A mia madre, monferrina
STANSA
L’istà a l’era ancur nen finija. Na vidua
l’andava al simiteri. Al crus criavu cme ’n gat
“Fradé dal gulfìn da giuvu, vöj nen andà da sula
’n tal post ch’aj’ ò pagüra: t’at capì… staseira
t’aspècc a cà… staseira”.
La ment girulava ’nt al trenu. Altri doni
ai purtavu la corda par muntà ansümma o calà giü.
“A man viz ben ’d la so facia, sniura: j’öcc celest
ad cul fazàn in agunija
an Chilla j’arsuscitu ciarissimi.”
CAMERA. L’estate non era finita. Una vedova / andava al cimitero. Le croci gridavano come gatti. / “Fratello dal golf da ragazzo, non voglio andare sola / nel luogo dove ho paura: tu hai capito… stasera / ti aspetto a casa mia… stasera.” / La mente vagava nel treno. Altre donne / portavano la corda per salire o scendere. / “Ricordo bene il suo viso, signora: gli occhi azzurri/di quel fagiano agonizzante/in lei risuscitano chiarissimi.”
LËTTRA A CLAUDIO
An riva al fium in om a se setasi
avghinda l’ombra suferta ‘d la so facia.
L’era in om semplice e bun. Se bütasi a dì
con la vus rutta: “chi l’è che al savrà
di sa me vitta?”.
“Ven an sa” – a j’a dij l’atar avzin – “T’an nen
mantnì la so prumesa, nè?”
Po a j’a piaij la testa e j’a versaij
ansümma l’ultima brancà d’aqua.
LETTERA A CLAUDIO. In riva al fiume un uomo si sedette e vide / l’ombra sofferente del suo volto. / Era un uomo semplice e buono. Chiese con la voce rotta: / “Chi saprà di questa mia vita?”. // “Dunque è vero” – disse l’altro vicino – “è vero che/non ti hanno mantenuto la promessa” // Poi gli prese la testa, gli gettò/l’ultima manciata d’acqua.
SUONERÀ UNA SCELTA ORCHESTRA
Un vero cieco un vero metro di terra
chiese noi alla cenere
quale ostia può fatare il nero, quale orario sdoppiato.
La legge che abbiamo, la stessa legge latina
di costruzioni a sbarre, epoche
solenni e grappoli
per turisti che sembrano il loro presagio: un nido di merli
sull’antenna, un’intera città accucciata
a ogni oscuramento… hinaus lehnen… hinaus lehnen…
e anche noi, se almeno fossimo
caduti in quell’avanspettacolo fino a sentirne l’odore,
qualsiasi trapezio ci terrebbe solidi
in aria: è così, è un
pensiero, non passa.
Tra il fogliame
di queste ombre mi accorgo – nonnulla –
della fisarmonica a palchetto
con trenta contadini piemontesi e l’editto scritto
a calce: suonerà, vedi, anche per noi, suonerà
una scelta orchestra.
RIASSUNTO DAL PARADIS
Man ciam suchì a mi, nen a la cisterna
a l’è nen lì che al fa mal. Ai bastu
du sgrafignà ’d carbuncin: a l’è riesij
al Bigìn, prüma ’d calà giü.
Le novi c’an porta
eru in dèncc pulit con cüra
e la cadnetta d’or che in dì j’ava
smentià ’n sal lavandin.
“Parché at costruissi is simitèri ’d carta?”
I turna in dialet, na radis mental
an nanda son semplice. La cuntrasta nen
la cantin-na sucial con nen. Qualsiasi
casietta, ’n sal montacaric, è la preghiera
che cardiva na svista.
As calmu – con che amur – i canal.
“Pudivu nen pruteg-lu, e a l’è tüt”
RIASSUNTO DEL PARADISO. Chiedo questo a me, non alla cisterna/non è lì che fa male. Bastano/due graffi di carboncino: ci riuscì/Bigìn, prima di scendere. / Le notizie che ci porta / erano un dente pulito con cura/e la catenina d’oro scordata sul lavabo. // “Perché costruisci questo cimitero di carta?” / Ritorna un dialetto, una radice mentale / in cui sono semplice. Non contrasta / la cantina sociale con niente. Qualsiasi / cassetta, sul montacarichi, è la preghiera/che credevo una svista // Si calmano – con che amore – i canali // “Non potevamo proteggerlo, ed è tutto”.
CANSÓ SPERDUA
Surelin-ni, öcc scüri, caöset bianc, bei capelli
alla Pina Menichelli, surelin-ni che ades carsij
lavri strecc in bibliuteca, lavri duert ’n tla sèi,
surelin-ni bei cavìn ai sinc d’august, par balà
con la vesta d’seida víarda, con la litra sigilaia
surelin-ni tüti ‘nsèma con so úagg d’ciaira lün-na.
Surelin-ni menu jün-na, che morì.
CANZONE SPERDUTA. Sorelline, occhi scuri, calze bianche, bei capelli / alla Pina Menichelli, sorelline che adesso crescete / labbra strette in biblioteca, labbra aperte per la sete / sorelline bei capelli, il cinque di agosto, per ballare / con il vestito di seta verde e la lettera sigillata / sorelline, tutte insieme al chiar di luna. // Sorelline meno una, che morì.
MANREISA
… fè cul ch’j’è da fè, come u sù, ch’l’è sura
stidià u lavù laurè, cme ’n sògn, dría l’ura.
(… fare ciò che è da fare, come il sole che è sopra
studiato il lavoro, lavorare, come in un sogno, dietro il tempo.)
G. RAPETTI
Un congedo è sempre fermare la testa nel mattino,
bianco annunciare che un pioppo sta cadendo,
cancellato da altri pioppi o finestre o lampioni
che salgono con luci aguzze in ufficio, tornano
nell’aula delle ginnastiche nette, nei legni paralleli.
Dire addio come alla radio, parlando o tacendo
ma addio all’ombra che ci vestiva a nerostellato.
Di quelle mani ogni carriola, nella calce, porta un’impronta
ed è facile incantarsi sulla cosa che tu guardi o getti,
che io nascondo, assaggio. Altre donne passano in bicicletta:
la forza puntata alle caviglie, i vetri leggeri e traforati
lungo le linee della mano… forse io…
… forse io… nel catino dove bollirono gocce
di sangue, con la vecchia che insegnò a dipingersi gli occhi
indurita da un dubbio felice, da tante e tante
tempeste sul pioppeto, nostro fuoriluogo per capire
… noi di pura supplica, noi colpiti a segno… forse qui
forse qui… chiusero le persiane, ricordo, era la mezza.
Era dei santi la ferita che invoca e si mescola
al rossetto, erano due stringhe in cui intuisco
la strana allegria che ci attende, guerrieri
di una guerra improvvisata nella camera, nella mia
a doppio cieco. Ogni mattone lanciato verso
il desco, lo prendemmo, lo facemmo cotto, lo scaldammo
con tutto il fiato. Addio indovinello. Stasera torneremo
a guardare la nostra leggera matita, tuo fratello e io.
NA STORIA DI A.
An t’al tram pien, as guarda mal la gent
pronta a scatà se quaicadün la tucca.
Ma ’vzin a mì na dona l’arman longament
sperdua, piega mara l’angul ’d la bucca.
Dròlo… ades m’ciaimo gnanca
parchè ch’a piang e a piang
sa dona veja… forsi… e bianca
… povra o sniura… so pü nen.
… Veg machi ’s piansi mut e parfond
che, adnan a mì, da tant distant a ven,
’s piansi ch’a ven dai sorgìs dal mond.
UNA STORIA DI A. Si guarda male, nel tram affollato, la gente/pronta a reagire appena qualcuno la tocca. / Ma c’è una donna, vicino a me, sembra assente, / sperduta… una piega amara sulla bocca. // Strano… adesso non mi chiedo neppure / perché piange e piange ancora, / questa donna forse vecchia… non so… povera o signora… // Vedo solamente questo pianto muto e profondo / che, accanto a me, viene da tanto lontano, / questo pianto che viene dalle origini del mondo.
NOTIZIARIO DELLE SETTE E TRENTA
Vivevo qui, in una scatola
dello spazio, insieme alle ombre fossili
e al folle lamentato che si scagliò all’aperto.
La Bormida ha già lasciato il porto. Ogni lesione
nel lampadario, ogni concime,
è questa briciola di formalina dove
uomini ascoltano. Dirò che dolcemente si cresce
in un punto lontano: la solita strada
è il bel paradiso.
CANSÓ DAL GENAR SÜCC
L’è stacc quand che na machina l’a ’nvestì cme na foija
cul giögadur, Gigi Meroni, col so dribling strecc, in poc
[sbilenco.
L’è stacc anlur, a m’smia, ’nt al cantinó dal Savoia
al medesim nom, n’autra erba dventaja mutta, Luigi Tenco.
Parlavu ’d Cassine, ’d l’eua anfeta e po a l’è sparì
dríara na maniglia, vatl’a’svei, ’nt’an dì ad mercà.
Am viz ch’a në scrivìa: veira núacc, mì serc sënsa pietà
quaidün ch’al fassa in tentativ par mì.
CANZONE DEL GENNAIO ASCIUTTO. È stato come quando una macchina investì come una foglia / quel giocatore, Luigi Meroni, dribbling stretto, un po’ sbilenco… / … è stato allora, mi sembra, nel cantinone del Savoia / lo stesso nome, un’altra erba che si fa muta, Luigi Tenco. // Parlavamo di Cassine, dell’acqua guasta, e poi è sparito / dietro una maniglia, chi sa come, un giorno di mercato. / Ricordo che ci scrisse: vera notte, io cerco senza pietà/qualcuno che faccia un tentativo per me.
MAJNO DELLA SPINETTA
Erano cose che dio ci vede. Erano nostre
le mani protese su ogni lembo del giornale,
sulla rubrica di Vita Casalese con un annuncio ardimentoso:
Bellissima cerca immortale. Un fagiano, esploso
[in quel momento,
distrusse l’ala antica della scuola. La nostra anima, sola
come una biro, cercò rifugio nei fienili, si protesse.
[Eppure sento
sento ancora, tra il respiro e la memoria, le stesse
potenti barzellette maschili, lo stesso odore
di marchette, scollature, patergloria, che tutto il cielo
misurava sui battiti del cuore.
STASEIRA
A sent doe vos ch’as sercu e besbìu
– doe vos d’na man ch’a so bianca
staseira ven avzin: “s’it vije, mi viju”.
Le masnà, con doe miseire, son cuntente,
i son volasne via. A sent che la poesia
l’è tüta lì: fà l’univers con gnente.
STASERA. Sento due voci che si cercano e bisbigliano / due voci di una mano che so bianca / stasera vengono vicino: “se tu vegli, io veglio”. // Le bambine con due miserie sono contente, / sono volate via. Forse la poesia / è tutta lì: fare l’universo con niente.
STAMPE CON LETTERA
Con grazia vorrei entrare
nei tuoi chioschi-bar, tra le edicole
che guardi in fretta, chiamato da un centro nervoso.
La polvere – si dice – seppellì due volte Milano. Gli invasori
trovarono qualche seggiola, una radio a galena,
vecchi pneumatici. Anche quella morte
è stata una cosa. Anche qui, nel ronzio pasquale, si
accostano l’emorragia e la cantilena di chi compì la perizia e
tornò cancellato: il bracciale di bosso, la cascina deserta
[(era della
Matelda, che parlava alle formiche e certe sere
persino all’angelo custode). Ecco la grotta
dove nascondono l’alcol per la freisa, e l’unica fotografia:
[un gruppo
in posa, ben affiatato, le firme sul bordo, gli evviva
con tre punti esclamativi, un uomo con gli occhi
poderosi e la barba da scalatore. Unirlo al vetro di quel
[marciapiede,
all’equilibrio dei tuoi stati moderni…
… l’autostrada in una figurina, i pantheon spiati
[solennemente
su cartelli scritti a vernice: Lisondria e poi Alsandia… Lisanderia
(proprio così: tre dialetti in un chilometro!) Nulla contrasta
[il chiaro
parere del salmista, la sua mappa di ghirigori rossi
e croci blu sui traghetti della Bormida (“… i son brüt
[cme la not”).
Bello il fango incrostato ai calzettoni, la sterpaglia dagli odori
[forti,
questa terra gialla sui muri… bello il casale
deserto, con le persiane costruite alla buona,
cartone e pongo, sembra proprio la festa del Gelindu.
“Ma se tu venissi qui, se qui un solo lenzuolo si vede,
qui potrebbe giacere la vecchia incinta
con il suo re mai nato.”
PRÜMMA ANCURA
Turna, fuijam di povar, ripèt che la mort l’è stacia in etèrnu paragon. Al cuntadin dal man longhi a gliu sava, ma l’a nen rivelà al so nom ’d vegènt. L’inissi m’asal, con al medesimi tapi e la medesima abitüdine dal croll: mari luntanni lasaij liberi ai portu al lantij al prüm ’d l’ani, e as pudiva esisti ’n machi an mez i culur semplici. A l’era nostr turno equidistant daij estrèm; na valvula qualsiasi, na bici ’d seconda man, la culonna ’dij annunci scrutaija ’l dì dop… percurinda ’l camp, antuiss che ogni rama, quand che la tröva la so furma, la verrà poncia ’d granì andrena nüis, culin-ni emigraij ’nt al cör ’d la culin-na, al medesim sbui ’d continuà in dialèt.
PRIMA ANCORA. Ritorna, fogliame dei poveri, ripeti che la morte è stata un eterno paragone. Il contadino dalle lunghe mani lo sapeva, ma non rivelò il suo nome di veggente. L’inizio ci assale, con le stesse tappe e la stessa abitudine di quel crollo: madri lontane lasciate libere portano le lenticchie a capodanno, e si poteva esistere soltanto tra i colori semplici. Era il nostro turno equidistante dagli estremi; una valvola qualsiasi, una bici di seconda mano, la colonna degli annunci scrutata il giorno dopo… Percorrendo il campo, intuisco che ogni ramo, quando non trova la propria forma, diventa punta di granito anche in noi, colline emigrate nel cuore della collina, la stessa paura improvvisa di continuare un dialetto.