherita è stata zitta un momento come per sottolineare l’importanza di quello che stava per dire; quindi ha spiegato: "La mia nuova abitazione sarà un appartamento a Milano: per quanto grande non vedo come ci potrei far stare sette cavalli. D’altra parte, li amo troppo e non mi basta l’animo di saperli in mano altrui. Potrei lasciarli liberi, allo stato brado, purtroppo questo non è possibile. Allora, li ucciderò. Dopo tutto, sono una mia proprietà, posso fame quello che voglio."

"Li uccideresti in che modo?"

"Nel modo più umano: con la pistola."

C’è stato un lunghissimo silenzio. Approfitto di questo silenzio, carissima, per dirti quello che ho subito pensato delle dichiarazioni di Margherita. Ho pensato che erano false e infondate, nel senso che costituivano una specie di gioco tra Margherita e Diana. Margherita non aveva alcuna intenzione di vendere la casa e tanto meno di uccidere i cavalli; dal canto suo Diana non credeva che l’amica facesse sul serio. Ma Margherita per qualche suo motivo aveva bisogno di minacciare Diana; e Diana per lo stesso motivo aveva bisogno di mostrare che credeva alle minacce. Così, non sono stata troppo sorpresa quando Margherita ha proseguito: "Ieri mattina, Diana mi ha fatto sapere che aveva intenzione di tornarsene dal padre. È per questo che ho deciso di vendere la casa e di uccidere i cavalli. Ma se Diana cambia idea, molto probabilmente non ne farò più nulla."

Era un invito esplicito a Diana a decidersi. L’ho guardata, debbo confessare, con qualche ansietà: benché mi fosse chiaro come ho già detto, che era tutta una schermaglia, tuttavia non potevo fare a meno di sperare che Diana trovasse la forza di liberarsi di Margherita. Ahimè, questa speranza è stata subito delusa. Ho visto Diana abbassare gli occhi; poi ha pronunziato: "Ma io non voglio che i cavalli muoiano."

"Non vuoi, eh," Margherita pareva adesso divertirsi, "non lo vuoi ma in realtà decidendo di andar via, lo vuoi."

Non so perché, forse per stupidità, ho voluto intervenire in questo loro gioco: "Scusami, Margherita, ma non è esatto: tutto dipende non da Diana ma da te. Almeno per quanto riguarda i cavalli."

Curiosamente, Margherita non si è offesa. Ha preso le mie parole come l’accettazione da parte mia di un altro gioco, quello che lei tentava di imbastire tra me e lei. Ha detto ambiguamente: "Allora diciamo, cara Ludovica, che tutto dipende da te."

"Da me?"

"Se sei disposta a prendere, sia pure provvisoriamente, il posto di Diana, io non vendo la casa, non uccido i cavalli. Ma dovresti dirlo adesso. Se accetti, potresti andare oggi stesso a Roma per prendere la tua roba e Diana ne approfitterebbe per andarsene di qui."

Debbo aver fatto un volto quasi spaventato, perché lei quasi subito si è corretta: "Intendiamoci: sto scherzando. Ma il mio invito vale comunque, mi sei simpatica, vorrei che tu venissi a stare qui, con Diana o senza Diana. Allora Diana, ancora non mi hai risposto..."

Debbo dirti a questo punto che, mentre Diana non pareva avere creduto più che tanto alla minaccia di uccidere i cavalli, adesso la minaccia di venire sostituita da me, sembrava farle un effetto indubitabile. Mi guardava con quei suoi enormi occhi azzurri dilatati da non si capiva che improvviso sospetto. Poi ha detto con decisione: "Affinchè i cavalli non muoiano, sono disposta a fare qualsiasi cosa."

"Non qualsiasi cosa. ’La cosa’."

Ora, carissima, a questo punto avrei dovuto intervenire con energia per strappare Diana dalle grinfie dell’"orrenda" Margherita. Ma nonostante la mia promessa, non l’ho fatto. E questo per due motivi: prima di tutto, perché, dopo l’invito per niente scherzoso di Margherita, temevo, intervenendo, di non potere salvare Diana che al prezzo davvero troppo alto, di accettare di sostituirla; in secondo luogo perché in quel momento odiavo più Diana della stessa Margherita. Sì, Margherita era un mostro definitivo e irrimediabile; ma Diana era peggio appunto perché era meglio: una persona infida, debole, sorniona, vile. Tu dirai che su questo giudizio, forse inconsciamente, influiva il ricordo della mia disgraziata esperienza al collegio. Può darsi. Ma l’odio è un sentimento complicato, fatto appunto di elementi eterogenei; non si odia mai per un motivo solo.

Così non ho fiatato. Ho visto Diana guardare a Margherita con espressione timida e soggiogata; poi ha risposto, in un soffio: "Va bene."

"Va bene che cosa?"

"Farò quello che vorrai."

"Oggi stesso?"

"Sì."

"Subito?"

Diana ha protestato con complice malagrazia: "Mi lascerai almeno digerire il pranzo."

"D’accordo, andiamo tutte e tre a riposare. Tu Diana vai in camera, io ti raggiungo subito. Intanto accompagno Ludovica alla sua stanza."

"Posso accompagnarla io. Dopo tutto, sono io che l’ho fatta venire qui."

"La padrona di casa sono io, l’accompagno io."

"Vorrei parlare a Ludovica."

"Ci parlerai dopo."

Questo battibecco si è risolto in maniera prevedibile: Diana, mogia e perplessa, se ne è andata dal soggiorno in direzione di una porta che dava probabilmente in altra parte della casa a pianterreno; Margherita ed io siamo invece salite insieme al secondo piano. Margherita mi ha preceduto per un corridoio, ha aperto una porta, siamo entrate in una cameretta a mansarda, col soffitto inclinato ed una finestra. Mi sentivo già a disagio a causa dell’insistenza di Margherita a volermi mostrare la camera; il disagio è cresciuto quando l’ho vista dare un giro alla chiave della porta. Ho subito obiettato: "Perché, che fai?"

Margherita non si è affatto scomposta: "Perché quella troia è capacissima di venire a seccarci all’improvviso."

Non ho detto nulla. Margherita si è avvicinata e con gesto leggero e disinvolto mi ha passato il braccio intorno la vita. Eccoci tutte e due, quasi abbracciate in piedi, sotto il soffitto basso della mansarda. Margherita ha proseguito: "È gelosa, ma, per una volta, non ha torto di esserlo. Lei mi ha tanto parlato di te. Mi ha raccontato tutto: il collegio, tu che vai a trovarla di notte, lei che finge di dormire. Mi ero fatta una certa idea di te, naturalmente favorevole. Ma tu sei cento volte meglio di come ti immaginavo. E soprattutto cento volte meglio di quella troia di Diana."

Per interrompere questa sua pesante dichiarazione d’amore ho obbiettato: "Ma perché la chiami troia, anche poco fa a tavola l’hai chiamata così."

"Perché lo è. Fa i capricci, fa la sdegnosa e poi finisce sempre per dire di sì. E non lasciarti ingannare dai suoi sentimentalismi: non pensa che a una cosa, tu capisci quale, tutto il resto non conta per lei. Per esempio i cavalli. Credi davvero che se domani li uccidessi, lei ne proverebbe quel grande dolore che dice? Mai più. Siccome però eri presente, ha voluto mostrarti che ha un animo sensibile. Troia, ecco quello che è. Ma io sono stufa di lei. Allora cosa decidi?"

Mi sono sinceramente meravigliata: "Ma che dici?"

"Accetti di venire a stare qui da me, diciamo per un paio di mesi, tanto per cominciare?"

Ho obbiettato per guadagnare tempo: "Ma c’è Diana."

"Diana facciamo in modo di mandarla via. Tu devi prendere il suo posto." È stata zitta un momento quindi ha soggiunto: "Ho parlato poco fa di uccidere i cavalli. Per deciderla a partire, basterà che le ammazzi il pony." "

Ho esclamato: "Poco fa minacciavi di uccidere il pony per impedire a Diana di lasciarti. Adesso minacci di ucciderlo per farla andare via! "

"Poco fa non volevo che Diana se ne andasse e sapevo che la minaccia bastava a farla restare. Ma per farla andar via, ci vuole invece l’esecuzione della minaccia. Se le ammazzo il pony, se ne va."

Mi stava addosso, si è chinata, mi ha baciata sul collo e poi sulla spalla. Ho cercato di liberarmi del suo braccio, senza, però, riuscirci; ho detto mio malgrado: "Che cosa vuoi da me?"

"Quello che Diana non può darmi, non mi darà mai: un amore vero."

Ti assicuro che in quel momento Margherita mi ha fatto quasi paura. Un conto è sentirsi dire certe cose da te; e un conto da una gigantessa con gli occhi porcini e il muso scimmiesco. Ho obbiettato, fiaccamente: "Io già amo un’ altra persona."

"Che importa? So tutto di te. Si chiama Nora, no? Portala qui; venite tutte e due a stare da me."

Intanto mi spingeva verso il letto, e con una mano mi tirava su, sgraziatamente, la gonna sul davanti. Ora tu sai che spesso, specie d’estate, non porto nulla di sotto. Eccola risalire con la mano tra le gambe, aggranfiarmi il pelo del pube con tutte e cinque le dita e tirarmelo con forza proprio come farebbe un uomo brutale e libidinoso. Ho dato in un grido di dolore; mi sono liberata con una spinta. Nello stesso momento è stato bussato alla porta. Con occhi scintillanti di eccitazione, Margherita mi ha fatto un cenno violento con la mano, come per ingiungermi di non aprire. A guisa di risposta, sono andata alla porta e ho aperto. Diana stava sulla soglia, ci ha guardato ambedue in silenzio, prima di parlare. Poi ha detto: "Margherita, io sono pronta."

Margherita per un momento, non ha saputo che dire: ancora ansimava, appariva turbata. Finalmente ha pronunziato con sforzo: "Non hai dormito?"

Diana ha scosso il capo: "Ero qui tutto il tempo."

Ho chiesto sorpresa: "Dove qui?"

Ha risposto con voce bassa, senza guardarmi: "Qui nel corridoio, seduta in terra, aspettando che aveste finito."

Ho provato, lo confesso, quasi dell’odio per lei, così vile e così volubile: al mio arrivo, mi aveva supplicata di portarla via; adesso si era accucciata dietro la porta, come un cane, in attesa che avessimo "finito". Margherita ha detto impetuosamente: "Va bene, andiamo." E quindi rivolta a me: "Allora siamo d’accordo! A trappoco."

Sono uscite e io mi sono gettata sul letto, per riposare davvero, dopo tante emozioni. Ma dopo alcuni minuti, mi sono levata di scatto e sono andata alla finestra: ero sicura che dovevo guardare a qualche cosa, non sapevo troppo bene a che cosa. Ho aspettato a lungo. Dalla finestra si aveva una vista sul prato che si stendeva dietro la villa. In fondo al prato si scorgeva una grande piscina dall’acqua azzurra circondata da un un’alta siepe di bosso tagliato. Il recinto di bosso si apriva a metà e rivelava, in prospettiva, al di là della piscina, una costruzione lunga e bassa, senza dubbio le cabine per spogliarsi e il bar per prendere l’aperitivo dopo il bagno. Guardavo alla piscina e mi dicevo che non era che un fondale come di teatro: presto qualche cosa sarebbe avvenuto. E infatti, di lì a poco, una piccola processione è sbucata dalla parte dove si trovava la stalla e ha attraversato il prato.

Prima veniva Diana, in topless, con lo slip e gli stivali rossi; tirava per la cavezza il pony. Questi la seguiva docilmente, piano, il muso ricoperto dai lunghi peli della criniera chinato in giù, come se riflettesse. Aveva una corona di fiori rossi intorno il collo, mi sono sembrate rose, di quelle semplici con una corolla sola di petali. Dietro il pony, reggendogli la lunga bionda coda con le due mani con la solennità con cui si regge lo strascico ad un sovrano, veniva Margherita.

Le ho viste andare dritte al passaggio tra le due alte siepi di bosso, scomparire; quindi riapparire dietro la siepe di destra spuntandone però con le sole teste. Il pony, troppo basso non si vedeva affatto.

Allora c’è stata come un’alternanza di azione e di contemplazione. A tutta prima, Diana ha fatto il gesto di chinarsi verso il luogo dove si trovava il pony; la sua testa è scomparsa; la testa di Margherita è rimasta invece visibile: guardava, si sarebbe detto, a qualche cosa che stava avvenendo là, sotto i suoi occhi. È passato forse un minuto; quindi, inopinatamente, il pony, come aveva già fatto nella stalla, si è impennato apparendo d’improvviso al disopra della siepe con la testa e le zampe anteriori. È ricaduto quasi subito in avanti scomparendo di nuovo; sono passati altri interminabili minuti, quindi la testa di Diana è riapparsa al di sopra della siepe; e, a sua volta la testa di Margherita è scomparsa. Adesso era Diana che contemplava qualche cosa che succedeva sotto i suoi occhi; il pony non si è più impennato. Poi Margherita è emersa a sua volta; ora le teste delle due donne erano entrambe visibili, l’una di fronte all’altra. Forse Margherita ha parlato comandando qualche cosa; ho visto distintamente Diana scuotere il capo in segno di rifiuto. Margherita ha steso un braccio e ha premuto la mano sulla testa di Diana, come si fa qualche volta al mare per spingere per scherzo qualcuno sott’acqua. Ma Diana non ha ceduto. C’è stato un momento di immobilità, poi Margherita, con una mano sola, ha schiaffeggiato Diana due volte, una per guancia. Allora ho visto la testa di Diana prendere ad abbassarsi lentamente, scomparire di nuovo. A questo punto mi sono ritirata dalla finestra.

Senza fretta, poiché sapevo che le due donne erano impegnate nella "cosa", sono uscita dalla camera, sono discesa a pianterreno, sono sbucata nel giardino. Con gioia ho ritrovato la mia macchina ferma davanti alla porta. Sono salita; dopo un minuto già filavo per la strada in direzione di Roma.

Adesso mi domanderai perché insomma ti ho raccontato tutta questa storia piuttosto sinistra. Io ti rispondo: per pentimento. Lo confesso, nel momento che Margherita mi stava addosso su nella mansarda ho avuto come una tentazione di cederle. L’avrei fatto proprio perché lei mi ripugnava, proprio perché la trovavo, come tu dici, "orrenda", proprio perché mi chiedeva di prendere il posto di Diana. Ma il ricordo di te per fortuna non mi ha abbandonata. Quando Diana ha bussato, tutto era già finito, avevo già sormontato la tentazione e non pensavo che a te e a tutto ciò di buono e di bello che tu rappresenti nella mia vita.

Scrivimi presto.

La tua Ludovica