AL DIO IGNOTO

Durante quell’inverno, mi incontravo spesso con Marta, un’infermiera che avevo conosciuto alcuni mesi prima nell’ospedale in cui ero stato ricoverato a causa di certe misteriose febbri contratte probabilmente in Africa durante un mio viaggio ai tropici in qualità di inviato speciale.

Piccola, minuta, con una grossa testa di folti capelli bruno-rossi crespi e fini, divisi da una riga nel mezzo, Marta aveva una faccia tonda di bambina. Ma una bambina, si sarebbe detto, resa pallida e sciupata come da una precoce maturità. Nell’espressione assorta e preoccupata dei grandi occhi oscuri, nel tremito che spesso le sfiorava gli angoli della bocca, l’idea dell’infanzia si mischiava curiosamente con quella della sofferenza o, addirittura, del martirio. Ultimo particolare: aveva una voce un po’ rauca, parlava con accento rozzo, dialettale.

Ma Marta non mi avrebbe ispirato una curiosità in qualche modo sentimentale se, durante la mia malattia, non avesse tenuto con me un contegno a dir poco insolito sul piano professionale. In parole povere, Marta, mi accarezzava ogni volta che mi rifaceva il letto o mi metteva a posto le coperte o aveva a che fare con il mio corpo per le necessità naturali. Erano carezze fuggitive e brevissime, sempre all’inguine, come rubate al segreto che le rendeva furtive e frettolose. Ma erano pure carezze in qualche modo impersonali, cioè si sentiva che non riguardavano me ma quella parte precisa del mio corpo e nessun’altra. Non avevo mai ricevuto neppure un bacio da Marta; e avevo saputo tutto il tempo che quella cosa l’avrebbe fatta con qualsiasi altro malato, posto che ne avesse avuto l’occasione.

Tutto questo, però, era piuttosto misterioso. Così è stato più per curiosità che per il desiderio di riallacciare il rapporto che, una volta uscito dalla clinica, ho telefonato a Marta chiedendole un appuntamento. Lei me l’ha subito fissato ma con questa riserva singolare: "Va bene, ci vedremo ma unicamente perché tu mi sembri diverso dagli altri, mi ispiri fiducia." Sembravano, queste parole, patetici luoghi comuni per salvare la dignità; invece, come mi sono accorto dopo, erano la verità.

L’appuntamento era in un caffè fornito di una cosiddetta sala interna, nel quartiere stesso dove Marta abitava. Era stata lei ad indicarmelo con questa frase di cui non avevo afferrato il vero senso: "La sala interna è sempre vuota, così staremo soli." Lo confesso, ho avuto l’impressione che nell’ombra e nel deserto della sala interna, Marta avrebbe forse ripreso le sue strane incursioni sul mio corpo come alla clinica. Ma appena mi sono seduto di fronte a lei, in un angolo in ombra, ho subito cambiato idea. Stava con la testa tirata indietro contro la parete e mi guardava con diffidenza mentre le andavo spiegando che mi faceva molto piacere vederla: la sua presenza alla clinica, mi aveva aiutato a sormontare un momento difficile della mia vita. Finalmente ha scosso il capo e ha detto con durezza: "Se sei venuto qui per ricominciare come alla clinica, dimmelo subito così non perdo il mio tempo e me ne vado."

Non ho potuto fare a meno di esclamare quasi con ingenuità: "Ma perché alla clinica sì e qui no?"

Mi ha guardato a lungo prima di rispondere. Poi ha detto in tono schifiltoso: "Ti comporti come tutti gli altri, purtroppo. Eppure c’è in te qualche cosa che mi ispira fiducia. Perché qui no e alla clinica sì? Perché qui mi manca l’atmosfera della clinica. Qui mi sembrerebbe di fare una cosa sporca."

"Ma in che cosa consiste l’atmosfera della clinica?"

Ha risposto con una leggera impazienza: "L’atmosfera della clinica, come si fa a dirlo? I medici, le suore, l’odore dei disinfettanti, i mobili di metallo, il silenzio, l’idea della malattia, della guarigione, della morte. Ma senza andare troppo lontano, il fatto che il malato sta a letto ed è avvolto nelle coperte che impediscono di fare certe cose se non attraverso il lenzuolo, questo fatto crea appunto l’atmosfera della clinica."

"Il lenzuolo? Non capisco." "

"Eppure dovresti ricordare che quelle carezze che ti hanno fatto tanta impressione, io non te le ho mai fatte sul corpo nudo, ma sempre attraverso il lenzuolo."

Adesso pareva a suo agio e parlava con completa libertà del nostro rapporto. Ho detto, chissà perché: "Il lenzuolo di solito serve anche da sudario per i cadaveri."

"Non per me. Il lenzuolo per me è la clinica."

"E cioè?"

"È ciò che mi ricorda che sono un’infermiera, che sono lì per fare il bene del malato e che non debbo andare oltre certi limiti, quelli appunto del lenzuolo. Invece qui, in questa saletta di caffè..."

"Ma sei tu che me l’hai indicata."

"Sì, perché è vicina a casa mia. Qui tu vorresti magari che ti accarezzassi attraverso l’apertura dei tuoi pantaloni, delle tue mutande. Che orrore! "

Ho detto, spinto da non sapevo quale curiosità sperimentale: "Devi scusarmi. Il fatto si è che sono un po’ innamorato di te. Vediamo; vuoi venire uno di questi giorni a casa mia: mi metterò a letto, fingerò di essere malato, sarò avvolto nel lenzuolo."

"Sarà casa tua, non sarà la clinica."

Ho insistito per vedere cosa avrebbe risposto: "Se vuoi, dirò che ho bisogno di analisi, mi farò ricoverare di nuovo. A patto, però, che ogni tanto, anche un solo momento, vieni a trovarmi in camera."

"Sei matto? Ci terresti dunque tanto?"

"Te l’ho già detto: sono un po’ innamorato di te. O meglio del tuo vizio."

Ha ribattuto subito con vivacità: "Ma io non sono una viziosa! mi piace sfiorare il sesso del malato attraverso il lenzuolo per un motivo che non ha nulla di vizioso."

"E quale?"

"Come faccio a spiegartelo? Diciamo: come per assicurarmi con la mano che, nonostante la malattia, la vita è pur sempre lì, presente, pronta..."

"Pronta a che cosa?"

Ha detto come parlando da sola: "Non ci crederai. Ma la mia carezza è come una domanda. E appena sento la risposta cioè sento che la carezza fa l’effetto che mi aspettavo, non insisto. Non ho mai prolungato la carezza fino a fare eiaculare il malato. Dov’è il vizio in tutto questo?"

Giravo col pensiero intorno quello che lei mi andava dicendo come intorno qualche cosa di oscuro e di indecifrabile ma della cui realtà non era lecito dubitare. Ho detto finalmente: "Dunque il quadro è questo e non può essere che questo: la suora, da una parte, con la sua croce sul petto; il medico dall’altra con il suo termometro; e, nel mezzo, avvolto nel lenzuolo, il malato al quale, di nascosto sfiori, tocchi, accarezzi un istante il sesso. Non è questo il quadro?"

"Sì, il quadro, come lo chiami, è questo."

"E quello... sfioramento ti basta?"

"Evidentemente, visto che non ho mai fatto alcuno."

Dopo questi e altri discorsi simili, ci siamo lasciati come si dice "da buoni amici", con la mutua promessa di incontrarci ancora. Che è infatti avvenuto più volte, sempre in quello stesso caffè. Adesso non mi spiegava più perché faceva quello che faceva; preferiva raccontarmi delle storie in cui pur sempre avvenivano più o meno le stesse cose: si vedeva che le faceva piacere di parlarne, non tanto per vanteria quanto, forse, per arrivare a capire meglio lei stessa, perché si comportava in questo modo. Ecco per esempio una di queste storie: "Ieri sono andata a mettere la padella sotto il sedere di un malato grave. Un uomo di mezza età, un commerciante o bottegaio, brutto, calvo, baffuto con una faccia dall’espressione meschina e volgare. Ha una moglie del genere bigotto, che se ne sta ai piedi del letto e non fa che biascicare preghiere sgranando lesta lesta un rosario. Gli ho sollevato le coperte, gli ho infilato la padella sotto le magre natiche, ho aspettato che avesse defecato, ho ritirato la padella, sono andata a vuotarla e a pulirla nel bagno e poi sono tornata per rimettergli a posto il letto. Era sera e la moglie al solito pregava seduta ai piedi del letto. Gli ho rimesso a posto il letto; ma al momento di tirargli le coperte sul lenzuolo, con rapido gesto gli ho dato una strizzata non tanto violenta ma larga, che comprendesse l’insieme dei genitali e gli ho detto sottovoce: ’Vedrà che presto guarirà.’ Lui ha risposto in maniera allusiva e maliziosa, da quell’uomo volgare che era: ’Se me lo dice lei, guarirò di certo’; quindi se l’è presa con la moglie che pregava, gridandole che smettesse, che con tutte quelle sue preghiere, gli portava iettatura.

"Poi è guarito davvero? "

"No, è morto stanotte."

"Ma come hai potuto farlo ad un uomo così: malatissimo, per giunta volgare, meschino, ripugnante."

"Là dove ho messo la mano, non era nulla di tutto questo, te lo assicuro. Avrebbe potuto essere il più bel giovane della terra.

Un’altra volta è arrivata con la faccia turbata. Mi ha detto subito: "Stanotte ho avuto una gran paura.

"Perché?"

"C’è un malato che mi è molto simpatico. È un uomo giovane, avrà trent’anni, da tutta la sua persona emana una vitalità rozza e semplice come di contadino. Ha la faccia larga e solida, gli occhi aperti e sorridenti, il naso ricurvo, la bocca sensuale. È un atleta, campione di non so quale sport. È stato operato di recente, soffre molto, anche se non si lamenta e non lo dice. È il malato più tranquillo di tutti, mai una parola: sta fermo e guarda alla televisione, ha il video sempre acceso davanti al letto, alla parete, e cambia continuamente di canale. Stanotte, saranno state le tre, mi chiama e lo trovo, al solito con la televisione accesa, nel buio della stanza. Gli vado accanto, mi mormora con la voce spenta, sai, di quelli che hanno qualche forte dolore e non ce la fanno a parlare: ’Per piacere, vorrei che lei mi stringesse la mano così mi sembrerà di avere accanto a me mia madre o mia sorella e questo mi farà soffrire di meno. ’ Non dico nulla, gli tendo la mano e lui me la stringe forte: soffriva davvero molto, almeno a giudicare da quella stretta convulsa. Così, con la mano nella mano, siamo stati zitti e immobili guardando alla televisione in cui si vedevano i personaggi di non so quale film di gangster. Sono passati alcuni minuti; ogni tanto lo sentivo stringermi le dita più forte, come per sottolineare l’insorgere di un dolore più acuto; ad un tratto, non so da dove, immagino dall’impulso di alleviare in qualche modo la sua sofferenza, ho detto a bassa voce: ’Forse per aiutarla a vincere il dolore, un contatto più intimo sarebbe preferibile.’ Ha ripetuto: ’Più intimo?’ in una maniera strana, come interrogando se stesso. E io gli ho confermato sottovoce: ’Sì, più intimo.’ Non ha detto nulla; io ho liberato la mia mano dalla sua, l’ho introdotta tra le coperte e il lenzuolo, sono andata a posarla a piatto sul suo sesso. Era conformato anche lì come in tutto il corpo; la palma della mia mano ha compresso un rigonfio simile a quello che può fare un mazzo di fiori freschi avvolti nel cellophane. Ho sussurrato: ’Non è meglio così?’ e lui, dal buio ha risposto di sì. Sempre in silenzio, pur guardando al video vibrante di luce, ho impresso alla palma un lento movimento rotatorio ma non pesante e insistito, anzi leggero e delicato, e allora lo sai che impressione ho avuto? che sotto il lenzuolo ci fosse come un groviglio di polpi appena pescati, vivi, e che si muovevano ancora tutti intrisi e viscidi di acqua marina."

Non ho potuto fare a meno di esclamare: "Che strana sensazione!"

"Era un sentimento di vitalità e di purezza. Che c’è di più puro è di più vitale di un animale vivo appena uscito dalla profondità del mare? Non so se rendo l’idea. Questa impressione era così forte che non ho potuto fare a meno di sussurrargli ancora: ’È bello, no?’ Non ha detto nulla, mi lasciava fare. Così siamo andati avanti ancora per un poco..."

"Scusa, ma non sarebbe stato meglio, più bello e più sincero, tirar via francamente il lenzuolo e..."

Ha detto ostinata: "No, non volevo assolutamente sollevare il lenzuolo. Vedi: tirare via il lenzuolo sarebbe stato come tradire la clinica e tutto quello che significa per me la clinica."

"Ho capito. E cosa è successo: ha eiaculato?"

"No, assolutamente. Siamo andati avanti ancora, diciamo un paio di minuti e poi ecco, lui prende a ripetere: ’Muoio, muoio, muoio’, e io spaventata ritiro in fretta la mano ed esco a chiamare gente. Vengono la suora, il medico di notte, altre suore, altri medici; gli tolgono le coperte, aveva la gamba sinistra gonfia, grande il doppio della destra e come violacea: un attacco di flebite. Tutti erano molto spaventati, anche perché lui diceva di avere il piede freddo e insensibile; ma sai che cosa? Naturalmente ero anch’io spaventata e mi dicevo che era colpa mia ma non senza quasi un po’ di vanità perché pensavo che il sangue che adesso non gli circolava più, era affluito tutto quanto lì dove gli avevo appoggiato la palma."

"E poi come è andata?"

"Bene, la flebite è sotto controllo. Stamane sono entrata nella camera, lui mi ha guardato e mi ha sorriso e così con quel sorriso mi ha anche liberato dal rimorso." "

Un’altra volta mi ha raccontato una storia in qualche modo comica, sia pure dalla comicità sempre un po’ macabra che è propria delle storie d’ospedale. Mi ha detto: "Mi succede una cosa infinitamente noiosa."

"Quale?"

"Un malato vuole assolutamente che io diventi sua moglie e mi ricatta: o mi sposi o faccio uno scandalo." "

"E chi è?"

"Un uomo orribile, un bruto, proprietario di un ristorante in qualche posto del sud. Aveva una gamba con un ascesso al ginocchio, pareva moribondo, gli hanno tagliato la gamba, è rifiorito in due giorni, proprio come certi alberi dopo che sono stati potati, adesso ha la faccia rossa e tutta tesa che pare lì lì per scoppiare dalla salute. Ho commesso l’errore, approfittando di un momento in cui gli riordinavo il letto in fondo al quale, ormai, non spuntava che un solo piede, di stendere la mano là dove il lenzuolo si sollevava sopra un rigonfio davvero enorme. È stato più forte di me, non ho resistito alla tentazione, non avevo mai visto un rigonfio così. Adesso immagina quello che ho sentito: due testicoli grossi e duri come quelli dei tori da monta e una specie di tubo molle o serpente addormentato. Lui pareva sonnecchiare; ma si è subito svegliato e mi ha mormorato: ’Fa pure, stanno lì per te’, o qualche altra volgarità del genere che avrebbe dovuto disgustarmi definitivamente. Invece, come ti ho detto, era più forte di me, ci sono ricascata, ogni tanto lo sfioravo appena appena attraverso il lenzuolo soltanto per accertarmi che tutto quanto era pur sempre lì, per risentire il meraviglioso volume dei testicoli e la straordinaria grossezza del pene. Stranamente, lui adesso non diceva più nulla: evidentemente meditava la sua proposta di matrimonio. E infatti un giorno mi dichiara che mi vuole sposare: mi dice che è ricco, che mi tratterà come una regina, che non mi farà mai mancare nulla. Figurati io, sposata! E a un tipo simile! "

"Ma un giorno dovrai pure sposarti."

Mi ha guardato e poi ha risposto con profonda convinzione: "Io non mi sposerò mai."

"Eppure sei una donna giovane e hai bisogno dell’amore."

"Oh, quello lo faccio da me, da sola. Non ho bisogno di sposarmi. Stringo le cosce e me le sfrego l’una contro l’altra ed ecco bell’e fatto l’amore."

Avrei voluto farle una domanda che mi pareva indiscreta. Ho arrischiato: "Ma sei... vergine?"

"Sì, e lo sarò sempre. Soltanto l’idea dell’amore come lo intende il proprietario del ristorante mi fa orrore. E invece lui, figurati, è proprio alla mia verginità che tiene."

"E come te la caverai? "

Un sorriso malizioso ha increspato il suo volto pallido e sciupato di bambina maltrattata: "Gli ho detto di precedermi al paesello, lo seguirò appena sarà possibile, gli ho giurato che ci sposeremo. Una volta che ha lasciato la clinica: marameo!"

"E intanto continuerai a toccarlo, a sfiorarlo?"

"Sì, te l’ho detto, è più forte di me. Ma non vedo alcuna relazione tra lui e i suoi genitali. Lui è, come dire? il depositario di qualche cosa che non è suo, un po’ come un soldato a cui è stata affidata un’arma per combattere. Ma l’arma non è sua."

"E di chi è?"

"Non lo so. Qualche volta penso che appartenga ad un dio ignoto diverso però da quello che le suore portano appeso al collo."

"Un dio ignoto?" Sorpreso, non ho potuto fare a meno di raccontarle il passo degli Atti degli Apostoli nei quali si parla della visita di San Paolo ad Atene e del tempio misterioso dedicato al dio ignoto. Mi ha ascoltato senza mostrare molto interesse e ha detto seccamente: "In tutti i casi questo dio ignoto lo sento soltanto in clinica. Nei tram gli uomini che mi si strusciano addosso, mi fanno schifo."

Ho detto: "Se ti innamorassi, tutto questo cambierebbe."

"Perché?"

"Perché butteresti via il lenzuolo e vedresti in faccia il dio ignoto."

Mi ha guardato e poi ha risposto enigmaticamente: "Dio si nasconde. Chi l’ha mai visto? Non sono una miracolata, io."

Misteriosamente, dopo quest’ultimo incontro, non l’ho più vista per molto tempo. Mi aveva detto che mi avrebbe telefonato e non l’ha fatto. Poi, ecco, una mattina si è rifatta viva e mi ha dato un appuntamento nel solito caffè. Mi aspettava seduta in ombra; mi è sembrato che avesse un’espressione al tempo stesso stravolta e molto calma: una strana combinazione di umori. Mi ha detto subito: "Ho ucciso un uomo."

"Ma che dici."

"Proprio così: ho ucciso l’uomo che amavo." "

"Tu amavi un uomo?"

"Mi avevi detto che avrei dovuto innamorarmi per guardare in faccia il dio che si nascondeva sotto il lenzuolo. Ebbene, è avvenuto, mi sono innamorata di un ragazzo di vent’anni malato di cuore. Anche con lui è cominciato con gli sfioramenti, come con gli altri e poi è avvenuto un fatto strano: d’improvviso, forse perché lui era un intellettuale come te, per cui mi sentivo continuamente capita e giudicata, ho visto per la prima volta quegli sfioramenti come qualche cosa di vizioso. E allora ho deciso di tirare via il lenzuolo."

Ho esclamato un po’ ironico: "Che cos’è? Una metafora? Parli per simboli?"

Mi ha guardato, offesa: "Il lenzuolo non era soltanto il simbolo della clinica; era anche un ostacolo materiale. Dimmi tu come si fa ad amare un uomo se c’è di mezzo il lenzuolo. Così una notte, con il video della televisione che vibrava più che mai di luce intensa nel buio della camera, poiché lui mi prendeva in giro con la sua voce sottile e maliziosa e mi diceva che non avrei mai avuto il coraggio, mi è venuta non so che furia. È stato per me, te lo giuro, come fare un gran salto nel vuoto, nel buio; come strappare via il velo dalla faccia di quel dio di cui tu mi hai parlato. Ad un tratto gli ho tirato via le coperte, mi sono gettata sul suo corpo nudo. Tutto è successo in pochi minuti nel chiarore incerto del video, in quel silenzio profondo della notte di ospedale. Sentivo mentre chinavo il viso sul suo ventre che davo un addio definitivo alla clinica e a tutto ciò che la clinica aveva rappresentato per me in passato. Poi un’enorme bolla di seme mi ha riempito la bocca, mi sono staccata da lui, sono corsa via al bagno per sputare ogni cosa. Ma non ho avuto il coraggio di tornare nella sua camera; sono andata in camera mia e ho dormito fino all’alba. Sono stata svegliata dalla suora che mi scuoteva e mi domandava che cosa avevo fatto, perché ero andata a dormire, dal momento che ero di veglia. Ho risposto che mi ero sentita male. La suora forse non mi ha creduto, forse ha intuito qualche cosa. Ha detto improvvisamente che il ragazzo malato di cuore era stato trovato morto. Ha soggiunto: "Aveva le coperte rovesciate fino alle ginocchia; si direbbe che abbia tentato di scendere dal letto."

Sono rimasto zitto un momento; ero vagamente inorridito e non sapevo cosa dire. Ho obbiettato alla fine: "Potrebbe anche darsi che sia morto non per colpa tua."

Ha scosso il capo: "No, sono stata io, ne sono sicura. Appena ho cessato di essere l’infermiera che sa dove deve fermarsi per non far male al malato e sono stata la donna che non pone limiti al proprio amore, l’ho ucciso."

È stata zitta un momento quindi mi ha informato: "Ho dato le dimissioni, adesso lavoro in un istituto di bellezza, almeno qui non ci sono che donne."

Quindi ha concluso filosoficamente: "Ero una brava, e coscienziosa infermiera e una viziosa. Sono diventata una donna sana e normale e un’assassina."