III
Capitoli del romanzo

CARTINA MUTA

Ora lo sai anche tu

lo sappiamo

mentre stiamo per rinascere.

FRANCO FORTINI

Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia

dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto

del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo,

è lo stesso che una volta chiamai amore, qui

nella nebbia della Comasina.

Camminiamo ancora verso un vetro. Poi lei

getta in un cestino l’orario e gli occhiali,

si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa.

“Perché fai questo?”

“Perché io sono così”, risponde una forma dura della voce,

un dolore che assomiglia

solamente a se stesso. “Perché io…

… né prendere né lasciare.” Avvengono parole

nel sangue, occhi che urtano contro il neon

gelati, intelligenti e inconsolabili,

mani che disegnano sul vetro l’angelo custode

e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo,

l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.

“Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli

a molti esseri prima di diventare nostra…

… vita, proprio tu vuoi darle

un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni

si cercano in un metro d’asfalto…”

Interrompiamo l’antologia

e la supplica del batticuore. Riportiamo esattamente

i fatti e le parole. Questo,

questo mi è possibile. Alle tre del mattino

ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo

due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi

mi domandò di accompagnarla a casa, in via Vallazze.

Le parole si capivano e la bocca

non era più impastata. “Dove sei stata

per tutta la mia vita…” Milano torna muta

e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio

e umido che le scioglie anche il nome,

ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo,

insieme diverremo quel pianto

che una poesia non ha potuto dire, ora lo vedi

e lo vedrò anch’io… lo vedremo,

ora lo vedremo… lo vedremo tutti… ora…

… ora che stiamo per rinascere.

IDROSCALO

Il ragazzo che si tuffa

in un crawl potente e urta un sasso…

… la ciocca insanguinata…

… la giovinezza prese la forma

di un passo oscuro, di una rosa

appesa alla finestra

“salvami, padre, da quest’ora dolorosa”

la gente saliva, scendeva, cercava

una fune, una cosa

qualsiasi, sputava, gettava in acqua

il suo fazzoletto, ciascuno

parlava all’orecchio

di un altro, diceva

Dio non ha più desiderio,

una volta aveva freddo, Dio, tendeva

le mani per indossare

un cappotto, il primo, anche questo

che è vecchio, guarda,

toccalo, tienilo pure…

un cappotto, capisci, non i velluti

scesi dal cielo, ma questo,

il mio, persino il mio cappotto.

DONATELLA

La danza fiorisce, cancella il tempo e lo ricostruisce

come questo sole invernale sui muri

dell’Arena illumina i gradoni, risveglia insieme agli anni

gli dei di pietra arrugginita. “C’è Donata De Giovanni?

Si allena ancora qui?” “Come no, la Donatella,

la velocista, la sta semper da per lé.”

Mi guardava fisso, con l’antica dolcezza milanese

che trema lievemente, ma sorride. “Eccola, guardi,

nella rete del martello… la prego… parli piano…

con una mano disfa ciò che ha fatto l’altra mano.”

“Chi è costui? Un custode, un’ombra, un indovino…

quali enigmi mi sussurra?” Si avvicinò

a Donata, raccolse una scarpetta a quattro chiodi.

“La tenga lei, signore, si graffia le gambe…

… povera Donata… è così bella… Lei l’ha vista…”

“Forse il punto luminoso della pista

si è avvitato a un invisibile spavento, forse

quest’inverno è entrato nella gola insieme al cielo:

era sola, era il ventuno o il ventidue gennaio

e ha deciso di ospitare tutto il gelo”

“O forse, si dice, è successo quando ha perso

il posto all’Oviesse, pare che piangesse

giorno e notte… per non parlare di suo padre…

i dottori che ha chiamato… mezza Milano”

“Io, signore, sbaglierò, le potrà sembrare strano

ma dico a tutti di baciarla, anche se in questo

quartiere è difficile, ci sono le carcasse dell’amore

c’è di tutto dietro le portiere. Sì, di baciarla

come un’orazione nel suo corpo, di baciare

le ginocchia, la miracolosa forza delle ginocchia

quando sfolgora agli ottanta metri, quasi al filo

e così all’improvviso si avvera, come un frutto”

“Lo dica già stasera, in cielo, in terra, dappertutto

lo dica alle persone di avvicinarsi: ne sentiranno

desiderio – è così bella – e capiranno che la luce

non viene dai fari o da una stella, ma dalla corsa

puntata al filo, viene da lei, la Donatella.”

LEZIONE DI STORIA ANTICA

“Alla fine della terra c’è un nastro,

disse, un nastro luminoso

come il filo di lana che ci attende in ogni pista

di sera, sotto i riflettori. Potremo

spezzare quel sacro filo bianco?”

Mi voltai verso di lei, con il chitone

corto, i sandali dai lacci di cuoio. Parlava

di quando era bambina, vicino a Iraklion,

di una primavera ininterrotta, dove lo slancio

dei garretti fioriva a ogni metro

e dove si rideva scambiandosi lo strìgile

per detergersi il sudore. All’uscita

mi prese il braccio con una tenerezza

in lei sconosciuta, quasi un segreto sottovoce.

“Svaniscono, laggiù tra le colonne, i profumi

del melìto e del cerfoglio, un vento buio

ha spento le fiaccole, e le fasce sulla fronte

ormai, vedi, perdono colore. Non posso

accompagnarti, perdonami, oltre quella

soglia lontana e proibita. Pochi uomini

seduti sui gradoni in un profumo d’ambrosia

mi vedranno scattare pallida

al momento dello sparo, pochi oscuri vivi

tra bourbon e lavagne luminose

rideranno di questo mio petto adolescente

e voleranno via per sempre.”

SCAVALCAMENTO VENTRALE

Abbandona quest’eco di giustizia, cedi alla sproporzione.

PIERO BIGONGIARI

L’ho riconosciuta da lontano, dalla rincorsa

a nove passi, dalla maglietta rossa

e prestigiosa che le donò Stepanenko, nel 1961.

L’ho riconosciuta da lontano. E poi Milano

è rinchiusa nell’ovale del Pirelli, nella sua

breve pedana, che sbuca su un’asticella

bianca e nera, sugli infiniti corpi che ha sfiorato.

Mi viene incontro e all’improvviso

la sua voce incide una lesione, non so quale,

un nulla temporale, un sortilegio

di vetri e macerie, mentre il cielo

di febbraio troppo forte portava via gli asciugamani,

apriva tutte le porte, spopolava le tribune.

Non so quale dio ferito a morte

urlava dentro lei, quale oscura

sorte l’atterriva, quale dentro la gola

guerriera e sbarrata da un filo di silenzio: l’attimo

è contato eppure si dilunga,

si conficca dentro il prato e il pensiero

vortica intorno. Così il creato è solo un’unghia

e ciascuno può cambiare la sua nascita,

le statue camminare e, sorridendo,

avvertirci che hanno un’ombra. Di lei

ignoravo proprio quest’ombra.

Trascorre un istante

di questo millennio. Non conoscerò il suo respiro

di saltatrice immacolata, il volo dove è stata

felice, il fazzoletto

dei secondi essenziali, il tendersi perfetto

dei dorsali, che una goccia di sudore ha benedetto:

quelle ciglia

in cui brillava un ventaglio di grazia,

si apersero imploranti,

un battito di incanti animò la pista

e la sua luce calcinata, entrò nelle docce, nella conquista

dei giochi studenteschi, delle supreme

alleanze, dei blocchi di partenza, degli affreschi

dove ognuno getta il seme di se stesso,

dove prima, dove adesso ognuno resta insieme

a quest’odore di carbonella e spogliatoi

e forma il luogo intero, il codice terrestre, il vero

prodigio materiale e celeste, la disciplina

dei corpi che trovano dimora, l’amore che confina

con la sua suprema ombra, i forti

battiti di una falcata sulla pista, l’ora

delle nostre prime morti.

Non conoscerò quel respiro

di acrobata lucente, il volo che sprigiona

quella forza in piena luce… la chiarezza

del suo corpo di amazzone fanciulla

l’ho desiderata, come a volte si desidera, tra i luoghi,

il più visibile.

“Ma non sarà questo minuto, non sarò io…

… sarà un’antica promessa, un saluto, forse sarà Dio

ad amare ciò che non hai voluto di te stessa.”

L’INCARICO ANNUALE

A volte si ritorna nella casa dei parenti

perché la vita è poca, come il denaro,

ma infinita è la graduatoria dei supplenti…

A volte, caso raro, nel pigolio della memoria

c’è una favolosa, puerile storia, un segreto

che si svela quando è tardi, con gli ultimi

coriandoli rimasti all’alfabeto.

Le cose di mio padre militare: le vidi in un comò, stile

Casa Reale, misero, solenne, senza età: buco temporale

tra i buchi delle marsine e dei foderi bordò.

Lunghi e neri guanti di damine, cannocchiali, cartine

militari disegnate da un artista, a ogni trincea un colore,

tutte cose che una volta furono leggenda e parabola

raccontate con amore a ogni cena, sedute a tavola

con noi bambini, la volpe del deserto, il Quinto Alpini,

stavano lì dentro, tra foulard di Hermès

e bottiglie di acquavite: più che mute, ammutolite.

Fu allora, papà, che sei caduto sul letto, con la testa

nel cuscino hai detto sottovoce che oggi è festa

e poi l’hai ripetuto, molte volte hai ripetuto

oggi è festa, oggi si festeggia il mio dentino muto.

PER QUELL’INNATO SCATTO

Nel superotto girato al ginnasio

è già lei: la ragazza guerriera

sempre all’attacco.

Faceva segnali di fumo, fuochi di bivacco,

gettava in pattumiera i profumi ottocenteschi.

Ragazza dei baratri e dei bar, dei giochi

di destrezza, dei campionati studenteschi

vinti in scioltezza: nove secondi

con sei metri di distacco.

E io, in classe, quando mi accorsi che volava

(“Nove netti sugli ottanta,

a quindici anni, ragazzi!”)

l’ho chiamata subito Atalanta.

Stefania Annovazzi

si chiamava veramente

più spesso Stefanella.

Ma per tutti noi era quella

divina falcata adolescente.

L’UNICA DATA

Si avvicinò alla finestra, vide

il suo segno zodiacale, nel cielo

allucinato dentro lei. Vide tutto di quegli anni

che l’accolsero ancora trepidante: i dolci affanni

del debutto, gli applausi a scena aperta,

la sua prima casa, abbagliante, spezzata

proprio lì, in via dell’Annunciata,

immense linee della vita rinchiuse in una mano…

… e della morte… morti del giusto riposo

o dell’alterna pietà, morti in un istante d’azzardo,

morti a cui negò per sempre lo sguardo…

… e gli anni… quanti anni dietro il velo

delle lacrime… sono coriandoli

intorno a un grattacielo, tracce di rossetto, scintille

di una grazia altera… quanti scomparvero

dentro al braccialetto… quanto oscuro rancore

per la bocca che l’adora… anni sprezzanti…

anni di solo tempo… anni santi… il cartomante muto,

i diamanti regalati a un barista… il nome in vista

e quello caduto… un anno… ogni anno

mai compiuto.

Al primo saluto, apparvero i presagi:

un’agenda scordata al Nepentha, il gin tonic

caduto sulla gonna, la bestiola imprigionata

che ha percorso mille volte la sua cella.

In un minuetto di macerie e di boutiques, si vide

cortigiana tra quei morti: l’acqua scura

della doccia, l’anello naufragato nel bicchiere,

l’angelus interrotto, le primavere

della terra sembravano braccate, le poche primavere

dove entrò segretamente, con le supreme intensità

dell’orante che ormai può solo udire, unghia

sotto cui si scatena tutto il sangue,

cipria e cenere, coccinella di due strade.

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“Chiunque ti ha incontrata

ha vissuto senza di te ogni suo giorno

ogni giorno sentiva l’essenziale

di te mancato per un soffio, e quel soffio

fu mortale. E così ho sentito io,

mia graziosa, mia

imputata di qualcosa che non sai

mia amputata di qualcosa che non so.

Addio, mia fragile melò.”