Il carnevale! Che me ne faccio del carnevale! Il carnevale alla mia età, nella mia posizione! Mentre penso queste cose, al buio, tentando di prender sonno e non riuscendoci, un ricordo mi perseguita: quello della ragazzina che incontro tutte le mattine (lei va a scuola, io vado a prendere i giornali) e ha sempre un’aria afflitta, mortificata, spaurita. È una ragazzina molto comune, bionda, coi capelli lunghi e lisci, gli occhi di un azzurro slavato, il viso pallido e senza colori. Ebbene, oggi, dopo colazione, facendo la mia solita passeggiata igienica sulle Zattere, l’ho incontrata completamente trasformata non soltanto nell’aspetto fisico ma anche, per così dire, nel carattere e ho capito che questa trasformazione era dovuta esclusivamente al carnevale, cioè al fatto di essersi mascherata. Era travestita da Arlecchino, tutta a losanghe colorate, con le calze bianche e le scarpine nere. Come mi ha visto, mi ha rivolto subito un sorriso di riconoscimento candidamente provocante, mi ha lanciato addosso una nuvola di coriandoli quindi è scappata, con una risata soffocata, in un vicolo lì vicino. Ripenso più e più volte a quest’incontro domandandomi che cosa era successo perché quella ragazzina così triste e timida diventasse allegra e sfrontata; e concludo che il carnevale aveva "agito". Il volto afflitto che lei portava di solito in giro era in realtà una maschera; la maschera di Arlecchino era invece il suo vero volto.
Qualcuno mi accende la lampada sul comodino; vedo chinarsi verso di me una negra dalle labbra enormi, dagli occhi grandi come due uova al piatto: "Che fai, già a letto a quest’ora? Tutti scendono in strada, tutti si mascherano e tu invece te ne vai a letto alle dieci. Su alzati, vestiti. Ti ho comprato una maschera, guarda come è bella! Basta, io scappo, vado in piazza. Ci vediamo lì, ciao." È mia moglie, donna assai seria, direttrice di scuola, che viceversa si è mascherata da selvaggia o meglio, grazie al carnevale, ha scoperto di essere una selvaggia. Dico che sta bene, che ci vediamo in piazza; la negra scompare, in uno sgonnellamento di foglie di banano di plastica. Allora, sorgo a sedere sul letto, guardo alla maschera che mia moglie mi ha comprato e rimango di stucco: è la maschera del diavolo, con la bocca oscena rossa come il fuoco, la barba di caprone, le guance nere, la fronte aggrottata, le corna. Macchinalmente la prendo, me l’assesto sul viso, scendo giù dal letto, vado a guardarmi nello specchio.
Più tardi, esco di casa, premendomi con una mano la maschera sul viso e con l’altra palpando sotto il giubbotto il manico di un coltello che, chissà perché, sul punto di uscire, forse suggestionato dalla mia maschera, non ho potuto fare a meno di prendere in un cassetto della cucina. C’è un po’ di nebbia; nella notte risuona l’ululato di una sirena. Mi volto: laggiù in fondo, più alto delle case della lontana Giudecca, vedo trascorrere con tutti i lumi accesi, un enorme transatlantico bianco. Sono di cattivo umore; ho l’impressione che mia moglie mi abbia fatto una prepotenza sia costringendomi a mascherarmi sia comprandomi proprio quella maschera lì. Eppure, eppure, qualche cosa mi dice che, come per la ragazzina timida, il carnevale sta agendo, agirà.
Ecco il pontile sul Canal Grande. Arriva proprio in quel momento il vaporetto e vedo subito che è affollatissimo e che gran parte dei passeggeri sono mascherati. Il vaporetto attracca; sono l’ultimo a salire; mi trovo schiacciato contro il parapetto; dietro di me si affollano facce di tutti i generi, di pazzi, di cinesi, di contadini ebeti, di pellirosse, di vecchi ubriaconi e così via. Stringo con le due mani il parapetto, volto la mia faccia di diavolo verso il Canal Grande e faccio la solita riflessione che di notte questa nostra famosa via acquatica è veramente sinistra, con tutti i palazzi morti e spenti, con le acque tenebrose debolmente luccicanti di riflessi oleosi. Ma, ad un tratto, mi ricredo. Ecco un palazzo stretto e alto che non ricordo di avere mai notato, con tutte le finestre illuminate, nelle quali si stagliano i profili neri e irregolari di strani individui che secondo ogni apparenza, sono mascherati. Questi individui agitano le braccia, ridono, minacciano, si muovono. Il vaporetto scorre via; il palazzo scompare nel buio; rimango con l’impressione sconcertante di avere visto male, di avere avuto un’allucinazione.
Ma ecco un nuovo motivo di sconcerto. Qualcuno, una donna, si schiaccia contro di me, mi preme ora il seno contro le spalle ora il ventre contro i glutei. È vero, c’è una gran folla; ma la donna, su questo non ci può essere alcun dubbio, lo fa apposta. Naturalmente, il diavolo di cui porto sul volto le sembianze, a questo contatto che debbo pur chiamare intimo, si sveglia, formula pensieri di cui tacere è bello, organizza progetti pazzeschi, scatena speranze irreali. Cerco di fronteggiare la situazione, stringendomi più che posso contro il parapetto, concentrando la mia attenzione sulle tenebre familiari del Canal Grande. Senonché, una vocina dolce mi sussurra all’orecchio: "Brutto diavolo, perché mi tenti?" E allora, inviperito, mi volto di scatto.
È la morte o meglio una donna che, chissà perché, si è mascherata da morte. Si tratta probabilmente di una ragazza molto giovane come si può indovinare dalla parte non mascherata del suo corpo: fianchi stretti eppure rotondi, ventre leggermente rilevato, gambe alte e belle, il tutto chiuso in un paio di blue-jeans molto aderenti. Dalla vita in su, questa ragazza dal seno tenero e dal ventre muscoloso, è mascherata da morte. Con il freddo che fa, indossa una casacca di tela nera sulla quale, col gesso, è stata disegnata alla meglio la cassa toracica di uno scheletro, con le costole e lo sterno visibili. La casacca si ferma al collo che è bellissimo, tondo e robusto, un po’ svasato alla base, come quello di certe contadine di montagna. Questo collo sorregge un piccolo teschio digrignante, anch’esso disegnato col gesso su un fondo di cartone nero.
Ci credereste? Il diavolo non è affatto spaventato da questa apparizione funebre e giustamente, perché la morte e il diavolo, si sa, vanno sotto braccio; a muso duro, tutto arzillo ribatte: "Morte, che vuoi?" La vocina dolce afferma subito: "Sono la morte e voglio te." "Ah, ma davvero! Allora andiamo d’accordo perché io sono la vita e a mia volta voglio te." "Tu la vita? Ma non sei il diavolo?" "Ebbene, non lo sai che il diavolo è la vita?" "Io la vita me la immagino diversa." "E come te la immagini?" "Diversa. Magari con la faccia di un bel giovanottino."
"Storie, pensaci bene, mi darai ragione." "Ciao diavolo, ci vediamo in piazza, ciao ciao." Si stacca da me, si imbranca in un gruppo di maschere, discende al pontile di San Marco. Senza esitare, aggiustandomi la maschera sul viso e stringendo più che mai il coltello sotto il giubbotto, mi slancio dietro di lei.
Nella calle c’è una folla enorme, all’ottanta per cento mascherata. Mentre inseguo la morte che, essendo molto alta, sopravanza la folla con la testolina malferma e digrignante, il diavolo mi suggerisce tutto un programma che, per dovere, diciamo così, di ospitalità, debbo pure ascoltare. Dunque: "Tu segui la morte fin sotto la galleria di sinistra della piazza; ad un certo punto c’è un sottoportico: fai in modo di deviarla, falle passare il ponte, attirala nel cantiere di una casa in ricostruzione, poco più in là. Nel cantiere, in un angolo buio, sfoderi il tuo coltello e glielo punti contro la pancia facendole l’ingiunzione che sai. Poi il resto verrà da sé." Un programma magnifico, come si vede; con un solo piccolo inconveniente, però: che io non voglio assolutamente saperne. Dico: "Bello, bellissimo, ma non se ne parla neppure." E lui sardonico: "Non se ne parla neppure, eh! Ma intanto stai già facendo quello che voglio. Sennò perché adesso, per esempio, le passeresti la mano sotto il braccio dicendole: ’Bello, non è vero?’ "
Ha ragione, col pretesto della piazza San Marco trasfigurata dal carnevale, ho passato il braccio sotto il braccio della morte. Ma la piazza è davvero stupenda. Le facciate dei palazzi sono illuminate a giorno, con tutte quelle file di finestre che li fanno parere loggiati di teatro; la basilica risplende di ori con le cupole che sembrano tante tiare di fantastiche regine d’oriente; il campanile viene su, ritto e rosa, come un colossale fallo di mattoni. Nel rettangolo sterminato della piazza, una folla violenta ed allegra pare in preda ad una crisi epilettica collettiva. Tutti saltano, ballano, si rincorrono, si raggruppano, si spargono. Tutti gridano, cantano, chiamano, rispondono. In qualche luogo, deve esserci un tamburo turco, grande come una grandissima botte, se ne sente a intervalli il tonfo cupo e regolare. Al di sopra della folla, come fiocchi di neve portati via da un ciclone, volano note di musiche di ogni specie. Stringo il braccio alla morte e le sussurro: "Morte, che ne dici, non è meraviglioso?" "Dico che mi lasci il braccio, brutto diavolo." "Che ne diresti di andare laggiù, dalla parte della Merceria? C’è un piccolo cantiere dove potremmo appartarci benissimo lontano da questa folla." "Appartarci perché?" "Così, per far conoscenza, per parlare."
Non dice né sì né no, pare tentata e al tempo stesso spaventata: con la mano cerca di staccare la mia mano dal suo braccio, ma non ci mette molto impegno e rinunzia. Insisto: "Allora andiamo, vieni" e faccio per muovermi, quando avviene qualche cosa di imprevisto: un gruppo di maschere ci circonda ad un tratto, si prendono per mano, formano un cerchio, iniziano intorno a noi un frenetico girotondo. Pur girando vorticosamente, cantano non so che canzone sguaiata e mi vengono ogni tanto fin sotto il naso a tirarmi la lingua e a farmi gli sberleffi. Mi stringo contro la morte, ma lei mi respinge; quindi, in un momento in cui il girotondo rallenta, eccola rompere la catena delle mani, sgattaiolare fuori, scomparire tra la folla. Pazzo di rabbia, mi scaglio contro il girotondo ma ci vuole ancora un minuto prima che quei forsennati mi lascino passare.
Mi metto a correre avanzando a forza di spintoni; ad un tratto vedo la morte nella galleria, pare che si diriga proprio verso il luogo di cui le ho parlato. Tutto contento mi slancio, quindi mi fermo di botto: sotto la casacca nera scorgo due pantaloni da uomo; marroni, col risvolto. Allora torno indietro, ecco di nuovo la morte: è una donna ma non è lei, ha gli stivali. Nuova corsa tra la folla, la terza morte la vedo all’entrata della Merceria: è una nana: guarda che idea mascherarsi da morte essendo così bassa! Ma ecco la quarta morte sulla riva degli Schiavoni: è una morte ubriaca; vacilla e inciampa; sotto la casacca le spuntano dei pantaloni blu da marinaio. Poi la quinta morte mi appare mentre svolto intorno il Palazzo Ducale. È una morte bassa e corpulenta, che porta per mano un bambino, travestito, lui, da cow-boy del Far West.
Rinunzio, mi avvio sotto la galleria; ecco le porte del Florian. Toh, chi si vede, la ragazzina travestita da Arlecchino. Sta presso la porta, ritta in piedi; accanto a lei, c’è un’altra ragazzina mascherata da cavaliere settecentesco: tricorno, parrucca, vestito di velluto nero, calze bianche, scarpe lucide, Senza dubbio una sua amichetta. Mi fermo, le dico con voce cavernosa: "Arlecchino, lo sai che ti conosco?" E lei, candida: "Anch’io ti conosco." "E chi sono?" "Sei il signore che incontro ogni mattina andando a scuola." Rimango senza fiato: come ha fatto a riconoscermi sotto la maschera? Le getto una manciata di coriandoli, quindi attraverso la piazza, arrivo al sottoportico, passo il ponte, mi inoltro al buio dentro il cantiere. Ecco una botte di calce, per metà piena d’acqua. Ci getto la maschera e poi la guardo per un momento. La maschera galleggia sull’acqua: la luce di un lampione fa rosseggiare la bocca, accende un riflesso sulla lacca nera delle guance. Butto anche il coltello nell’acqua e me ne vado.