C’ERA UN CANESTRO SUL LUNGOTEVERE

Da anni, a monte del mio palazzo, il Lungotevere corroso dal fiume, è crollato. Allora hanno messo delle transenne, hanno vietato il traffico e hanno incominciato dei lavori di stabilizzazione che durano ancora. Così, il Lungotevere è diventato un luogo tranquillo in cui si avventurano soltanto le macchine di coloro che ci abitano. I ragazzi vi si esercitano con i pattini; gli innamorati vi fanno all’amore senza ritegno; le mamme vi portano a spasso i bambini. Certo non è stato il crollo della banchina del Tevere ad aprirmi gli occhi sul fatto che ormai sono davvero nient’altro che quel pensionato che sono; ma, in qualche modo, la chiusura della strada al traffico acquista per me un valore simbolico. Sì, anche la mia vita ormai è chiusa al traffico; sì, per continuare la metafora, in questo luogo sono al riparo degli incidenti; ma al tempo stesso so di certo che non mi succederà mai più nulla di nuovo.

Naturalmente, proprio la mancanza di novità mi spinge ad attribuire valore di novità alle cose più insignificanti. Passo ore alla finestra a guardare. Che cosa guardo? Qualsiasi cosa che sia anche leggermente diversa dalle cose che vi succedono abitualmente. Un cane che corre e abbaia; due amanti che si sbaciucchiano appoggiati al parapetto; un gruppo di ragazzi che esaminano insieme una motocicletta; un podista che corre, in tuta blu, stringendo i pugni contro il petto. In mancanza di meglio, osservo il cambiamento di colore delle foglie dei platani. La natura, quella sì, non sta mai ferma, è sempre nuova. Le foglie dei grandi platani che si allineano a perdita d’occhio sul Lungotevere mutano, si può dire, ogni giorno di colore e di forma. Gemme chiare, di un verde quasi livido in primavera, diventano foglie verdi scure e grandi come mani dalle dita aperte, d’estate; si arrossano d’autunno; infine, accartocciate e gialle cadono a terra all’inizio dell’inverno. Ma ogni colore e ogni grandezza ha sfumature, fasi numerose. Eh, sì, anche una foglia di platano può essere sempre nuova, a saperla guardare.

Oggi, per la prima volta, dopo molto tempo, mi sembra che succeda qualche cosa di veramente nuovo. Bisognerà sapere che al di là del parapetto la sponda del Tevere è folta di alberi che inchinano i rami verso la corrente. Purtroppo, a causa della bassezza del parapetto, il sottobosco è diventato un luogo di scarico per tutti coloro che vogliono disfarsi di ogni specie di rifiuti, soprattutto di quelli più ingombranti. Arrivano coi tricicli, con le camionette, con le macchine, scendono, buttano al di là del parapetto, ripartono. Così il sottobosco biancheggia, tra il verde scuro dei rovi, di mucchi di immondizie dai quali emergono oggetti più grossi e non ancora del tutto disfatti: poltrone sfondate, frigoriferi arrugginiti, materassi sventrati, seggiole senza gambe e altre simili carcasse. Lungo il parapetto, soprattutto nei giorni di scirocco, non si respira dal puzzo. Qualche volta, dalla mia finestra di pensionato che non ha nulla da fare se non guardare, appunto, dalla finestra, ho gridato: "Maiali!" Ho ricevuto come risposta un gesto di scherno o, magari, la solita intimazione: "Vecchio, pensa ai fatti tuoi."

Oggi, però, la novità che, in fondo, in maniera inconscia, aspetto da tanto tempo, ad un tratto accade. Una piccola automobile del tipo giardinetta, verde e marrone. entra nel Lungotevere e va a fermarsi presso le transenne che lo sbarrano, davanti al parapetto. Ne scende una ragazza bionda, in blue-jeans e maglione rosso. La guardo con attenzione, è bassa, un po’ tozza, ben piantata, con un petto molto prominente, un petto da balia come penso subito, chissà perché. Porta appeso al braccio un grande canestro di vimini intrecciati di quelli di cui si servono le massaie nei mercati di provincia. La vedo avvicinarsi al parapetto, scavalcarlo con disinvoltura; nell’atto dello scavalcamento, noto che ha cosce massicce, potenti. Eccola adesso camminare con precauzione, al di là del parapetto, pettoruta e tarchiata, la testa dai capelli biondi tagliati alla paggio chinata in avanti, a sorvegliare il terreno sparso di rifiuti e folto di rovi.

Prendo un binocolo che tengo sempre a portata di mano e lo punto in direzione della ragazza. La vedo percorrere, dietro il parapetto, una cinquantina di metri; quindi, ad un tratto, fermarsi davanti a due monticelli di immondizie. Su uno di questi monticelli, sta posata una poltrona con le gambe per aria; sull’altro, non c’è nulla. La ragazza getta uno sguardo intorno: in quel momento il Lungotevere è del tutto deserto essendo l’ora della siesta, di primo pomeriggio; soltanto un uomo con un cane al guinzaglio cammina sul marciapiede, ma le volta le spalle. Allora la ragazza si decide e posa, rapida, il canestro sul monticello vuoto. Quindi scavalca agilmente il parapetto, fa una corsa fino alla giardinetta. Dopo pochissimo, il tempo di accendere il motore e ingranare la marcia, la macchina compie un giro a "U", passa sul Lungotevere, scompare.

Ho seguito col binocolo tutti i movimenti della ragazza; l’ultima cosa che ho visto di lei è stato, nel momento che scavalcava il parapetto, il dorso nudo messo allo scoperto dal maglione tirato su. Adesso punto di nuovo il binocolo verso il monticello dei rifiuti. Il canestro è pur sempre là, in cima al mucchio. Mi alzo in fretta, infilo un giaccone da marinaio e mi calco sul capo un basco, due cose con le quali mi illudo di apparire giovane, grido dall’ingresso alla domestica che vado a passeggiare, quindi esco di casa.

Mentre l’ascensore mi porta giù, nella mia mente si precisa il sospetto che vi è affiorato allorché ho notato il curioso procedere della ragazza dal petto di balia. In quel canestro, ne sono sicuro, c’è un neonato. La ragazza se ne è disfatta portandolo in un luogo di scarico dei rifiuti dove tuttavia non potrà, ben presto, non essere notato. Insomma ha abbandonato il cosiddetto frutto della colpa su un immondezzaio, un po’ come un tempo si faceva sugli scalini delle chiese. Ma questo pensiero ne comporta un secondo: cosa dovrò fare, se il sospetto si troverà confermato?

Strano a dirsi non mi viene fatto di pensare che potrei affidare il bambino a qualche istituzione: la prima e sola idea che mi affiora alla mente è che quel bambino è stato messo là per me e che, alla mia età avanzata, dovrò accoglierlo in casa, allevarlo. A questo punto, però, non vorrei essere frainteso. Sono vedovo, ho tre figli, due maschi e una femmina, tutti e tre sposati, anche se, almeno per ora, senza figli. Voglio dire con questo che so benissimo cosa vuol dire avere una famiglia. Vuol dire, appunto, avere dei figli. Quanto dura una-famiglia? Se i figli sono del genere, diciamo così, contestatore, non più di quindici anni; se sono, invece, del genere, diciamo così, tradizionale, anche venti, venticinque anni. I miei erano della seconda specie; ma egualmente se ne sono andati. Dunque, prendendo in casa questo bambino, in qualche modo mi rifarei una famiglia, cioè prolungherei la vita famigliare per altri quindici, vent’anni. Il bambino crescerebbe, diventerebbe un adolescente, un uomo. Che uomo diventerebbe? È presto detto: uno dei tanti. Un uomo come tutti gli altri.

Sul Lungotevere mi fermo un momento come per orientarmi, mentre, invece, so benissimo dove sono diretto. Quindi con le mani affondate nelle tasche del giaccone da marinaio e il basco calato sugli occhi, affronto con passo rapido e baldanzoso la strada. Ahimè, giunto al parapetto, vorrei fare come la ragazza che l’ha scavalcato or ora senza quasi appoggiarsi, con il suo canestro appeso al braccio; ma la mia gamba non ce la fa, urto il ginocchio e mi faccio male. Poi prendo a camminare zoppicando e fregandomi il ginocchio sul terreno ineguale, pieno di cartacce, di barattoli e di stracci. C’è un odore acuto di decomposizione; tanto forte che mi tolgo dalla tasca il fazzoletto e ci tuffo il naso. Intanto, nella mia vecchia testa, intronata da non so che ansietà, volteggiano, come pipistrelli, i soliti luoghi comuni: che idea abbandonare il figlio tra le immondizie; una volta questo genere di donne venivano chiamate madri snaturate; tuttavia non tutto il male viene per nuocere; da cosa nascerà cosa ecc. ecc.

Ecco il punto in cui la ragazza si è fermata; ecco i due monticelli di rifiuti, l’uno sormontato dalla poltrona dalle gambe per aria, l’altro dal canestro. Come sta bene quel canestro intatto e pulito, coi suoi vimini nitidamente intrecciati in cima al mucchio schifoso delle immondizie. Pare il simbolo di tutto ciò che è vivo nei confronti di tutto ciò che è morto. Eppure, forse proprio perché il canestro è così vivo, all’ultimo momento mi viene quasi paura di sollevare il coperchio e guardare a quello che là dentro c’è in serbo per me. Giro gli occhi intorno, verso il Lungotevere: adesso l’uomo col cane, finita la passeggiata, sta tornando indietro, presto l’avrò dall’altra parte del parapetto. Allora mi decido. Stendo la mano, sollevo il coperchio.

Quasi ho un moto di paura: dal canestro due enormi occhi azzurri mi fissano spalancati, stupefatti. Poi vedo il naso minimo e la bocca vezzosa tra due guance ridondanti e alfine capisco. È una bambola, una normalissima bambola. Quella ragazza non aveva certo più di diciotto anni. Abbandonando la bambola sul greto del fiume, evidentemente intendeva mettere in atto una specie di rito liberatorio di tipo iniziatico. Voleva liberarsi della fanciullezza, simboleggiata dalla bambola prediletta. La delicatezza con cui ha posato il canestro sulla cima del mucchio di immondizia stava a denotare un superstite, affettuoso attaccamento.

Mi calco il basco sulla testa, me ne vado, senza toccare la bambola. Che me ne faccio dei riti propiziatori di una sciocca ragazzina infatuata del proprio sviluppo interiore? Ecco di nuovo il parapetto da scavalcare. Questa volta prendo le mie precauzioni, punto le due mani sul parapetto, alzo la gamba, passo in tre tempi dall’altra parte, sul marciapiede. Adesso, ecco la strada. Fiero, dignitoso, l’attraverso senza fretta, le mani affondate nelle tasche del giaccone.

Ma nell’androne mi aspetta un’altra novità di questo pomeriggio di novità. Un cane mi viene incontro con la coda tra le gambe e guaisce in un modo molto espressivo. È un cane né piccolo né grande, dal pelo lungo e di vari colori: grigio, nero, bianco, marrone, rosso. Cerco nella memoria che colore sia questo colore fatto di tanti colori e alfine trovo: roano. Intanto il cane, pur sempre tenendo la coda tra le gambe, mi fa un po’ di feste, mi salta addosso, mi annusa. È chiaro: l’animale è mogio perché è stato abbandonato dal vecchio padrone; ma, al tempo stesso, è allegro perché il suo istinto gli dice che ha trovato un padrone nuovo. E infatti non si sbaglia. Gli dico: "Andiamo, su" con voce rassegnata; e lui subito mi segue nell’ascensore.

Naturalmente il cane, in casa, viene accolto molto bene. La cameriera gli trova intorno al collo un collare a cui è appesa una grande "C" di un metallo bianco che pare argento; e lì per li, lo battezza con il nome di Castagna. Il cane, a sentirsi chiamare Castagna in tono amichevole appare definitivamente rassicurato: agita la coda, mi segue nel mio studio.

Vado a sedermi sulla solita seggiola, presso la finestra; il binocolo è dove l’ho lasciato poco fa, sul davanzale. Il cane si acciambella ai miei piedi, socchiude gli occhi, come per dormire. Allora prendo il binocolo, lo punto verso il Lungotevere. Il canestro sta pur sempre lì, in cima al mucchio di immondizie, intatto, pulito, vivo.