II
Videro tutti

SEMICERCHIO IN TERRA BATTUTA

La parola in me giunge da vicino.

Una vena diritta, uno scompiglio di fossili

tocca la riva, mi unisce

con l’ingiuria preparata: può essere muffa

o ulivo, calce o faro; può inoltrarsi nel sangue

senza musica, cercare per terra

bucce e salvezza.

Così, dentro la carne dell’uomo,

un sortilegio è bevuto: il medesimo giornale lo porta

tra le docce, a mezzogiorno, strana

musica di pollai e di candele.

Vede il perfetto buio, l’asticella.

IN NOME DELLA VIA

Azzurro fossato che seminai, azzurro

mio tributo alla discordia,

ho una sola pietra da scagliare eretta…

… proprio a te, che ruoti tra miliardi di papille… una sola

muscolatura pencolante all’uranio, questo

teorema di quattro mani. Se lo afferro

adesso lo sai, è la tua morte che afferro;

la tua morte nei cieli completi!

È ancora un brusio di messi: riposa

quando noi riposiamo. Ed è la stessa materia

che lontanamente accorre. E quale marzo

quale marzo è oggi?

NOMINATIVO

Foglie volano tra i centri nervosi. Est

è la parola più scossa. Non è il peso

della sua sillaba. A lungo guardi la lettiga

gremita d’inchiostro: metà

nella terra che discende, metà nella

prima ora. “Abbiamo visto un lago,

abbiamo parlato.” Penetrazione dei vetri

nella fame. Padre che mi chiama padre.

SABATO PIETRE

Contai i colpi, simili a un urto

dei piedi; la pulsazione non si arrestò

ma fui gremito dal bianco, fui la

paura, una stellante discesa

tra bene e male fissa il neon

come un immenso anestetico e la

schiuma da barba, vera cosa

pregata… nostra inimica mors… sputando

sul cuscino, non essere mai

stati figli, sbalordita fotosintesi,

sbalordito sacrificio

della pittura che sui camici si annulla,

fittissima di nulla, ventuno.

L’ORA DI PUNTA

Sui fiori non ho

avuto visioni. Contro un canto

agreste uscito dal vangelo

spingere l’urina

sotto un cielo di ananas

con i giochi d’azzardo popolari del mio razionalismo.

La rosa furente

atterrò la rosa fuggita. Giocoforza di un luogo, fu

un semplice finale. E fu vera la domanda

su quante travi portai

agli assediati: ancora giungo

a mezz’aria con una specie

di radio demente: con un lavandino

sacrifico il mare. Se mi sono allontanato dai colori

è perché ci fosse almeno un gelo

precedente a quello umano.

“Sì, dopo la messa,

è possibile uscire.” Parlai della donna. Artemide

si pettina i capelli blu

nel sovraccarico di certe presenze domestiche… l’ho

sempre voluto… metà del velo, metà

della guardia seconda… un

capogiro dentro la piastrella.

“Ma domenica, non ricordi, è stamattina.”

E l’interminabile principio dei prodigi soffre aperto.

NADIELLA

Giugno nelle epoche, pioggia

per un anno di limbo

avevi un titolo? chiudendo

il capogiro, ci sai femminili?

L’aria mutare in strada

eseguire la caduta

usare le labbra.

INDIA IMMENSA IDEA

Era metà assoluta ed era

suono di ossa e carta, qualcosa

ti creava prendendo vita da un

cavo sospeso: nelle sere

capite a stento non volevi scrutare astri

ma questa polvere che in cima si fa

cella o peso.

Uomini intontiti tra le rovine guardano

il pagliaccio che rema col salvagente,

allo storcersi delle membra

la più semplice giustizia, il dottore

di briciole in terra. Allora

anche noi saremo fuori dalla congiura.

TRADUCENDO INVANO

Retrocesse il doppio impazzire

indicando un superstite, ci chiamava in equilibrio.

Più nostre sembravano le uova

sfiorate in un anno di digiuno. Sia

l’eccezione; sia intatto o definitivo.

Cara mano di borotalco e di taglio,

altri graffi affondano

e il suo vero canto nuziale si è perso

in un turno di treni. Non hai

imitato la morte, era

quella vela che tenevi ferma.

TODETI

Dietro il fienile, per terra, il disegno

di una gola piegata e le macchie di sperma.

L’uomo uscì subito. “Di lei nulla importa:

se ha urlato, quello

fu il suo urlo. Noi non abbiamo

riso vincitori.” La regola

era sfuggente, ma più forte e primitiva era l’aria.

“Tutto di lei conta, mescolata

agli immensi doposcuola, all’unghia,

alla cittadinanza.” L’estate sembrò fermarsi,

in cerca di cibo. Era la bilancia delle due.

“Noi siamo la signoria della mente e la colla

che unisce un solo lato.”

DEIVA

La nascondevo come un musicante

dentro il tuorlo che muore, la nascondevo

dentro un corpo dedicato… oh Deiva, per virtù

brillava anche il seno sbagliato! E quando

il gettone cadde, disegnai questa figlia migrante

con la nostra allegria, col mio pudore. Era

la stessa ed erano tante, come a volte si leggono

entrambe le mani, come una strofa storta

in direzione del cielo!

L’ANALISI DEL PERIODO

Quello che nella busta consegnai

fu in me e in loro

il grande indegno del piccolo,

un vero cucchiaio

si piega sulla guida telefonica

mirando al secondo

tredicenni irridono generazioni,

iniettano un paese invernale e una foresta

di rette multiple, la decisione di non respirare.

Resteremo, ogni sera, fino al

chilometro indicibile novecento.

SABATO VIVI

Crescono in un principio di squadre, si gettano

sulla persiana. Fu vero il saluto

alla città occupata. Vera la paglia e i pupazzi

dal semplice finale. Con ogni pietra

di questa salita, dall’incubo estraggo le

figure. Si sveglia la collana

di latta, si svegliano l’inchiostro

e le calze color magenta

nel punto morale della ruota: singole

parti di simpatia, ancelle

scaraventate in un secolo, la loro investitura.

È l’arancione

misto scintillante su cui stampano i pianeti,

la piazza estrosa di Vercelli:

come una pittrice dalle mani elette, distribuisce

al mattino i sonniferi, le gocce di cobalto.

E se tutti invocando, tutti aspettandoci, se ho fatto

la mia parte… anche quel tributo

ai gradi freddi fu intero… qui… la taciturna

delle colline… vista dopo vista.

LA COSTRUZIONE DELLA LUCE

Una masnada di ragazzi con

la faccia da topo circondò la mia tristezza

“Sbattimi piano… non togliermi la gonna…

ora è la città che mi aziona il respiro.”

Quasi propizi alla testa giungevano

dal lato senza muri, si arrampicavano in aria

disponendo pagine e pagine. Era l’anniversario

degli oggetti. “Mi sono svegliato in un treno

di zucchero nero. Avevo qualcuno nella bocca.”

Altre donne si distesero con il mondo,

leggi o sonno di chi compie

l’imperfetto e torna… i muti… loro…

i muti nell’acqua… loro perdoneranno.

ESERCIZIO CON LE STATUE

Chi mi ha spogliato

con un movimento del compasso

assomiglia alla vita, e io scrivo

dove la tua ferita semplice

ieri fu pianeta, oggi ape, ieri l’inseparabile.

Sono te che hai veduto il giro

nascosto nella testa. Siamo

rovesciati in un fiore, quel

centesimo di veleno: riga spirituale

e anniversario della menta, pieno e vuoto.

A quel panico dei due o dei centomila

posso dire infine.

IL NARRATORE

Giudice di un sasso abnorme,

al caldo dei moli, al freddo

degli olmi. Lentamente

gira il polso

tra laser e dolci nomi di albicocca

anch’io abito in questa porta girevole

scorrendo la colonna degli annunci

con pitture in affitto, gatti regalati,

busso a questo culto ebete,

insegnando l’alfabeto con la stessa fantasia

che mi oscura l’altra parte.

PERIODICO DI LEGGE

A tarda ora, senza buio

una biglia fu l’occasione

che sollevò il suolo

numeri fermi tra un archivio

e il gas della sera:

qualcosa urta qualcosa

per una carità che nell’odiare avviene

strana desinenza dell’infinito

quando tutto è un faro

e un faro è soltanto questa idea

nel grande convento di ali conservate

nel grande congedo di ali conscie

noi cancelliamo

dolcemente la campana.

Grazie per l’indice

che puntò oltre il suo genio.

“È VIETATO SCAMBIARSI LE POSATE”

Nelle monete che noi all’aperto siamo

camion a luci spente e antichi

uomini achei hanno lo stesso alfabeto, la stessa

insonnia dei grandi taciturni, quando avanzano

testuggini con le loro donne di legno e il bronzo forato

sopra il naso. Conosciamo così

il segno sacramentale della bora, le orme

tastate con forza da qualche cieco

ma il gioco va in dentro: questa punteggiatura

è suddita, cade davanti al primo cognome, ci ripete

di venire tutti alla sirena delle dodici, tutti

con il diario dell’inverno.

La pulsazione non si arrestò. Con i vetri

alimentavo il fuoco e lo amavo come uno spavento.

Con la prova dell’urlo schivavo collisioni,

portaerei allo sbando. Con le unghie misuravo

il nucleo dell’altalena.

Adesso l’alba è una goccia di brina

Adesso la morte è più lontana

Più vicina.

GRUPPI CON BRACCIO DI GIOCO

Un maestro è il suo discepolo migliore

Scompiglio di mandorle o silenzio

L’indomani è questa sillaba

Seguendo le parti deserte, udivo

nella sala i rumori del filo, lento disfarsi

del pensiero tra una donna corale: asprocanto è il

suo inchino, se un’orbita eccede,

giunge come un cieco a stanarla.

Ombra di cui intuisco profondo lo schema

il bianco giocoliere porta una foglia di lattuga

un duello sorge consacrato all’angolo.

Un maestro è un contadino di Alessandria

È la signoria del carcerato

Un intero corpo o un intero fuscello

Nella stessa corona circolare

Un maestro è il mio nome alla rovescia, il terzo

Nome che ho dimenticato!

EDIFICIO SU SCALA

Lo sappiamo quando la mente è presa

non potendo alcuna terra girarla

ingarbuglia la sua rete alla nostra,

tagliata dall’esterno, scolorita dall’alto.

Per dirsi grande,

un amore deve unirci senza i morti, per

dirsi più reale del dolore, più insensato. Così

aprimmo il sacco con la farina

che scese incorporea dentro la cella, coprì

il dente marcio, la rosa di plastica. Dal cortile

una marcetta nuziale si mescola a noi,

ci fa nascere lì, presi in basso, cerchio

e mani sul discorso diretto.

MILANO

Chiedevamo alimento e un tiranno

esistiti in mescolanza

guardando dalle vetrine di Via Boscovich

le serpentine di ogni nervo, la sala giochi e il viola

azzardato della cassiera – bisbigliandole

la sua fosforescenza.

Ogni virgola in più è già un voto di condotta:

quella bara di ingiurie era cronaca comune

frugando nei cestini se c’è posta, bevendo

allo stesso rubinetto intasato.

Sporca di gesso, ogni mano ricorda

una vecchia nel suo vero

canto nuziale. Rivedo quelle mani.

Le mani dell’astrologa

che non perdonò il suo errore, le mani

del tuffatore russo che sbattè sullo spigolo

e quelle che gli tennero tiepido il respiro.

Qualcuno, al mattino, nuota nel canale, sente

la forza del pilastro, la forza terrestre

che una cosa appoggia… e le mani…

sono viscere abbreviate, sono quelle

del cappellano isterico alla centrale e quelle

vicine alla stiva in un giorno

di digiuno, con le sue figlie

vedove prima di ricevere lo sperma negli occhi

Raccogliemmo così, in un punto sensibile al centro,

questo dialetto di trucioli

e di brevi. L’infermiera

intona Stille Nacht: risposta precisa, nel dente,

giorno acuto. Imparo a distinguerli: dapprima fanno gruppo;

poi, grano per grano, tornano al dormitorio

e quando una donna li teme premono sul buio, mi portano

nella sala grande, giochiamo a ping-pong

dividendo quattro piramidi di riso.

“Guarda, con un cappotto

mi difendo dal male.”

TARTARUGHE DAL BECCO D’ASCIA

Sono lucentezza e disunione

Jean Seberg mi chiamavano da piccola

Sono una stella dal talento casuale

Qui al Giuriati il campo

È così calmo, smisurato, stamattina.

Attendiamo che si apra, alle

due e mezzo, un corridoio di cognomi

lo stesso borotalco sulla camicia, un po’ di

borotalco incenerito.

Quando ho visto la foto,

era un giro di quadriglia, sottovoce

la sabbia dolcemente

una fronte sotterranea, quando sento

traforare questo legno, s’intreccia

la sua mente a un libro spento.

Torneremo nelle processioni del riposo

Le aspetteremo come mali idioti

Torneremo nelle terre immobili

Ma vere per me che ho voluto assomigliarle

Il filo dell’alba ha quest’ordine.

TEMPO CONTINUATO

Ci ha consegnato

poche scatole, identiche,

piene di latte, di nessuna maternità.

Sono allarme e completezza,

sono rottami. Nell’ora di un quaderno, questo

quaderno essiccato. “Non mi trovano

gli occhi.” Allarme e completezza. Di colui

che ci accompagnò sulla terraferma

tutti noi serbiamo lo stile.

IL PROGRAMMA DI HILBERT

I

Siamo caduti sulla sedia

per un movimento sbagliato della biro

aggrappandoci alla grazia,

alla nostra grazia annerita di tabacco.

Siamo caduti sul balcone

da cui gettavano sale. Ultraterrena,

una sostanza congiunta all’uovo

scruta i tempi finali dell’ossigeno.

II

Sulla destra la nostra

firma che ci torna contro. Sulla sinistra

un sirventese a punta secca:

“tua figlia, viva, prenderà l’anima

alla mia che muore”.

I ballerini ci chiamano

nel corpo sottostante, hanno

un tacere e un voltarsi

matita d’erba nella matita alta.

III

Interi ripiani, pieni di oggetti, crollarono

nella banca. Rivedo quella scena:

la gente ammutolita, la celere,

gli angoli e il filo rovente, strano rondò

di una parola.

al culmine della luce e della gola

“… ogni pino… ogni pino… fermati, tu sei fra di te…”.

IV

Così facemmo nostro il rimorso di

ogni ladro; indiziati,

abbiamo vissuto d’incenso

dietro il cristallo del gineceo

fissiamo l’assoluta metà

di una cosa, un alimento

ripetuto a decenni, chiuso nel midollo

raccogliendo per terra pianeti

della fortuna, scatolette per gatti

che anche aperte ci danno un confine.

V

Oscillano le corde dell’ascensore, ogni cosa

è divisa in memoria e mandragola.

Prima il ballo con la neve. Poi le processioni

del riposo come un capolavoro

da cui uscire scalzi. “Nell’acqua

a chi tace non si perdona.”

Nell’ora di un quaderno, io risposi, se furono chiamati lì,

è stato per un serio inferno, per un gioco letterario

che talvolta i suicidi hanno.

Quante borracce regalate

prima di affogare, quanta terra

sparsa sul cuscino!

VI

Stringevo forte l’idea: e allora nozze.

Salivo in fretta al quinto piano: e allora ho udito.

Tu che dicevi: addio passioni

di vita allucinata, voglio accendere

una lampada, svegliarmi qui, sentire

passi leggeri sulle mani.

Il giorno è quella donna che

allatta contro il muro, quello zen

appoggiato. Tu che dicevi:

ho guardato la riga tra i capelli, sono

tornata sul lucernaio, per i saggi.

Noi bambini, noi aghi di pini.

VII

“Qui l’acqua non ritorna, la ritrovi in una gola.”

A ogni giro della terra,

lo stesso viso. Nessun crepaccio

è profondo come quelle rughe. “Sì, possiamo

scambiare la mia vita con la tua, se lo vuoi.”

Testavela, ti chiamavo. Su un vecchio scivolo

dormivi ancora, traballi un po’,

disegni un nove e mezzo al corpo libero.

Aspro chiedere

è il segno dei gemelli… la figlia migrante,

la taciturna delle colline: poi il polline

entrò nei morti e un pranzo apparve

al buio, di amici.

Era ancora lì,

a dicembre, ed era la stessa, potevamo riconoscerla.