IV
Le terre gialle

A mia madre, monferrina

STANSA

L’istà a l’era ancur nen finija. Na vidua

l’andava al simiteri. Al crus criavu cme ’n gat

“Fradé dal gulfìn da giuvu, vöj nen andà da sula

’n tal post ch’aj’ ò pagüra: t’at capì… staseira

t’aspècc a cà… staseira”.

La ment girulava ’nt al trenu. Altri doni

ai purtavu la corda par muntà ansümma o calà giü.

“A man viz ben ’d la so facia, sniura: j’öcc celest

ad cul fazàn in agunija

an Chilla j’arsuscitu ciarissimi.”

CAMERA. L’estate non era finita. Una vedova / andava al cimitero. Le croci gridavano come gatti. / “Fratello dal golf da ragazzo, non voglio andare sola / nel luogo dove ho paura: tu hai capito… stasera / ti aspetto a casa mia… stasera.” / La mente vagava nel treno. Altre donne / portavano la corda per salire o scendere. / “Ricordo bene il suo viso, signora: gli occhi azzurri/di quel fagiano agonizzante/in lei risuscitano chiarissimi.”

LËTTRA A CLAUDIO

An riva al fium in om a se setasi

avghinda l’ombra suferta ‘d la so facia.

L’era in om semplice e bun. Se bütasi a dì

con la vus rutta: “chi l’è che al savrà

di sa me vitta?”.

“Ven an sa” – a j’a dij l’atar avzin – “T’an nen

mantnì la so prumesa, nè?”

Po a j’a piaij la testa e j’a versaij

ansümma l’ultima brancà d’aqua.

LETTERA A CLAUDIO. In riva al fiume un uomo si sedette e vide / l’ombra sofferente del suo volto. / Era un uomo semplice e buono. Chiese con la voce rotta: / “Chi saprà di questa mia vita?”. // “Dunque è vero” – disse l’altro vicino – “è vero che/non ti hanno mantenuto la promessa” // Poi gli prese la testa, gli gettò/l’ultima manciata d’acqua.

SUONERÀ UNA SCELTA ORCHESTRA

Un vero cieco un vero metro di terra

chiese noi alla cenere

quale ostia può fatare il nero, quale orario sdoppiato.

La legge che abbiamo, la stessa legge latina

di costruzioni a sbarre, epoche

solenni e grappoli

per turisti che sembrano il loro presagio: un nido di merli

sull’antenna, un’intera città accucciata

a ogni oscuramento… hinaus lehnen… hinaus lehnen…

e anche noi, se almeno fossimo

caduti in quell’avanspettacolo fino a sentirne l’odore,

qualsiasi trapezio ci terrebbe solidi

in aria: è così, è un

pensiero, non passa.

Tra il fogliame

di queste ombre mi accorgo – nonnulla –

della fisarmonica a palchetto

con trenta contadini piemontesi e l’editto scritto

a calce: suonerà, vedi, anche per noi, suonerà

una scelta orchestra.

RIASSUNTO DAL PARADIS

Man ciam suchì a mi, nen a la cisterna

a l’è nen lì che al fa mal. Ai bastu

du sgrafignà ’d carbuncin: a l’è riesij

al Bigìn, prüma ’d calà giü.

Le novi c’an porta

eru in dèncc pulit con cüra

e la cadnetta d’or che in dì j’ava

smentià ’n sal lavandin.

“Parché at costruissi is simitèri ’d carta?”

I turna in dialet, na radis mental

an nanda son semplice. La cuntrasta nen

la cantin-na sucial con nen. Qualsiasi

casietta, ’n sal montacaric, è la preghiera

che cardiva na svista.

As calmu – con che amur – i canal.

“Pudivu nen pruteg-lu, e a l’è tüt”

RIASSUNTO DEL PARADISO. Chiedo questo a me, non alla cisterna/non è lì che fa male. Bastano/due graffi di carboncino: ci riuscì/Bigìn, prima di scendere. / Le notizie che ci porta / erano un dente pulito con cura/e la catenina d’oro scordata sul lavabo. // “Perché costruisci questo cimitero di carta?” / Ritorna un dialetto, una radice mentale / in cui sono semplice. Non contrasta / la cantina sociale con niente. Qualsiasi / cassetta, sul montacarichi, è la preghiera/che credevo una svista // Si calmano – con che amore – i canali // “Non potevamo proteggerlo, ed è tutto”.

CANSÓ SPERDUA

Surelin-ni, öcc scüri, caöset bianc, bei capelli

alla Pina Menichelli, surelin-ni che ades carsij

lavri strecc in bibliuteca, lavri duert ’n tla sèi,

surelin-ni bei cavìn ai sinc d’august, par balà

con la vesta d’seida víarda, con la litra sigilaia

surelin-ni tüti ‘nsèma con so úagg d’ciaira lün-na.

Surelin-ni menu jün-na, che morì.

CANZONE SPERDUTA. Sorelline, occhi scuri, calze bianche, bei capelli / alla Pina Menichelli, sorelline che adesso crescete / labbra strette in biblioteca, labbra aperte per la sete / sorelline bei capelli, il cinque di agosto, per ballare / con il vestito di seta verde e la lettera sigillata / sorelline, tutte insieme al chiar di luna. // Sorelline meno una, che morì.

MANREISA

… fè cul ch’j’è da fè, come u sù, ch’l’è sura

stidià u lavù laurè, cme ’n sògn, dría l’ura.

(… fare ciò che è da fare, come il sole che è sopra

studiato il lavoro, lavorare, come in un sogno, dietro il tempo.)

G. RAPETTI

Un congedo è sempre fermare la testa nel mattino,

bianco annunciare che un pioppo sta cadendo,

cancellato da altri pioppi o finestre o lampioni

che salgono con luci aguzze in ufficio, tornano

nell’aula delle ginnastiche nette, nei legni paralleli.

Dire addio come alla radio, parlando o tacendo

ma addio all’ombra che ci vestiva a nerostellato.

Di quelle mani ogni carriola, nella calce, porta un’impronta

ed è facile incantarsi sulla cosa che tu guardi o getti,

che io nascondo, assaggio. Altre donne passano in bicicletta:

la forza puntata alle caviglie, i vetri leggeri e traforati

lungo le linee della mano… forse io…

… forse io… nel catino dove bollirono gocce

di sangue, con la vecchia che insegnò a dipingersi gli occhi

indurita da un dubbio felice, da tante e tante

tempeste sul pioppeto, nostro fuoriluogo per capire

… noi di pura supplica, noi colpiti a segno… forse qui

forse qui… chiusero le persiane, ricordo, era la mezza.

Era dei santi la ferita che invoca e si mescola

al rossetto, erano due stringhe in cui intuisco

la strana allegria che ci attende, guerrieri

di una guerra improvvisata nella camera, nella mia

a doppio cieco. Ogni mattone lanciato verso

il desco, lo prendemmo, lo facemmo cotto, lo scaldammo

con tutto il fiato. Addio indovinello. Stasera torneremo

a guardare la nostra leggera matita, tuo fratello e io.

NA STORIA DI A.

An t’al tram pien, as guarda mal la gent

pronta a scatà se quaicadün la tucca.

Ma ’vzin a mì na dona l’arman longament

sperdua, piega mara l’angul ’d la bucca.

Dròlo… ades m’ciaimo gnanca

parchè ch’a piang e a piang

sa dona veja… forsi… e bianca

… povra o sniura… so pü nen.

… Veg machi ’s piansi mut e parfond

che, adnan a mì, da tant distant a ven,

’s piansi ch’a ven dai sorgìs dal mond.

UNA STORIA DI A. Si guarda male, nel tram affollato, la gente/pronta a reagire appena qualcuno la tocca. / Ma c’è una donna, vicino a me, sembra assente, / sperduta… una piega amara sulla bocca. // Strano… adesso non mi chiedo neppure / perché piange e piange ancora, / questa donna forse vecchia… non so… povera o signora… // Vedo solamente questo pianto muto e profondo / che, accanto a me, viene da tanto lontano, / questo pianto che viene dalle origini del mondo.

NOTIZIARIO DELLE SETTE E TRENTA

Vivevo qui, in una scatola

dello spazio, insieme alle ombre fossili

e al folle lamentato che si scagliò all’aperto.

La Bormida ha già lasciato il porto. Ogni lesione

nel lampadario, ogni concime,

è questa briciola di formalina dove

uomini ascoltano. Dirò che dolcemente si cresce

in un punto lontano: la solita strada

è il bel paradiso.

CANSÓ DAL GENAR SÜCC

L’è stacc quand che na machina l’a ’nvestì cme na foija

cul giögadur, Gigi Meroni, col so dribling strecc, in poc

[sbilenco.

L’è stacc anlur, a m’smia, ’nt al cantinó dal Savoia

al medesim nom, n’autra erba dventaja mutta, Luigi Tenco.

Parlavu ’d Cassine, ’d l’eua anfeta e po a l’è sparì

dríara na maniglia, vatl’a’svei, ’nt’an dì ad mercà.

Am viz ch’a në scrivìa: veira núacc, mì serc sënsa pietà

quaidün ch’al fassa in tentativ par mì.

CANZONE DEL GENNAIO ASCIUTTO. È stato come quando una macchina investì come una foglia / quel giocatore, Luigi Meroni, dribbling stretto, un po’ sbilenco… / … è stato allora, mi sembra, nel cantinone del Savoia / lo stesso nome, un’altra erba che si fa muta, Luigi Tenco. // Parlavamo di Cassine, dell’acqua guasta, e poi è sparito / dietro una maniglia, chi sa come, un giorno di mercato. / Ricordo che ci scrisse: vera notte, io cerco senza pietà/qualcuno che faccia un tentativo per me.

MAJNO DELLA SPINETTA

Erano cose che dio ci vede. Erano nostre

le mani protese su ogni lembo del giornale,

sulla rubrica di Vita Casalese con un annuncio ardimentoso:

Bellissima cerca immortale. Un fagiano, esploso

[in quel momento,

distrusse l’ala antica della scuola. La nostra anima, sola

come una biro, cercò rifugio nei fienili, si protesse.

[Eppure sento

sento ancora, tra il respiro e la memoria, le stesse

potenti barzellette maschili, lo stesso odore

di marchette, scollature, patergloria, che tutto il cielo

misurava sui battiti del cuore.

STASEIRA

A sent doe vos ch’as sercu e besbìu

– doe vos d’na man ch’a so bianca

staseira ven avzin: “s’it vije, mi viju”.

Le masnà, con doe miseire, son cuntente,

i son volasne via. A sent che la poesia

l’è tüta lì: fà l’univers con gnente.

STASERA. Sento due voci che si cercano e bisbigliano / due voci di una mano che so bianca / stasera vengono vicino: “se tu vegli, io veglio”. // Le bambine con due miserie sono contente, / sono volate via. Forse la poesia / è tutta lì: fare l’universo con niente.

STAMPE CON LETTERA

Con grazia vorrei entrare

nei tuoi chioschi-bar, tra le edicole

che guardi in fretta, chiamato da un centro nervoso.

La polvere – si dice – seppellì due volte Milano. Gli invasori

trovarono qualche seggiola, una radio a galena,

vecchi pneumatici. Anche quella morte

è stata una cosa. Anche qui, nel ronzio pasquale, si

accostano l’emorragia e la cantilena di chi compì la perizia e

tornò cancellato: il bracciale di bosso, la cascina deserta

[(era della

Matelda, che parlava alle formiche e certe sere

persino all’angelo custode). Ecco la grotta

dove nascondono l’alcol per la freisa, e l’unica fotografia:

[un gruppo

in posa, ben affiatato, le firme sul bordo, gli evviva

con tre punti esclamativi, un uomo con gli occhi

poderosi e la barba da scalatore. Unirlo al vetro di quel

[marciapiede,

all’equilibrio dei tuoi stati moderni…

… l’autostrada in una figurina, i pantheon spiati

[solennemente

su cartelli scritti a vernice: Lisondria e poi Alsandia… Lisanderia

(proprio così: tre dialetti in un chilometro!) Nulla contrasta

[il chiaro

parere del salmista, la sua mappa di ghirigori rossi

e croci blu sui traghetti della Bormida (“… i son brüt

[cme la not”).

Bello il fango incrostato ai calzettoni, la sterpaglia dagli odori

[forti,

questa terra gialla sui muri… bello il casale

deserto, con le persiane costruite alla buona,

cartone e pongo, sembra proprio la festa del Gelindu.

“Ma se tu venissi qui, se qui un solo lenzuolo si vede,

qui potrebbe giacere la vecchia incinta

con il suo re mai nato.”

PRÜMMA ANCURA

Turna, fuijam di povar, ripèt che la mort l’è stacia in etèrnu paragon. Al cuntadin dal man longhi a gliu sava, ma l’a nen rivelà al so nom ’d vegènt. L’inissi m’asal, con al medesimi tapi e la medesima abitüdine dal croll: mari luntanni lasaij liberi ai portu al lantij al prüm ’d l’ani, e as pudiva esisti ’n machi an mez i culur semplici. A l’era nostr turno equidistant daij estrèm; na valvula qualsiasi, na bici ’d seconda man, la culonna ’dij annunci scrutaija ’l dì dop… percurinda ’l camp, antuiss che ogni rama, quand che la tröva la so furma, la verrà poncia ’d granì andrena nüis, culin-ni emigraij ’nt al cör ’d la culin-na, al medesim sbui ’d continuà in dialèt.

PRIMA ANCORA. Ritorna, fogliame dei poveri, ripeti che la morte è stata un eterno paragone. Il contadino dalle lunghe mani lo sapeva, ma non rivelò il suo nome di veggente. L’inizio ci assale, con le stesse tappe e la stessa abitudine di quel crollo: madri lontane lasciate libere portano le lenticchie a capodanno, e si poteva esistere soltanto tra i colori semplici. Era il nostro turno equidistante dagli estremi; una valvola qualsiasi, una bici di seconda mano, la colonna degli annunci scrutata il giorno dopo… Percorrendo il campo, intuisco che ogni ramo, quando non trova la propria forma, diventa punta di granito anche in noi, colline emigrate nel cuore della collina, la stessa paura improvvisa di continuare un dialetto.