III
Racconto alle sedie

PUBBLICO IMPIEGO

Ho parlato in un luogo

più giovane di me, fino al

chilometro sfinito novecento

urtando scatole

di tonno come pezzi di nulla,

nulla circondato da pali e testicoli,

un accanto senza cosa

con gli occhi annegati nel collirio: basta

confondere coltello e forchetta

e qualcuno sa di me, figlio mentale.

La vernice copre Cinisello

e al sesto piano è fatica.

Figureremo – lì. A singoli strappi

qualcuno tende

l’acciarino sulla tanica, il granello

a cui vola la maschera, questa regia di

pranzi in stazione…

… sinfonia burlesca

con una sigla a base tre

piomba, sulle cose, la coscienza.

INTUIZIONE FINITA

Un nervo ruota e quello spazio

cerca un graffio nella colla,

il punto fuori pagina

“La terra che fai rotolare

dov’è?”

Ti porterò a spalla,

cremazione perfetta e circondata da pali:

più degli angeli sono segreti i suicidi

e dal lato senza buio

la nuca cucita darà principio

al principio

Ti porterò a spalla, a stracci, a

leggere, oltre il muro, oltre quelli

“Il corpo era assiderato,

purpureo, privo di essenza.”

REMO NEL GENNAIO CONOSCIUTO

Lo seppi da un amico: sposi. Lei più anziana

con un piccolo albergo a Macerata,

lui aperto in una crepa bianchissima. Nella lettera

parlava dei filtri con cui d’inverno

si misura il sangue. Ricordo il cellofan sporco,

la mano dentro i vetri. Un alfabeto stride

nascosto tra dolci chiglie capovolte e

foto-tessera. C’è un amore più grande

di te e di me, me e voi nella specie,

acqua su acqua.

ACOIMETI

Rotazione marmorea

di un attimo, osso

vivo sopra il colore

quando senza rete annegano

quando

ritorno inciso

inciso dibattersi a una

stagione di metalli

qui, oh, sulla spina!

Vela blu la mia gonna.

Nel sogno guasto e

cavo al centro, mia acqua

veramente sputata

Mi spogliai nel sobborgo che

intorno dava suono

Con pazienza

ci aspettano i princìpi.

LA RAZIONE DI TERRENO

Qui finalmente cucire mie

e non mie bende, parlare alle braccia

di taglio e di traforo; le ombre cederanno

alla presa… le ombre rimaste a scompiglio

sono questa matita con cui si torna.

Nella chiara garanzia dell’azione

è il miracolo. Nell’uomo che li sveste, lì,

i morti trovano consiglio.

SEGNALAZIONI MEDIANTE FUOCHI

“Un alfabeto, vero o dipinto, sarà

egualmente spinto all’estremo”

Tra colpi che

vanno in sé ma non ti disfano

guardi il sangue attuale, le unghie di trenta

sette. Ecco

il tuo corpo: luogo intero

dove sbattono porte, donna

dal nome astratto

“Una sola mano, una sola mano curò l’infezione.”

E.C.T.

Non so quando è iniziata, tra le tempie,

l’esistenza a indovinello. Risposi: nulla osta…

… al primogenito fu dato crescere, l’altro

farà il censimento. Ed era il mio modo per dire A + B + C

D’accordo Professore, come vuole…

… voltazzurro suona bene… venti…

mille… come vuole.

Opposi una città

allo stridìo delle lenzuola:

era lì, vigile e mai interrogata,

gli assi si incrociavano perfetti.

Tieni stretto il

dentifricio, tienilo. Io sono essermi accesa.

Pur di strappare un ramo all’abbondanza,

ciascuno rimuore quotidiano, lo sa il cielo,

l’ultimo chilometro e poi quanti. Il peso

di due felicità consecutive.

Lascia perdere

che un po’ di bene l’hai avuto.

In una specie di chiarezza

tenevo la benda. Poi

buttai dalla finestra le chiavi, diedi un altro recapito.

Ed era un modo per dire:

punto, linea, linea.

Ti hanno trovato in bagno,

seduto nella vasca, biascicavi che il mercato sta iniziando.

Il quarto mese, il quarto giorno

raccontare che nel tessuto c’è finalmente

un colore, nella sua esatta vetrina, che siamo stati

quell’altro bianco e uguale, che erano

vicini a me, che sono riconoscente.

LE PARITÀ

L’arcano di quassù ci lega a un altro nudo

e la sua interezza è piena di umori,

salda i piedi a un campo astratto. Così ruotare

può essere pazzia ma anche il quieto girasole,

la crescita di un foglio, i soccorsi istintivi,

come la prima capriola senza gravità

si spoglia dei calzoni, chiama la gamba

carbonizzata sotto tante e tante bende

quasi un nucleo di altalena che si fa croce

e poi goccia di angeli, di pece

l’acqua fine in cui nuotavi a bocca aperta, l’acqua

che intasò le crepe nella fonderia l’abbiamo vista

senza miracoli, come questa fila di case, d’inverno,

significa camminarci accanto, essere d’inverno.

OPPURE NIENTE

Si mescola un vero buio logico

al deficit di memoria. L’abito da sposo

stirato con cura viene chiuso nel sacco

con un ammonimento sottovoce. Sarà per il lezzo

se capirai, qualche volta, la sua rotazione.

Ogni giorno di questa città può circondarti

e la coperta dei convalescenti

è il buio normale che temi, più figlio

del padre, più fedele al nemico sodalizio,

l’attore scomparso in

una forma del seno

è questo quaderno di rette unanimi

e lì anche i chiodi, misurandoli,

semplicemente si sciolgono.

CROMOCENTRO

A salti di zona è venuto qui

gettando uno straccio sulla troppa chiarezza

del nostro vederci, cogliendoci

un fatto, obbedendo alla predizione

del granoturco.

Il liquido uscì violento,

raggiunse le orecchie. È stato

l’inverno… l’inverno ha un’estate, una

festa del pensiero, un atto

di labbra. È stato

il suo reciproco corpo: si può

non capire per sempre e si può

non capire una morte di cosa,

costruendo con riga e compasso

la prima ragione; restando, restando.

Arrivederci dunque.

CHILOMETRI MANCANTI

Abbiamo distratto la traiettoria

dei proiettili che strappavano un paese, quel

pulsare incolonnato, la sua lingua offesa.

Un funzionario vide il neon

nel cassetto e i timbri si abbatterono sul foglio.

Permessi di rilascio… doppie foto…

una lotta tra emisferi, il dubbio

che io di me fossi un falso

quando i bicchieri

caduti di mano lasciano un cerchio sulla firma

e bisbigliamo “regina” e poi

regina mater, regina apostolorum, il lembo finale

di una lettera, riservato ai saluti, al semplice

niente da gremire, un esilio nell’idea, il tremore

della vecchia che si trucca gli occhi – Wir

haben ein Gesetz – finché una linea

ci assolse e finì l’ultima volta.

LEGGENDO SINO ALL’IMPROVVISO

Quando aprì le gambe

c’era una vecchia foto in bianco e nero: il moscato

pronto per la vendemmia, Badoglio giovane

e già falsario a Caporetto, una somma

di morti sulla riva bassa

l’unica data

in questa perfezione del terreno,

un tic, un difetto di crescita. L’unica

data. Nel vero studio del bene, mi dici,

ci sono pendenze e grafici, la resistenza cutanea,

il tipo di ricettori. Guarire è una cosa,

e ogni cosa ha

azione.

Quando per gioco ci si chiude

in un garage

con i capelli di glicerina, oppure

quando sul cuscino resta un diploma con

l’unica data o ci si apre

le vene un mattino

tutte le volte

in questa foschia di dalie

da continente a continente

il telefono bisbiglia, finché trovano

qualcuno che li ospita.

Chiedono non l’acqua ma la sete

se dormirono così è stato per una qualunque

molecola, un gradino

rotto nella scala mobile

se si svegliano contenti

è per il loro ospite. Chiedono come

ci troviamo dentro di loro, se è stato giusto

quel giudizio che ho ricevuto,

un inverno, in galleria… poi si scusano

per il tempo rubato, vogliono sapere

quali sono i compiti ereditati, le vesti di cotone

da stirare per la festa, le

cartoline da firmare

subito, qualche rubinetto, gli altri servitori

con cui respirare immobili.

MEZZO ALFABETO

Tu acqua elettrica, io campo astratto

apriamo le mani di due fratelli samurai

e la miniera del nostro primo vederci.

Quel turchese perfetto

non è cielo ma una melodia gonfia

pagina di diario in stampatello: guarda

guarda che sono giudicato

per un quadratino di memoria

per questo valzer morto, per ogni suo pigolio

e ancora di più perché ho offeso voi

degni di amarvi sopra ogni cosa.

LA DISTRIBUZIONE DEI VESTITI

C’è un’idea che annega, passo barcollante di un prete, con

la stessa pioggia nell’urina.

Non c’è nessuno, lo so, ma se mi appoggio alla parete

si spacca nelle due metà di veleno: che altro

descriverò che un aumento di peso

nell’atto di iniettare il suo impulso? Si chiede

sempre verso un vetro: ritorna il chilometro

lanciato a sfera,

forma adagio adagio la parola inverno.

Entrambi furono maggioranza di me, quell’esametro

che è un sogno rifiutato.

CENTO GIORNI DOPO L’INFANZIA

Nel senza nome

qualcosa preme, qui,

nella coscia,

si deforma nei King

la sagoma della seicento

nel fosso

nasce un’idea

di città.

Stradella con sé, mio niente

di noi, stella di un’alba demente

io vidi, tra vetri, vedi

La galassia centrale

del pensiero

intreccia uno slancio

alle sue tecniche civili

così estrarre una scheggia

dall’intestino

nostro diritto naturale.

Mio breve azzurro

dei fossati, mio troppo presto

io vidi, tra vetri, vidi te

alle sterminate

partenze, alle processioni

dei quanti e degli estesi

quella morte predicata

era sempre il primo

atto di un dramma minore

tra il sonno e la veglia.

Mia breve azzurra

stradella di un’alba

di niente

hai chiesto allora

una vita più incomprensibile.

ERRE LUNGA

… tu sei già stato

ciò che io, adesso, sono

NISARGADATTA

La collana dei senza gola, il sarto che

ci spogliò prima di noi

è sempre, è semplice: questo corpo di passante

si fa maggioranza, calce

intorno all’osso, terra rotta,

finché un’altra forza comincia e deve: labbra su spine.

Affondando nel molle di una roccia, si ferma

tra il nostro bene e il nostro male, ci chiama a un lavoro:

carcasse da mettere in fila, fiume

intestinale da arginare con

le mani. Così ritorniamo

in questo paesaggio di tangenziali e candelotti

con la stessa sensazione di

occhi che cercano un’orbita. Chi tace

era un battito della mente sorto in giro, tra

uova di luce scossa, puntando il bastone

al cielo e all’odio dei pochi.

Asia… si chiamava così

quel non parlato di chiodi, latte che cade

sullo zerbino e lentamente lo divide nei pezzi. Quando ognuno,

tra il nostro bene e il nostro male,

riempì questo assolo di globuli, a febbraio sappiamo

che anche qui è lo stesso giorno.

LA MARCHIATURA

Tu rimani contrastata, puntadonna, non

fare scempio della tua traduzione, stringila

nella vagina, quando il metronotte

ti allinea al suo guanto o piomba sopra una cosa.

Noi di gelido filo, noi cresciuti

su un muro, gettando colla sui gessetti, chiudendo

a quel ventilabro di parole la nostra sola interezza.

Il giallo soffre. Il giallo non è un colore ma

un voltarsi e scrutare, un urto sulla maniglia,

una preghiera per tenerlo. Talvolta scende nel

pazzesco immateriale, slaccia le ossa con la

gravità lasciata libera da qualche mano religiosa.

Così al Policlinico muore la neonata mongoloide:

scollandosi dall’uovo, sfiora la trottola ghiacciata,

i vasi della terra, le grandi regole notturne.

Tre, ci hanno detto, sono le regole del bene. Il peso

della sillaba stretta; la pianta vertebrale che

ognuno ha preso a carico; lo studio, fra noi

consecutivo, di questi documenti, con la pece

nella tua mano e il mio liquido delimitato al centro.

NEL TROPICO RAZIONALE

Se qualcosa ci ha uniti

è un’idea di città.

C. VALLEJO

Un’altra figura umana non ultimata si chiama

a mezzadria, porta con sé quello che resta

dell’accento netto: “L’impronta digitale

era un apocrifo, una spavalda interezza! Non c’è

giardino che, appena sfiorato, non dia nebbia.

Non c’è dio o figlio di dio senza una crescita.”

Anche noi, nella stanza di sopra ci scambiavamo

le lenzuola e gli orologi, alle due in punto fulminati,

trascinando una treccia per ogni lettera dell’abbecedario

mangiamo questo pane interminabile, abbiamo

la camicia rotta e una strana forma di luce appiccicata.

Gli studenti, fissi alla spalliera scalciano

per un posto nell’aria. Fuori c’è il bosco dipinto.

In testa uno squillare di concetti. Ladri d’oro,

vittime d’argento: qualunque linea ci assolve: basta

un po’ di sangue incipriato, per guardare la

strada in alto, quel turchese perfetto

che non è cielo ma fiato di attore e gli prenderemo

la parola dai lembi intatti, l’ultimo addolcito tu.

BOMBAY CON DUE FOTOGRAFIE

È un giorno

di come avevamo le labbra. Con rami

e compasso lo cerchiamo

con la festa del pensiero

viaggiamo ogni trentaquattro anni. La mandibola

rimane, lì, spirituale:

poi ci guarda – oh nostro stare indovinante! –

tra questi sdruccioli ci guarda,

rotonda come la sua varietà, quasi propizia

alla testa, la morte del tabaccaio.

JURÒDIVIJ

Guarda la parete,

sua idea reggente. Gli aghi

sono accomunati da un astuccio

Sente un rimprovero assolo, un foglio

nella sua maggioranza. Altri,

con un balletto astrologico, hanno

risolto il problema sottocorpo, hanno

costruito nell’

assoluto delle piogge. Il the

bolle vicino. Col gesso nero

traccia una retta verso l’alto,

guarda la divisione

del bianco in due deserti.

INDICATIVO PRESENTE

Ti hanno mescolato

all’arcano di quaggiù, alla piaga

che insinua un dolciastro di serali…

… ma non è mai stato,

il tuo verismo, quella mano

che lava l’altra mano, né la scaltra elegia

dei fanali da sporcare lievemente, dolore

mantenuto tra due finte… no… hai conosciuto

un vero fuoco sporco, a Milano, in due locali

spariti di domenica… miracolose

operazioni di trasloco. Hai tentato

di distinguere lo scisma di una cosa

dalle ironiche orchestrine materiali,

il macello dallo sputo comunista

su ogni tuo verso, tranne quello che li ha odiati

a prima vista. Adesso

ti è dovuto un foglio

davvero qualsiasi, fittissimo di nulla

millimetro trentuno.

LA FASCIA DA BOCCA

Con la nostra stessa ragione, stortata

da qualche attrezzo, ci coglie

sul fatto, scavando per terra odori femminili,

zolfanelli, pezzi di un canto religioso.

Ognuno, conseguenza del tempo, respinse

questo chilometro

il grande punto fuoripagina.

Forse bastava il codice a sbarre o qualche

stella confidente, lo spillo di sicurezza…

Ruotano cartelli, in noi o senza di noi, urtano

il battito dell’inchiostro, il

suo punto radioattivo. Giaceva lì,

disseminata. Ogni mercante le dedica

un corpo o un fronte di giochi. Ogni

confetto è marcio, il ritorno

si capovolge, tutto resta salvo per sempre.

ANNUARIO

Dal corpo spinato, fili

si arrampicano in aria

con la prova dell’urlo. Come una

primitiva formula di povertà,

tutto il cibo si scioglie

nelle gocce per il cuore, tutto il sonno

s’incrosta alla materia, quell’incontro

tra raptus e firmamento

dove ritorniamo cancellati.

EQUINOZIO

È un giorno, amico mio, in cui restiamo. La vedi,

laggiù, la vetrina che chiamò

la pioggia di traverso? E il museo, lo vedi,

dove dormono macchine giganti? È un giorno, Armando,

con le cose pari alla vita. Sarà

che esistono metalli

dove ogni pagina è divisa, parole

di un tale candore. Sarà che ti hanno

ferito senza poesia, mio fuorimano, di quelli

che dipingono col filo: con una smorfia

mi hai distratto dalle ombre. L’esatta lietezza

di ogni sabato, come si scambiano i cibi,

l’ho chiusa in una busta, te l’ho portata sul ramo

di una violamatta. Ed è qui,

su questo tavolo, adesso la vediamo.

ALLEGRO FEROCE

Imparo da questo papiro

come si estinguono le parole, come tacevano

nella fronte dell’idiota.

Torna a baciarlo portatrice d’acqua.

Torna a bagnarlo soffio di cantilena.

Il pane si svuota, cade tra le spighe

affamate che ti amano. Almeno lì

sia visto quel taglio di bontà. All’aperto era in noi

un piccolo cielo. La mano era chiusa, consegnata.

LINN, L’AVVICINAMENTO

I

Si è travolto d’algebra il sereno, è caduto sulla prima

guerra punica, con i miei ventimila neuroni alla

campana, giaculatorie da ripetere in numero dispari.

[Non posso

dirti dove sei giunto, ma posso dirti dove tutto è iniziato. Ecco

[che l’esilio

si fa idea. Animali bisbigliano al viaggiatore in sordina

le antiche regole del sopravvivere, gli mostrano la foto,

il bambino su una lontana spiaggia del ’59 con le braccia

[e le gambe

bloccate nella corsa. Era quella grafia che

non sbanda, quel mutarsi del sole in una stoffa militare.

[C’era in me

qualcosa che sa di me. Ogni sera viene

a dirmi addio con una cartolina e il libro

di scienze sottobraccio. Segnamo in blu le espressioni

[sconosciute:

“dura madre spinale”, “principio della discesa infinita”.

Le scriviamo sul registro, ci diamo la buona notte.

II

Nella cartella, l’indomani, rimangono i nostri disegni,

[ciascuno

con un numero araldico. L’undici è la fortezza, difesa

[da uno sguardo

di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiume:

[ha in mano

uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.

(“Anna la naspa, fin da piccola la chiamavano così”,

[sentenziava

uno stronzo della Bocconi sulla sorella

scappata in Bolivia e ritornata qui, due mesi fa, tra i corridoi

del Besta) (Eppure gioiosa in certi sbalzi, in brevi

passi orientali). “Si salverà… “, pensavo, ed era il numero

[accanto,

lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera

e l’acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale

o per quella più domestica, sconfitto anche in giardino

da vanesse e cavolaie. Era Anna,

che non conquista e non è presa, e ha in faccia

lo stesso coraggio di beffa addolorata.

III

Spiamo insieme, dalla finestra, uomini che si accoppiano

con i loro incubi, la camerata che gira su se stessa, uomini

[e donne

distesi sul pavimento liquido. Poi, vicinissimo a noi,

un fruscio interno, le ultime vibrazioni di un insetto, la sua

sostanza evaporata. E di colpo tutta la vita ha bisogno

[di questo

buio per condurmi a sé o dovunque io mi accanisca

un’occhiata al passaporto, all’indirizzo del postumo incontro

[– Café

des pauvres, Montpellier.

“Sono vent’anni che guardo e che non dormo… appena vieni

cantami la canzone in italiano… vieni

appena tu puoi… io sono sempre qui.”

IV

Sempre qui, mi dico, sempre qui, vicino

alla specchiera per trovare un solo tono di voce. So

la premura di questo golf azzurro, non la sua fine,

questo giro dopo giro intorno alle piastrelle. So di un tempo

che adunava gli abitanti, il turgore nelle corolle:

era il figlio pianeta che due donne vestivano,

la teologia di un borgo. Qualcosa

di mai vissuto nel mio sangue macera. È un tempo a neon,

non ha stagioni. Basta un’edicola aperta e ogni passo

diventa veloce, davvero veloce: se lo fermo,

la strada si avvicina, sparge essenza astratta, una cinepresa

che moltiplica porte e scale mobili, mi incalza, mi lascia.

[Allora

l’unica missione è una telefonata, una sorpresa di voce

attenta prima di me e dei miei secoli: accorcerà il tratto

[che manca

al cuscino, il punto da cui ricomincio. Oppure è il salone

di via Padova, gli ultimi giocatori di biliardo, come una

sfera nel percorso ci tiene il respiro: scambiare

un commento esatto, non oltrepassare la sostanza di legno,

[il panno

di tutti noi, questo bene che mi accerchia.

V

O forse non è questo,

ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,

mi dicevi, in cui eravamo

già stati. Quell’intuito sosta in me. È il bar che si riempie

con le prime ore, forza mattutina degli ortomercati,

[Fabienne

che contempla le saracinesche socchiuse

per prestarle un suo rovescio azzurro. Sì, è con bene, con bene:

la bilancia insensata sul palcoscenico,

qualcuno verrà a toglierla, tra poco… forse noi.

VI

Sono qui anche per questo, pensavo, se chiudo

nel corpo le cose in migrazione, se i miei cerchietti

per l’al di là sono in vetrina, sono a strappi. La nudità che

si misura con i burattini, le tibie trepidanti,

ha supplicato di crescere:

c’è ancora tempo, lo sai, sull’erba batte una cadenza

di colpi consolati. Pensavo a questa lettera:

te l’avrei data in un film allegro, in un digiuno spezzato fuori

avrei parlato delle luci che ondeggiano tra i vestiti,

[come montagne

da prendere a forza, da accucciare nella ciotola, nei lenti

meccanismi di un raffreddore, costruzioni a mano a mano.

[E ancora

avrei parlato di te, com’eri da ragazzo e come sei tornato,

[ti avrei

descritto uno per uno i passi troppo veloci,

sempre più veloci, finché l’angelo custode si aggrappa

alle caviglie e siamo salvi.