I
Quarto o quinto piano

ANNO

Scavando

verso un estremo di quaresima

sono stato spinto

dal seme. Mezzogiorno

che nel suo ordine si rovescia.

D’istinto puro, ogni volta, era

la mano fermata logicamente

tra gli agguati

di quell’età e il dolore di mia madre

non c’ero, non sceglievo. Dal citofono

esce colore mentale

dove l’uomo è nudo.

Quella goccia

vista nelle tre metà

diventò l’unica sostanza esterrefatta, un

fervore di secoli…

… ogni pino… ogni pino… fermati,

tu sei fra di te.

Ruote che si sottraggono lentamente

al gelo, umiltà di una porta.

“È POSSIBILE PORTARE SOCCORSO AGLI ASSEDIATI.
È POSSIBILE CAPIRE L’ESTATE”

L’inizio ci assale. Volevamo capirlo

alla velocità dei morti, perdonare

le mani, quando urlano che nessuno

udrà il fruscio di queste biciclette

tra quindici anni o un rovescio di pioggia. Questo

palcoscenico impazzito sottovoce, queste toghe

in burla, che nemmeno il nostro

più storico ieri potrà recidere: nel taxi

a ferro e fuoco ecco le tappe e le abitudini

del crollo, il medesimo spavento circolare

mescolato a un valzer di spilli. Quindici isole

dopo l’infanzia. Tra poco, a Bari, aprono

le edicole. È mattino, nient’altro.

RIGA

Alla testa ondeggiante nel mirino

preferimmo una

malattia di gradi freddi e sottrazioni: è

odio anch’essa, lo so, ma questo

fuscello si fa idea inseguendola per

un anno di limbo. E noi, applausi

scoloriti, abitammo la notte,

la sfuggente, meravigliosa pedana. Penetrazione

di sole in grano, che è madre. Superstite

che si chiama padre.

ARIA FESTIVA
PER IL TERZO MODO DI VIVERE

Difficile rispondere subito – ero lì –

a un pianoforte che concentra il bene

con distinzioni violente. L’estate viene vinta

di poco. Troncando questi piedi a fiori, chiudendo

i soldi nel mappamondo, un rosario

gelava nell’acqua, pura acqua spezzata…

… nostra minima christiana… le giocanti

disegnano l’ira, bosco dell’uomo, le altre

lo abbattono con colpi di mosche cieche

in un magistrale fescennino elettrico.

Allora la notte non viene

dal cielo, ma dalle case e dai muri.

Al primo sibilo mi acquattavo

come il mio vero gatto

il gatto con gli stivali!

Ricordo le lampadine a cinque watt

ma non il sole… non il sole…

Quel disegno che ci obbliga, quel

mucchietto di meraviglia tra gli uomini

quando gli elettrodi si toccano

ogni temporale comprende

questa tattica… sabato pietre… sabato vivi…

millenni di una legge latina

che cucì pupille e ciottoli.

Anche oggi il cucchiaio è aperto, posato.

Inceneriti si accanivano sotto la bella realtà

come poté qualcuno succedere

come poté la notte bevuta cruda

sono tutti i nostri atti di giustizia

contro l’istinto dell’arcobaleno

schifo sii netto.

LE COSTANTI DEL TEMPO

Scrivo sul cartone, sulla

foto di gruppo, sulla gabbia dei colpi

che i malati talvolta hanno. Come spose

camminano con l’acqua, sanno che

la vita ha chiesto un solo miracolo osceno. E penso

al tenero catechismo del salesiano, quando

morì balbettando in un dialetto. Giancarlo

era con me. Disegnava

strani animali, aerei sui tetti. Pregava. Non

per risorgere o per un altro azzurro. Voleva

un’arte più serena di noi. Pregava così, la buona avventura,

lo stesso colore, qui, dell’insonnia.

LO STRACCIO CADUTO NEI FOSSI

C’era, figlio o figlia, un mattino

triste sulle colline. Ho cuore

di dirtelo con la stessa musica di verderame

e stalle, la musica abbreviata, la stessa goccia

che vedemmo nelle tre metà. Nessuna epopea

ti parlò del denaro, nessuno ha saputo

stanare un pianto nella più assoluta scultura… non era

lì, non c’era mai stato… olim… et

olim… et cotidie… et cotidie…

felice chi lasciò intatto il quadrifoglio.

NUBE, NULLA

È un sonno senza materia, un dialetto

che dalle rovine bussa alla montagna

dentro la razza della montagna. Il più frenetico nulla

seppe sprigionare colore beffardo, ma anche

l’esatto colore dei funghi: scende una raffica

di grosse gocce calde e la lettiga è ferma

davanti all’ergastolo

quelle nozze si stringono

a uno spargimento impazzito di cigni.

“Lasciano senza fiato, oggi, le mani giunte.”

IL CINEMA DEMOLITO

Retrocede di foglio in foglio

strano balletto di anatre tra i twist

di un sud paglierino. Sono viscere abbreviate.

Sono verso la mente.

Una legge, la medesima legge

di sangue povero, un plenilunio

tra dodici o tredici piedi d’acqua

ciò che è vero

imprime crepe alla parete.

Basta un cappotto, un lembo

del suo codice penale per scendere ancora

con un segno di croce,

ed è giusto che rimanga

lievemente insondato il tesoro. Non ero io

il cadavere con la fisarmonica in mano

ma un collezionista demente

incoronava l’urto alle nostre meningi

con bucce, ordigni e preservativi, fedele al

primo capogiro.

Anche quella fu la costruzione di un luogo,

di un’agenda allegra. Segretamente

e ovunque ogni brocca è colma.

CANTICA

Marzo chimico dei morti, che ci guardi

e torni nel suono: gli allievi irridono

saghe di famiglia, si iniettano paesi invernali

con la strana innocenza di quella saliva,

metà della sorte e metà del maglione rubato in cantina

finché uno mi bisbiglia punta il quindici…

ancora il quindici…

e io lo butto tra le carte, i gettoni

e non distinguo i colori, non so

quanti chiodi togliere alle suole, quanti anni

ho voluto di troppo tempo.

HANTEY

Come un assoluto agli occhi, un buio

di fronte a sé avvenne il magistrale

volo rallentato. Sorella di nostri

chili di foglia, affrontavi a terra

i temi di un maschio. Così

fu l’amore matematico. E io voglio questo.

Voglio che ogni goccia

resti alta, breve arcangelo

chiuso dentro l’aula. La goccia

sul disegno a tema libero “Fughe per tutto

il rione, con il cinque al sei,

nemmeno la sufficienza… e nostro padre

cerca le foreste sacre

impugnando una pistola ad acqua…” Era questo

il primo buio saliente,

lo ricordo, una frenesia di fiori

togliendoci le scarpe, mirando al millesimo.

Come ridemmo di essere pari!

SCAMBIANDOSI L’AGENDA

Eternità geniale, che

formi puntini verdi

che non ci sciolgono: in un sudario

di vite trascorse

ogni uomo ci dà una vita a testa,

quasi di frodo, imitandone il richiamo,

chiedendo di tacere. Sia intatta

la schiena di vertebre e postura,

intatto l’urto sul magnete: quel fervore

di secoli, se esplode, sia vicino, legno

nel cuore del legno, la stessa

paura di chiudere la porta.

TERZO TEMPO DEL DRAMMA IN ATTO

Cani nella paglia, e stava accadendo

lì, restava lì,

alla difesa nuda della bocca

dopo il contatto buio, le

piastrelle con gli escrementi… loro…

tutti loro… identico il meccanismo

del motore e del seno. Il sudore,

gli sbadigli da trattenere con un

mezzo sorriso. “Sì, il discorso

fu abbreviato… poca gente a Neuilly… il tempo

si guastava.” Era lì, ma stava come

nella luce dei tavoli. L’ufficiante

non scese dal camion… notre père qui es aux cieux…

ai nostri debitori… ainsi-soit-il. Era quasi

pomeriggio, questo lo ricordo, era un

uomo buono e sepolto.

II

Contro questo bisbiglio madornale

infine converge un monologo, un angolo etico

che portiamo intatto. Ricordo quando

ha spedito il primo espresso

quando ha arrestato il fuoco fatuo, la scala mobile

nel centro del suo sdrucciolo. Questa linea

lo ha assolto. Qualcuno doveva restare lì,

guardare il culo della barista, sputarsi addosso

per due marchi. In questa

strada astratta siamo nati. Un magistrato

popolare fece tutti i prelievi. De Gaulle

firmò sbadatamente. Altri cani

senza tibia trottano in una finalità.

SALA PARTO

“Non bere la neve,

la neve è una malattia con piume e stormi,

un moto tra i pianeti, una

lentissima bugia. E noi abbiamo venduto la luce

con due spighe fuoritempo,

abbiamo la morte nelle gambe cieche.”

“Ricorda la storia

di Fracido, nel terzo reparto: vide le mani

del chirurgo che non scordò il suo errore,

le mani sulla maniglia del taxi

i vetri pesanti che gelavano,

la corsa violenta.”

“Non ti ho mai parlato

di tua madre. Era

bella come l’alga, triste

come i tentacoli dell’aragosta, forte come le

pupille.”

IL SALUTO CHE MI RESTÒ IN COMUNE

Finestra di nessuna velocità.

Finestra divisa in gridi.

Strappo di femmina e maschio esatti.

Riconoscere queste voci asfaltate.

Era il disgelo; era cenere e ruota.

Sempre due, nell’amore, i ritorni. Sempre

Due. Solo due. Solo due.

SECONDA DECADE

Un qualsiasi accento si creò, ed era già

un dio benevolo il manichino

con gli occhi sbarrati sul grilletto: ancora

trattengo il respiro sul segno zodiacale, sul filo

di cardiogramma che ci fa pedine

distinte dal suolo. Non questo nome, ma il suo rovescio

flagellato a vele. So di invecchiare

nell’unico principio capito, se sono parte

di quella placenta, se spoglio ancora la

confusione dei morti,

ciascuno fu quello almeno una volta.

L’erba cresceva sul cappotto. Alba

tu la chiamante, l’intero domani.

QUALCOSA CHE RESTA STRACCIATO

Il vetro accelera

una morte inversa sulla campana, e spruzzaglie

di sole come province ereditate:

ogni tenda diventa energia,

identica energia plurima

e dentro il nero un dettaglio.

L’acqua che imbrattava

ora ha un tratto logico, un dolce negozio umano

Il buco è nell’unghia

Ed è il novecento di sempre

Come un dolore che s’inchiodò al latte.

Pomeriggio esistito in crocevia.

Quando ricordo tutto, io maturo

Quando ossessiono tutto, vi ospito.

Quando si accartocciano le robinie

il tuo seno più temibile

arretra – tunica d’argilla

nella tunica alta, due nozze.

Come una specie di equilibrio esteso

vecchi lontani lasciati liberi

portavano le lenticchie a capodanno.

Nel fogliame c’è un coro

Di musicanti astratti.

Nell’odore pesante di stufa.

Il lavandino non si svuota.

Bicchieri realmente morti

Galleggiano con un significato.

Ogni volta

si sfaldava nel ritenersi cosmo

tra i suoi capricorni. Le bocche,

dentro un nero di polenta, chiamavano me

inseguendo la culla. Con la realtà

chiamavano me.

Ascolti, per favore. Cado soltanto

dove mi colpite. Non ho nemmeno

un dolore allucinato.

Nessun pendio nel letto. Il quaderno

non dà più comandi. Sfoglio

questo legno liquido, dove ogni

inverno si fa terrestre

con un terno di colpa.

A memoria dunque,

a memoria ci siamo tutti.

TALVELA

Abbiamo visto mutarsi l’alba più volte

in una notte di sosia

I dettagli più avidi di nostra madre

si mescolavano a un vento olimpico

Ci hanno portato un tavolo da cucina

sotto il portacenere c’era il nostro nome

Abbiamo bevuto l’acqua

con l’angoscia che si ha dei sacrilegi

Quando ogni cosa, di fronte, cessò

siamo stati un mimo magnetico

Quando Via Lorenteggio fu deserta

abbiamo giocato a dama e cavaliere

Se giunge una spia nelle vene

non dimenticare questo.

ISCRIZIONE

I

Tornando indenne

dall’orto degli ulivi, guardo

sul giornale il dubbio scaltro e il dubbio vero

nella mia foto segnaletica – università, acropoli

officina – quell’estetica

della mente solidale, del selciato.

A quale

eternità avrò pensato?

II

Il professore spiegava geografia: dovunque vada,

questo amore esiste, nonostante i villaggi

in cui mi sperdo, mi volto, chiedo strada

io lo so, davvero sento

che niente sulla terra cambierà quel

perfetto fui contento.

L’ORA LEGALE

“Mio figlio sbanda agli angoli della stanza.”

Quella che abbiamo visto ubriaca in una

spiaggia dell’adriatico

con la sua eternità di vita e balbuzie

dentro noi che non possiamo

toccare senza contagio

e camminiamo verso Santa Rita della Croce

… con una minuscola…

con una pura minuscola si ricomincia.

Ricordo il cielo

degli amici e la paura del papavero: ogni

debito è rimesso

in campo e in canizie, in

piombo, in cecità.

Ma quel volo compatto e fissato al lampo

come una testa di fronte a sé, come un dubbio

rallentò da un solo lato. Il cardiogramma

fu disegnato a matita

da qualche dio consenziente, e le donne,

le donne felici.

TELEGRAMMA

La finestra è rimasta come prima. Il freddo

ripete quell’essenza idiota di roccia

proprio mentre tremano le lettere di ogni parola.

Con un mezzo sorriso indichi

una via d’uscita, una scala qualunque.

Nemmeno adesso hai simboli per chi muore.

Ti parlavo del mare, ma il mare è pochi metri quadrati,

un trapano, appena fuori. Era anche, per noi,

l’intuito di una figlia che respira

nei primi attimi di una cosa. Carta per dire

brodo e riso, mesi per dire cuscino. Gli azzurri mi chiamano

congelato in una stella fissa.

PROTEGGIMI MIO TALISMANO

Marta abbiamo trovato la cassetta

che un mattino nascose nella sabbia,

nell’urto, nella tastiera, marta

una figura umana non ultimata porta

quello che resta del suo accento, ma

domandava sempre verso un vetro, ma

non c’eravamo e il vestito cadde

sull’asfalto marta c’era un segno di

scarlattina dove inizia il petto, la

doppia giustizia, il doppio abitacolo,

la madre di piuma che noi lasciamo.

TRE NEL DODICI

Anch’io disegnavo un quadrato perfetto

per cavare sangue dalle pulci!

Vi ho conosciuti così, tra questi ruderi,

raccogliendo il quaderno ustionato, stringendo

una rosa che vacilla. A volte bastava

uno sguardo ai giornali, al tavolino girevole,

era il segnale convenuto: atto

femminile di fede,

cresceva in mezzo agli olmi. Il vostro scatto incantava

mite e allucinato: due colonnine tra le tempie,

due sentinelle ci appartengono per niente.

Così, a incursioni, venivo

da voi, nel doppio bene

e non so

quando cominciò a nevicare

però in tasca trovavo sempre qualche cerino

sollevando il corpo spossato di una formica

aspettavo che tacesse

quell’unico, potente secolo.

MAESTRI CAMPIONESI

Alba sottoterra, strofinio di petti nati

semplice totale gloria

nell’angolo duro del latte

non esplode la somma. In alto

marionette appese – è la

torsione della pineta –

in basso macchie di gasolio.

Attendere la terza linea

sul maglione, non un capogiro, ma la luna identica

al proprio codice terrestre:

se la baccante si salva

negli stessi colori di porpora, è il suo

inferno che riempie la riga dopo

se deformato dal cofano

ora riscalda questo vassoio… a memoria

ancora una volta ci siamo tutti.

“VERSO LA MENTE”

Prima che dormissero le mirabelle

e la vera carta diventasse cieca

indietreggiò sentendosi

colpita e non riconobbe

il cane nell’acqua…

era suo padre…

corse via dalla cucina

fece un cenno

dove capitò il cielo

stracciando la carta carbone

lavando i bicchieri con la cenere

anatre come patriarchi

sorvegliano che tutto sia in ordine

tirò fuori il costume da bagno

e lo mostrò alla notte

bilance rincorrono bilance

la benda odora forte di

zuppa di pesce

e il grembiule è rinchiuso nella testa:

attese sul platano che

un lungo pensiero finisse

poi si affacciò alla finestra

e mentre l’erba aspettava

erano passati nove giorni di

giugno.