CARTINA MUTA
Ora lo sai anche tu
lo sappiamo
mentre stiamo per rinascere.
FRANCO FORTINI
Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia
dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto
del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,
è lo stesso che una volta chiamai amore, qui
nella nebbia della Comasina.
Camminiamo ancora verso un vetro. Poi lei
getta in un cestino l’orario e gli occhiali,
si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.
“Perché fai questo?”
“Perché io sono così”, risponde una forma dura della voce,
un dolore che assomiglia
solamente a se stesso. “Perché io…
… né prendere né lasciare.” Avvengono parole
nel sangue, occhi che urtano contro il neon
gelati, intelligenti e inconsolabili,
mani che disegnano sul vetro l’angelo custode
e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,
l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.
“Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli
a molti esseri prima di diventare nostra…
… vita, proprio tu vuoi darle
un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni
si cercano in un metro d’asfalto…”
Interrompiamo l’antologia
e la supplica del batticuore. Riportiamo esattamente
i fatti e le parole. Questo,
questo mi è possibile. Alle tre del mattino
ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo
due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi
mi domandò di accompagnarla a casa, in via Vallazze.
Le parole si capivano e la bocca
non era più impastata. “Dove sei stata
per tutta la mia vita…” Milano torna muta
e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio
e umido che le scioglie anche il nome,
ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,
insieme diverremo quel pianto
che una poesia non ha potuto dire, ora lo vedi
e lo vedrò anch’io… lo vedremo,
ora lo vedremo… lo vedremo tutti… ora…
… ora che stiamo per rinascere.
IDROSCALO
Il ragazzo che si tuffa
in un crawl potente e urta un sasso…
… la ciocca insanguinata…
… la giovinezza prese la forma
di un passo oscuro, di una rosa
appesa alla finestra
“salvami, padre, da quest’ora dolorosa”
la gente saliva, scendeva, cercava
una fune, una cosa
qualsiasi, sputava, gettava in acqua
il suo fazzoletto, ciascuno
parlava all’orecchio
di un altro, diceva
Dio non ha più desiderio,
una volta aveva freddo, Dio, tendeva
le mani per indossare
un cappotto, il primo, anche questo
che è vecchio, guarda,
toccalo, tienilo pure…
un cappotto, capisci, non i velluti
scesi dal cielo, ma questo,
il mio, persino il mio cappotto.
DONATELLA
La danza fiorisce, cancella il tempo e lo ricostruisce
come questo sole invernale sui muri
dell’Arena illumina i gradoni, risveglia insieme agli anni
gli dei di pietra arrugginita. “C’è Donata De Giovanni?
Si allena ancora qui?” “Come no, la Donatella,
la velocista, la sta semper da per lé.”
Mi guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese
che trema lievemente, ma sorride. “Eccola, guardi,
nella rete del martello… la prego… parli piano…
con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano.”
“Chi è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…
quali enigmi mi sussurra?” Si avvicinò
a Donata, raccolse una scarpetta a quattro chiodi.
“La tenga lei, signore, si graffia le gambe…
… povera Donata… è così bella… Lei l’ha vista…”
“Forse il punto luminoso della pista
si è avvitato a un invisibile spavento, forse
quest’inverno è entrato nella gola insieme al cielo:
era sola, era il ventuno o il ventidue gennaio
e ha deciso di ospitare tutto il gelo”
“O forse, si dice, è successo quando ha perso
il posto all’Oviesse, pare che piangesse
giorno e notte… per non parlare di suo padre…
i dottori che ha chiamato… mezza Milano”
“Io, signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano
ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo
quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore
c’è di tutto dietro le portiere. Sì, di baciarla
come un’orazione nel suo corpo, di baciare
le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia
quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo
e così all’improvviso si avvera, come un frutto”
“Lo dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto
lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno
desiderio – è così bella – e capiranno che la luce
non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa
puntata al filo, viene da lei, la Donatella.”
LEZIONE DI STORIA ANTICA
“Alla fine della terra c’è un nastro,
disse, un nastro luminoso
come il filo di lana che ci attende in ogni pista
di sera, sotto i riflettori. Potremo
spezzare quel sacro filo bianco?”
Mi voltai verso di lei, con il chitone
corto, i sandali dai lacci di cuoio. Parlava
di quando era bambina, vicino a Iraklion,
di una primavera ininterrotta, dove lo slancio
dei garretti fioriva a ogni metro
e dove si rideva scambiandosi lo strìgile
per detergersi il sudore. All’uscita
mi prese il braccio con una tenerezza
in lei sconosciuta, quasi un segreto sottovoce.
“Svaniscono, laggiù tra le colonne, i profumi
del melìto e del cerfoglio, un vento buio
ha spento le fiaccole, e le fasce sulla fronte
ormai, vedi, perdono colore. Non posso
accompagnarti, perdonami, oltre quella
soglia lontana e proibita. Pochi uomini
seduti sui gradoni in un profumo d’ambrosia
mi vedranno scattare pallida
al momento dello sparo, pochi oscuri vivi
tra bourbon e lavagne luminose
rideranno di questo mio petto adolescente
e voleranno via per sempre.”
SCAVALCAMENTO VENTRALE
Abbandona quest’eco di giustizia, cedi alla sproporzione.
PIERO BIGONGIARI
L’ho riconosciuta da lontano, dalla rincorsa
a nove passi, dalla maglietta rossa
e prestigiosa che le donò Stepanenko, nel 1961.
L’ho riconosciuta da lontano. E poi Milano
è rinchiusa nell’ovale del Pirelli, nella sua
breve pedana, che sbuca su un’asticella
bianca e nera, sugli infiniti corpi che ha sfiorato.
Mi viene incontro e all’improvviso
la sua voce incide una lesione, non so quale,
un nulla temporale, un sortilegio
di vetri e macerie, mentre il cielo
di febbraio troppo forte portava via gli asciugamani,
apriva tutte le porte, spopolava le tribune.
Non so quale dio ferito a morte
urlava dentro lei, quale oscura
sorte l’atterriva, quale dentro la gola
guerriera e sbarrata da un filo di silenzio: l’attimo
è contato eppure si dilunga,
si conficca dentro il prato e il pensiero
vortica intorno. Così il creato è solo un’unghia
e ciascuno può cambiare la sua nascita,
le statue camminare e, sorridendo,
avvertirci che hanno un’ombra. Di lei
ignoravo proprio quest’ombra.
Trascorre un istante
di questo millennio. Non conoscerò il suo respiro
di saltatrice immacolata, il volo dove è stata
felice, il fazzoletto
dei secondi essenziali, il tendersi perfetto
dei dorsali, che una goccia di sudore ha benedetto:
quelle ciglia
in cui brillava un ventaglio di grazia,
si apersero imploranti,
un battito di incanti animò la pista
e la sua luce calcinata, entrò nelle docce, nella conquista
dei giochi studenteschi, delle supreme
alleanze, dei blocchi di partenza, degli affreschi
dove ognuno getta il seme di se stesso,
dove prima, dove adesso ognuno resta insieme
a quest’odore di carbonella e spogliatoi
e forma il luogo intero, il codice terrestre, il vero
prodigio materiale e celeste, la disciplina
dei corpi che trovano dimora, l’amore che confina
con la sua suprema ombra, i forti
battiti di una falcata sulla pista, l’ora
delle nostre prime morti.
Non conoscerò quel respiro
di acrobata lucente, il volo che sprigiona
quella forza in piena luce… la chiarezza
del suo corpo di amazzone fanciulla
l’ho desiderata, come a volte si desidera, tra i luoghi,
il più visibile.
“Ma non sarà questo minuto, non sarò io…
… sarà un’antica promessa, un saluto, forse sarà Dio
ad amare ciò che non hai voluto di te stessa.”
L’INCARICO ANNUALE
A volte si ritorna nella casa dei parenti
perché la vita è poca, come il denaro,
ma infinita è la graduatoria dei supplenti…
A volte, caso raro, nel pigolio della memoria
c’è una favolosa, puerile storia, un segreto
che si svela quando è tardi, con gli ultimi
coriandoli rimasti all’alfabeto.
Le cose di mio padre militare: le vidi in un comò, stile
Casa Reale, misero, solenne, senza età: buco temporale
tra i buchi delle marsine e dei foderi bordò.
Lunghi e neri guanti di damine, cannocchiali, cartine
militari disegnate da un artista, a ogni trincea un colore,
tutte cose che una volta furono leggenda e parabola
raccontate con amore a ogni cena, sedute a tavola
con noi bambini, la volpe del deserto, il Quinto Alpini,
stavano lì dentro, tra foulard di Hermès
e bottiglie di acquavite: più che mute, ammutolite.
Fu allora, papà, che sei caduto sul letto, con la testa
nel cuscino hai detto sottovoce che oggi è festa
e poi l’hai ripetuto, molte volte hai ripetuto
oggi è festa, oggi si festeggia il mio dentino muto.
PER QUELL’INNATO SCATTO
Nel superotto girato al ginnasio
è già lei: la ragazza guerriera
sempre all’attacco.
Faceva segnali di fumo, fuochi di bivacco,
gettava in pattumiera i profumi ottocenteschi.
Ragazza dei baratri e dei bar, dei giochi
di destrezza, dei campionati studenteschi
vinti in scioltezza: nove secondi
con sei metri di distacco.
E io, in classe, quando mi accorsi che volava
(“Nove netti sugli ottanta,
a quindici anni, ragazzi!”)
l’ho chiamata subito Atalanta.
Stefania Annovazzi
si chiamava veramente
più spesso Stefanella.
Ma per tutti noi era quella
divina falcata adolescente.
L’UNICA DATA
Si avvicinò alla finestra, vide
il suo segno zodiacale, nel cielo
allucinato dentro lei. Vide tutto di quegli anni
che l’accolsero ancora trepidante: i dolci affanni
del debutto, gli applausi a scena aperta,
la sua prima casa, abbagliante, spezzata
proprio lì, in via dell’Annunciata,
immense linee della vita rinchiuse in una mano…
… e della morte… morti del giusto riposo
o dell’alterna pietà, morti in un istante d’azzardo,
morti a cui negò per sempre lo sguardo…
… e gli anni… quanti anni dietro il velo
delle lacrime… sono coriandoli
intorno a un grattacielo, tracce di rossetto, scintille
di una grazia altera… quanti scomparvero
dentro al braccialetto… quanto oscuro rancore
per la bocca che l’adora… anni sprezzanti…
anni di solo tempo… anni santi… il cartomante muto,
i diamanti regalati a un barista… il nome in vista
e quello caduto… un anno… ogni anno
mai compiuto.
Al primo saluto, apparvero i presagi:
un’agenda scordata al Nepentha, il gin tonic
caduto sulla gonna, la bestiola imprigionata
che ha percorso mille volte la sua cella.
In un minuetto di macerie e di boutiques, si vide
cortigiana tra quei morti: l’acqua scura
della doccia, l’anello naufragato nel bicchiere,
l’angelus interrotto, le primavere
della terra sembravano braccate, le poche primavere
dove entrò segretamente, con le supreme intensità
dell’orante che ormai può solo udire, unghia
sotto cui si scatena tutto il sangue,
cipria e cenere, coccinella di due strade.
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“Chiunque ti ha incontrata
ha vissuto senza di te ogni suo giorno
ogni giorno sentiva l’essenziale
di te mancato per un soffio, e quel soffio
fu mortale. E così ho sentito io,
mia graziosa, mia
imputata di qualcosa che non sai
mia amputata di qualcosa che non so.
Addio, mia fragile melò.”