I
Nella storia

LE SQUADRE

Siete pur sempre nelle tenaglie

di una polvere, di una

promessa del 1961, quando

i giardini diventano un rasoterra

del numero otto, con i calci nell’arte.

Sì, una promessa

diceva: sarete fatali al correre

come il ritmo di una strada è

fatale alla piazza che porta in sé

tutti

nelle forze del prato che, spelato,

diventa questo

essere tenuti nella montagna.

E sarete

questa musica di sottomondo

che sopraggiunge a fare bianco il cibo e

darlo silenziosamente alle squadre

nessuno

può sbagliare un passaggio, nessuna chiacchiera

che non piglia i fili,

i fili delicatissimi

della cosa

nessuno, ve lo ordino, nessun abbraccio in pausa

gli arpioni della lana

vivono sulla pelle,

uccidono le stupide scivolate:

freccia,

portaci tu i piedi

verso la vittoria, e in questo spiazzo

fa’, unico dio, unica gioia del pomeriggio,

fa’ che tutto sia immenso, fa’ che non

piova.

SOTTO LA SCURE SILENZIOSA

Sgorgano da lì, con odori

di nocciole, le pallide;

hanno foglie in testa, hanno

saggezza.

E tu, piccolissimo

azzurro dei fossati, sei ancora certo

del figlio prodigioso?

O si stenderà una coperta

sull’acqua-creta, sulle guerre

di pallavolo?

Sia fatta questa

volontà, briciola inghiottita,

celeste di nulla

e sia fatta l’ira

nel cappotto o nella via più derubata

oppure

piangimi un sasso – sono forte, lo sai –

apri ciecamente i capelli

che ho giurato

a questa vita, a questa

prima vita.

LETTERA DA VIGNOLE

Udimmo la pioggia e quelli

che ritornavano: ogni cosa

nella calma di parlare

e poi la montagna, un attimo, e tutti

i morti che neanche il tuo esilio

potrà distinguere.

“Torna subito o non tornare più.”

Era questa – tra i salmi

della legge – la voce

che hai ripetuto all’inizio,

la potente sillaba, prima

di te stessa.

“Solo così ti verrò incontro, ignara

nell’inverno che ho perduto e che trovo.”

FERIRE FEMMINE

Scale, scale esistono dopo lo sgambetto

e i gradini, come labbra dure, ricordano

la somma dei cateti, una rossa toga ricamata

nel corridoio, nella

via secondaria che apre il mondo,

ecco, senza più vendetta, un anno

guardato e solo:

da spacchi bui

voi ritornate, convogli

a cui mancava il mio pensiero, per terra.

NELLA STORIA

Come si ode la pietra, come

te, gli inverni. Silenzio. Il drappello

sta passando, un uomo per volta. Tu che

compi l’esecuzione

tu, trucidato che

schivi. Ascoltando

l’ululo, l’anfora addormentata, essa stessa

quando si spaccò… scendi, tocchi i casolari,

la rada gioia

del paradiso e tutta la scarpata

si riempie

della cicuta ancora verde

mentre i cardellini mostrano

le ossa

nel fruscio della nostra

morte. Con le spalle

che combatterono, impolverato, falcerà

lo strapiombo. Sarà

valoroso. Non esitare. Come fitte di

luce, tutti gioiscono

a cena, inazzurrita, una volta.

NESSUNO MA TORNANO (I)

In fondo al sottoscala ci sono ossa di animali,

toccate una per volta. Noi ci svegliamo

sopra uno sgabello e sappiamo con certezza

di vivere: nel finimondo rimane questa bocca,

questa stagione cava che ha spille di carnevale

e slancio di dolore, mentre gli ascensori

continuano, come giaculatorie. Piove forte.

Tutto il drappello si sbriglia

tra una panetteria e l’altra, bersagliato dai sassi.

NESSUNO MA TORNANO (II)

Aspettando la grandine che un intero secolo

ha promesso ai suoi figli, e poi gettandoli sul marciapiede

con uno schiaffo alla gola, quando l’asfalto

si cosparge di radiazioni e la portineria è chiusa.

Sono donne, si avvicinano fendendo l’aria,

vestite da indiane. Non c’è tempo di riflettere

in questo sibilo. È come se tutto accadesse

in quantità enormi. Io non so nemmeno

quali corpi dovrò fermare: ma questo tempo

non sbaglia un passo e gradino per gradino scende

dove essi hanno esclamato.

UN ATEISMO

Entriamo, segnati dal tempo che fu nelle corsie

o nelle gabbie d’acqua marina o nella

pura e semplice, in noi, geometria: rovesci

e luce. Questo è

soltanto il mio turno, benché eterno.

C’è un colore di troppo – mi rispondi –

la maledizione di una immagine, prima.

Anche per noi, non illuderti, non basterà mai

la nostra poesia: vedo sipari di ferro,

respiri, scarpe, cani che nessun secolo

potrà nascondermi, se alle parole

sbatto contro, se ho un udito,

un pericolo qualsiasi… ritmo di essenze

o di trucchi popolari.

La matina d’zora dij brich a sponta

bianca e dlicà come na fior gentila

ma sl’autra part del cel dnans a chila…

Le tue filastrocche, Angelo.

Grazie per avere sentito

questa adolescenza che non sa capirti

e ricopre i contadini

con migliaia di chilometri, tra Milano

e un’India strana, tra i ciechi. Non so invecchiare,

ma solo correre in pista,

senza di te:

due corsie con la tua scienza,

disprezzando le ombre. Lì è stato

comunista il nostro patto:

l’armadio dai pochi vestiti

in cui cambiare una civiltà, il tempo

della vendemmia, tempo di farla bene,

i forbicioni con razionale violenza.

“Verrò in collina

prima che tempesti, con

certezza e punta di piedi.”

“Ci hanno inseguito, mi ricordo, e noi

ci siamo rifugiati in un cinema.”

“Era inverno; c’era un presepe su cui pisciare

e una donna truccata e grassa.”

“Sì, lo so, notizie, soltanto notizie.”

RONEFOR

Una spinta, un buco di carne o aria

che per caso – sempre mi trova

qui a Sesto, nei suoi lezzi e nella

sua essenziale forma. Nessun uomo

saprà imbrattare la salvezza

di questa India che mi ossessiona:

non è una vela né un mantra, certo, ho già

fatto chilometri verso nord, ho già saputo

che morirò in periferia, con l’intelligenza minerale

e un gettone per tacere: ma ciò

che soffrivo non ero io, né la vetta offuscata

toglie ai viandanti il loro slancio alla civiltà.

Vomito e cielo, quando si incontrarono,

stupendosi, in noi. Quella volta

guardai bene. Infamie minute, i grandi stili

dell’industria, il gas del pomeriggio… era

la stessa attenzione al finimondo

e ai soldi che mancavano, con le mani

scrutate e le spalle nel nulla, nella casa,

e nell’ora conosciuta da tutti, quel

dialetto preciso, quando enuncia

le mie probabilità e non mi guarda.

SI FERMA, INCONTRASTATO, UN INVERNO

Per Ivano Fermini

E poi ritorna, perde il contatto.

Per bontà verso

di noi, tu gridi alla luce questo cervello

senza più terra. Intorno,

sorrisi di trionfo, donne

anch’esse innate. Qualcuno di me

brucia la gramigna, in fretta,

vedendo o sbagliando.

“Non possiamo impazzire”, dice

un’altra vita. Si apre,

senza millenni, il costato. Rimarremo

come una lente esatta.

A.

Compiendo trent’anni

in uno solo;

sorte

congiunta a tutto il presente

e al chilometro già veduto:

finché, di mattino,

le saracinesche si chiudono

e da un punto decrepito

qualcuno ritorna e spara.

NEL GIUGNO DI UN INCUBO

Improvvise acque

dell’ora,

voi che scendete

sui capelli e portate una madre

nel porto;

misteri che erano repellenti

hanno sciolto

questa ragione:

e il gemito, la vendetta che

latrava sopra l’annegato

ora ritornano

sillabe

greche!

Se rimani lì, diceva la voce,

non sarai preso, ti voglio dire, lo schifoso

preso che vermina

il tronco dove uccidi le mosche

purissime… tu…

… morto del cortile…

non puoi cadere, non c’è vento.

Ma resta, subito,

resta dentro gli uomini e le donne

oceano di un errore che vive,

del seme: “non c’è – verrà – lo vedi

nel ribrezzo, nel

miracolo invocato”.

Siete un attimo

delle dita – ostia sbarrata,

millimetro che li divide da un ospizio –

c’è una cosa incerta in voi

chiamanti

dita vecchie

spaccatevi.

Oppure correte,

correte via dal panico

di chi ha

tutto il tempo. È giugno,

certamente, della vita: usciva

dalla sala-parto, camminava anche lei

sull’acqua, ombre finite

nella realtà. “Guardaci tu,

ribattono. Guardaci: siamo

i fratelli che ti chiamavano, ritorna,

siamo i ragazzi nella terra.”

Sì, come mosche affogate dentro

l’olio della cucina: fa’

che non urlino più, dio

della pozzanghera e delle zampe,

e benedici la voce,

lo squillo

del telefono che ha riconosciuto

chi parla.

“Tu sai perché un cervello

impazzisce.”

Ma loro, briciole del conosciuto, piccolissimi

volti degli uomini,

dov’è il grano diverso e infinito

della vostra pupilla? C’è un grido,

almeno un mostro?

Te lo chiedo, ro, dopo i trentadue anni.

LOCATIVO

Fili invisibili…

si alzano le ciglia e il luminoso sì

si riempiono del suono

degli altoparlanti, si ripete il suono,

di vestito in vestito,

contro lo schienale

così mani al risveglio perforano lo spazio

che tu guardi sugli orologi, invocando

cose ferme, un filo di ferro, un lucchetto

terra del viso.

31 AGOSTO 1941

“Gli spettatori erano silenziosi”

“Un silenzio totale?”

“Sì, ma nell’ora del treno – che consegna”

“Cosa vuoi dire?”

“Si spaccò un vetro, all’ingresso”

“Quando?”

“Mentre controllavano i cronometri”

“E poi?”

“Il rombo delle caldaie di Čistopol cessò”

“Come è potuto accadere?”

“Non so”

“Ma lei?”

“Lei entrò nella pista, con gli altri”

“E le sue ginocchia?”

“Le ginocchia fremevano, pronte, sulla terra battuta”

“Erano già ferite?”

“Sì, ma scattarono subito”

“E i capelli?”

“I capelli erano scuri; scuri e molto corti”

“Morì oltre il traguardo?”

“No, subito prima, qualche metro prima”

“Come lo sai?”

“L’ho sentito. Le gambe si muovevano; però

lei non era più viva”

“E spezzò lo stesso il filo di lana?”

“Sì, lo spezzò”

“Aveva giurato di spezzarlo?”

“Sì, l’aveva giurato”.

VIA PROSPERO FINZI

“E tutti arriveranno

perché è già stato sospeso

il tempo che non conduce.

Vedi, pochi anni

davanti a me, come

una morte proibita: lasciami,

lo sai che non cado.

C’è un ricordo,

una risata in cui cambio o mi fermo.

Tra questa folla

di semisvenuti e di corpi traghettatori

la pastiglia si mescola

al sangue; e noi scendiamo.

Ma senza colore, senza colore.

Al ritorno, Dio non troverà

neanche un errore per decidere.

Guardo il muro

a cui ti appoggi, tremi, ridi.

Anch’io sono nato lì.”

RETTANGOLO

Gioiscono lì, unghia, come tu nella tua

bianchezza, le linee

a fondocampo, dove essi

recidono l’estremo gioco

della bestiola che va nel grano

regna

senza tregua e senza parlatoi

la vita maschile.

COLLOQUIO CON IL PADRE (I)

I prigionieri, hai detto, trovarono

un varco nella cella. Alcuni

morirono assiderati, di notte.

Altri invece, bruciando i loro vestiti,

si salvarono. Ma perché la sentinella

tacque? È vero che sparò solo sui morti?

COLLOQUIO CON IL PADRE (II)

La benda fu crivellata

ma non gli cadde dagli occhi. Le persiane

si chiudevano… sono certo… si chiudevano

e nessuno può perdonarle

nemmeno adesso, in mezzo ad altri finestrini,

pacchi postali. Questo camion. Adesso

è buio. Era

come se sentisse

una sorella divorata, prima di lui, piombo

e luce… credo di sì… lei guardava,

era strana… era tedesca.

L’orologio fu rubato, subito, e poi

immondizia su immondizia, gatti

presi a sassate,

anche loro, come un aneddoto della folla.

ESTERNO

Giunge novembre per i pazzi che hanno

freddo e sentono il chiuso della prua

come un assedio remoto, come

un fischio di ruggine che smorza le canzoni;

e sanno che la morte

tra le vie vecchie ha anche una via più pura,

ora che un cervello lascerà sopra gli scogli

i loro anni, li falcia, li ricorda.

RITROVO UNA SINTASSI

Ritrovo una sintassi nei secoli già studiati

allontanando sia l’oriente sia le nubi.

È forte plasmare il sogno con ciò che l’idea abbraccia.

Nessuno violerà un sogno ereditato.

Ecco gelarsi, nel torace, le corse infantili

e alte che esso spinse. A volte so fermare

gli occhi sui cartelli stradali, sulla

forza d’urto precisa, che restituisce

a quel teatro la sua paura di morire.

KESA-GATAME

La panchina sventagliata

dal verde forte

ripeteva quel giro dove le atlete rimangono

e io getterò un lampo per dire: è

troppo perché uno di noi

soffra!

Piegano le lenzuola nel

burrone, il balzo avanza

nelle fessure di una porta: anche

per te, mente, rotta all’accogliere

il soffio delle corpe maschili

come è grande! E nella pace

odo il bianco e nero, collo, intelligenza,

polso, urto, linea… occhi e spazio da ghermire…

occhi si avventano

sulla terra dell’uomo, per fermare

dunque un triangolo

accesi i fiammiferi che fanno girotondo alla lotta

conterò fino a dieci,

dieci attimi delle zolle, poi arrenditi.

Sei… sette… e la forbice taglia

il bianco delle canottiere, premendo

un’aria che le dà bustine da quaranta lire

e i nerostellati

con il portiere in cielo,

quello tutto nero, sì, il bacialupo:

gesto chiuso a chiave, splendore

e sera animale… la schiena

ferma nello sporco del campo è

vera, ho

vinto!

LUCI DI UNA MALATTIA

Nel viso senza sfondo

un errore, per primo,

lo ha scolpito

senza calcare i passi, senza provare:

pura decisione,

puro bene dell’al di qua, e

con le mani asciutte.

In mezzo a tutto quel presente,

quando è più difficile

dare l’allarme che morire, sono

loro, non recano

altra notizia. Il pianerottolo

verdegno. È cessato il tempo

che non conduce

qui sempre.

Con i soldati

intorno al corpo, ogni molecola

accoglie il male

di una scheggia, confine

piantato dentro l’addome – sola

ma non orfana – perché scenda

questo urlo ossidato.

VISO INTERNO

Questo voleva dire

senza più l’arte di disegnare la vita

non fare domande a chi

ti copre di doni, ferisci

l’elemosina dentro la tua bocca

“l’ultimo cerchio del sasso gettato nel lago,

il cerchio che è già acqua e ha scordato

i suoi fratelli e inghiottirà se stesso”

DOPO I MILLIMETRI

Adesso quello che ho vissuto diventa

imprevedibile come quello che vivrò (1981)

Sfoglio l’agenda

dove almeno un tempo rimane

tempo nella sua targa.

Non più – non posso – quel

pianerottolo troppo ripido

pozzanghera delle murene.

Non importa

quale applauso è per loro

o quale pianeta vedranno,

quale portafoglio o qualunque

altro letto

cosa importa

a queste dita ringraziate.

BRASADÉ

Quello creduto possibile

(toglietemi la storia, presto,

se no come ricomincio?)

urta contro le foglie, scalciate a caso

ma vive, lì a dividere

il desiderio e l’organico, a umiliarsi

da sé fino a sé

non c’è più pace, così, per la terra, e siamo due

in sospensione

poco di me e poco di lei (“ti sacrificherò tutta la vita

ma non pezzo per pezzo”)

toccando un braccialetto, stringendo l’azione,

se non era giusta. Piove. Eppure rallentiamo,

guardiamo le risaie

e la vita di ognuno, questi campi in Lomellina,

non è nemmeno un oggetto

è finita però si prepara, è finita però molto di più

richiesta: dopo il pericolo,

guatati i nemici, stretti al fiato

i compagni, dopo anni

ti domando ancora, solamente: chi sei.

NEI POLMONI

La coperta, la sua forza, mentre crescevamo.

O gli occhi che ieri furono ciechi,

oggi tuoi, ieri l’inseparabile. Le fiale,

il riso in bianco diventano l’unico

mondo senza simbolo. Materia che

fu soltanto materia, nulla che

fu soltanto materia. Vegliare, non vegliare, poesia,

cobalto, padre, nulla, pioppi.

PARLANDO A DARIO

“Il tappeto cederà

in un punto preciso

non so quale

penso

che farà freddo lì, che

il passo crollerà

lungo una stagione

mi abbottono il cappotto,

il viso grigio.”

“Potevo fare da sfondo. Potevo

toccare cose.

Questa città, dicevi,

ci ha capiti sempre.

E anche dopo, traballando

sull’orlo della vasca

o ricordando un pesce rinchiuso

nel sacchetto di plastica. Non

saremo surreali. Morirai

indicandolo, il tuo respiro.”

“Guardalo soltanto, guardalo:

non separare i due regni. Non quello

che tu immagini, né

quello che vedrai. Le bestie

mi sfiorano. Pur di ritornare

in una cosa unanime,

il sangue è qui. Potevamo

toccarci il cappotto o renderci ciechi.

Sono tutti i nostri

atti di giustizia.”

L’UCCISIONE

Qualcuno esitò davanti all’interruttore,

ma poi colpì egualmente per un brusio

di giornate in cucina

ancora e sempre un’elegia di greggi

che il veleno tuttavia distingue.

Era questo, con stile di quiete, l’odio

e i mille atomi dell’arteria che aspettava

l’uccisione né rapida né dubbiosa né altro,

ma la pura uccisione senza orme:

in un candore di primavera si agitava il corpo.

Così continua la storia e tu hai il sospetto

di un’altra volta: millenni

incrostati nella resina, popoli

che riempiono la pelle, la pattumiera, l’incubo

delle mani, quando il sonno

le abbandona vicino al fossato.

L’ULTIMO

Quando ubbidisce al proprio peso

o da orizzonte a orizzonte cade nella radice,

i tempi più certi vegliano e, chiunque sia lì,

viene salvato. Allora ciascun giudice mostra

i solchi di una ruga visibile

come l’attimo che sorride di entrambi

o bisbiglia: “io vi ho inventati”.

CRONOLOGIA

… non chiamateci mai…

ma ora se li chiamo, al di qua

della finestra, ecco il numero

alterno delle morti e delle prime dita,

dove si apre un temporale

che ragiona in noi, che

guarda

tra un bar e l’altro, con

le scommesse del sabato pomeriggio

adesso che la guerra

è finita

ti posso uccidere

senza motivo.

ANTELA

C’è un crimine

non so se commesso o visto

in un tempo senza stile, come un’aria

di blu e di buio, che mosse

la destra. O qualcuno

che, morso dalla carie, urla.

Allora anche la mosca di pezza dà

voli indiscussi e anche

un ginocchio ferito nel calcio d’angolo

ricuce il maschio con la femmina.

RIMANENDO

Per Franco Fortini

Alcuni, a turno, tracciano figure.

Tu puoi correggerle con il gesso

o cancellarle subito.

Essi hanno denti purissimi, sono giovani.

Puoi osservarli di netto. E puoi – se è giusto –

salvare dei feriti: ogni piaga

e ogni slavina, ogni minimo grammo. È strana

questa bontà. Tu sarai visto tra molti anni.

Stanno scavando

una buca per il più vile. Con l’occhio

spaventato da sempre, egli implora. È grasso,

tra poco riceverà la spinta. Ora

tu chiedi che nessuno sputi.

Ogni cosa

avverrà in lealtà e in silenzio.

Ora entri, ancora,

nella palestra, partecipi

alle gare solitarie. Non puoi

più rendere testimonianza;

e i capelli. I vostri diversi capelli. Sicuramente

non puoi. Alcuni ti hanno rimproverato. Alcuni

ti hanno detto: “vieni pure; ma continua

a disegnare, come prima, due colori”.

Altri ti hanno detto: “finalmente

sei tra noi”. Altri ti hanno detto: “sempre

sei stato tra noi”.

Tu sai. Lo sai a bruciapelo: nessuno

completerà il tuo quaderno, né il suo. Forse

le pagine non bastano e l’errore

è straziante. O forse no. Deciderà un cestino,

un preside mai conosciuto. Tu scendi

ancora una volta gli scalini. Guardi

la rete, le finestre alte.

MEMORIA (I)

Con gli occhi fissi al mar Baltico

quel giorno

trafitto e classico, e il suo muro

è un cronometro tra le panchine, tra niente,

nessuna vita ebbe un monito

così quotidiano e altero, le stelle, qualsiasi

planetario, due luoghi del cervello

quando la fisica ripete nelle cose uno strappo

noi nati moderni

per moltiplicare grigio, oro e pannocchie

scrutando i controllori, forse armati,

un’operazione chirurgica,

corrono gli asili; e poi, nell’errore della specie, quel ragazzo

che si uccise al festival… mia memoria

e giudizio soltanto… nasce Teoria

ringraziando chi da secoli ha ragionato in noi.

Cosa può saperne mio padre?

Rivedo Simpson

sul Ventoux, con le fauci, attacco foto,

ti fermo con chiodi, valvole,

quelle voci mescolate

agli allarmi e alla Squadra politica, ai

bilancini di precisione

un aratro

nell’intervallo più piccolo delle tempie.

E adesso, senza nemmeno un contrasto,

le facce diventate a caso, in trattorie da poco.

All’origine della

mia destra c’era Sparta e una pazzesca bontà

come un cronista sgolato

non capivo che tutto… ma quante cose,

palmo a palmo, mi sfuggivano

con chiunque a urlare fa’ che la poesia non sia pace per

i morti… loro… hanno fame,

aspettano ancora una scatoletta

dentro la neve, un grammo al giorno, parlano

con l’alfabeto nudo

ignorandosi alla ragione della guerra, e forse

di quel tuo campo, questo,

il più bendato… dialetti

che radicarono Murmansk, natale,

una storia tra loro

contemporanea, se frugo in tasca

il biglietto, il primo colore dove per forza vado.

MEMORIA (II)

Fusi orari distorti,

un capotreno con la lanterna troppo grande.

La lezione di storia era già conclusa. Ci alzammo.

Siamo tutti stracciati, anche noi, coperti

con il sangue del ragazzo.

Mostrando un popolo, il suo naufragio

razionale, che porta un idioma

di giovane triplo cielo. Oppure quando,

senza prodigio a terra,

il fagiano si infradicia. O un altro silenzio

che gli assomiglia.

La porta era sempre abbandonata ai cardini: armadio

delle chiavi, chiavi che si possono udire.

La lezione di storia finì, subito.

“Elettra, sei giovane

però hai forti gli occhi.” Le cose in parità,

con gli orologi che le avviseranno.

Abbiamo dato denaro ai figli,

denudando in alto, un semplice elemento.

La stessa maniglia che un vecchio, per noi, aprì

come si ritorna al desco, con le labbra

di chi crede in dio. “Mi hanno

promesso un corpo alato, ma ora sono

soltanto sudore: lasciatemi scendere con questo peso.”

Preme sul legno un voto, come quando

lo iniettavi di alcol o di stracci, come si vede

apparire la grande carta sbilanciata

e altri uomini che ritornano con i tuoi passi.

MEMORIA (III)

Mi attende, nel legno, una fila di elmi

lenti uomini lungo la campagna

sono una fine che non diventò solenne

seguendo un morso qualsiasi, aggiustando

le coperte e le calze, nell’intero e nel mezzo

dalla radio la figura appare,

senza nulla, occhi attaccati

al nervo, seno terrestre

la materia si strappava già… forse

quaranta gradi… il pendio nel bisturi

Milo, perché la cerchiamo qui?

… perdeva sangue… anche lei…

una mascella rotta… non parlava…

i feriti si confondono, nella faida,

l’inchiostro sparisce, incendiato,

un pensiero bianco senza peso

agile schermitrice che vidi bianca

al Saini, un sabato pomeriggio,

mio padre, memore, ci accompagnava

dentro la neve, in salita

eravamo qui?… dicembre?…

ringraziando chi per sempre ragionò in noi

guardando il salto di Valery Brumel

due e ventotto, anche lui un russo

due luoghi del cervello, due visioni

di contrappasso, ogni cosa

puntuale nella sua puntuale data

molti, tra i più stanchi, si rinchiusero

nella tenda con un po’ di rum

era il sole, il più finto sole delle

vostre lettere, da Milano, da Casale,

nascoste sotto il vestito da guastatore

… krassivi… krassivaia… un minuto…

una zona nuda… non parlava… un colpo ancora

alle nostre gole e infinite gocce

padre, cupo padre del cielo, non

posso vederti, ti cerco con l’atlante

e con questa radio, giro le manopole

con le mani e i denti, dò colpi

se oggi taci ancora, accettando

un solo colore per il regno degli amici,

ultima, angelicata fame.