SEMICERCHIO IN TERRA BATTUTA
La parola in me giunge da vicino.
Una vena diritta, uno scompiglio di fossili
tocca la riva, mi unisce
con l’ingiuria preparata: può essere muffa
o ulivo, calce o faro; può inoltrarsi nel sangue
senza musica, cercare per terra
bucce e salvezza.
Così, dentro la carne dell’uomo,
un sortilegio è bevuto: il medesimo giornale lo porta
tra le docce, a mezzogiorno, strana
musica di pollai e di candele.
Vede il perfetto buio, l’asticella.
IN NOME DELLA VIA
Azzurro fossato che seminai, azzurro
mio tributo alla discordia,
ho una sola pietra da scagliare eretta…
… proprio a te, che ruoti tra miliardi di papille… una sola
muscolatura pencolante all’uranio, questo
teorema di quattro mani. Se lo afferro
adesso lo sai, è la tua morte che afferro;
la tua morte nei cieli completi!
È ancora un brusio di messi: riposa
quando noi riposiamo. Ed è la stessa materia
che lontanamente accorre. E quale marzo
quale marzo è oggi?
NOMINATIVO
Foglie volano tra i centri nervosi. Est
è la parola più scossa. Non è il peso
della sua sillaba. A lungo guardi la lettiga
gremita d’inchiostro: metà
nella terra che discende, metà nella
prima ora. “Abbiamo visto un lago,
abbiamo parlato.” Penetrazione dei vetri
nella fame. Padre che mi chiama padre.
SABATO PIETRE
Contai i colpi, simili a un urto
dei piedi; la pulsazione non si arrestò
ma fui gremito dal bianco, fui la
paura, una stellante discesa
tra bene e male fissa il neon
come un immenso anestetico e la
schiuma da barba, vera cosa
pregata… nostra inimica mors… sputando
sul cuscino, non essere mai
stati figli, sbalordita fotosintesi,
sbalordito sacrificio
della pittura che sui camici si annulla,
fittissima di nulla, ventuno.
L’ORA DI PUNTA
Sui fiori non ho
avuto visioni. Contro un canto
agreste uscito dal vangelo
spingere l’urina
sotto un cielo di ananas
con i giochi d’azzardo popolari del mio razionalismo.
La rosa furente
atterrò la rosa fuggita. Giocoforza di un luogo, fu
un semplice finale. E fu vera la domanda
su quante travi portai
agli assediati: ancora giungo
a mezz’aria con una specie
di radio demente: con un lavandino
sacrifico il mare. Se mi sono allontanato dai colori
è perché ci fosse almeno un gelo
precedente a quello umano.
“Sì, dopo la messa,
è possibile uscire.” Parlai della donna. Artemide
si pettina i capelli blu
nel sovraccarico di certe presenze domestiche… l’ho
sempre voluto… metà del velo, metà
della guardia seconda… un
capogiro dentro la piastrella.
“Ma domenica, non ricordi, è stamattina.”
E l’interminabile principio dei prodigi soffre aperto.
NADIELLA
Giugno nelle epoche, pioggia
per un anno di limbo
avevi un titolo? chiudendo
il capogiro, ci sai femminili?
L’aria mutare in strada
eseguire la caduta
usare le labbra.
INDIA IMMENSA IDEA
Era metà assoluta ed era
suono di ossa e carta, qualcosa
ti creava prendendo vita da un
cavo sospeso: nelle sere
capite a stento non volevi scrutare astri
ma questa polvere che in cima si fa
cella o peso.
Uomini intontiti tra le rovine guardano
il pagliaccio che rema col salvagente,
allo storcersi delle membra
la più semplice giustizia, il dottore
di briciole in terra. Allora
anche noi saremo fuori dalla congiura.
TRADUCENDO INVANO
Retrocesse il doppio impazzire
indicando un superstite, ci chiamava in equilibrio.
Più nostre sembravano le uova
sfiorate in un anno di digiuno. Sia
l’eccezione; sia intatto o definitivo.
Cara mano di borotalco e di taglio,
altri graffi affondano
e il suo vero canto nuziale si è perso
in un turno di treni. Non hai
imitato la morte, era
quella vela che tenevi ferma.
TODETI
Dietro il fienile, per terra, il disegno
di una gola piegata e le macchie di sperma.
L’uomo uscì subito. “Di lei nulla importa:
se ha urlato, quello
fu il suo urlo. Noi non abbiamo
riso vincitori.” La regola
era sfuggente, ma più forte e primitiva era l’aria.
“Tutto di lei conta, mescolata
agli immensi doposcuola, all’unghia,
alla cittadinanza.” L’estate sembrò fermarsi,
in cerca di cibo. Era la bilancia delle due.
“Noi siamo la signoria della mente e la colla
che unisce un solo lato.”
DEIVA
La nascondevo come un musicante
dentro il tuorlo che muore, la nascondevo
dentro un corpo dedicato… oh Deiva, per virtù
brillava anche il seno sbagliato! E quando
il gettone cadde, disegnai questa figlia migrante
con la nostra allegria, col mio pudore. Era
la stessa ed erano tante, come a volte si leggono
entrambe le mani, come una strofa storta
in direzione del cielo!
L’ANALISI DEL PERIODO
Quello che nella busta consegnai
fu in me e in loro
il grande indegno del piccolo,
un vero cucchiaio
si piega sulla guida telefonica
mirando al secondo
tredicenni irridono generazioni,
iniettano un paese invernale e una foresta
di rette multiple, la decisione di non respirare.
Resteremo, ogni sera, fino al
chilometro indicibile novecento.
SABATO VIVI
Crescono in un principio di squadre, si gettano
sulla persiana. Fu vero il saluto
alla città occupata. Vera la paglia e i pupazzi
dal semplice finale. Con ogni pietra
di questa salita, dall’incubo estraggo le
figure. Si sveglia la collana
di latta, si svegliano l’inchiostro
e le calze color magenta
nel punto morale della ruota: singole
parti di simpatia, ancelle
scaraventate in un secolo, la loro investitura.
È l’arancione
misto scintillante su cui stampano i pianeti,
la piazza estrosa di Vercelli:
come una pittrice dalle mani elette, distribuisce
al mattino i sonniferi, le gocce di cobalto.
E se tutti invocando, tutti aspettandoci, se ho fatto
la mia parte… anche quel tributo
ai gradi freddi fu intero… qui… la taciturna
delle colline… vista dopo vista.
LA COSTRUZIONE DELLA LUCE
Una masnada di ragazzi con
la faccia da topo circondò la mia tristezza
“Sbattimi piano… non togliermi la gonna…
ora è la città che mi aziona il respiro.”
Quasi propizi alla testa giungevano
dal lato senza muri, si arrampicavano in aria
disponendo pagine e pagine. Era l’anniversario
degli oggetti. “Mi sono svegliato in un treno
di zucchero nero. Avevo qualcuno nella bocca.”
Altre donne si distesero con il mondo,
leggi o sonno di chi compie
l’imperfetto e torna… i muti… loro…
i muti nell’acqua… loro perdoneranno.
ESERCIZIO CON LE STATUE
Chi mi ha spogliato
con un movimento del compasso
assomiglia alla vita, e io scrivo
dove la tua ferita semplice
ieri fu pianeta, oggi ape, ieri l’inseparabile.
Sono te che hai veduto il giro
nascosto nella testa. Siamo
rovesciati in un fiore, quel
centesimo di veleno: riga spirituale
e anniversario della menta, pieno e vuoto.
A quel panico dei due o dei centomila
posso dire infine.
IL NARRATORE
Giudice di un sasso abnorme,
al caldo dei moli, al freddo
degli olmi. Lentamente
gira il polso
tra laser e dolci nomi di albicocca
anch’io abito in questa porta girevole
scorrendo la colonna degli annunci
con pitture in affitto, gatti regalati,
busso a questo culto ebete,
insegnando l’alfabeto con la stessa fantasia
che mi oscura l’altra parte.
PERIODICO DI LEGGE
A tarda ora, senza buio
una biglia fu l’occasione
che sollevò il suolo
numeri fermi tra un archivio
e il gas della sera:
qualcosa urta qualcosa
per una carità che nell’odiare avviene
strana desinenza dell’infinito
quando tutto è un faro
e un faro è soltanto questa idea
nel grande convento di ali conservate
nel grande congedo di ali conscie
noi cancelliamo
dolcemente la campana.
Grazie per l’indice
che puntò oltre il suo genio.
“È VIETATO SCAMBIARSI LE POSATE”
Nelle monete che noi all’aperto siamo
camion a luci spente e antichi
uomini achei hanno lo stesso alfabeto, la stessa
insonnia dei grandi taciturni, quando avanzano
testuggini con le loro donne di legno e il bronzo forato
sopra il naso. Conosciamo così
il segno sacramentale della bora, le orme
tastate con forza da qualche cieco
ma il gioco va in dentro: questa punteggiatura
è suddita, cade davanti al primo cognome, ci ripete
di venire tutti alla sirena delle dodici, tutti
con il diario dell’inverno.
La pulsazione non si arrestò. Con i vetri
alimentavo il fuoco e lo amavo come uno spavento.
Con la prova dell’urlo schivavo collisioni,
portaerei allo sbando. Con le unghie misuravo
il nucleo dell’altalena.
Adesso l’alba è una goccia di brina
Adesso la morte è più lontana
Più vicina.
GRUPPI CON BRACCIO DI GIOCO
Un maestro è il suo discepolo migliore
Scompiglio di mandorle o silenzio
L’indomani è questa sillaba
Seguendo le parti deserte, udivo
nella sala i rumori del filo, lento disfarsi
del pensiero tra una donna corale: asprocanto è il
suo inchino, se un’orbita eccede,
giunge come un cieco a stanarla.
Ombra di cui intuisco profondo lo schema
il bianco giocoliere porta una foglia di lattuga
un duello sorge consacrato all’angolo.
Un maestro è un contadino di Alessandria
È la signoria del carcerato
Un intero corpo o un intero fuscello
Nella stessa corona circolare
Un maestro è il mio nome alla rovescia, il terzo
Nome che ho dimenticato!
EDIFICIO SU SCALA
Lo sappiamo quando la mente è presa
non potendo alcuna terra girarla
ingarbuglia la sua rete alla nostra,
tagliata dall’esterno, scolorita dall’alto.
Per dirsi grande,
un amore deve unirci senza i morti, per
dirsi più reale del dolore, più insensato. Così
aprimmo il sacco con la farina
che scese incorporea dentro la cella, coprì
il dente marcio, la rosa di plastica. Dal cortile
una marcetta nuziale si mescola a noi,
ci fa nascere lì, presi in basso, cerchio
e mani sul discorso diretto.
MILANO
Chiedevamo alimento e un tiranno
esistiti in mescolanza
guardando dalle vetrine di Via Boscovich
le serpentine di ogni nervo, la sala giochi e il viola
azzardato della cassiera – bisbigliandole
la sua fosforescenza.
Ogni virgola in più è già un voto di condotta:
quella bara di ingiurie era cronaca comune
frugando nei cestini se c’è posta, bevendo
allo stesso rubinetto intasato.
Sporca di gesso, ogni mano ricorda
una vecchia nel suo vero
canto nuziale. Rivedo quelle mani.
Le mani dell’astrologa
che non perdonò il suo errore, le mani
del tuffatore russo che sbattè sullo spigolo
e quelle che gli tennero tiepido il respiro.
Qualcuno, al mattino, nuota nel canale, sente
la forza del pilastro, la forza terrestre
che una cosa appoggia… e le mani…
sono viscere abbreviate, sono quelle
del cappellano isterico alla centrale e quelle
vicine alla stiva in un giorno
di digiuno, con le sue figlie
vedove prima di ricevere lo sperma negli occhi
Raccogliemmo così, in un punto sensibile al centro,
questo dialetto di trucioli
e di brevi. L’infermiera
intona Stille Nacht: risposta precisa, nel dente,
giorno acuto. Imparo a distinguerli: dapprima fanno gruppo;
poi, grano per grano, tornano al dormitorio
e quando una donna li teme premono sul buio, mi portano
nella sala grande, giochiamo a ping-pong
dividendo quattro piramidi di riso.
“Guarda, con un cappotto
mi difendo dal male.”
TARTARUGHE DAL BECCO D’ASCIA
Sono lucentezza e disunione
Jean Seberg mi chiamavano da piccola
Sono una stella dal talento casuale
Qui al Giuriati il campo
È così calmo, smisurato, stamattina.
Attendiamo che si apra, alle
due e mezzo, un corridoio di cognomi
lo stesso borotalco sulla camicia, un po’ di
borotalco incenerito.
Quando ho visto la foto,
era un giro di quadriglia, sottovoce
la sabbia dolcemente
una fronte sotterranea, quando sento
traforare questo legno, s’intreccia
la sua mente a un libro spento.
Torneremo nelle processioni del riposo
Le aspetteremo come mali idioti
Torneremo nelle terre immobili
Ma vere per me che ho voluto assomigliarle
Il filo dell’alba ha quest’ordine.
TEMPO CONTINUATO
Ci ha consegnato
poche scatole, identiche,
piene di latte, di nessuna maternità.
Sono allarme e completezza,
sono rottami. Nell’ora di un quaderno, questo
quaderno essiccato. “Non mi trovano
gli occhi.” Allarme e completezza. Di colui
che ci accompagnò sulla terraferma
tutti noi serbiamo lo stile.
IL PROGRAMMA DI HILBERT
I
Siamo caduti sulla sedia
per un movimento sbagliato della biro
aggrappandoci alla grazia,
alla nostra grazia annerita di tabacco.
Siamo caduti sul balcone
da cui gettavano sale. Ultraterrena,
una sostanza congiunta all’uovo
scruta i tempi finali dell’ossigeno.
II
Sulla destra la nostra
firma che ci torna contro. Sulla sinistra
un sirventese a punta secca:
“tua figlia, viva, prenderà l’anima
alla mia che muore”.
I ballerini ci chiamano
nel corpo sottostante, hanno
un tacere e un voltarsi
matita d’erba nella matita alta.
III
Interi ripiani, pieni di oggetti, crollarono
nella banca. Rivedo quella scena:
la gente ammutolita, la celere,
gli angoli e il filo rovente, strano rondò
di una parola.
al culmine della luce e della gola
“… ogni pino… ogni pino… fermati, tu sei fra di te…”.
IV
Così facemmo nostro il rimorso di
ogni ladro; indiziati,
abbiamo vissuto d’incenso
dietro il cristallo del gineceo
fissiamo l’assoluta metà
di una cosa, un alimento
ripetuto a decenni, chiuso nel midollo
raccogliendo per terra pianeti
della fortuna, scatolette per gatti
che anche aperte ci danno un confine.
V
Oscillano le corde dell’ascensore, ogni cosa
è divisa in memoria e mandragola.
Prima il ballo con la neve. Poi le processioni
del riposo come un capolavoro
da cui uscire scalzi. “Nell’acqua
a chi tace non si perdona.”
Nell’ora di un quaderno, io risposi, se furono chiamati lì,
è stato per un serio inferno, per un gioco letterario
che talvolta i suicidi hanno.
Quante borracce regalate
prima di affogare, quanta terra
sparsa sul cuscino!
VI
Stringevo forte l’idea: e allora nozze.
Salivo in fretta al quinto piano: e allora ho udito.
Tu che dicevi: addio passioni
di vita allucinata, voglio accendere
una lampada, svegliarmi qui, sentire
passi leggeri sulle mani.
Il giorno è quella donna che
allatta contro il muro, quello zen
appoggiato. Tu che dicevi:
ho guardato la riga tra i capelli, sono
tornata sul lucernaio, per i saggi.
Noi bambini, noi aghi di pini.
VII
“Qui l’acqua non ritorna, la ritrovi in una gola.”
A ogni giro della terra,
lo stesso viso. Nessun crepaccio
è profondo come quelle rughe. “Sì, possiamo
scambiare la mia vita con la tua, se lo vuoi.”
Testavela, ti chiamavo. Su un vecchio scivolo
dormivi ancora, traballi un po’,
disegni un nove e mezzo al corpo libero.
Aspro chiedere
è il segno dei gemelli… la figlia migrante,
la taciturna delle colline: poi il polline
entrò nei morti e un pranzo apparve
al buio, di amici.
Era ancora lì,
a dicembre, ed era la stessa, potevamo riconoscerla.