Il 12 dicembre 1975 Eugenio Montale, quando ricevette il Premio Nobel della Letteratura, retoricamente si domandò se, nel mondo tecnologico che lui vedeva svilupparsi in quegli anni, ai nostri occhi di oggi poca cosa, ma a quel tempo doveva sembrare straordinario, fosse ancora possibile scrivere poesie. La risposta, sebbene formulata con tutte le accortezze del caso, non poteva essere che positiva.
Pochi mesi dopo il discorso svedese di Montale usciva a Milano, nei Quaderni della Fenice delle edizioni Guanda, diretti da Giovanni Raboni, Somiglianze, la prima raccolta di Milo De Angelis che aveva allora venticinque anni. Apriamo il libro e leggiamo la lirica d’esordio: I suoni giunti.
Il lupo è ancora sotto la coperta
e occorrono mille domande per capirlo
anche se la voglia
è di credere subito a tutto
pronunciando un grazie silenzioso e intenso
l’unità della sabbia, la mano destra che tocca
la sinistra luminosa delle statue egiziane
una calma che resta,
rifiorisce nel rito, questo giugno
di una preghiera esaudita
la maestra, le scale
e nel grembo c’è il colore dei capelli
e poi il minuto d’oro,
il verde scuro del limone.
È una poesia sull’infanzia, sulla scuola elementare, sui giardini dei bimbi, all’inizio dell’estate, sull’ubbidienza cieca, incontrollata dei sei, al massimo degli otto anni. L’ultimo verso, perfino nella vibrazione coloristica, rappresenta, insieme, un omaggio e un addio al grande cantore del varco dove «ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende», al quale gli accademici svedesi avevano infine concesso il sospirato lauro. Oltre a salutare il maestro, il giovane scrittore mostrava le sue carte, annunciava i suoi propositi. Che erano questi: il poeta, come il bambino, ubbidisce prima di capire e così facendo pronuncia un grazie silenzioso e intenso.
È una dichiarazione cifrata ma essenziale per comprendere il nucleo dell’opera di Milo De Angelis. Ubbidire prima di capire non significa soltanto credere negli Dei, bensì farlo a occhi chiusi, alla maniera di Pietro, quando si getta in acqua dopo aver visto Gesù, sulla riva del lago Tiberiade, nel tentativo di raggiungerlo subito a nuoto. Esiste un ordine che ci precede al quale dobbiamo attenerci. Scrivere vuol dire azionare un meccanismo di andata e ritorno nel tempo e nello spazio: fare questo per aderire e, nello stesso momento, rappresentare quell’ordine. Essere dentro il midollo spinale della storia. Diventare uomini così, alzando la fiaccola della letteratura.
Sembra il rovesciamento programmatico dell’occasione di Eugenio Montale, sempre attento a registrare, nella solitudine lancinante della «banderuola affumicata», una perduta sincronia, la maglia rotta, il passaggio impraticabile, «la finestra che non s’illumina». Nella nuova prospettiva conta invece farsi trovare pronti al momento giusto, né prima né dopo. Affermare una presenza. Accendere uno stato di sorveglianza attiva. Abbandonare la posizione vacante. Entrare in sintonia con il mondo, senza illudersi di poterlo conoscere e modificare. E, se capitasse di commettere un’infrazione, pagare di tasca propria.
Cosa avremo in cambio? Ancora una volta, soltanto qualche luce sbiadita nel buio, le «migliaia di maschere pallide» uccise dai fari delle automobili, di cui parlava Giorgio Seferis, ma questi grumi di parole, anche se continueranno ad assomigliare a «qualche storta sillaba e secca come un ramo», non saranno più la conseguenza di una formula mancata, quindi raccolti come oro nella conchiglia; al contrario, dovranno assumersi il peso di una nuova responsabilità: attraverso il tentativo di uno strenuo controllo dei nessi analogici (realizzato o non riuscito), proveranno a respingere sia l’arbitrio fantastico, sia la degustazione di una sapienza superstite, evocando, nella sintesi poetica, una legge primaria.
Tutto quello che ci accade è già stabilito in anticipo. Noi, coi nostri figli, con le azioni giuste e quelle sbagliate, ripetiamo uno schema. Riconosciamo, prima di conoscere e, a nostra volta, siamo riconosciuti. Lo sapevano i greci, ai quali Milo De Angelis, che pure dispone di un immaginario modernissimo, mostra di credere.
L’isola sarà guardata nella sua bellezza
non importa se da noi o da altri.
(L’isola sarà guardata nella sua bellezza)
Il soggetto scompare. Chi scrive crea spazi magnetici dove i rapporti logici subiscono continue alterazioni, senza essere abbandonati mai del tutto: anzi i colpi che ricevono li fanno emergere ancora di più, come se le parole, bassorilievi dell’esperienza, fossero la parte visibile di ciò che manca. In quest’opera di ripristino interno dell’intuizione originaria, nella tenace volontà di restituire con rigore, senza imbrogli né falsità, il fondamento che la governa, il formidabile magistero di Montale resta imprescindibile. Ma ormai, dopo di lui, il poeta, in piedi di fronte alla muraglia, non pensa più a quello che potrebbe esserci dall’altra parte; egli considera se stesso all’interno della realtà, fino al punto di volersi trasformare nel suo ventriloquo.
Somiglianze marchiò a fuoco alcune tra le più fragili e introverse e libere e solitarie gioventù degli anni Settanta. Ancora oggi continua a essere un libro di culto per molti poeti italiani delle nuove generazioni: Martino Baldi, Vladimiro Cislaghi, soprattutto Stefano Massari. Ricordo come se fosse ieri la prima volta che lessi questa raccolta: disteso sulla branda militare, stavo facendo il servizio di leva in una caserma operativa di Bergamo. Erano gli anni di piombo. Quei versi, forse proprio perché così apparentemente estranei allo spirito del tempo, mi emozionarono. Chi li aveva scritti sembrava sapere di me molto più dei suoi coetanei impegnati a urlare dentro al megafono. Lo considerai un fratello maggiore. In tempi successivi scoprii che la stessa cosa era capitata anche ad altri. Ma pochi avevano parlato. Tranne alcuni, che, favoriti dalle congiunture, risposero a un suo annuncio poetico all’Università degli Studi di Milano (questi happy few entrarono a far parte di una specie di cenacolo riunito intorno alla rivista «Niebo»), la maggioranza preferì restare nell’ombra.
Ci eravamo tenuti stretti Milo De Angelis, come fosse un tesoro prezioso. Trentadue anni dopo, mi metto nei panni di un ragazzo che avesse cominciato a sfogliare ora queste pagine senza aver mai sentito nominare prima il suo autore. Più che l’immagine, cerca di seguire il ragionamento.
È il primo consiglio che mi sentirei di dargli. Ti accorgerai che il percorso è arduo ma pieno di sorprese. Sarai costretto a compiere salti logici sorretti da una spinta iniziale che li renderà comunque utili, significativi. Fra un assioma rovesciato e una comunicazione interrotta, noterai due personaggi a confronto. Un uomo e una donna. Giovani come te. Sembrano recitare, dentro un film in bianco e nero, la nobile tristezza dell’adolescenza. Figure labili intraviste dietro i vetri di un treno, di un autobus, di un’automobile. A volte fanno l’amore. Più spesso parlano. O vanno al cinema. Quasi sempre non si capiscono. Una ragazza lo dice perfino in lingua ceca: «nerozumín, nerozumín».
Non ti chiedere chi siano. Ascolta le sirene delle autoambulanze: l’allarme che diffondono è caratteristico. Prendi nota dei campi di calcio, degli ospedali, dei tram, dei cieli bassi, della pioggia, delle autostrade, delle periferie desolate. Cerca di rivivere il nesso emotivo fra l’inquietudine della coppia principale e l’elettricità che li circonda: chissà, quei due potrebbero essere anche già morti, come tutti noi, direbbe l’autore. Considerali scenografi sintattici, spartitori di traffico concettuale; ti ci affezionerai prima di quel che tu creda. Le loro dichiarazioni si configurano al pari di eventi linguistici, copie, somiglianze di una matrice unica.
“Volevo che tutti si fermassero”
dice
con la sciarpa stretta
mentre attraversiamo le pozzanghere
“non volevo diventare diversa”…
(La lentezza)
Qualche pagina dopo:
“Sta zitto. Tu parli solo per dimenticare.”
Ma non c’erano muri
e le frasi scomparivano insieme al vento.
“Lo sai, il mio nome
significa: io sono cambiata”
e poi non c’è silenzio, dice, se uno si accorge…
(Solo compenso a questa perdita non ti sia dato conoscere i limiti precisi di ciò che hai perso)
Affermazioni indimostrabili. Antitesi paradossali. Certezze misteriose. Circonlocuzioni assorte. Risoluzioni improvvise. L’emozione s’agglutina, diventa quasi dicibile, eppure mai del tutto. Resta un iceberg semantico: sotto si nasconde il grosso. Non si tratta di una libera associazione mentale. Sta nascendo un mosaico davanti ai tuoi occhi ma, nel momento della lettura, l’opera di ricomposizione non è ancora terminata. Forse non finirà mai. Le pause fra una battuta e l’altra si rivelano cruciali. I poeti simbolisti, e la loro lunga tradizione novecentesca, non c’entrano. Siamo lontani anche dai magnifici deliri visionari di Andrea Zanzotto.
Pensa, direi al mio interlocutore, ai Mari del Sud. Hai presente la famosa poesia di Cesare Pavese compresa in Lavorare stanca? Il protagonista, quarantenne che vive a Torino, e suo cugino, tornato nelle Langhe dopo vent’anni di emigrazione in Australia, camminano spalla a spalla sulla vetta della collina. Il silenzio li avvolge e decanta ciò che essi dicono: lo espande.
Pavese mostra una fede commovente nei propri limiti percettivi. A differenza di molti suoi coetanei, non si spinge oltre, come se avesse sempre saputo che, chi vuole attraversare le foreste sacre, deve prima pagare un dazio. Milo De Angelis, nato e cresciuto a Milano, ma con una radice materna monferrina, ammira in lui questo angolo etico. Ho sempre sentito nei dialoghi di Somiglianze una lontana eco di quelli pavesiani che, nella matrice colloquiale, e rurale, in apparenza sembrerebbero appartenere a un altro mondo. Solo a chi ritenesse Milo De Angelis un poeta post-ermetico, aggiungo adesso.
Si tratta di un sostanziale fraintendimento. Tuttavia è potuto accadere che la sua opera venisse collocata in una linea orfica o neo-orfica, se non addirittura mistica, con la quale, in verità, non ha mai avuto nulla a che spartire. Se con tali appellativi desideriamo riferirci allo sprofondamento cieco nel magma indistinto dell’inconscio dove l’artista raccoglierebbe i propri frutti senza neppure vederli, sfuggendo al controllo dei nessi per raggiungere una suprema libertà inventiva; se davvero si vuole intendere questo, non ci potrebbe essere lontananza più radicale dalle intenzioni di Milo De Angelis, i cui errori sono opacità semantiche, cesure fra immagini, impossibilità del ritorno indietro chiarificatore e, all’inverso, i cui risultati si misurano nella prospettiva di una dimostrazione completa, parola per parola, intuizione per intuizione, virgole e puntini compresi.
Il sogno rappresenta la caduta di una barriera, la mancanza di un controllo. Qui c’è invece un disegno nascosto, al quale lo scrittore lucidamente s’attiene. Lui stesso lo ha enunciato più volte. Come leggiamo in una sua importante riflessione teorica, compresa in Poesia e destino (Cappelli, 1982): «Si va a capo per dettatura» e la composizione, così intesa, è «un tendersi più acuto dell’orecchio al comando».
Chi sono i poeti a cui appoggiarsi per sostenere questa impostazione? Quando conobbi personalmente Milo De Angelis, stilai insieme a lui due liste separate: quella di chi sentiva estraneo e quella dei suoi veri riferimenti. Nel primo elenco figuravano Stéphane Mallarmé, Paul Valéry, Charles Algernon Swinburne, William Butler Yeats, Juan Ramón Jiménez, Gabriele D’Annunzio. Facevano invece parte della sua cerchia estetica Charles Baudelaire, Dylan Thomas, Giorgio Seferis, Paul Celan, Marina Cvetaeva, Dino Campana, Mario Luzi. È significativo notare che il rapporto con Montale di fatto aggira quello con la neoavanguardia: innegabilmente Milo De Angelis utilizza il maggiore spazio operativo che essa ha guadagnato, negando però la matrice verbale dello sperimentalismo.
Nelle interviste rilasciate (fra le più efficaci ricordo l’incontro con Massimo Gezzi leggibile nella rivista «Atelier», n. 44, dicembre 2006), De Angelis cita spesso Fortini e Bigongiari, ma sembra quasi più come figure umane e culturali che in senso strettamente lirico. In effetti, giudicando sulla pagina, che resta la stazione finale, quella dell’ultima prova, la sua esperienza stilistica continua a essere difficilmente incasellabile.
Se volessimo cercare una familiarità più specifica, almeno nella sensibilità, forse dovremmo far visita a un altro grande poeta: sempre in quel fatidico 1975, nei tipi della Viking Press di New York, venne pubblicato Self-Portrait in a Convex Mirror di John Ashbery (tradotto nel 1981 da Aldo Busi per Garzanti come Autoritratto in uno specchio convesso). Nell’Ode a Bill troviamo la formulazione di una vecchia domanda: «What is writing? Cos’è lo scrivere? Ecco quello che, al riguardo, pensava Ashbery: Well, in my case, it’s getting down on paper / Not thoughts, exactly, but ideas, maybe: / Ideas about thoughts…» (Ebbene, nel mio caso, è stendere sulla carta / non proprio pensieri, ma idee, forse / idee di pensieri).
È ciò che ha sempre cercato di fare Milo De Angelis.
Appena sciolgono
nel bicchiere le pastiglie
gli atleti iniziano la corsa. Ma uno
senza più forze, guardato da tutti
nello stadio, implora di morire
e a quelli che lo doppiano chiede di spiegargli
i mondi e le esclusioni, la leggerezza
che vince, le loro scarpette chiodate
mentre sfuggono vicine
e spiegare la sera, quando si getta tra le zolle
per essere amato, ma una sola volta
perché pesa troppo
il giuramento all’infanzia…
(Latitudine)
Lo sport è la ripetizione di un gesto originario. Ogni volta l’azione tecnica rivive nell’atleta che la compie. Niente come un lancio, un salto, una corsa porta con sé l’inizio. La stessa considerazione va fatta per gli atti amorosi che, potremmo dire, battezzano il tempo («… e ama / come per millenni si è amato…»).
I versi seguono un flusso concettuale che lascia presumere tracciati stabiliti in anticipo: così come il primo di ogni lirica fa scattare un principio agente la cui forza di attrazione richiama le immagini successive, anche Somiglianze (ristampata nel 1990, sempre da Guanda) s’irradia, come un sasso scagliato nel lago, nelle raccolte venute dopo: Millimetri (1983), Terra del viso (1985), Distante un padre (1989), Biografia sommaria (1999) e Tema dell’addio (2005), di cui questo Oscar offre un prezioso compendio riassuntivo. Non è un caso se ognuna di tali opere ha realizzato, nelle intenzioni dell’autore, spesso confermate dai riscontri di chi legge, un’esecuzione di quel formidabile esordio, richiamandolo a distanza con segnali inequivocabili.
Seguiamo, per fare un solo esempio tematico, sorvolando sulle costanti stilistiche, il filo sportivo prima enunciato:
[…] colui che salta… tre lunghi balzi…
(Fanghiglia e forti gatti)
Siete pur sempre nelle tenaglie
di una polvere, di una
promessa del 1961, quando
i giardini diventano un rasoterra
del numero otto, con i calci nell’arte…
(Le squadre)
Sono lucentezza e disunione
Jean Seberg mi chiamavano da piccola
Sono una stella dal talento casuale
Qui al Giuriati il campo
È così calmo, smisurato, stamattina…
(Tartarughe dal becco d’ascia)
L’ho riconosciuta da lontano, dalla rincorsa
a nove passi, dalla maglietta rossa
e prestigiosa che le donò Stepanenko, nel 1961…
(Scavalcamento ventrale)
La profonda unità dell’organismo complessivo non deve far pensare a una mancanza di sviluppo della voce poetica che ha conosciuto, dopo l’euforia fantasmatica di Somiglianze, una fase di estrema contrazione comunicativa in Millimetri (concepita quale introduzione a Terra del viso e solo per vicissitudini editoriali uscita autonomamente), un’emittente che non trasmette più messaggi e tuttavia continua a funzionare con la cupezza e la perentorietà cocciuta, unilaterale, di chi non prevede risposte.
Terra del viso esce dall’apparente binario morto di Millimetri non con il recupero della visione ma, ancora una volta, grazie al dialogato che assume l’importante funzione di «spargere il senso», facendolo vivere come una bandiera sventolante.
Ti benderai? Io sono salito con la sciarpa
sugli occhi, ho graffiato i mattoni. Il muro
ha molte crepe, ma non temere, non devi temere:
salirai tra i rampicanti, i fratelli rampicanti…
(Ti benderai?)
Il risultato inclina al manifesto, un tratteggiato umanistico di grande fascino, come quello esposto, in cui non importa conoscere chi, dove, quando, come, cosa, perché; tuttavia è proprio in questi consueti luoghi del significato che il poeta si lascia avvicinare: li abita come trofei conquistati nello spazio vuoto che l’interrogazione continuamente edifica e ripropone.
Altre volte l’analogia è una carta che brucia. Non fa in tempo a essere formulata che già viene assorbita dalla successiva. Assistiamo quindi all’impronunciabilità metaforica, in un trapasso inarrestabile:
La nascondevo come un musicante
dentro il tuorlo che muore, la nascondevo
dentro un corpo dedicato… oh Deiva, per virtù
brillava anche il seno sbagliato!
Fin qui nulla possiamo dire: l’immagine è ancora sulla rètina, come gli spaccati di costa visti dal finestrino del treno fra due gallerie quasi attaccate, non è giunta al cervello. Restiamo in attesa di una notizia folgorante, un colpo di teatro, una rivelazione, perché De Angelis ci ha promesso qualcosa di prestigioso.
E quando
il gettone cadde, disegnai questa figlia migrante
con la nostra allegria, col mio pudore.
C’è forse un modo più straordinario di questo per descrivere il concepimento? Lo scatto del gettone che cade azionando l’invisibile macchinario, il luna-park della vita; quella figlia migrante che arriva da un altrove e vi ritornerà; l’allegria della coppia; il pudore, inconfessabile e distintivo, dell’uomo. Tutto sembra d’improvviso più chiaro, ma resta sfalsato, inattingibile. Le parole sono state scelte perché aprono vie di fuga laterali, rimettono sempre l’intera posta in gioco, non si accontentano di un effetto anche molto seducente come questo, s’impegnano subito in una scommessa successiva:
Era
la stessa ed erano tante, come a volte si leggono
entrambe le mani, come una strofa storta
in direzione del cielo!
(Deiva)
Distante un padre sembrò rappresentare una chiave di volta nell’opera dell’autore. Il problema delle origini è sempre stato al centro della sua ispirazione, come un tema-fondamento, ma trovò in questo libro l’esito più forte. Non a caso il colore prevalente è il giallo (della terra, dell’uovo): la casa della matrice. L’infanzia viene vista come il luogo di un’integrità non più raggiungibile: il faro del ritorno dal quale la vita ci allontana.
[…] Penetrazione
di sole in grano, che è madre. Superstite
che si chiama padre.
(Riga)
La sfera della paternità combacia con la storia: entrambe sopravvivono alla natura. Occorre tornare indietro, sui propri passi, alla distanza sufficiente per conoscere il primo gesto, l’unico davvero irripetibile, sempre sfuggente e vittorioso: secondo De Angelis questo percorso è lo statuto della poesia. Il suo sforzo non si esercita a pronunciare un’ipotetica «chiarezza». Egli si comporta come quegli animaletti che lasciano le loro impronte sulla spiaggia. A molti di noi è capitato di seguirle e certe volte di notare, non senza qualche disappunto, che s’interrompevano nel nulla. Si poteva pensare che avessero scavato una buca, oppure che fossero volati via. Tali spiegazioni, ammettiamolo, non ci hanno mai pienamente soddisfatto. Restava un mistero da scoprire anche nella poesia di Milo De Angelis.
Esiste uno snodo in questo senso molto importante: nell’ultima sezione di Distante un padre (1989), intitolata Le terre gialle, sono presenti otto liriche composte in dialetto. In una di esse il pianto di una donna diventa la voce del passato, l’indecifrabile richiesta d’aiuto di civiltà trascorse che vagano come fantasmi nella nostra esistenza biologica senza trovare requie:
[…] Veg machi ’s piansi mut e parfond
che, adnan a mì, da tant distant a ven,
‘s piansi ch’a ven dai sorgìs dal mond.
(Una storia di A.)
Questa trasparenza semantica, da intendere quasi più come variazione ritmica che in senso propriamente narrativo, troverà ulteriore risonanza nella terza parte di Biografia sommaria, dal titolo Capitoli del romanzo, dove spuntano alcune indimenticabili campionesse di gare studentesche. Acrobate, arciere, saltatrici in alto, «ragazze dei baratri e dei bar», i cui nomi sembrano copiati da un registro di classe rimasto per sempre nel cuore di chi scrive: Donata De Giovanni («Si allena ancora qui?» chiede il forse ex innamorato, tornato dopo tanti anni sulla pista dove per la prima volta incrociò lo sguardo dell’atleta. Gli risponde il vecchio custode dell’Arena di Milano: «Come no, la Donatella, / la velocista, la sta semper de per lé»); Stefania Annovazzi, che poi si chiamava più spesso Stefanella («Nove netti sugli ottanta, a / quindici anni, ragazzi!»); o Paoletta, cintura nera di judo, il cui fantasma continua a vivere in un «paesaggio di metano e di palestre».
Milo De Angelis non aveva mai raggiunto, fino ad allora, una visibilità così piena, senza perdere una goccia del suo loico furore. Che sia un poeta difficile lo diamo per scontato, ma a chi lo ritenesse incomprensibile dovremmo spiegare la differenza fra l’arbitrio (che ha spesso sfregiato, fino a disonorare, in certi casi, il dettato novecentesco) e la necessità (capace di animare perfino le riflessioni più criptiche). Lo spazio urbano milanese, così come emerge in Biografia sommaria, sottratto al cartello lombardo, colto piuttosto nei «luoghi della economia disciplinare, della competizione e del cimento ascetico» (in una bella sintesi di Massimo Raffaeli), è un concentrato di rapporti che vanno decifrati, ma innanzitutto vengono in scena.
Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina…
Tema dell’addio, dedicato alla tragica e prematura scomparsa della moglie, Giovanna Sicari (1954-2003), peraltro una delle presenze più incisive nella poesia italiana contemporanea, richiama, in una sintesi fulminea e per certi versi irripetibile, tutta l’opera di Milo De Angelis e nello stesso tempo ce la fa rileggere in modo nuovo. D’improvviso le autoambulanze che sfrecciavano nelle prime raccolte, quei neon accesi nella notte, gli allarmi elettrici, acquistano un senso ulteriore, quasi avessero annunciato la catastrofe che ora scrutiniamo. D’altro canto, le stelle fisse dietro i palazzi alti e grigi, i cieli infiniti che si stagliavano oltre le sopraelevate, trovano adesso un formidabile riscontro interno. Illuminano gli angoli bui. Mettono a posto le cose. Spiegano tutto.
Questo straordinario canzoniere amoroso, in cui le contrazioni liriche in precedenza oscure si sciolgono come riunite nella folgorante unicità tematica da cui scaturiscono, sembra essere stato composto con il respiro trattenuto. Fra un’apnea e l’altra, il volto della protagonista, riflesso nel pensiero costante dello scrittore, emerge alla maniera di un ultimatum. C’era bisogno di te, Giovanna, anche in questo incredibile senso. Qualcuno lo sapeva. Era necessario dirlo. E noi ora dobbiamo ascoltarlo, zitti, senza parlare. Il passato ritorna come una lacrima di ghiaccio nello splendido esordio, quando la giovane donna, mai così bella, nella radice quadrata della maternità, sta per scendere dal treno ad annunciare a chi è pronto ad accoglierla, in testa al binario, la nuova vita che le sta crescendo dentro.
Contare i secondi, i vagoni dell’Eurostar, vederti
scendere dal numero nove, il carrello, il sorriso,
il batticuore, la notizia, la grande notizia.
Questo è avvenuto, nel 1990…
Il fondamento autobiografico non dovrebbe consumare la categoria del distacco sulla quale i versi sono imperniati. La morte della persona amata ci fa ascoltare il rintocco della campana, scoprendo per tutti il buio della foresta primordiale. Il poeta guida il coro: lo ha conquistato a caro prezzo. «A tanto caro sangue», avrebbe detto Giovanni Raboni. Sta lì, davanti a noi, sul ciglio dell’abisso. È lui, il capobanda. A metà fra l’allenatore e il maestro. La pronuncia stilistica, senza nulla concedere all’affabulazione, si è fatta nitida, infallibile, solenne. Il tempo avanza in una screpolatura della visione dettando le condizioni di una resa il cui verbale si trasforma presto, come ci ha insegnato Dietrich Bonhoeffer, nella sola resistenza possibile.
[…]
Nel viso invecchiato di una donna, il mondo
intero appassiva. Poi, in una paladina, rinasceva. Latte
e croce. Via degli smarriti. Compito scritto.
Una morte rinfocola tutte le morti. Le riprende una per una e, nel farlo, restituisce la durata che esse avevano cancellato. La stessa cosa accade quando viene scritta una poesia, composto un romanzo. Il passato subisce uno scossone: rigetta, oppure inghiotte, comunque si rimodella. E cos’altro è, cos’altro dovrebbe essere, la letteratura, se non questo rendere presente il punto fatidico del passaggio di testimone dalla mano ancora aperta a quella già chiusa? Riuscire a nominare il luogo in cui presenza e assenza, nella memoria di chi scrive, per un attimo coincidono, non significa soltanto gettare i fiori sulla tomba, ma trattenere un respiro, l’estremo singulto. Far battere il cuore di chi resta insieme a quello di chi è partito. Di più: testimoniare una radice comune che unisce tutti. La foscoliana «corrispondenza d’amorosi sensi» comporta due tensioni speculari che solo strumentalmente possiamo distinguere: la rappresentazione e il controllo. Il poeta richiama in vita le persone care del suo passato, decifrandole nel filtro dell’ultima tragedia.
[…]
Rivedo mio padre in una città di mare, una brezza
di Belle Epoque e un sorriso sperduto di ragazzo.
E poi Paoletta che sul tatami trovò la vittoria
a tre secondi dalla fine. E Roberta
che ha dedicato la sua vita. E Giovanna,
in un silenzio di ospedali, quando il tempo
rivela i suoi grandi paradigmi.
C’è la registrazione allucinata della rottura dell’armonia. La celebrazione di una svista il cui governo sembra essere fuori dalla nostra portata. Ma viene alla luce, potentissima e vigorosa, la forza indistruttibile dei nessi, prima trascurati; emergono le cicatrici; spunta il profilo di un orizzonte finalmente chiaro; nasce la consapevolezza piena di un’avventura infinita che solo i poeti possono interpretare. Continuo e rigoroso appare il raccordo fra le sagome esistenziali e i grandi giochi eterni, la musica delle sfere e il lavoro sordo della materia, ripristinando la traccia di chi ci ha preceduto, nella percussione memoriale che alimenta la potenza lirica, fino a un indimenticabile contrappunto epistolare.
Mi saluti, ti rimetti il reggiseno, senti
che puoi smarrire il codice terrestre, demolire
il nucleo, precipitare nel buio. Vai verso la doccia.
Ricordi un nove e ottanta a corpo libero,
una primavera della pelle, una diagonale perfetta.
Dall’incubo estrai una forcina, ti aggiusti
i capelli, indossi la cuffia, chiedi soltanto
di essere risparmiata.
In questi versi, cruciali e decisivi, Milo De Angelis, restando fedele al suo timbro di voce, guarda a testa alta, nella nostra lingua, i grandi poeti contemporanei: da Mark Strand (1934) a Durs Grünbein (1962). Qui si rinnova l’amore come profezia retroattiva di Paul Celan, quasi che la chance dell’essere umano, l’unica possibile, stesse nello sfavillare, nel rendersi visibile come un fuoco che divampa, poco prima che tutto diventi cenere.
Eraldo Affinati