I BASTONI
I bastoni
hanno frantumato l’ultimo secchio
e ora il villaggio fa
silenzio
nella corte marziale. Ecco
l’inchiostro, tra una moltitudine
di assetati in orario,
un cognome:
tutte le uova molli
giungeranno
per forza o per disprezzo
e quel
faraone darà la staffilata
che ancora oggi ferisce
e le fa terrestri.
Chi genera il tempo
ha il volto arato e con pazienza ripete
che noi ubbidiamo.
ORA C’È LA DISADORNA
Ora c’è la disadorna
e si compiono gli anni, a manciate,
con ingegno di forbici e
una boria che accosta
al gas la bocca
dura fino alla sua spina
dove crede
oppure i morti arrancano verso un campo
che ha la testa cava
e le miriadi
si gettano nel battesimo
per un soffio.
NATI SULLA TERRA
Nati sulla terra
che rimane
siamo stati quel giubilo mozzafiato
appena le menti giunsero
in groppa a un canarino
ed espugnarono. Una
condottiera
è avvitata al nostro fianco, custode
delle tabelle, una fiocina
nel mondo mediterraneo, tra le uova.
Non hai voluto spartire
il bottino e dunque
mi hai per sempre
perché non c’era altro
che la pura vittoria. Poi
getteremo la nostra preda
ai gatti: loro sapranno
come annientarla!
Ecco la pagina di quarzo
nell’agenda, quando
ogni uomo viene raso al suolo
e ricorda. Le pigne gremiscono
questo cortile
fedele ai suoi metri: lo stesso albero
della porta
che è perenne per chi la scorge
eppure è aria, soltanto aria. Ha una severezza
e un guardiano ancora attento. Questi
sono stati i numeri.
QUANDO MORDONO
Quando mordono
c’è una folata sola dai compiti
delle vacanze fino all’acqua santa
e non si può gettarla: chi ha
sete beva. Ugualmente
nel fuggi fuggi
un drappello sta alla porta e picchia
a ogni farmacia notturna per
mangiare lampi e frazioni, ugualmente,
lì senza più costume…
i bagnini morti…
si fa buio su tutto il tavolo
a volte si fa orrore e pattume
a volte invece si crede ed è pomeriggio:
il chinino allagava
un intero continente
allora e sempre
nelle femmine che
non gettano mai la spugna.
PER VOI CHE
Per voi che
chiudete questa voce
le spighe giungono, terribilmente presto,
e tutte hanno un collo
da poche lire sotto la cesoia,
una benedizione proprio a loro;
a loro e all’universo. Solenni,
fracassati in ogni muscolo,
lanciano il trattore, l’enorme triangolo
dove agosto si accampa
e vive di fichi
e tutti sono in preda,
stretti fino al proprio ferro: una
calma tropicale, una vigilia.
QUESTI SUCCHI
Questi succhi
del paradiso che urla ancora
nutrono un’intera ciurma e anche
il più decrepito, pozzanghera della
propria valle, si farà giustizia
nessuno declina
l’invito
sono nati
per tutto l’inverno, con una bocca
in guerra e una bocca perfetta, vicinissime
al pane
e
nei pazzi giungerà l’universo,
quel silenzio frontale dove erano
già stati.
CON OCCHI NELLA VISIERA
Con occhi nella visiera
i gemelli…
scannati fino alla
madre che diventa sorte
e creatura asciugata dall’esilio.
Qui, dove muore il coro, un’imboscata
fende l’uovo in parti sonnambule,
piccole tombe con gli equilibristi
che cadono nella piantagione.
QUANDO LE MANI, A MEZZALUNA
Quando le mani, a mezzaluna,
ricevono un calendario in
sangue di cicogne,
ogni uomo sparge sul fazzoletto
spazio e ferro: spuntano
dal battesimo i tiratori scelti
per una fame che non vuole pezzetti
e noi a valle con una pietra in pugno
alzati di scatto, mortali.
NON SO COME LA TERRA
Non so come la terra
si calma in un rettangolo
pietre anch’esse
queste ghirlande di dita in tuffo
dove c’è un luogo tra la seggiola
e i faggi, paladini
che ora sono canna tra mille canne
è ardimento scegliere lì
l’avventuriero amico
ogni volta tocchiamo lì la mano
una tra mille. Anche
la risaia ha un ciuffo
che salpa
e anche la scorta con i chiavistelli
si fa animale e fibbia di girasole.
Punteggio nel centro
del fazzoletto
esso chiama i consanguinei:
hanno
carne bianca di aragosta e
capelli a due punte, nel mulino di setaporta,
impugnando una
cera scura, molle, una liquirizia.
LA TESTA CADE A PIOMBO
La testa cade a piombo
e si slaccia
nel pomeriggio strappato
al pensiero
ogni maniglia si aprì, fece silenzio.
Noi fermiamo lì una guerra
con navi serene e gelide.
DICERIE DI UN CROCIFISSO, SPIGHE
Dicerie di un crocifisso, spighe
trascinate dentro il secchio…
tutto è lì
con il suo tatuaggio
e mi può
a malapena dimenticare. D’accordo.
Ho riunito
queste forze di gravità
in un cucchiaio
e ogni tredicenne
che risucchia vertebre
stamattina sa
il fatto suo. Allo scatto nero
di un semaforo
passano in
grembiule di luna
mentre i quartieri fuggono
fra le loro travi
sposi del caos e di una treccia
vicina all’estate
padri
respirano
dentro i timpani, come delle anime.
HA SILLABE DIVENTA
Ha sillabe diventa
erba portata in carriola
tra i respiri, numeri
e respiri, respiri in
mare alto. È troppo tardi
per svenarsi nel poligono
o chiedere
i giocattoli della pazzia. Voi,
femmine di un
rintocco giustissimo, siete
la grandine! E ognuno morde,
piantato nel legno con
gesto di comando. Mi soffia
un viso. Altri alberi
crescono dentro agli occhi, un
fragore di occhi e miracoli
dal pensiero vergato. La nemica
guarda i cancelli. La saliva risucchia
se stessa e beve.
OSSA IN PURO SCATTO E
Ossa in puro scatto e
ossa di mollica
sono la prima stessa cosa
un’estate:
solo lei, folle pianta, ha
quel barlume nei denti
esultando per un etto
di mentine vecchie
domani dopodomani
con il tamburello al polso
quietamente
accompagna i suoi anziani
e li sparpaglia,
moscerini
nella macchia di un immenso
vetro.
LA GOCCIA PRONTA PER IL MAPPAMONDO
La goccia pronta per il mappamondo
e per i più sconosciuti
nomi di ventura
ha raggiunto finalmente una scorciatoia
a colpi di lima
ha appoggiato il bicchiere
su un solo dito, fratello
della prima volta. Tutto
il campo, con le
sue biciclette sepolte, sguizza
parole di ventriloquo:
metà alla vittoria, metà
all’erba in trappola.
In noi giungerà l’universo,
quel silenzio frontale dove eravamo
già stati.
AL TIMONE DI UNA GOCCIA
Al timone di una goccia
ritorna
un calendario in
sangue di cicogne. E più tardi
– fino a chi – lo sparo risoluto
che mira.
Si conficca lì, unghia, come
tu nella tua bianchezza
quando un rito purosangue
dichiara tempo
e ci sono sassi in un angolo
della viva.
NOI PORTIAMO ALLA TERRESTRE
Noi portiamo alla terrestre
uno sposo, sempre nello stesso
cuore: con le ossa della
grande madre graffiata
nei campi di carbonella, tra una
corsia e l’altra,
braccia, uomini
bianchi come stoffe chiodate.
(Sono infantili le pupille
in questi fuochi definitivi:
la festa delle Orse si ama così, tra
fuggiaschi nei mesi
dell’uva luglienga. Già si accorciano
le ombre, si fa mezzogiorno
con la metà spaccata
gonfia di verderame.)
Riposano
in una sola sorella
separati da cinquecento anni
che di sera hanno lo stesso nome,
la stessa voce
di giovane femmina con le ali, con cestini
e anelli:
schiava del sole, si sporge
ai nostri canti,
li porta in Asia.
Sono attesi nel credo
e saettati sulla cima, soffiano
un ritratto. Poi
slanciano la loro testa
fuori dalla caverna, trovano
molte entrate, puntini
di collo frondoso, parole
in rovina immensa
escono dalla prima media verso l’alto
dei corpi umani,
leggero seno inchinato
alle catene, rosse cantine di rame e
frutta scolpita nella primavera.
Così, in mezzo alla paglia, i musi ostili
dei cani trovano
un marrone di fagiano
senza corpo e vivente, quando
sentiva odio per una valle
e poi per tutte le valli della terra
ma non salì al cielo,
non si rifiutò.
“Onore alla destra che
impugna il corno”
e il suonatore
vede
vento, teste bersagliate,
mentre un uomo di ferro e spago
cammina tra un’edicola e l’altra:
ferito da ogni cosa,
con lo squarcio nella nuca,
pensò alla pianura
sprofondata
che un tempo era lì
ferma da migliaia di vite;
e gettandogli contro l’amore, divenne
santo, fece entrare i vecchi.
ANIMALI
Animali
dai piedi bianchi e cieli
succhiano questa stanza
e le donne
soffocate in pace:
placidi sono i lacci
come una neve in voi, più vostra, più
colpita. La mela
è morta.
Con macchie di china tu dicevi
nascetemi in stringere
infiniti, in piangere,
guardateli quando
scavano questa gola:
scendi, pavimento.
PRENDETE ALLORA
Prendete allora
ciò che nel devo si inarca
sapendo il fuoco
di questa carta velina
gridarlo è
calmissimo
nella ciotola
dove i ceci annegano: e se trova
il fulgido del chiuso,
allora anche la vita
palmo a palmo
esige il veleggiante, quell’
atomo.
Parti di sé… conficcate
in una luce che
raggiunge il pioppeto
e lo divide per diagonali
vita perenne in
vita rasoterra
tracciando aste fino alla testa
della voce e al volteggio della
sua spina
unisce le tempie
al centro
con un canto
irto di pressioni: un altro sì,
non solo adesso, non
solo creato.
Sorge
dal preso respirante
questa sete
del pensiero, stringa esatta
in ciascun occhiello
sulla terra, su ogni
inizio della terra,
trattiene il sangue
fino al
comandamento. Se dunque
con passo concentrico
rispose nascendo
e se contro di lui
urlarono le lanterne
– se gli credete – tornano
nella stessa linfa
dita di fabbro ferraio e dita sottili
nella stessa erta, un incendio
di pacchi postali e viveri.
La saliva, per la seconda volta,
risucchia se stessa;
beve.
Una vanga si abbatte sull’
inverno delle formiche.
E proprio adesso,
a esecuzione compiuta,
alcuni parleranno
o forse tutti
quei bagnini ciechi parleranno,
estratti a sorte
da chi li maledisse
e poi concepiti e poi
basta, basta per
sempre, e poi poeti.
SORRIDE UN VIVO
Sorride un vivo
dentro la stoffa verde
e a poco a poco quelle
dita scommettono tutto. Ecco,
ferma nella sua essenza,
la mole di un tuffo
e l’estate
che sferra calci all’
identica calamita. Mentre nuotano
a delfino o si alzano verso il nulla,
impugno le pertiche
con una sola mano e crollo.
La parola d’ordine,
le unghie lunghe e pure dei maschi,
una briciola
che a ogni costo si mangerà viva
in mezzo a tombini o cerchi,
stampelle, mercati, non importa:
questa
pioggia bucaniera nasce
e appena nasce
scardina la sua stessa figlia.
SE UN URLO HA VISTO
Se un urlo ha visto
la sua prima sfera
con l’occhio estraneo dei naselli
ore e ore sotto la terra
che alla fine diventò corridoio
e sorella della canizie e stipendio
di un’alba troppo grande
loro
contadini nel cuore del disastro
aspettano in un
silenzio di teleferiche: pensieri
senza strada
a cavallo di uno straccio
che si impenna e non
può scendere. Adesso
anche il sangue in piena
tace. E ciascuno
nello stesso armadio, di flacone in flacone,
che si scatena.
MA IL PANE NELLE FERMATE
Ma il pane nelle fermate
del terremoto non basta più
e il ladro ha
una scarpa sola.
Così sia. Nella testa
sbranata da una primavera
porge il latte a chi
l’ha posseduto e l’ha rotto.
Con tutti i denari, soffiando pari o dispari,
un capogiro tornerà
tra i ferri vecchi. Allora
noi donne lo daremo, alla luce.
C’È UNA MANO CHE INCHIODA
Per Marta
C’è una mano che inchioda
i suoi grammi
nel cortile vicino alla grecia
sono sempre più casti
i numeri
città di cotone e bronzo
con l’estate che ha una bocca a nord.
Qui passano dei corpi
che sorprendiamo femmine
orgogliose in baruffa. Oppure
tacciono;
oppure sono ombre, disfide, lacci. Le pietre
li conoscono bene.
Sempre loro, sono
sempre loro, come compleanni. Adesso
ritorna una bufera
lungo la colonna vertebrale e scelgono
il maleficio o l’incursione,
un’alzata di spalle o una nudità.
La voce che si era proclamata
gemella e sfera e denti di gemelli
scocca nella sua montagna
con la stessa vita
giurata subito, antelucana. Le hanno dato
una mandorla
senza mirino né spazio. Ma
ha deciso subito, ha tirato!
Sì, fu quello
il cerchio degli stranieri
dallo smisurato orgoglio, che vaneggiano
un patto… ero lì… guarda bene… ero già lì…
bufera e nenia della donna
che ha un figlio in grembo e uno in salita
nel mio luogo arcaico
voi giungete
menti colme di luce
con il rombo di un’estrazione a sorte
ogni paradiso ha un capogiro
di figli falciati e certi.
GIUNGE LUGLIO PER I MORTI
Giunge luglio per i morti
che sentono nell’assedio
di ogni fiore
una giustizia remota. E un
cappio di carta
rinasce a più non posso
nella storia
della terra, vasta, ripida,
cose e cose, vesti bianche e tarlate,
contadini nascosti
nel frumento. O ancora
più dentro, dovunque urlino
i crisantemi. Facendo la spola
tra i muri della testa e
una chiamata interurbana, questo minuto
viene contato;
e l’urna – delizia anch’essa
dei mescolati magnanimi –
ha detto basta.
UN MAESTRO
Un maestro
nuotò all’alba
delle cose, tra le sei meno venti
e la buona fortuna
“impareremo
a mangiare questa cipolla,
a poco a poco, osservando il silenzio
di ciascun sapore”
e le pupille che sono morte in tempo
ora bevono
una tazza di latte caldo
ma tu ci hai trovate
e hai scelto nel gatto
quei miagolii che
non lo fanno apposta!
CITTÀ NEL COSTUME ROSSO E CELESTE
Città nel costume rosso e celeste
allagate una per volta
fino a quella che vi additerà
in questo
eroi senza faida
dentro una miriade di morire, avete
parlato, ro, il punto sanguina!
È colui che, nuotando,
toccò il nibbio
senza occhi, la zattera sospesa
tra due onomastici:
ridono
una saracena e un figlio del cibo,
portano lo stesso dispaccio, hanno
vesti di suono, nient’altro. Eppure
ormai è gennaio.
SONO ANCORA LORO
Sono ancora loro
barbari dallo smisurato orgoglio,
e la seconda volta
sposa polline e ragnatele. Ormai
ogni sentiero annuncia
una cascina, frutta sulla tovaglia
e unghie che scavano
qui, dove l’estate
ha soltanto un suono: “ero
guarda bene, ero io”.
Il cucchiaio
batte sui segnatempo e un’intera stazione
scruta la sua sala d’aspetto,
finché mezzogiorno si sparge
nel chilometro
intuito dalla scorsa mente.
Poi fanno ressa
sulle pale del mulino
e uno, esile, diventa ruggine
squarciagola: vorrà
ogni minuto, farà acrobazie.
I CAMION, IN PUNTA DI SECOLO
I camion, in punta di secolo,
con un chilometro
della loro stessa radice
stanno per
essere certi, per scendere: quello
che si spezza è una
voce bollente
di calendari e risaie
murate nella brocca
quando un mirino allaga il maschio.
Ma quei due squilli
portatori di polline,
quel velo!
NON PUOI TACERE
Non puoi tacere
su questo monte
noi verremo arati
in pace e tra gli uccelli.
Il bianco vola via e quei denti
sanno, filo impugnato
dalle eternamente plurali
quando
ci deposero veri: non caddero,
nemmeno allora, trattennero
il sole nella seconda, nella terza gola.
Era questo l’inverno
gettato
con un giornale antico, fratello. Esso
nel cestino di luce
muore e sgorga
da lì, dalla pettinatura.
E io parlo della terra
a una candela;
di te e di noi, di noi soli, creati.
FANGHIGLIA E FORTI GATTI
In questa gioia fittissima chi ritornava?
Fanghiglia e forti gatti
di grondaia…
Nessuno fiata
nel solaio. Una goccia verde
sui cappotti
una mela scagliata, quell’esplosione
che alzò il pioppo. Minuto, buio
senza cellule
uguale alla vita. Il prigioniero
ha molti cuori… odo il vostro,
statue d’orzo,
una slitta che scende
sulla corda
colui che salta… tre lunghi balzi.
Toccandoli uno per volta,
questo mattino di capodanno
li colora
con lo stesso peccato che si affratella
al sonno. Un ago
punge il fegato. Fieramente,
nella scarpata, le collane
sono in rigoglio
e l’erba ha un seme
gettato in aria. L’altra bufera
sorteggia una bussola
per le statue,
conto alla rovescia o secoli
in cammino
fino al nudo principio
premuto sopra le tempie,
un vento che penetra, che
vede…
uomo-sibilo… nero
scintillio del sale.
“Se la guerra finisse ora,
saprei ucciderti
senza motivo?”
Verranno inverni e pupille
a bruciapelo
per gli orfani rinchiusi
in cucina, e sveneranno le idee
restando alti. È sempre
questo cianuro
di vergine: un giavellotto
vuole l’uranio e quando chiude il
primo strillo
sul cuscino degli antenati
ha una sola vita, ha
polmoni di pazzo e un suono in punto
settanta volte
perché il triumvirato si faccia carne
con fatica, nell’angolo più duro
del sellino. Così,
sollevandosi nel nulla, crescono
soltanto alla radice.
E se la strada ha un tiro più forte
tutti ricorderanno
a freddo… sì… giocheranno ancora
giocheranno a carte
con la scienza… sì… i maratoneti
incendiano una cellula
con il soffio al cuore.
Scrutando le rughe
di entrambi… la pietra
di un ragionamento uguale alla vita…
questo pomeriggio in discesa
conduce serenamente
una carrozzella
dentro il lago. Vere e astrali, con vesti
a brandelli, guardano
un’altra testa
appoggiata alla ringhiera.
La corrente accompagna
al dolce macero. Poi risorge
dove hanno esclamato:
quattro mani per sorreggere
una foglia o scordarne il ticchettio
mentre piove
dai pianeti al cappotto.
La firma esita sulla cartolina, i vestiti
entrano nel corpo;
gli infermieri, spalla a spalla, ripetono
un teorema più antico. Una città
ci capiva tutti!
Con l’onomastico
gettato oltre la diga
si sfascia e ogni cosa
ricorda
in questo tifone cardiaco
donne
affondarono nella stanza, come un rintocco
mai udito
mai
udito.
Oppure le trattiene
un cuscino, un altro cuscino, per piacere:
bari e vincitori
le vogliono per sempre
odorosi di nulla come punteggi
per sempre sibilo che
congiunge l’incrocio
dei ferri e dei pali… stretta, accecata
luce… abita
nel ginocchio d’aria
ha l’applauso grande come lo spazio
e i nervi d’aria
ha una maglia e scende. SONO RIMASTE
due spighe
di materia, grazie a voi
che avete taciuto
alunni che vi incrociate tutti
al quadro svedese
con i suoi polsi in tonfo e
il fumo del bollito, prima delle doglie,
brigantini per quella
che spinge allo scoperto
i certi di amare.
Dormono, le valanghe
e poi un chilometro bussa in pieno.
Non ha cadavere. Si sta bagnando
nel verde innumerevole della
sua stessa camera: alcuni sono già
chiari, già imbizzarriti
in quel sasso;
ed è caldo il mese. Sopra il tetto
la vanessa, ferita, si toglie l’ago
e i giustizieri con lo straccio in mano
cavalcano Asia:
ma essa, con potenti ali…
In questa
giuria, voi, travi e
pupille, rideste.