III
Trovare la vena

Cresce l’ansia nei bicchieri

dal tuo turbine segreto alla luce

verde del reparto, ai corridoi,

al vetro sbarrato, all’addio

con le ciglia asciutte, questa morte

che non ha più tempo.

*

È follia di tutti, l’estate, traffico

di cantieri nella città lasciata. Ognuno

è lo stadio terminale, ognuno è l’estate, questa

estate vissuta in una sillaba, in un tremito

della sostanza, in una scala mobile,

in un filo di mani. Ognuno chiede dov’è

la vena, presto, la vena.

*

Nessun gloria in excelsis, ma un groviglio

nervoso, un raschiare di suoni e occhi

fissi all’ingiù, quel niente

che tiene freddo il pensiero, quel tremito

di lampadine e aghi, qualcosa

che s’incarcera dove grida. Il viso

toccava già la sua terra, vedeva lo scorrere

pallido dei fenomeni

oh dormi, dissi, dormi

eppure io ero con te

e tu non eri con me.

*

Poi ci fu l’esplorazione atterrita del tuo

seno, il rifiuto delle cose consegnate

al tempo, la richiesta di antiche

concordanze: ogni istante della mano

sulla pelle, ogni respiro, era quell’assoluto

fragile, quello scandalo

che una frazione imprime al tutto

e la tavolozza delle cellule si spargeva

sui vestiti, sulle lenzuola, sulle lampadine

e sul quaderno, sulle dita

di chi ha già varcato la sua immagine.

*

Sei un lontano passo di danza

mentre saluti tra i corridoi,

un ventaglio di grazia che il male

non ha ucciso, diagonale

tra i quattro cantoni, silenzio

di fate e di foglie, finché il giallo

si fa scuro, si fa minaccia nel cielo,

il sorriso fragile e la gola

resta lì, sospesa e selvaggia.

*

Un suono di ninna nanna chiama la morte

per sentirla più viva, chiama il seno

che si spezzò in un agosto, l’intero creato

di una poesia. In ogni stanza un appello.

L’ora non è paga di se stessa, domanda l’età vera,

un altro sangue che morbido si accese, una parola

una parola che fu intera assedia la testa,

fruga tra le macerie, fissa incredula

quella luce sovrumana.

*

Potenza del minuto contato, culmine

della sete nelle visite serali:

ogni parola era battuta dal vento, ogni

gesto sulle rive di un oceano, tutto

era immenso e smarrito tra i corridoi, tutto

cedeva di schianto, centimetro

in cui non si entra, preciso mistero

della febbre alta.

*

I battiti carnali si stringono a una doccia,

chiedono una tregua, una posizione

per il sangue, a strappi, a morsi, gli aghi

entrano in te che cerchi

di stare con le cose.

Ci deve essere un’alba

terrena, dicevi, un seme intatto,

una fiammella, un preludio che esce

dagli ospedali, suonato da una piccola mano,

una corona di spighe regalata al guaritore.

*

Come un fiore che non ha prodigio, come un passo

che si arresta nel suo globulo,

ossa che il male restringe, nodi

che strozzano l’anima, finché una creazione

comincia e le finestre di Roserio

cantano l’assoluto stretto a un momento

solo, a un’alba di tram e di ciminiere.

Non andartene, abisso, dal mio fianco.

*

Toccandoti la fronte sentivi il mare,

parlavi di un mattino aperto come in guerra

nel buio dell’ora smarrita parlavi

senza domani e senza libri, parlavi

alla presenza assoluta di una lacrima,

una rapida memoria di ulivi e di luce,

una gloria dell’uno e di ogni altro, ma

non si trova la via per la sorgente, ma

non si trova la vena, dio mio, non si trova.