ANCHE MIA FIGLIA SI CHIAMA GIULIA

Eccomi solo il giorno di Ferragosto, per una di quelle false fatalità che comunemente vanno sotto il nome di fulmini a ciel sereno. Avremmo dovuto partire, Giulia ed io, per un luogo balneare nei pressi di Roma. All’ultimo momento apprendo che non saremo soli, verrà anche un certo Tullio da cui, da ultimo, Giulia si fa accompagnare al cinema. Tullio, un amico, secondo Giulia, un puro e semplice amico, e sia pure; ma anche il giorno di Ferragosto! A queste mie rimostranze, lei mi ha risposto con il solito gergo psicanalitico: "Tu vorresti farmi credere che sei geloso; in realtà, nel tuo inconscio, desideri che io ti tradisca." Chissà perché, a queste parole, sono saltato su come una furia: "Ah, è così? Allora è meglio che non ci vediamo più." E lei, con calma sconcertante: "Anch’io penso che sia meglio." "Allora addio." "Addio."

Adesso mi domando perché ho rotto con Giulia. O meglio, perché non ho rotto prima. Insomma, perché ho tirato avanti un rapporto così sterile e così irritante per due lunghi anni. Me lo domando mentre sto disteso sul divano dello studio, nel silenzio della festa estiva. Ma me lo domando svogliatamente, pigramente. In realtà la sensazione di essere finalmente libero, dopo due anni di servitù sentimentale, invece di stimolarmi, di inebriarmi, agisce su di me come un sonnifero. Quasi che il fatto di essermi liberato di Giulia, mi dia il diritto di dormire invece di fornire le risposte a certe questioni. Sì, mi dico, parafrasando l’Amleto, "dormire, forse sognare" ma in tutti i casi sospendere per un poco il reale come si sospende una recita per un guasto dell’illuminazione.

Penso queste cose e, intanto, voluttuosamente, mi tolgo con i piedi le scarpe e le scaglio lontano; mi sbottono il colletto; mi allento il nodo della cravatta; mi sfibbio la cintura. Poi, dopo avere dato uno sguardo circolare ai miei cari libri così numerosi e così inutili come per ringraziarli di vegliare sul mio sonno di intellettuale liberato, mi addormento.

Dormo mica tanto, forse dieci minuti e dormo con la sensazione che rimpiango Giulia e che vorrei essere svegliato da lei. Poi, pur nel sonno, sento lo squillo del telefono, uno squillo forte e aggressivo, fa pensare ai telefoni che si sentono nei film. Penso tra me e me pur dormendo: "Lasciamola insistere; ad un certo punto si stuferà"; e so che sto pensando a Giulia. Ma il telefono non si stufa e allora balzo dal divano, stacco il ricevitore. Appena sento la voce di Giulia che domanda: "C’è il professore?" provo un sentimento di gioia mischiato, si capisce, di insofferenza. E rispondo: "Eccolo, il professore. Che altro c’è?"

"C’è che dobbiamo parlare."

Dico in tono di pazienza, come quando parlo ad un allievo ignorante: "Lo sai benissimo che in questi due anni tutto abbiamo fatto fuorché parlare. Tra di noi non c’è comunicazione, ormai avresti dovuto capirlo. Sarà una questione di generazione, o di cultura o che so io, ma mi avviene con te lo stesso che con mia figlia: non ci comprendiamo, siamo due perfetti stranieri. E allora perché continuare?"

"No, questa volta dobbiamo parlare sul serio, per capirci, per cessare di essere stranieri."

"Ma parlare di che?"

Sta un momento zitta, poi dice con qualche esitazione: "Lo so che tu pensi che mi esprimo in, come lo chiami?"

"Psicanalese."

"Sì, psicanalese. Ma bisogna pure che parliamo del nostro rapporto, cioè di noi due, ossia del fatto che mentre io so di certo che tu sei al tempo stesso mio padre e mio figlio; tu ti ostini a ignorare che io sono al tempo stesso tua figlia e tua madre."

"E questo lo chiami parlare?"

"E così, mentre io non domando di meglio che non cambiare nulla perché si può cambiare uomo ma non padre o figlio; tu, invece, vorresti cambiare tutto perché non ti rendi conto che si può cambiare donna, ma non madre e figlia."

"E questo lo chiami parlare?"

Tace un momento, quindi domanda con precauzione: "C’è qualcuno da te?"

"No, nessuno, perché?"

"Allora vengo su tra un momento."

"Aspetta, che vieni a fare? "

Ma la comunicazione è interrotta; guardo un momento al ricevitore; quindi torno a sdraiarmi sul divano. Ha detto che veniva tra un momento; che vuol dire un momento? Un’ora? Due? Dieci minuti? Venti? Naturalmente, sono al tempo stesso contento e scontento; sollevato e oppresso; desideroso e indifferente: questa è la normalità. Semmai, la frase di Giulia: "Dobbiamo parlare", desta nella mia memoria un’eco indubitabile quanto misteriosa. Chi ha detto: "dobbiamo parlare" nel mio più recente passato? Qualcuno, senza dubbio, che intendeva la frase non già nel senso psicanalitico e prefabbricato che le dà Giulia, ma letteralmente. E infatti, insieme con la frase, l’eco mi tramanda il tono con il quale la frase è stata pronunziata, doloroso, disperato. Parlare, cioè spiegarci, comprenderci. Ma chi l’ha detto?

Un nuovo squillo interrompe queste riflessioni. Penso che è Giulia; questa volta mi dico che la informerò con la massima fermezza che non voglio, assolutamente, "parlare". Stacco il ricevitore, domando con violenza: "Ma si può sapere chi è?"

Una voce sommessa, inarticolata, pronunzia: "Sono Giulia"; e io, allora, subito grido: "Senti Giulia, ci ho ripensato, è meglio che non ci vediamo, tra noi tutto è veramente finito."

Naturalmente, con la solita vigliaccheria, dopo questa frase così drastica, non butto giù il telefono; aspetto la risposta. La voce dice, allora: "No, sono Giulia, tua figlia. Non riconosci più la mia voce?"

Per un attimo guardo al ricevitore come si guarda alle mani di un illusionista durante una seduta magica. L’omonimia delle due Giulie pare proprio un trucco malizioso e inspiegabile. Dico alla fine, ancora trasportato dalla mia decisione di rompere con l’ "altra" Giulia: "Ah sei tu! E cosa vuoi da me?"

La voce di mia figlia non ha il tono provocante e didattico dell’altra Giulia; è affettuosa, filiale, ma con una punta di convenzione, di volontarismo: "Ma come, papà, sono due anni che non ci vediamo e mi accogli in questo modo! Quando sono andata via di casa, non facevi che ripetermi: ’Noi due, dobbiamo parlare’. Ebbene, papà, sono venuta per parlare. Ti dispiace?"

"No, ma aspettavo qualcuno."

"Una donna che si chiama Giulia, come me! Ah, papà, papà!"

"Che c’è di strano, Giulia è un nome molto comune."

"Una Giulia che non puoi sopportare, che non vuoi più. vedere. Ebbene, invece di lei, vengo io; e così ti do anche una buona scusa per mandarla via; le dirai: ho qui mia figlia, non posso riceverti."

"Ma ormai sta per arrivare."

"Sarò da te prima di lei. Sono qua sotto, nel bar della piazza."

"Sei sola?"

"Si capisce. Allora salgo."

Mi sento, ad un tratto, così angosciato che non riesco ad abbottonarmi il colletto, a riannodare la cravatta. Così ero stato io, proprio io, il padre che aveva detto alla figlia diciottenne che voleva andare via di casa: "Noi due dobbiamo parlare"; e lei gli aveva risposto, proterva e sprezzante, che non aveva alcuna curiosità di sapere quello che lui aveva da dirle. Ero stato io; e adesso non mi pareva più tanto casuale che, appena un mese dopo la fuga di mia figlia, io avessi incontrato l’altra Giulia, anch’essa diciottenne e anch’essa in fuga.

Getto via la cravatta, vado alla finestra, mi affaccio e guardo alla piazza, quattro piani più giù. È una piccola piazza della Roma barocca, con i suoi palazzi, la sua trattoria, il suo bar, i suoi negozi chiusi per il Ferragosto. Di lassù, si vede il selciato deserto, di solito nascosto dalle macchine in parcheggio. Una sola macchina sta in un angolo in ombra; mia figlia sbuca ad un tratto dal bar e cammina in diagonale attraverso la piazza, dirigendosi verso la macchina, alla quale sta appoggiato in piedi il solito individuo giovane, debitamente barbuto e chiomato. Mia figlia gli parla, l’uomo le risponde. Allora mi ritiro dalla finestra e, per uno stretto corridoio foderato di libri, vado nell’ingresso, giusto in tempo per sentire, giù al pianterreno, l’ascensore che prende a salire da un piano all’altro.

Chi suonerà alla mia porta, adesso? Giulia oppure Giulia? Giulia, diciamo così, la mia ragazza che aveva detto: "Sarò da te tra un momento"; oppure Giulia, mia figlia, che aveva detto: "Sono nella piazza, salgo". Quale delle due arriverà per prima? E, intanto, io chi desidero vedere apparire sulla soglia?

Ecco il rumore dell’ascensore che si ferma al piano; qualcuno ne scende, chiude le porte, dà un colpo di campanello corto e reticente.

Vado ad aprire con il desiderio strano che sia una terza donna, magari mia moglie dalla quale vivo separato da molti anni; oppure una terza Giulia, che non sia mia figlia e al tempo stesso non si consideri mia figlia. Che non abbia un giovanotto barbuto ad aspettarla di sotto; né un certo Tullio ad accompagnarla al cinema.

Mi faccio coraggio e apro. È Giulia, la ragazza Giulia, come, in fondo, speravo. Piccola, con la testa grossa e la persona minuta, gli occhi enormi e la bocca capricciosa, e quell’indefinibile grazia che hanno qualche volta le donne di modesta statura.

Dico automaticamente: "Aspettavo mia figlia."

"Chi? Giulia? L’ho vista or ora giù nella piazza che confabulava con un tizio. Beh, le dirai che hai da fare, che torni domani. Sta’ tranquillo, ha bisogno di te, tornerà."

Mi precede nel corridoio ancheggiando lievemente, come compiaciuta della propria grazia. Soggiunge: "E poi quante figlie vuoi avere? Non ti basto io?"