SENTO SEMPRE IN SOGNO UN PASSO SULLA SCALA

Come tanti, ho l’abitudine di dormire dopo pranzo. Poiché mangio e bevo molto, mi addormento facilmente. Dormo nel mio studio, una magnifica mansarda attraverso le cui vetrate si ha una vista sull’intera città. Appena mi sveglio, balzo dal divano, mi faccio un caffè molto forte, poi, senza perdere un minuto di tempo, mi metto al tavolino, di fronte alla macchina per scrivere. Sono di professione sceneggiatore; proprio in questo momento sto scrivendo i dialoghi per un film su un tema difficile: il terrorismo. Che rapporto c’è tra il tema del film e un sogno che da qualche tempo mi avviene di sognare? Non lo so, ma forse, raccontando il sogno, arriverò a capirlo. Dunque il sogno è il seguente: mi pare che qualcuno sale lentamente la scala di legno dai gradini molto sonori che porta alla mansarda. È un passo riflessivo, esitante, come appesantito da un’intenzione minacciosa. Il passo si ferma, riprende, si ferma di nuovo, riprende di nuovo, si ferma definitivamente dietro la porta. Poi, dopo una lunga pausa di silenzio, ecco, una mano bussa. A questo punto mi sveglio, vado alla porta, la spalanco, non trovo nessuno.

Ora pur mentre sogno, io so di certo che quella persona che sale la mia scala è il diavolo. Lo so finché dura il sogno, naturalmente. So pure, con assoluta sicurezza che cosa ci viene a fare il diavolo da me: a propormi il solito patto firmato col sangue: ti darò il successo ma tu in cambio devi vendermi l’anima. A questa proposta, decido in cuor mio di opporre un fermo rifiuto. Forse si deve proprio a questa decisione che a questo punto mi sveglio.

Che vuole dire questo sogno? Chiaro: il diavolo vuole la mia anima e in cambio mi offre il successo. Ma io non voglio il successo. Sono un uomo di poche ambizioni, desidero soltanto vivere il tran tran della vita quotidiana con una certa agiatezza, che peraltro, le sceneggiature mi assicurano largamente.

Uno di questi giorni, rifaccio il sogno. Ecco il passo esitante sugli scalini sonori; ecco la pausa per riprendere filato; ecco la mano che bussa. Questa volta, però, non mi sveglio come negli altri sogni; grido, invece, di entrare. Allora avviene una cosa singolare. Vedo la maniglia della porta prendere ad abbassarsi con una lentezza straordinaria, millimetro per millimetro. Una lentezza angosciosa che non so spiegare altrimenti che con l’intenzione, da parte dello sconosciuto visitatore, di farmi paura. Perché non apre francamente? Che vuole dire quella lentezza? Su quest’ultima domanda, ecco, mi desto e mi accorgo che è stato tutto un sogno. Tutto fuorché il fatto che qualcuno bussa effettivamente alla porta. Grido: "Avanti" e, allora, con un sentimento di raccapriccio vedo che là maniglia prende ad abbassarsi lentissimamente, proprio come nel sogno. Non posso fare a meno di pensare: "Ci siamo, questa volta è proprio lui, è proprio il diavolo." Non tanto stranamente, poiché sono uomo di poche, tradizionali letture, intanto che la maniglia si abbassa, cerco di immaginare che faccia avrà il diavolo. Ahimè, non riesco ad evocare che la solita maschera di Mefistofele, dalle sopracciglia inarcate, dal naso ricurvo, dalla barbetta a punta. Finalmente, ecco, la porta si apre e nella fessura si affaccia una testa di uomo giovane, con baffi spioventi e capelli lunghi. Diabolico non sembra; ma ieratico, sì, anche se alla maniera di tanti ragazzi di oggi che sotto apparenze ascetiche nascondono la solita smania di vivere. Dice con un vocione di basso: "Si può?" Gli rispondo che entri pure, soggiogato e affascinato dalla sua sicurezza. Entra, eccolo nel mezzo dello studio, con i suoi striminziti pantaloni blue-jeans e il suo giubbotto di cuoio. È proprio il solito capellone come se ne vedono a centinaia in certi quartieri della città. Due cose, però, mi colpiscono subito come inconsuete: una grande borsa di cuoio nero, a più scomparti, che porta ad armacollo; e una mano fasciata alla meglio con della garza insanguinata. La borsa pare piena colma di non so che; la fasciatura mi spiega la lentezza con la quale ha aperto la porta. Dice guardandosi intorno sospettoso: "C’è nessuno?"

"No, non ci sono che io."

Va alla tavola e si sbarazza della borsa. Spiega: "Qui dentro ho qualche cosa che bisogna nascondere, mi dirai tu dove. Aspetti qualcuno?"

"Non aspetto nessuno. In realtà non aspettavo neppure te."

Lo dico per fargli notare che la sua presenza mi pare inspiegabile. Ma lui prende sul serio le mie parole: "Eh lo so, ma sono stato a Milano; e poi a Napoli. Ad ogni modo sei pronto, no?"

Dico imbarazzato: "Pronto? Sì sono pronto."

"Già, perché adesso abbiamo proprio bisogno di te."

La frase mi incuriosisce. Chi sono quei "noi"? E perché hanno bisogno di me? Domando per guadagnare tempo: "Che cosa ti sei fatto alla mano?"

Lui indica il giornale che stamani ho letto e ho lasciato spiegato sulla poltrona, con un grande titolo nero in prima pagina. Dice: "Eh, è successo ieri sera, mi hanno ferito in quella sparatoria. Ma io, quello che mi ha ferito, l’ho fatto secco."

Non so che dire. Evidentemente, penso, quest’uomo che non ho mai visto, di cui non so se è un terrorista di destra o di sinistra oppure un rapinatore colto sul fatto, ha sbagliato porta, si sa, nel palazzo c’è molta gente, ci sarà anche il terrorista o il rapinatore di turno. Ma come fare per convincerlo che si sbaglia? Quella frase sinistra: "L’ho fatto secco", non mi permette di scoprirmi. Sarebbe anche capace, se ha sbagliato porta, di fare secco anche me con il solo scopo di eliminare un testimone. Domando con precauzione: "Come hai fatto a trovarmi? Hai detto al portiere che cercavi il signor Proietti?"

Non batte ciglio sentendo il mio nome. Dice: "Sono venuto su direttamente. Che bisogno avevo di domandare? C’ero venuto, ricordavo benissimo dove abitavi. Ma che dormì ancora?"

Chissà perché, dico: "Sì, dormivo, stavo facendo un certo sogno ricorrente, ho ancora questo sogno nella testa."

Inaspettatamente domanda: "Che sogno era?"

Glielo racconto e lui ha una breve risata che gli scopre i denti bianchi, da lupo: "Dimmi un po’, per caso avresti intenzione di tradirci?"

Casco sinceramente dalle nuvole: "Ma che dici?"

"Il diavolo potrebbe essere uno della polizia a cui hai già venduto o stai per vendere l’anima. Ma sta’ attento: qui dentro ci ho un balocco con tre palle: una per lui, una per te e una per me."

Proprio questa banalità da romanzo di appendice mi spaventa. Protesto: "Ma che sei matto?"

Lui continua, imperterrito: "Ad ogni modo con te il diavolo sbaglia perché questa tua anima tu l’hai già venduta a noi e non puoi venderla due volte." Mi si gela il sangue. Dunque l’anima l’ho già venduta; cioè, in linguaggio normale, non so quando né dove, sono entrato a far parte di un gruppo terroristico o banditesco. Proprio uno di quei gruppi fuorilegge nei quali è forse facile entrare, ma dai quali è sicuramente impossibile uscire. Dico con falsa disinvoltura: "Posso farti una domanda?"

Risponde, truce: "Ma quale domanda? A me non si fanno domande."

"Non arrabbiarti. Vorrei soltanto sapere come hai fatto a conoscermi, chi ci ha presentati."

"Chi ci ha presentati? Ma Casimiro, diamine!

Casimiro, chi lo conosce? Mai sentito nominare! Definitivamente convinto che sono vittima sia di un abbaglio sia di un complotto, dico conciliante: "Ah, Casimiro! Si capisce, Casimiro, come no? E in che occasione?"

"Non ti fidi, eh. Ebbene, ecco: ci siamo incontrati proprio qui, nel tuo studio. Io ero in fuga anche allora e Casimiro ti ha chiesto di ospitarmi per una notte. Ho dormito qui, mi hai anche dato questa chiave. Con la quale, infatti, ho potuto adesso aprire la porta." E mi mostra la chiave.

Ormai ho bell’e preso la mia decisione. Dico, cordiale: "Va bene, tu nascondi la tua borsa dove vuoi. Io intanto scendo giù, vado a comprare qualche cosa da mangiare per stasera."

Che cosa gli succede? Ecco, estrae una enorme pistola dal giubbotto e me la punta al petto. Dice: "No, tu non andrai a chiamare la polizia." Nello stesso momento, grazie a Dio, si bussa alla porta. Il bussare si fa sempre più forte e insistente e io... mi sveglio.

Così è stato tutto un sogno, diciamo così, nel sogno! Ma il bussare continua, corro alla porta, l’apro, ecco Casimiro, proprio lui, il mio carissimo amico. Gli casco tra le braccia e poi gli dico: "Figurati che ti ho sognato, dicevo di non conoscerti affatto, di non sapere chi eri."

Casimiro dice: "Bravo, questa è la tua amicizia!

Allora gli racconto il sogno. Lui si fa serio, riflette e poi dice: "Ma lo sai che qualche cosa di simile è avvenuto davvero? Nel ’68 venni una sera a trovarti con un certo Enrico, uno della contestazione. Era in fuga per non so che scontro con la polizia. Su mia richiesta, tu lo facesti dormire qui. Ricordo, pure, che quella sera eravamo molto allegri, mangiammo e soprattutto bevemmo non so quanto." Chiedo sorpreso: "Per caso, quest’Enrico non è uno di quelli della sparatoria di ieri?"; e gli indico il giornale in cui sotto il titolo, c’è una fila di fotografie.

Lui guarda, scuote la testa: "No, non è uno di questi."

Sta un po’ in forse quindi aggiunge: "Ma tu la chiave di casa non l’hai data a lui quel giorno. L’hai data a me. Avevo una ragazza e non sapevo dove incontrarla perché allora vivevo in famiglia. Allora ti ho chiesto di prestarmi lo studio e tu mi hai dato la chiave. Ricordo pure quello che mi hai detto scherzosamente dandomi la chiave: ’Ecco il pegno del mio impegno.’"