IL PROPRIETARIO DELL’APPARTAMENTO

I preparativi sono finiti. Ho trasformato il divano del soggiorno in letto; ci dormirò io. Lui (o lei) dormirà nel mio letto. Ho comprato un po’ di scatolame, qualche chilo di pasta, una certa quantità di formaggi e di salumi per il caso che lui (o lei) non voglia o non possa uscire di casa. Infine ho sgombrato dei miei vestiti l’armadio a muro che dovrebbe servire a lui (o a lei) per riporci il materiale, diciamo così in dotazione. Adesso non mi resta che aspettare: lui (o lei), stando alla telefonata di ieri, dovrebbe arrivare al massimo tra un’ora.

Ma bisogna intendersi sulle parole. "Prima" avevano un senso, diciamo pure, normale; "adesso", hanno un senso che chiamerò "organizzativo". Per esempio, nel mio caso, il verbo aspettare, in senso organizzativo, non vuole dire attendere qualcuno o qualche cosa; vuol dire stare nel luogo che mi è stato assegnato e non muovermi per nessuna ragione. Insomma, se è vero come credo che sia vero, che in ogni attesa c’è in gioco un elemento personale, questa non è un’attesa. Così si verifica questa strana contraddizione: mentre aspetto che avvenga qualche cosa di preciso in un avvenire utopistico, nella mia esistenza immediata e quotidiana di uomo comune, non so davvero cosa aspetto e forse, a ben guardare, non aspetto nulla. A meno che non mi decida a trasformare il mezzo in fine; cioè a fare di me stesso che non sono che un mezzo, il fine di tutto quanto. Ma allora, come farei a credere al fine ultimo, il solo soddisfacente anche se oltremodo remoto?

Del resto, anche il termine di "uomo comune" da quando faccio parte dell’Organizzazione, ha acquistato per me un senso diverso. "Prima" ero convinto, quasi con una punta di compiacimento, di essere davvero nient’altro che un uomo simile a tanti altri. "Adesso" so di certo che, proprio al fatto che sono un uomo comune debbo il ruolo piuttosto insolito che sono stato chiamato a svolgere. Così "uomo comune" nel mio caso, sta a significare un uomo comune che finge di essere un uomo comune per fare qualche cosa di non comune: piuttosto complicato, no?

Ma pur non aspettando nulla, debbo lo stesso far passare il tempo e purtroppo non posso farlo passare che nel modo di "prima", per esempio come quando aspettavo una donna. È questo un genere di attesa che un uomo come me, di mezza età, non proprio brutto, con un discreto stipendio, che vive solo in un appartamento di due stanze e servizi, conosce bene. È l’attesa per eccellenza, per antonomasia, quella che, anche se a livello quotidiano, le riassume tutte, anche quelle più sublimi e utopistiche. Naturalmente, dato che l’Organizzazione svuota le parole della loro polpa e non lascia che la buccia, io non tanto vivrò l’attesa dell’arrivo di una donna quanto la reciterò, cioè farò come se aspettassi davvero il momento tra tutti privilegiato, che separa il desiderio dalla sua soddisfazione.

Per prima cosa vado alla finestra, spalanco i vetri e mi metto in piedi di fronte al davanzale. Abito al secondo piano, un luogo ideale per osservare senza essere osservato e tanto meno coinvolto. È la sera ormai, dopo una giornata di pioggia primaverile che ha lasciato l’asfalto bagnato e l’aria fumosa e umida. Dalla mia finestra, lo sguardo mi va direttamente all’altro lato della strada, ad un casamento molto simile al mio, con file e file di finestre tutte eguali che si sovrappongono fino al cielo e tanti negozi a pianterreno, a destra e a sinistra del portone. Poi, dal casamento, il mio sguardo retrocede alle macchine parcheggiate a spina di pesce lungo il marciapiede e da questo ai grandi platani già rivestiti del minuto fogliame della primavera, che vi stanno piantati a intervalli regolari. Più in qua, c’è l’asfalto sul quale vanno e vengono incessantemente, in direzioni opposte, due file di automobili.

Infine vedo un marciapiede in tutto simile a quello della parte opposta della strada, con i platani e le macchine parcheggiate a spina di pesce. Sola differenza: il chiosco dei giornali. Quanto alla facciata della mia casa e ai negozi che vi stanno allineati a pianterreno, ovviamente non li vedo ma li "sento" cioè so che ci sono e che sono in tutto simili alla facciata e ai negozi di fronte. Eh già, tutto ciò che è comune e normale non si immagina, si "sente".

Ora come guardo a questo paesaggio urbano, mi accorgo che è cambiato. Un tempo mi pareva di farne parte io stesso; non soltanto me ne rendevo conto ma anche me ne compiacevo. Ogni tanto, soprattutto verso sera, dopo una giornata passata a tavolino, mi alzavo, andavo alla finestra, spalancavo i vetri e accendevo con voluttà una sigaretta, guardando alla strada. In realtà non tanto osservavo tutte quelle cose note e già mille volte osservate quanto assaporavo l’affetto riconoscente che esse mi ispiravano: era come ritrovare delle presenze affettuose e cordiali che mi aiutavano a vivere. Del resto che c’era di strano? Ero un uomo comune che abitava in un quartiere dei più comuni e faceva vita di quartiere; era giusto oltre che inevitabile che mi compiacessi allorché aprivo la finestra e guardavo di fuori.

Ma adesso non è così. Me ne rendo conto dal fatto che invece di accendere la sigaretta, mi affaccio al davanzale quasi con imbarazzo, senza sapere che fare, e provo subito, al primo sguardo, la sensazione di essere escluso dalla realtà che mi si offre alla vista. Sì, non mi riconosco più nella strada, come in uno specchio appannato in cui è impossibile riflettersi. Quello che ero rassomigliava alla strada; quello che sono ha solo bisogno della strada. Insomma la strada dopo essere stata per tanto tempo il luogo dove vivevo, adesso è diventata il luogo dove fingo di vivere.

D’improvviso, mentre faccio queste riflessioni, ecco, i fanali si accendono tutti insieme e il viale passa d’improvviso dall’ombra confusa della sera alla visibilità ingannevole della notte, illuminata dalle luci della città. Allora, ecco, in quel preciso momento, venuta da chissà dove, una donna si stacca dal marciapiede di fronte e mi viene incontro. È giovane, forse giovanissima, grande, maestosa, come circonfusa da un alone di bellezza. È vestita di una lunga maglia a strisce orizzontali; porta blue-jeans che, all’inguine, tanto sono attillati, le fanno una quantità di pieghe sottili tutt’intorno il pube così che mi viene fatto di pensare ad un sole che saetta i suoi raggi al disopra dell’orizzonte. Cammina con la graziosa goffaggine delle donne che sono agili soltanto se sono nude, col seno in fuori e i fianchi tirati indietro: Ha il collo tondo e forte, il volto grave, lievemente rigonfio alle guance e più stretto alle tempie, con gli zigomi alti e gli occhi grandi e limpidi. Dove ho visto quel volto? Forse nella riproduzione di una figura muliebre di Piero della Francesca che tengo appesa nella camera da letto.

Questa donna così bella, si sveste del buio della notte avanzando eretta tra le automobili del parcheggio, gli occhi rivolti in su, verso di me. È lei, non c’è dubbio, è la persona che mi invia l’Organizzazione; è lei e io sono l’uomo più fortunato della terra. Adesso è giunta sotto il mio palazzo, tra un momento scomparirà dalla mia vista. Non resisto, alzo il braccio, le faccio con la mano un gesto espressivo che vuol dire: "vieni su, abito al secondo piano". Mi vede, annuisce subito con un cenno del capo, scompare. Col cuore in tumulto, mi ritiro dalla finestra, corro nell’ingresso, metto l’occhio allo spioncino.

È il gesto che ho fatto tante volte, in passato, quando mi accadeva di aspettare una ragazza. Non sono un uomo che ha avuto molte avventure; so di certo che anche in questo campo la mia esperienza è normale cioè poca e limitata. Tutti hanno fatto tutto, ecco la verità. Ma una volta tanto, ho l’impressione che mi stia avvenendo qualche cosa di raro, di unico: la persona che l’Organizzazione mi invia è anche la donna che amerò, anzi che amo già. Questo pensiero mi rende felice, come un giocatore che, fin dalla prima puntata, abbia centrato la vincita massima.

Guardare per lo spioncino mi ha sempre fatto uno strano effetto. Si vedono le cose in una prospettiva remota mentre, in realtà, ci stanno addosso, proprio sotto il naso. Forse perché sembrano così lontane le persone hanno un’aria meditativa, funebre, irreale: sembrano figure di sogno o anche fantasmi di defunti; mi ispirano un senso di colpa come se stessero lì, in calmo agguato, per rimproverarmi chissà quale mio mancamento. Anche questa volta provo le due sensazioni congiunte del sogno e della colpa. Vedo il mio piccolo pianerottolo trasformato in un lunghissimo corridoio, in fondo al quale spunta l’invito della scala da cui tra poco emergerà la figura della donna dalla maglia a strisce. L’invito sembra lontano un milione di anni luce; ma nello stesso tempo so che quando aprirò la porta, lei mi cascherà addirittura tra le braccia, tanto mi sarà vicina.

Il pianerottolo resta vuoto un tempo infinito; forse la donna sta indugiando a guardare alle targhe delle porte, cercandovi il mio nome. Poi, ecco, la sua testa spunta laggiù, in fondo, venendo su dalla scala.

Subito mi accorgo che deve esserci qualche cosa che non va. È molto più magra della donna che ho visto in strada. Il collo non è forte e tondo; bensì sottile e nervoso. La faccia non ha l’espressione di gravità angelica delle donne di Piero della Francesca; è una faccia triangolare, volpina, dall’espressione inebetita. I capelli le pendono lungo le guance smunte lisci e come bagnati; la maglia non si erge sul petto ma molto più in giù, come se il seno le fosse scivolato verso la vita. Si avvicina, e allora scopro che non guarda alle targhe cercando il mio nome come farebbe una dell’Organizzazione; e infatti dopo avere esitato un momento, ecco, si avvia su per la scala, verso il terzo piano. Allora apro, mi affaccio e dico: "Ehi tu, dove vai?"

Subito si ferma, si volta. Ha uno sfogo rosso tra la narice e l’angolo della bocca; abbozza un sorriso: "Non sapevo dove trovarti. Mi hai fatto un segno e poi sei scomparso."

Ha una brutta voce che riesce ad essere insieme rauca e stridula. Ridiscende verso il mio pianerottolo; tra un momento mi entrerà in casa; di colpo richiudo la porta. Lei esclama subito, con tono sgradevole: "Ehi, che ti prende?"

Dico attraverso la porta: "Scusami, ti avevo preso per un’ altra."

Dice con umiltà: "Avrei dovuto pensarlo: mi succede sempre così, mi scambiano per un’altra. Beh, almeno mi dai qualche cosa?"

"Che cosa vuoi?" "

"Dammi cinquemila lire, per mangiare."

Non so perché; ricordo ad un tratto che pochi giorni or sono ho trovato nell’androne del mio palazzo una siringa, di quelle da buttare appena dopo averla usata. Senza dubbio qualcuno, troppo impaziente per aspettare, si era fatto l’iniezione proprio lì, invece di farsela per strada. Dico con rabbia: "Mangiare eh! O invece drogarti?"

"Insomma me le dai le cinquemila lire?"

Estraggo il biglietto dal portafogli, lo faccio passare sotto la porta. Lei si china a prenderlo; e proprio in quel momento, ecco, dietro di lei, si profila pur sempre remota la figura di un uomo tozzo e basso, con la faccia molto bianca e la barba molto nera e due occhi tondi come due castagne sotto la fronte calva. Dalla mano gli pende una valigia piuttosto grande; lancia un’occhiata interrogativa alla ragazza. Questa mi volta le spalle, se ne va muovendo sgraziatamente i magri fianchi. Io apro la porta e lui entra.