PUBBLICO IMPIEGO
Ho parlato in un luogo
più giovane di me, fino al
chilometro sfinito novecento
urtando scatole
di tonno come pezzi di nulla,
nulla circondato da pali e testicoli,
un accanto senza cosa
con gli occhi annegati nel collirio: basta
confondere coltello e forchetta
e qualcuno sa di me, figlio mentale.
La vernice copre Cinisello
e al sesto piano è fatica.
Figureremo – lì. A singoli strappi
qualcuno tende
l’acciarino sulla tanica, il granello
a cui vola la maschera, questa regia di
pranzi in stazione…
… sinfonia burlesca
con una sigla a base tre
piomba, sulle cose, la coscienza.
INTUIZIONE FINITA
Un nervo ruota e quello spazio
cerca un graffio nella colla,
il punto fuori pagina
“La terra che fai rotolare
dov’è?”
Ti porterò a spalla,
cremazione perfetta e circondata da pali:
più degli angeli sono segreti i suicidi
e dal lato senza buio
la nuca cucita darà principio
al principio
Ti porterò a spalla, a stracci, a
leggere, oltre il muro, oltre quelli
“Il corpo era assiderato,
purpureo, privo di essenza.”
REMO NEL GENNAIO CONOSCIUTO
Lo seppi da un amico: sposi. Lei più anziana
con un piccolo albergo a Macerata,
lui aperto in una crepa bianchissima. Nella lettera
parlava dei filtri con cui d’inverno
si misura il sangue. Ricordo il cellofan sporco,
la mano dentro i vetri. Un alfabeto stride
nascosto tra dolci chiglie capovolte e
foto-tessera. C’è un amore più grande
di te e di me, me e voi nella specie,
acqua su acqua.
ACOIMETI
Rotazione marmorea
di un attimo, osso
vivo sopra il colore
quando senza rete annegano
quando
ritorno inciso
inciso dibattersi a una
stagione di metalli
qui, oh, sulla spina!
Vela blu la mia gonna.
Nel sogno guasto e
cavo al centro, mia acqua
veramente sputata
Mi spogliai nel sobborgo che
intorno dava suono
Con pazienza
ci aspettano i princìpi.
LA RAZIONE DI TERRENO
Qui finalmente cucire mie
e non mie bende, parlare alle braccia
di taglio e di traforo; le ombre cederanno
alla presa… le ombre rimaste a scompiglio
sono questa matita con cui si torna.
Nella chiara garanzia dell’azione
è il miracolo. Nell’uomo che li sveste, lì,
i morti trovano consiglio.
SEGNALAZIONI MEDIANTE FUOCHI
“Un alfabeto, vero o dipinto, sarà
egualmente spinto all’estremo”
Tra colpi che
vanno in sé ma non ti disfano
guardi il sangue attuale, le unghie di trenta
sette. Ecco
il tuo corpo: luogo intero
dove sbattono porte, donna
dal nome astratto
“Una sola mano, una sola mano curò l’infezione.”
E.C.T.
Non so quando è iniziata, tra le tempie,
l’esistenza a indovinello. Risposi: nulla osta…
… al primogenito fu dato crescere, l’altro
farà il censimento. Ed era il mio modo per dire A + B + C
D’accordo Professore, come vuole…
… voltazzurro suona bene… venti…
mille… come vuole.
Opposi una città
allo stridìo delle lenzuola:
era lì, vigile e mai interrogata,
gli assi si incrociavano perfetti.
Tieni stretto il
dentifricio, tienilo. Io sono essermi accesa.
Pur di strappare un ramo all’abbondanza,
ciascuno rimuore quotidiano, lo sa il cielo,
l’ultimo chilometro e poi quanti. Il peso
di due felicità consecutive.
Lascia perdere
che un po’ di bene l’hai avuto.
In una specie di chiarezza
tenevo la benda. Poi
buttai dalla finestra le chiavi, diedi un altro recapito.
Ed era un modo per dire:
punto, linea, linea.
Ti hanno trovato in bagno,
seduto nella vasca, biascicavi che il mercato sta iniziando.
Il quarto mese, il quarto giorno
raccontare che nel tessuto c’è finalmente
un colore, nella sua esatta vetrina, che siamo stati
quell’altro bianco e uguale, che erano
vicini a me, che sono riconoscente.
LE PARITÀ
L’arcano di quassù ci lega a un altro nudo
e la sua interezza è piena di umori,
salda i piedi a un campo astratto. Così ruotare
può essere pazzia ma anche il quieto girasole,
la crescita di un foglio, i soccorsi istintivi,
come la prima capriola senza gravità
si spoglia dei calzoni, chiama la gamba
carbonizzata sotto tante e tante bende
quasi un nucleo di altalena che si fa croce
e poi goccia di angeli, di pece
l’acqua fine in cui nuotavi a bocca aperta, l’acqua
che intasò le crepe nella fonderia l’abbiamo vista
senza miracoli, come questa fila di case, d’inverno,
significa camminarci accanto, essere d’inverno.
OPPURE NIENTE
Si mescola un vero buio logico
al deficit di memoria. L’abito da sposo
stirato con cura viene chiuso nel sacco
con un ammonimento sottovoce. Sarà per il lezzo
se capirai, qualche volta, la sua rotazione.
Ogni giorno di questa città può circondarti
e la coperta dei convalescenti
è il buio normale che temi, più figlio
del padre, più fedele al nemico sodalizio,
l’attore scomparso in
una forma del seno
è questo quaderno di rette unanimi
e lì anche i chiodi, misurandoli,
semplicemente si sciolgono.
CROMOCENTRO
A salti di zona è venuto qui
gettando uno straccio sulla troppa chiarezza
del nostro vederci, cogliendoci
un fatto, obbedendo alla predizione
del granoturco.
Il liquido uscì violento,
raggiunse le orecchie. È stato
l’inverno… l’inverno ha un’estate, una
festa del pensiero, un atto
di labbra. È stato
il suo reciproco corpo: si può
non capire per sempre e si può
non capire una morte di cosa,
costruendo con riga e compasso
la prima ragione; restando, restando.
Arrivederci dunque.
CHILOMETRI MANCANTI
Abbiamo distratto la traiettoria
dei proiettili che strappavano un paese, quel
pulsare incolonnato, la sua lingua offesa.
Un funzionario vide il neon
nel cassetto e i timbri si abbatterono sul foglio.
Permessi di rilascio… doppie foto…
una lotta tra emisferi, il dubbio
che io di me fossi un falso
quando i bicchieri
caduti di mano lasciano un cerchio sulla firma
e bisbigliamo “regina” e poi
regina mater, regina apostolorum, il lembo finale
di una lettera, riservato ai saluti, al semplice
niente da gremire, un esilio nell’idea, il tremore
della vecchia che si trucca gli occhi – Wir
haben ein Gesetz – finché una linea
ci assolse e finì l’ultima volta.
LEGGENDO SINO ALL’IMPROVVISO
Quando aprì le gambe
c’era una vecchia foto in bianco e nero: il moscato
pronto per la vendemmia, Badoglio giovane
e già falsario a Caporetto, una somma
di morti sulla riva bassa
l’unica data
in questa perfezione del terreno,
un tic, un difetto di crescita. L’unica
data. Nel vero studio del bene, mi dici,
ci sono pendenze e grafici, la resistenza cutanea,
il tipo di ricettori. Guarire è una cosa,
e ogni cosa ha
azione.
Quando per gioco ci si chiude
in un garage
con i capelli di glicerina, oppure
quando sul cuscino resta un diploma con
l’unica data o ci si apre
le vene un mattino
tutte le volte
in questa foschia di dalie
da continente a continente
il telefono bisbiglia, finché trovano
qualcuno che li ospita.
Chiedono non l’acqua ma la sete
se dormirono così è stato per una qualunque
molecola, un gradino
rotto nella scala mobile
se si svegliano contenti
è per il loro ospite. Chiedono come
ci troviamo dentro di loro, se è stato giusto
quel giudizio che ho ricevuto,
un inverno, in galleria… poi si scusano
per il tempo rubato, vogliono sapere
quali sono i compiti ereditati, le vesti di cotone
da stirare per la festa, le
cartoline da firmare
subito, qualche rubinetto, gli altri servitori
con cui respirare immobili.
MEZZO ALFABETO
Tu acqua elettrica, io campo astratto
apriamo le mani di due fratelli samurai
e la miniera del nostro primo vederci.
Quel turchese perfetto
non è cielo ma una melodia gonfia
pagina di diario in stampatello: guarda
guarda che sono giudicato
per un quadratino di memoria
per questo valzer morto, per ogni suo pigolio
e ancora di più perché ho offeso voi
degni di amarvi sopra ogni cosa.
LA DISTRIBUZIONE DEI VESTITI
C’è un’idea che annega, passo barcollante di un prete, con
la stessa pioggia nell’urina.
Non c’è nessuno, lo so, ma se mi appoggio alla parete
si spacca nelle due metà di veleno: che altro
descriverò che un aumento di peso
nell’atto di iniettare il suo impulso? Si chiede
sempre verso un vetro: ritorna il chilometro
lanciato a sfera,
forma adagio adagio la parola inverno.
Entrambi furono maggioranza di me, quell’esametro
che è un sogno rifiutato.
CENTO GIORNI DOPO L’INFANZIA
Nel senza nome
qualcosa preme, qui,
nella coscia,
si deforma nei King
la sagoma della seicento
nel fosso
nasce un’idea
di città.
Stradella con sé, mio niente
di noi, stella di un’alba demente
io vidi, tra vetri, vedi
La galassia centrale
del pensiero
intreccia uno slancio
alle sue tecniche civili
così estrarre una scheggia
dall’intestino
nostro diritto naturale.
Mio breve azzurro
dei fossati, mio troppo presto
io vidi, tra vetri, vidi te
alle sterminate
partenze, alle processioni
dei quanti e degli estesi
quella morte predicata
era sempre il primo
atto di un dramma minore
tra il sonno e la veglia.
Mia breve azzurra
stradella di un’alba
di niente
hai chiesto allora
una vita più incomprensibile.
ERRE LUNGA
… tu sei già stato
ciò che io, adesso, sono
NISARGADATTA
La collana dei senza gola, il sarto che
ci spogliò prima di noi
è sempre, è semplice: questo corpo di passante
si fa maggioranza, calce
intorno all’osso, terra rotta,
finché un’altra forza comincia e deve: labbra su spine.
Affondando nel molle di una roccia, si ferma
tra il nostro bene e il nostro male, ci chiama a un lavoro:
carcasse da mettere in fila, fiume
intestinale da arginare con
le mani. Così ritorniamo
in questo paesaggio di tangenziali e candelotti
con la stessa sensazione di
occhi che cercano un’orbita. Chi tace
era un battito della mente sorto in giro, tra
uova di luce scossa, puntando il bastone
al cielo e all’odio dei pochi.
Asia… si chiamava così
quel non parlato di chiodi, latte che cade
sullo zerbino e lentamente lo divide nei pezzi. Quando ognuno,
tra il nostro bene e il nostro male,
riempì questo assolo di globuli, a febbraio sappiamo
che anche qui è lo stesso giorno.
LA MARCHIATURA
Tu rimani contrastata, puntadonna, non
fare scempio della tua traduzione, stringila
nella vagina, quando il metronotte
ti allinea al suo guanto o piomba sopra una cosa.
Noi di gelido filo, noi cresciuti
su un muro, gettando colla sui gessetti, chiudendo
a quel ventilabro di parole la nostra sola interezza.
Il giallo soffre. Il giallo non è un colore ma
un voltarsi e scrutare, un urto sulla maniglia,
una preghiera per tenerlo. Talvolta scende nel
pazzesco immateriale, slaccia le ossa con la
gravità lasciata libera da qualche mano religiosa.
Così al Policlinico muore la neonata mongoloide:
scollandosi dall’uovo, sfiora la trottola ghiacciata,
i vasi della terra, le grandi regole notturne.
Tre, ci hanno detto, sono le regole del bene. Il peso
della sillaba stretta; la pianta vertebrale che
ognuno ha preso a carico; lo studio, fra noi
consecutivo, di questi documenti, con la pece
nella tua mano e il mio liquido delimitato al centro.
NEL TROPICO RAZIONALE
Se qualcosa ci ha uniti
è un’idea di città.
C. VALLEJO
Un’altra figura umana non ultimata si chiama
a mezzadria, porta con sé quello che resta
dell’accento netto: “L’impronta digitale
era un apocrifo, una spavalda interezza! Non c’è
giardino che, appena sfiorato, non dia nebbia.
Non c’è dio o figlio di dio senza una crescita.”
Anche noi, nella stanza di sopra ci scambiavamo
le lenzuola e gli orologi, alle due in punto fulminati,
trascinando una treccia per ogni lettera dell’abbecedario
mangiamo questo pane interminabile, abbiamo
la camicia rotta e una strana forma di luce appiccicata.
Gli studenti, fissi alla spalliera scalciano
per un posto nell’aria. Fuori c’è il bosco dipinto.
In testa uno squillare di concetti. Ladri d’oro,
vittime d’argento: qualunque linea ci assolve: basta
un po’ di sangue incipriato, per guardare la
strada in alto, quel turchese perfetto
che non è cielo ma fiato di attore e gli prenderemo
la parola dai lembi intatti, l’ultimo addolcito tu.
BOMBAY CON DUE FOTOGRAFIE
È un giorno
di come avevamo le labbra. Con rami
e compasso lo cerchiamo
con la festa del pensiero
viaggiamo ogni trentaquattro anni. La mandibola
rimane, lì, spirituale:
poi ci guarda – oh nostro stare indovinante! –
tra questi sdruccioli ci guarda,
rotonda come la sua varietà, quasi propizia
alla testa, la morte del tabaccaio.
JURÒDIVIJ
Guarda la parete,
sua idea reggente. Gli aghi
sono accomunati da un astuccio
Sente un rimprovero assolo, un foglio
nella sua maggioranza. Altri,
con un balletto astrologico, hanno
risolto il problema sottocorpo, hanno
costruito nell’
assoluto delle piogge. Il the
bolle vicino. Col gesso nero
traccia una retta verso l’alto,
guarda la divisione
del bianco in due deserti.
INDICATIVO PRESENTE
Ti hanno mescolato
all’arcano di quaggiù, alla piaga
che insinua un dolciastro di serali…
… ma non è mai stato,
il tuo verismo, quella mano
che lava l’altra mano, né la scaltra elegia
dei fanali da sporcare lievemente, dolore
mantenuto tra due finte… no… hai conosciuto
un vero fuoco sporco, a Milano, in due locali
spariti di domenica… miracolose
operazioni di trasloco. Hai tentato
di distinguere lo scisma di una cosa
dalle ironiche orchestrine materiali,
il macello dallo sputo comunista
su ogni tuo verso, tranne quello che li ha odiati
a prima vista. Adesso
ti è dovuto un foglio
davvero qualsiasi, fittissimo di nulla
millimetro trentuno.
LA FASCIA DA BOCCA
Con la nostra stessa ragione, stortata
da qualche attrezzo, ci coglie
sul fatto, scavando per terra odori femminili,
zolfanelli, pezzi di un canto religioso.
Ognuno, conseguenza del tempo, respinse
questo chilometro
il grande punto fuoripagina.
Forse bastava il codice a sbarre o qualche
stella confidente, lo spillo di sicurezza…
Ruotano cartelli, in noi o senza di noi, urtano
il battito dell’inchiostro, il
suo punto radioattivo. Giaceva lì,
disseminata. Ogni mercante le dedica
un corpo o un fronte di giochi. Ogni
confetto è marcio, il ritorno
si capovolge, tutto resta salvo per sempre.
ANNUARIO
Dal corpo spinato, fili
si arrampicano in aria
con la prova dell’urlo. Come una
primitiva formula di povertà,
tutto il cibo si scioglie
nelle gocce per il cuore, tutto il sonno
s’incrosta alla materia, quell’incontro
tra raptus e firmamento
dove ritorniamo cancellati.
EQUINOZIO
È un giorno, amico mio, in cui restiamo. La vedi,
laggiù, la vetrina che chiamò
la pioggia di traverso? E il museo, lo vedi,
dove dormono macchine giganti? È un giorno, Armando,
con le cose pari alla vita. Sarà
che esistono metalli
dove ogni pagina è divisa, parole
di un tale candore. Sarà che ti hanno
ferito senza poesia, mio fuorimano, di quelli
che dipingono col filo: con una smorfia
mi hai distratto dalle ombre. L’esatta lietezza
di ogni sabato, come si scambiano i cibi,
l’ho chiusa in una busta, te l’ho portata sul ramo
di una violamatta. Ed è qui,
su questo tavolo, adesso la vediamo.
ALLEGRO FEROCE
Imparo da questo papiro
come si estinguono le parole, come tacevano
nella fronte dell’idiota.
Torna a baciarlo portatrice d’acqua.
Torna a bagnarlo soffio di cantilena.
Il pane si svuota, cade tra le spighe
affamate che ti amano. Almeno lì
sia visto quel taglio di bontà. All’aperto era in noi
un piccolo cielo. La mano era chiusa, consegnata.
LINN, L’AVVICINAMENTO
I
Si è travolto d’algebra il sereno, è caduto sulla prima
guerra punica, con i miei ventimila neuroni alla
campana, giaculatorie da ripetere in numero dispari.
[Non posso
dirti dove sei giunto, ma posso dirti dove tutto è iniziato. Ecco
[che l’esilio
si fa idea. Animali bisbigliano al viaggiatore in sordina
le antiche regole del sopravvivere, gli mostrano la foto,
il bambino su una lontana spiaggia del ’59 con le braccia
[e le gambe
bloccate nella corsa. Era quella grafia che
non sbanda, quel mutarsi del sole in una stoffa militare.
[C’era in me
qualcosa che sa di me. Ogni sera viene
a dirmi addio con una cartolina e il libro
di scienze sottobraccio. Segnamo in blu le espressioni
[sconosciute:
“dura madre spinale”, “principio della discesa infinita”.
Le scriviamo sul registro, ci diamo la buona notte.
II
Nella cartella, l’indomani, rimangono i nostri disegni,
[ciascuno
con un numero araldico. L’undici è la fortezza, difesa
[da uno sguardo
di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiume:
[ha in mano
uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.
(“Anna la naspa, fin da piccola la chiamavano così”,
[sentenziava
uno stronzo della Bocconi sulla sorella
scappata in Bolivia e ritornata qui, due mesi fa, tra i corridoi
del Besta) (Eppure gioiosa in certi sbalzi, in brevi
passi orientali). “Si salverà… “, pensavo, ed era il numero
[accanto,
lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera
e l’acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale
o per quella più domestica, sconfitto anche in giardino
da vanesse e cavolaie. Era Anna,
che non conquista e non è presa, e ha in faccia
lo stesso coraggio di beffa addolorata.
III
Spiamo insieme, dalla finestra, uomini che si accoppiano
con i loro incubi, la camerata che gira su se stessa, uomini
[e donne
distesi sul pavimento liquido. Poi, vicinissimo a noi,
un fruscio interno, le ultime vibrazioni di un insetto, la sua
sostanza evaporata. E di colpo tutta la vita ha bisogno
[di questo
buio per condurmi a sé o dovunque io mi accanisca –
un’occhiata al passaporto, all’indirizzo del postumo incontro
[– Café
des pauvres, Montpellier.
“Sono vent’anni che guardo e che non dormo… appena vieni
cantami la canzone in italiano… vieni
appena tu puoi… io sono sempre qui.”
IV
Sempre qui, mi dico, sempre qui, vicino
alla specchiera per trovare un solo tono di voce. So
la premura di questo golf azzurro, non la sua fine,
questo giro dopo giro intorno alle piastrelle. So di un tempo
che adunava gli abitanti, il turgore nelle corolle:
era il figlio pianeta che due donne vestivano,
la teologia di un borgo. Qualcosa
di mai vissuto nel mio sangue macera. È un tempo a neon,
non ha stagioni. Basta un’edicola aperta e ogni passo
diventa veloce, davvero veloce: se lo fermo,
la strada si avvicina, sparge essenza astratta, una cinepresa
che moltiplica porte e scale mobili, mi incalza, mi lascia.
[Allora
l’unica missione è una telefonata, una sorpresa di voce
attenta prima di me e dei miei secoli: accorcerà il tratto
[che manca
al cuscino, il punto da cui ricomincio. Oppure è il salone
di via Padova, gli ultimi giocatori di biliardo, come una
sfera nel percorso ci tiene il respiro: scambiare
un commento esatto, non oltrepassare la sostanza di legno,
[il panno
di tutti noi, questo bene che mi accerchia.
V
O forse non è questo,
ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,
mi dicevi, in cui eravamo
già stati. Quell’intuito sosta in me. È il bar che si riempie
con le prime ore, forza mattutina degli ortomercati,
[Fabienne
che contempla le saracinesche socchiuse
per prestarle un suo rovescio azzurro. Sì, è con bene, con bene:
la bilancia insensata sul palcoscenico,
qualcuno verrà a toglierla, tra poco… forse noi.
VI
Sono qui anche per questo, pensavo, se chiudo
nel corpo le cose in migrazione, se i miei cerchietti
per l’al di là sono in vetrina, sono a strappi. La nudità che
si misura con i burattini, le tibie trepidanti,
ha supplicato di crescere:
c’è ancora tempo, lo sai, sull’erba batte una cadenza
di colpi consolati. Pensavo a questa lettera:
te l’avrei data in un film allegro, in un digiuno spezzato fuori
avrei parlato delle luci che ondeggiano tra i vestiti,
[come montagne
da prendere a forza, da accucciare nella ciotola, nei lenti
meccanismi di un raffreddore, costruzioni a mano a mano.
[E ancora
avrei parlato di te, com’eri da ragazzo e come sei tornato,
[ti avrei
descritto uno per uno i passi troppo veloci,
sempre più veloci, finché l’angelo custode si aggrappa
alle caviglie e siamo salvi.