Hector

Con gli occhi ancora chiusi e un sogno evanescente ma già impossibile da ricordare, Hector allungò pigramente il braccio verso l'altro lato del letto. Bene, Aish si era già alzata. Hector mollò una scoreggia possente e nascose la faccia sotto il cuscino per risparmiarsi la rivoltante puzza di metano. Non mi va di dormire nello spogliatoio di un maschiaccio, aveva protestato Aisha, le rare volte che sbadatamente Hector si era lasciato andare in sua presenza. Con gli anni Hector aveva imparato a controllarsi e a prendersi delle libertà soltanto in perfetta solitudine: scoreggiava e pisciava sotto la doccia, ruttava quando era da solo in macchina, non si lavava i denti per tutto il weekend quando lei era via per un convegno. Sua moglie non era una puritana, soltanto che faceva fatica a sopportare gli odori e le manifestazioni del corpo maschile. Lui, invece, non avrebbe avuto nessun problema ad appisolarsi in uno spogliatoio femminile, circondato dall'afrore inebriante di tutte quelle belle fighette. Alla deriva, ancora intrappolato nelle tenere grinfie del sonno, Hector si girò sulla schiena e scostò le lenzuola. Belle fighette… Gli era sfuggito ad alta voce.

Connie.

Al pensiero di lei, il sonno mollò finalmente la presa. Se fosse stata lí a origliare, Aish l'avrebbe scambiato per un pervertito, ma niente di piú sbagliato. Hector amava le donne. Giovani, vecchie, quelle nel fiore degli anni e quelle che cominciavano ad appassire… E pudicamente, quasi imbarazzato dalla propria vanità, lui sapeva di piacere alle donne. Le donne lo adoravano.

Hector, alzati, si disse. È ora di tornare alla routine quotidiana.

La routine era un po' di ginnastica che faceva regolarmente ogni mattina. Una ventina di minuti, al massimo. Ma se si svegliava con un'emicrania o i postumi di una sbornia o con entrambi o semplicemente con l'apatia che sembrava scaturire dai recessi di quella che doveva essere la sua anima, Hector riusciva a completare gli esercizi in meno di dieci minuti. L'importante non era seguire alla lettera la routine, ma soltanto assicurarsi che fosse rispettata, cosa che si sforzava di fare perfino quando era malato. Si alzava, afferrava un paio di pantaloni da tuta, metteva la t-shirt del giorno prima, ed eseguiva una serie di nove allungamenti, contando ogni volta fino a trenta. Quindi si sdraiava sul tappeto in camera da letto ed eseguiva centocinquanta flessioni in avanti per gli addominali e altre cinquanta sulle braccia, completando il tutto con una serie finale di tre allungamenti. Infine andava in cucina ad accendere la caffettiera prima di spingersi fino al bar in fondo alla strada a comprare il giornale e un pacchetto di sigarette. Tornato a casa, si versava il caffè, usciva sulla veranda in giardino, si accendeva una sigaretta, apriva subito il giornale alle pagine sportive e cominciava a leggere. In quel momento, con il giornale aperto davanti, l'aroma acre del caffè nelle narici e la prima botta di nicotina, tutte le miserie, le stronzate, le tensioni e le angosce del giorno prima o di quello che aveva davanti si dissolvevano d'incanto. In quel momento, forse soltanto in quel momento, Hector era il ritratto della felicità.

Fin da bambino Hector aveva scoperto che per sfidare il piacere inerte, soffocante di una bella dormita non c'era altro da fare che scrollarselo di dosso, aprire gli occhi a qualsiasi costo e saltare giú dal letto. Ma stavolta restò sdraiato, lasciando ai rumori che gli erano familiari il compito di riportarlo lentamente fra i vivi. Aisha aveva messo la radio in cucina su una stazione di musica classica, e la Nona di Beethoven inondava la casa. Dal soggiorno, intanto, gli arrivavano gli squittii elettronici e il riverbero metallico di un videogioco. Per un istante restò immobile, poi scostò il lenzuolo e guardò il proprio corpo nudo. Alzò il piede destro e lo osservò ricadere sul letto. Ci siamo, si disse, il grande giorno è arrivato. Saltò giú dal letto, inforcò un paio di slip rossi, s'infilò una canottiera, fece una bella pisciata rumorosa nel bagno accanto e si fiondò in cucina. Aisha stava rompendo le uova in padella e lui la baciò sul collo. La cucina odorava di caffè. Hector spense la radio proprio a metà di un crescendo.

«Ehi, guarda che stavo ascoltando».

Hector rovistò in una pila di CD accatastati alla rinfusa accanto al lettore, tirò fuori un dischetto dalla custodia e lo infilò nello stereo. Smanettò attraverso i numeri delle tracce fino a trovare il pezzo che voleva, e sorrise soddisfatto quando le prime note sicure della tromba di Louis Armstrong cominciarono a risuonare in cucina. Infine baciò di nuovo la moglie sul collo.

«Oggi è la volta di Satchmo» le bisbigliò. «Tocca a West End Blues».

Hector eseguí gli esercizi pigramente, trattenendo il respiro e contando ogni volta fino a trenta. Fra una serie e l'altra si lasciava cullare dalla lenta progressione sensuale della musica jazz. A ogni flessione in avanti cercò di assicurarsi che gli addominali si contraessero, e a ogni flessione sulle braccia si rese conto che pettorali e tricipiti tiravano. Oggi voleva essere padrone del proprio corpo. Voleva assicurarsi di essere vigile, forte e pronto a tutto.

Alla fine si asciugò il sudore sulla fronte, raccolse la camicia da terra dove l'aveva lanciata la sera prima e infilò i piedi nei sandali.

«Ti serve qualcosa dal negozio?».

Aisha scoppiò a ridere. «Cosí sembri un barbone».

Lei non sarebbe mai uscita senza trucco o infilandosi la prima cosa che trovava. Non che Aisha usasse molto trucco, non ne aveva bisogno: era una delle cose che l'aveva attratto fin dall'inizio. A lui non erano mai andate a genio le ragazze che esageravano con la cipria, il rossetto e il fondotinta. Gli sembrava una cosa da sgualdrina e, anche se sapeva benissimo che quella era una ridicola reazione da parruccone, non riusciva a farsi piacere una donna troppo truccata, per quanto bella potesse essere agli occhi di tutti. Aisha non aveva bisogno del make-up. Aveva una carnagione scura liscia e intatta come quella di un neonato, e i suoi occhioni infossati e un po' strabici brillavano sul suo viso affilato, scarno e scolpito.

Hector si guardò i sandali e sorrise. «Il barbone deve portarti qualcosa dal negozio?».

Lei scrollò la testa. «No, grazie. Ma stamattina vai al super, no?».

«Ho detto forse il contrario?».

Aisha lanciò un'occhiata all'orologio in cucina. «Allora è meglio se ti sbrighi».

Infastidito dalla battuta, Hector evitò di rispondere. Quel mattino non aveva voglia di sbrigarsi. Voleva prendersela comoda.

 

Hector prese il giornale e mollò una banconota da dieci dollari sul banco. Ling stava già allungando la mano verso il pacchetto di Peter Jackson Super Mild, ma Hector lo fermò.

«No, oggi no. Oggi voglio un pacchetto di Peter Styuvesant Red morbide, anzi due». Ritirò la banconota da dieci dollari e la sostituí con una da venti.

«Cambia sigarette?».

«Ling, è l'ultimo giorno. Domani smetto di fumare».

«Ottimo». Il vecchio cinese gli stava sorridendo. «Io fumo solo tre sigarette al giorno. Una di mattina, un'altra dopo mangiato e una terza quando chiudo bottega».

«Magari ne fossi capace». Gli ultimi cinque anni erano stati un carosello di tentativi. Ogni volta Hector si riprometteva di fumare cinque sigarette al giorno, perché no? Cinque al giorno non potevano fare male, ma poi non riusciva a fermarsi e se ne faceva fuori un pacchetto. Ogni volta la stessa storia. Hector invidiava il vecchietto. Gli sarebbe piaciuto fumare tre, quattro, cinque sigarette al massimo. Magari… Le sigarette erano come un'amante perfida. Adesso avrebbe trovato la forza interiore di schiacciare il pacchetto e buttarlo nella pattumiera. Era deciso a smettere di fumare. Finora aveva provato di tutto: astinenza totale, ipnosi, cerotti, chewing-gum; magari per qualche giorno, per una settimana, una volta perfino per un mese, resisteva alla tentazione. Ma poi scroccava una sigaretta al lavoro o al pub o dopo cena, e a un tratto ricadeva nelle braccia dell'amante respinta. La cui vendetta, a quel punto, era inesorabile. Hector tornava a idolatrarla, incapace di resisterle, di arrivare a fine mattina senza di lei. Una domenica che i ragazzi erano dai nonni, lui e Aisha se l'erano spassata a letto tutta la mattina, prendendosi tutto il tempo per fare sesso, e poi l'aveva abbracciata, bisbigliandole ti amo, sei la mia fortuna, sei la cosa piú importante, e lei si era girata verso di lui con un sorriso ironico sulle labbra e gli aveva risposto: No, non è vero, il tuo grande amore sono le sigarette, la cosa piú importante sono le sigarette.

La litigata fu violenta e sfibrante: si erano insultati per ore. Lei lo aveva ferito nell'orgoglio, specialmente quando lui si era reso conto vergognandosi come un ladro che solo grazie alle sigarette fumate a ripetizione era riuscito a non trascendere nella discussione. Lui l'aveva accusata di essere un'ipocrita e una puritana piccolo borghese, e lei aveva ribattuto elencandogli le sue debolezze: era pigro e vanesio, passivo ed egoista, gli mancava la forza di volontà. Le sue accuse avevano centrato il bersaglio perché Hector sapeva che erano vere.

E cosí aveva deciso di smettere, stavolta per davvero. Ovviamente, non sopportando il suo scetticismo, aveva evitato di dirlo ad Aisha. Ma avrebbe smesso.

Il mattino era tiepido e rimase in canottiera quando si accomodò al tavolo in veranda con il caffè. Il tempo di accendere la sigaretta, e Melissa schizzò fuori urlando dalla porta sul retro e gli si gettò in braccio.

«Adam non mi lascia giocare!». Strillava come un'a­quila, lui la prese in grembo e le accarezzò il viso. Hector la lasciò piangere finché non ne poté piú. Proprio non ci voleva, questo non poteva sopportarlo, non in quella mattina speciale. Avrebbe voluto fumarsi la sigaretta in santa pace. Ma di pace non ce n'era mai abbastanza. Ravviò i capelli di sua figlia, la baciò sulla fronte, aspettò che smettesse di piangere. Poi spense la sigaretta e Melissa osservò il fumo che svaniva.

«Papà, non dovresti fumare. Fa venire il cancro».

Stava scimmiottando i consigli che aveva imparato a scuola. I suoi figli avevano difficoltà con la tabellina dell'otto, ma sapevano che il fumo provocava il cancro ai polmoni e il sesso non protetto causava le malattie veneree. Hector si trattenne dallo sgridarla, la prese in braccio e la portò in soggiorno. Adam era assorbito dal videogame e non alzò nemmeno gli occhi.

Hector tirò il fiato. Era tentato di prendere a pedate quella piccola carogna, invece appoggiò la figlia accanto a lui e strappò la console al ragazzino.

«Ora tocca a tua sorella».

«È una femmina, non sa giocare».

Adam si era messo a braccia conserte, lanciando un'oc­chiataccia di sfida al padre. La pancia flaccida sporgeva dalla cintura dei jeans. Aisha insisteva che la ciccia sarebbe sparita con l'adolescenza, ma Hector non era cosí convinto. Il ragazzino era fissato con i monitor: computer, TV, PlayStation. La sua indolenza dava sui nervi a Hector. Lui si era sempre vantato della propria bella presenza e di quel corpo atletico; da ragazzo era stato un ottimo giocatore di calcio e un nuotatore se possibile anche migliore. La pinguedine del figlio rappresentava un affronto, non c'era verso. A volte, si vergognava perfino di farsi vedere in pubblico con lui. Ben sapendo che un pensiero simile avrebbe fatto scandalo, non l'a­veva mai rivelato a nessuno. Ma non poteva fare a meno di essere irritato, e cosí passava il tempo a sgridare il ragazzi­no. Che bisogno c'è di stare davanti al televisore tutto il giorno? È una bellissima giornata, perché non giochi in giardino? La reazione di Adam era un muro di silenzio e un broncio senza fine, e questo non faceva che irritare Hector ancora di piú. Doveva mordersi il labbro per non insultarlo. A volte, Adam lo guardava con un'aria cosí straluna­ta e mortificata che Hector provava una terribile vergogna.

«Dai, fa' giocare un po' tua sorella».

«Cosí incasina tutto».

«È un ordine».

Adam buttò a terra la console, si alzò in piedi barcollando e schizzò verso la camera da letto, sbattendosi la porta alle spalle.

Melissa afferrò la mano del padre e lo guardò negli occhi. «Voglio giocare». Stava frignando di nuovo.

«Gioca da sola».

«Voglio giocare con Adam».

Hector tastò il pacchetto di sigarette in tasca.

«È giusto che anche tu possa giocare ai videogame. Adam ha torto. Nel giro di qualche minuto verrà a giocare con te, vedrai». Hector stava tenendo volutamente un tono di voce uniforme, trasformando una serie di banalità in una cantilena che assomigliava tanto a una ninnananna. Ma Melissa non voleva saperne.

«Voglio giocare con Adam» piagnucolò e si aggrappò alla sua mano. Il primo istinto fu di spingerla via. Invece, accarezzò dolcemente i capelli della bambina e le diede un bacio sulla testa.

«Ti va di venire a fare la spesa con me?».

Il piagnisteo era finito, ma Melissa non era ancora disposta a cedere le armi. Fissò con aria mesta la porta che Adam si era chiuso alle spalle.

Hector liberò la mano dalla stretta. «Tesoro, scegli tu. Puoi restare qui a giocare da sola o accompagnarmi al supermercato. Cosa preferisci?».

La bambina restò zitta.

«Okay». Hector fece spallucce e portò una sigaretta alle labbra. «Contenta te». E s'incamminò verso la cucina seguito da un nuovo piagnisteo.

Aisha si stava asciugando le mani. Indicò l'orologio a muro.

«Lo so, lo so. Voglio soltanto fumarmi una sigaretta in pace, cazzo».

Era convinto che sua moglie si sarebbe unita al coro di rancori che lo stavano bersagliando quella mattina, invece la sua faccia si aprí in un sorriso e Aisha lo baciò sulla guancia.

«Okay, chi è il colpevole?».

«Adam. Adam, non ci piove».

Andò a sedersi in veranda e si fumò la sigaretta. Sentiva Aisha che cercava di far ragionare pacatamente la figlia. Se la immaginava in ginocchio accanto a Melissa, a giocare con lei. Sapeva anche che di lí a qualche minuto Adam sarebbe uscito dalla camera da letto e sarebbe andato a sedersi sul divano per tenere d'occhio la sorella e la madre. Qualche secondo dopo, i bambini avrebbero diviso equamente la console e Aisha se la sarebbe svignata in cucina. Hector si stupí della pazienza della moglie, che a lui mancava del tutto. A volte, si domandava se da grandi i figli l'avrebbero rispettato, e perfino se gli volevano bene.

 

Connie sí che era innamorata di lui. Gliel'aveva detto. Hector sapeva che pronunciare quelle parole, che le erano rimaste in gola, le aveva quasi arrecato un dolore fisico. Lo strazio di Connie lo faceva vergognare ancora di piú. Certo, Aisha gli ripeteva spesso che era innamorata, ma lo faceva sempre con calma e indolenza, come se fin dall'inizio della loro storia avesse dato per scontato di essere contraccambiata. Non si dovrebbe mai dire a qualcuno con tono apatico che lo si ama. Connie aveva sputato il rospo quasi terrorizzata, non sapendo quali potevano essere le conseguenze. Non aveva osato guardarlo negli occhi, e subito si era infilata in bocca una ciocca di capelli. Lui gliel'aveva scostata con delicatezza e l'aveva baciata sulle labbra. «Anch'io ti amo» aveva risposto Hector. Ed era vero, certo. Per mesi non era stato capace di pensare ad altro o quasi. Ma non aveva osato dirlo a Connie. Era stata lei a farlo per prima. Toccava a lei.

 

«Ti è rimasto un po' di Valium?».

«No». Hector avvertí una nota di rimprovero nella risposta di Aisha e notò l'occhiata veloce all'orologio a muro.

«C'è tempo».

«A cosa ti serve il Valium?».

«Non è che mi serve, lo voglio. È per non farmi andare di traverso il barbecue».

Aisha sorrise, e i suoi occhi sbarazzini brillarono. Hector spense la cicca nel portacenere, attraversò le porte a vetri e prese la moglie fra le braccia. «C'è tempo, c'è tempo» canticchiò. Le baciò le dita della mano sinistra, annusò il profumo di limone e cumino. Lei ricambiò il bacio e lo spinse via dolcemente.

«Ti scoccia cosí tanto?».

«No, certo che no». Di sicuro Hector avrebbe preferito non dover sprecare la sera di sabato a fare da anfitrione a una pletora di familiari, amici e colleghi di lavoro: meglio passare l'ultimo giorno della sua vita da fumatore facendosi i cavoli propri. Ma per Aisha la festicciola era un modo per contraccambiare una serie infinita di inviti a cena o a un party. Secondo lei, erano in debito con la loro cerchia di amici. Hector invece non si sentiva in obbligo, ma era un padrone di casa generoso e capiva l'importanza di quella serata per la moglie. In piú, era sempre stato orgoglioso del fatto che tutti e due avevano un sacro rispetto per la famiglia.

«Non mi scoccia, ma vorrei un po' di Valium. Casomai stasera mia madre decidesse di rompere le palle».

«Non è a te che romperà le palle, caro mio». Gli occhi di Aisha saettarono ancora verso l'orologio. «Non so se avrò il tempo di andare in ambulatorio a prenderne un po'».

«Non importa, ci passo io dopo la spesa».

Sotto la doccia, con il getto di acqua calda sulla testa e sulle spalle e il vapore che saliva dentro il box, Hector guardò dall'alto in basso il proprio corpo asciutto e il cazzo grosso e floscio, e si mandò al diavolo. Che stronzo che sei, che stronzo bugiardo! Rimase sorpreso di averlo detto ad alta voce. Una scarica di mortificazione lo trapassò come un lampo, e di colpo chiuse il rubinetto dell'acqua calda. Lo choc dell'acqua gelida sulla testa e sulle spalle non riuscí a scacciare i rimorsi. Perfino da bambino, Hector non aveva mai tollerato menzogne o mezze verità. Non aveva alcun bisogno del Valium, lo sapeva bene: l'unica ragione per cui diceva il contrario era perché voleva vedere Connie. Avrebbe potuto decidere di non fermarsi all'ambulatorio di Aisha per le pillole e tirare dritto, semplice. Avrebbe potuto, ma sapeva che non l'avrebbe fatto. Mentre si asciugava con il telo umido impregnato dell'odore del sapone, del proprio corpo e di quello della moglie, Hector non osò nemmeno guardarsi allo specchio. Si azzardò a farlo soltanto in camera da letto, mentre si passava un po' di gel fra i capelli. Vide il grigio sulle tempie e la barba incolta sul mento, le rughe agli angoli della bocca. Ma vide anche la mascella volitiva e i capelli folti: portava benissimo i suoi quarantatré anni.

Quando baciò la moglie, fischiettava allegro. Dal tavolo in cucina afferrò la lista della spesa e le chiavi dell'auto.

Avviò il motore e una lagnosa canzone pop, uno strazio, gli assalí le orecchie. Hector passò subito a un'altra stazione radio. Se non jazz, almeno una rilassante nenia. Il giorno prima, Aisha era passata a prendere i ragazzi a scuola e aveva lasciato che scegliessero loro la stazione. Lui non permetteva mai che fossero loro a decidere quello che si ascoltava in macchina, e spesso Aisha lo prendeva in giro per quella cocciutaggine.

«Non se ne parla neanche» insisteva lui. «Quando avranno sviluppato un gusto musicale, allora potranno scegliere la musica che vogliono».

«Hector, Cristo santo, sono dei bambini, non hanno gusto».

«Meglio, cosí non ascolteranno quelle cagate che finiscono in classifica. Gli sto facendo un favore».

A quel punto Aisha scoppiava sempre a ridere.

 

Il parcheggio del super era intasato e, prima di trovare un buco, Hector dovette fare uno slalom fra le piazzole piene d'auto. La Commodore – affidabile, comoda e anonima – era stata una concessione. Le auto che l'aveva­no preceduta in famiglia erano state una Peugeot arrugginita fine anni Sessanta senza il freno a mano che avevano rottamato appena nato Adam; una robusta Datsun 200B degli anni Settanta che aveva tirato le cuoia a metà strada fra Coffs Harbour e Byron Bay quando Adam aveva sei anni e Melissa era appena nata; e una gigantesca Chrysler Valiant ultimo modello apparentemente indistruttibile che aveva scarrozzato la famiglia avanti e indietro un mucchio di volte per andare a trovare i genitori di Aisha a Perth. La Valiant era stata rubata da due ragazzetti strafatti di alcol e benzina che l'avevano sfasciata contro una cabina del telefono a Lalor, dopodiché avevano versato la benzina nell'abitacolo e acceso un fiammifero. Hector aveva quasi pianto quando la polizia gliel'aveva detto. Al che Aisha aveva dichiarato solennemente che non voleva piú saperne di auto con piú di dieci anni. Voleva qualcosa di affidabile e di meno costoso da guidare. A malincuore Hector si era rassegnato, anche se continuava a sognare un'altra Valiant o un pick-up a due porte o una vecchia EJ Holden.

Si allungò sul sedile, abbassò il finestrino, accese una sigaretta e tirò fuori la lista della spesa. Come al solito, precisa e meticolosa com'era, Aisha aveva elencato le quantità esatte degli ingredienti che voleva. Venticinque grammi di semi verdi di cardamomo (non comprava mai le spezie in grande quantità perché, secondo lei, scadevano troppo in fretta). Novecento grammi di calamari (Hector ne avrebbe chiesto un chilo: arrotondava sempre per eccesso, mai per difetto). Quattro melanzane (di seguito, fra parentesi e sottolineato, aveva indicato europee, non asiatiche). Scorrendo l'elenco, Hector sorrise. A volte, la meticolosità della moglie lo frustrava, ma ne ammirava l'efficienza e ne rispettava la flemma. Fosse dipeso da lui, i preparativi per il barbecue sarebbero stati caotici e avrebbero innescato il panico. Invece Aisha era un modello di organizzazione, e di questo le era grato. Sapeva che senza di lei la sua vita sarebbe andata a rotoli. Capiva che la saggezza e l'intelligenza di Aisha avevano un effetto benefico su di lui. La sua pacatezza mitigava i pericoli della sua impulsività. Lo ammetteva perfino sua madre che all'inizio aveva osteggiato la relazione con una ragazza indiana.

«È stata la tua fortuna» gli ricordava sempre in greco. «Se non l'avessi trovata sulla tua strada, chissà con quale zingara ti saresti messo. Tu sei una bestia. Lo sei sempre stato».

 

Le parole della madre gli tornarono alla mente mentre, dopo avere scaricato nel bagagliaio la scatola di frutta e verdura, ritornava pigramente verso la rosticceria. La ragazza che gli camminava davanti indossava dei jeans stinti, attillati sul sedere: un bel paio di chiappe sode che gli mettevano l'acquolina. La tipa aveva lunghi capelli neri lisci e Hector la scambiò per una vietnamita. Lentamente le andò dietro. Il rumore e il frastuono del super erano spariti: esisteva solo il culo sculettante davanti a lui. La ragazza schizzò in una panetteria e Hector si ridestò dalle sue fantasie. Doveva pisciare.

Mentre si lavava le mani e fissava lo specchio lurido, scrollò la testa.

«Sei una bestia».

 

Restò in macchina davanti all'ambulatorio a fumare, mentre ascoltava Art Blakey and the Messengers. Aveva sempre trovato i fiati acuti e discordanti di A Night in Tunisia allo stesso tempo carichi di sensualità e rasserenanti. Quando capí che era lí lí per accendersi la terza sigaretta, spense di colpo la musica, scese dall'auto e attraversò la strada.

La sala d'attesa era piena. Una vecchietta magra come un chiodo stringeva al petto una scatola di cartone da cui veniva fuori il piagnisteo angosciante e patetico di un gatto. Sul divano due ragazze sfogliavano le riviste con un volpino nero accucciato ai loro piedi. Connie era al telefono. Quando lo vide entrare, fece un sorriso tirato e si girò dall'altra parte. Mise in attesa un'altra chiamata e riprese la conversazione.

«Ti aspetto di là» le bisbigliò, indicando il corridoio.

Connie annuí. Quando oltrepassò la porta chiusa dell'ambulatorio e s'inoltrò nella sala operatoria, si sentí mancare il fiato. La ragazza gli metteva angoscia. Vedere Connie era sempre difficile, imbarazzante, come se stare con lei rosicchiasse via gli anni della maturità, facendolo ritornare il ragazzo timido e imbranato che era stato a scuola. Ma non poteva negare di provare anche un piacere intimo, appagante, un calore che gli inondava ogni fibra del corpo: quando stava con lei era come se uscisse da un cono d'ombra al sole caldo e tonificante dell'estate. Ormai il mondo era un posto gelido quando Connie non era nei dintorni. Lo rendeva felice.

«Cosa ci fai qui?». Nella domanda non c'era niente di minaccioso. Aveva le braccia conserte e i folti capelli biondi legati dietro a coda di cavallo.

«C'è movimento».

«Il sabato è sempre cosí».

Connie si spostò verso il tavolo dei raggi X e cominciò a raccogliere della lanugine dal lenzuolo azzurro pallido che copriva la macchina. Dallo studio in lontananza arrivò il ringhio di un cane.

Lei si rifiutava di guardarlo. Connie non aveva la minima idea di come trattarlo in pubblico e questo gli ricordava che era pur sempre una ragazzina: la sfilza di brufoli sotto il labbro inferiore, le lentiggini sul naso e la postura goffa e ingobbita. Stai dritta, avrebbe voluto dirle, non vergognarti della tua altezza.

«Aish mi ha chiesto di prendere un po' di Valium».

Sentendo il nome di sua moglie, Connie lo guardò e si attivò.

«È in ambulatorio».

«Aspettiamo che Brendan abbia finito, non c'è fretta».

«Non c'è problema, vado a prenderlo». Sparí in corridoio e ritornò con cinque compresse in un sacchettino di plastica. «Basteranno?».

«Certo». Prese il sacchettino e, nel farlo, le strofinò un dito sul polso. Connie guardò da un'altra parte, ma non ritrasse il braccio.

«Ce l'hai una sigaretta?». Adesso lo stava guardando, gli occhi azzurri da ragazza sveglia che lo fissavano con aria di sfida. Brendan era famoso per la lotta strenua contro il fumo e gli avrebbe rimproverato di avere dato una sigaretta a una teenager. Ma quale teenager… Lei era una giovane donna. La sfrontatezza di Connie aveva tutta l'aria di essere una provocazione: quello sguardo insistente gli fece venire voglia. Hector le passò una sigaretta. Connie aprí la porta che dava sul retro e lui fece per seguirla fuori.

«Tieni d'occhio Brendan, okay? O se passa qualcuno». Quando impartiva ordini, sembrava ancora una londinese. Hector annuí e lei si chiuse alle spalle la porta a zanzariera.

Dalla finestra della sala operatoria Hector la osservò mentre fumava, ammirandone ogni centimetro del corpo: i capelli biondi folti, il culo tondo, le lunghe gambe tornite nei jeans neri attillati. La curva leggiadra del collo. Il telefono squillò. Connie gettò a terra la sigaretta, la schiacciò con il piede, raccolse la cicca, la gettò nel bidone della spazzatura e andò a rispondere, sfiorandolo.

«Buongiorno, qui è l'ambulatorio veterinario di Hogarth Road, sono Connie. Le dispiace restare un momento in linea?». Si girò verso di lui. «Altro?».

Hector scrollò la testa. «Ci vediamo oggi pomeriggio».

Uno sguardo smarrito le adombrò il viso e ancora una volta Hector fu colpito dalla sua giovinezza, dalla sua adolescenza, dall'ingenuità che lei detestava mettere in mostra. Avrebbe voluto elogiarla perché aveva buttato il mozzicone nel bidone, ma si trattenne, sapendo che Connie avrebbe interpretato ogni suo commento come un gesto di paternalismo, quale in effetti era.

«Il barbecue a casa nostra» le ricordò.

Senza dire una parola, lei gli voltò le spalle.

«Mi scusi per l'attesa, desidera?».

 

A casa Hector aiutò la moglie a togliere la spesa dalle buste, poi andò in bagno a masturbarsi con foga sulla tazza. Però non pensò a Connie. Si stava immaginando le natiche sode della vietnamita che aveva spiato al supermercato. In un minuto eiaculò, quindi pulí l'asse, buttò la carta igienica nella tazza, pisciò e tirò lo sciacquone. Non aveva bisogno di fantasticare su Connie. Connie era dentro di lui. Mentre si lavava le mani, si guardò allo specchio e di nuovo notò il grigio fra i peli ispidi e neri sul mento. Gli era venuta voglia di prendere a cazzotti la faccia che lo fissava dallo specchio.

 

Quando ormai gli ospiti stavano per arrivare, Adam e Melissa presero a litigare. Aisha aveva imbandito il tavolo della cucina: zuppa di lenticchie, samosa e melanzane al curry, un'insalata di patate e un'altra di fagioli neri e semi di aneto. Era in piedi davanti ai fornelli, in attesa di buttare i calamari in una padella sfrigolante, quando gli arrivò l'urlo lacerante della figlia. Stava per sbraitare quando sentí Aisha che accorreva dal bagno. La moglie iniziò a fare da paciere fra i bambini, ma il piagnisteo di Melissa cresceva d'intensità e anche Adam si era messo a frignare. La voce della moglie era quasi del tutto sovrastata dal trambusto. Hector buttò nella padella metà degli anelli di calamaro, abbassò la fiamma e andò a indagare.

Melissa si era aggrappata al collo della madre e Adam, seduto sul letto, teneva il broncio in segno di sfida.

«Cosa succede?».

Non era la domanda giusta da fare. I bambini attaccarono subito a strillare. Hector alzò la mano. «Zitti!».

Di colpo Melissa tacque, salvo una serie di mugugni soffocati. Le lacrime continuavano a inondarle la faccia.

Hector prese di petto il figlio. «Cosa c'è?».

«Melissa mi ha dato del maiale ciccione».

Sei un ciccione.

«Tu cosa le hai fatto?».

Aisha si mise in mezzo. «Ascoltate, voglio che questo pomeriggio facciate i bravi. Non importa chi è stato a iniziare. Voglio che andate tutti e due in soggiorno a guardare la tele finché non arrivano gli ospiti. D'accordo?».

Melissa fece di sí, ma Adam era ancora immusonito. «C'è qualcosa che brucia» borbottò.

«Cazzo!». Hector corse in cucina a girare gli anelli di calamaro. L'olio gli schizzò sullo sparato della camicia. Imprecò. Aisha era sulla porta e attaccò a ridere.

«Che cazzo c'è da ridere? Avevo messo una camicia pulita».

«Tesoro, forse avresti dovuto cambiarla dopo avere cucinato i calamari».

Per una frazione di secondo, Hector immaginò di tirarle addosso la friggitrice. Aisha si avvicinò e fece scivolare una mano sotto la camicia. Le dita fresche e tranquillizzanti.

«Ci penso io» bisbigliò. «Vatti a cambiare».

Nel punto dove l'aveva toccato sentí prurito.

 

I suoi genitori furono i primi ad arrivare. Hector li osservò dalla finestra della camera da letto mentre scaricavano sacchetti della spesa e scatole dal bagagliaio dell'auto. Uscí a salutarli.

«Perché avete portato tutta questa roba?». Suo padre aveva in mano un vassoio di braciole di maiale e bistecche. «Stamattina ho comprato io tutta la carne necessaria al super».

«Va tutto bene, Ecttora» fece sua madre in greco e lo baciò sulle guance reggendo due grandi insalatiere. «Mi­ca siamo dei selvaggi o come gli inglesi che vengono a mani vuote. Quello che non mangiamo oggi, ve lo pappate domani tu e i bambini».

Domani? Gli avanzi sarebbero bastati fino al weekend successivo.

I genitori posarono vassoi e scodelle sul tavolo della cucina. La madre diede ad Aisha un buffetto sulla guancia, poi andò di corsa in soggiorno a salutare i nipotini. Il padre abbracciò Aisha calorosamente.

«Vado in macchina a prendere il resto del cibo».

«Ce n'è ancora?». La voce di Aisha era calorosa e cordiale, ma a Hector non sfuggí che aveva storto la bocca.

«Qualche salsina o intingolo?» domandò Hector.

«Sí» rispose il padre. «Qualche intingolo e un po' di bibite, oltre ai formaggi e alla frutta».

«Ma è troppo» bisbigliò Aisha.

Lascia perdere, avrebbe voluto dirle, i miei sono sempre stati cosí. E saranno sempre cosí. Perché ti meravigli ancora?

«Non ti preoccupare» le bisbigliò di rimando Hector. «Quello che non mangiamo oggi, lo consumiamo a pranzo in settimana».

 

La casa si riempí nel giro di un'ora. Sua sorella Elizabeth arrivò con i due figli, Sava e Angeliki. Aisha mise Toy Story nel lettore DVD: tutti i piccoli lo adoravano. Hector dedicava un mucchio di tempo a Sava che aveva un anno meno di Adam, ma sembrava già piú sicuro e scafato, certo piú coraggioso di suo figlio. Sava era snello, agile, padrone del suo corpo. Adesso era seduto vicino allo schermo e sillabava il dialogo a memoria, fingendo di essere Buzz Lightyear. Adam era accovacciato lí accanto mentre dal divano Melissa e Angeliki, una di fianco all'altra, guardavano il film chiacchierando sottovoce.

«È una bella giornata, perché non andate fuori a giocare?».

I quattro bambini ignorarono la nonna.

«Dai, Koula, lasciamoli in pace davanti alla TV».

Sua madre ignorò Aisha e si rivolse a Hector in greco. «Sempre davanti a quella stupida televisione».

«Anche noi, mamma».

«Non è per niente vero». E a questo punto sua madre scostò Hector e fece il suo ingresso in cucina. Lí prese il coltello dalle mani di Aisha. «Tesoro, lascia fare a me».

Hector notò che la schiena della moglie si era come irrigidita.

 

Il tempo era perfetto, un delizioso pomeriggio di fine estate con il cielo terso. Il cugino Harry arrivò con la moglie Sandi e il figlio di otto anni, Rocco, poi fu la volta di Bilal e Shamira con i loro due figli. Il piccolo Ibby si fiondò in salotto e si stravaccò a terra accanto a Adam e Sava, senza quasi salutarli, con gli occhi incollati allo schermo. Sonja, la piú piccola, all'inizio si rifiutò di unirsi agli altri bambini, aggrappandosi nervosamente alle ginocchia della madre, ma le risate che provenivano dal soggiorno un po' alla volta la spinsero a staccarsi dalle donne in cucina e alla fine, zitta zitta, andò a sedersi accanto alle bambine. Aisha piazzò su un tavolino un vassoio di stuzzichini e involtini di pasta sfoglia ripieni di salsiccia e i bambini ci si buttarono a pesce.

Hector uscí in cortile con Bilal, e suo padre allungò loro una birra.

Bilal rifiutò con un cenno del capo.

«Dai, solo un goccio».

«Manoli, ho smesso di bere, lo sai».

Il padre di Hector scoppiò in una risata. «Sarai l'unico aborigeno astemio in tutta l'Australia!».

«Ti sbagli, ho saputo che a Townsville ce n'è un altro».

«Vado a prenderti una Coca».

Appena suo padre s'incamminò lentamente verso la veranda, Hector prese da parte l'amico e si scusò.

Bilal alzò la mano per bloccarlo. «Non ti preoccupare, si ricorda di quando ero ubriaco dalla mattina alla sera».

«Di quando eravamo ubriachi. O no?».

E infatti da giovani erano stati dei veri sballati. La scuola era quasi finita e Bilal si chiamava ancora Terry. I ricordi di Hector risalenti alla fine dell'adolescenza erano una serie pressoché infinita di notti di bagordi, serate in discoteca, concerti, droghe, bevute e abbordaggi. A volte finiva in rissa, come quella notte in King Street davanti all'Inflation quando un buttafuori, dopo un'occhiata alla faccia nera e butterata di Terry, gli aveva rifiutato l'ingresso. Hector si era scagliato contro l'energumeno e gli aveva mollato un cazzotto sul naso. Il tizio, sbraitando, era scattato come una molla e aveva scaraventato Hector contro un'auto parcheggiata – una Jaguar, se lo ricorda­va ancora – mentre teneva a bada Terry con un braccio, continuava a prendere a cazzotti Hector, una raffica di jab alla schiena, in faccia, sotto la cintola, al basso ventre, alla mascella. Per una settimana era rimasto mezzo sciancato e, come se non bastasse, Terry si era arrabbiato perché era stato lui a cominciare per primo. «Coglione di un greco, ti ho forse chiesto di difendermi?».

Ovviamente la madre di Hector aveva dato tutta la colpa all'amico. «Quel Terry è un animale» gli aveva gridato. «Come fai a essere amico di quel mavraki? Quel negro non sa fare altro che bere». Invece erano sempre stati amici per la pelle, da quando si erano trovati compagni di banco alle medie, un'amicizia che era continuata anche quando Terry era andato all'istituto tecnico per diventare grafico pubblicitario e che si era perfino rafforza­ta quando, a sua volta, Hector si era iscritto a Economia e commercio all'università. E continuavano a essere buoni amici ora che erano sulla quarantina e abitavano anco­ra nel quartiere dove erano cresciuti e avevano studiato. Era una continuità che entrambi amavano, anche se ormai si frequentavano di rado. Terry si era convertito all'Islam, aveva cambiato nome e, una volta smesso di bere, si era dedicato anima e corpo alla sua nuova religione e alla famiglia. Hector guardò con affetto Bilal che prendeva la Coca-Cola dalle mani di Manolis, ringraziandolo nel greco abborracciato che Hector gli aveva insegnato a scuola durante la ricreazione quando avevano quattordici anni. Sapeva che il suo amico era al colmo della felicità. Bilal non si lasciava piú andare a distruttivi scatti d'ira: non si faceva piú male né sfidava la morte. Ma Hector aveva anche nostalgia di quelle notti di sbronze, risate, musica a palla e sballi. Gli sarebbe piaciuto dividere il suo amico in due: di solito preferiva avere Bilal accanto a sé, ma a volte rimpiangeva una notte con Terry. Non ne passavano una insieme da secoli.

 

Arrivarono i colleghi d'ufficio di Hector. Dedj fece il suo ingresso con un cartone di bottiglie di birra. Lo accompagnava Leanna con in mano una bottiglia di vino. Li seguiva, zitto zitto, un tizio ombroso. Era il piú giovane della combriccola – doveva essere sulla trentina – non si era fatto la barba ed era imbronciato. La sua faccia non gli era nuova. Hector si domandò se fosse il ragazzo di Dedj o di Leanna. Dedj appoggiò le bottiglie sul prato e abbracciò e baciò Manolis sulle guance tre volte come si usa nei Balcani. Dedj accennò allo sconosciuto.

«Vi presento Ari».

Il padre di Hector attaccò a chiacchierare in greco, ma il greco di Ari era stentato e sgrammaticato.

Manolis se ne andò e tornò a concentrare la sua attenzione sulla brace.

«Lascia stare, babbo. C'è ancora un mucchio di tempo prima di mangiare».

«No, Manoli, tieni d'occhio tu il barbecue. Ci vorranno due ore perché sia pronto».

«Visto?» reagí il padre tutto contento. «Tua moglie è piú sveglia di te». Il vecchio abbracciò la nuora e Aisha gli strinse la mano.

«Aish, ti presento Ari».

Hector notò lo sguardo d'apprezzamento del giovanotto e si sentí orgoglioso di avere una bella moglie.

«Ari, la tua faccia non mi è nuova. Ci conosciamo?».

Il tizio annuí. «Sí, frequentiamo la stessa palestra». Indicò una zona a ovest. «Proprio qui dietro l'angolo».

«Ecco dove!». Adesso Hector l'aveva riconosciuto. Era uno di quelli che sembravano sempre fissi in quella maledetta palestra. La frequenza di Hector, invece, era a dir tanto sporadica. La ginnastica mattutina a casa era l'unica concessione alla forma fisica. Questa settimana sarebbe stato costretto ad andare in palestra per smaltire le calorie di quell'abbuffata. Ma potevano passare anche intere settimane prima di ritornarci. Ari doveva essere uno di quei tizi che sembravano passare tutto il loro tempo nella palestra di Northcote, facendone il centro della loro vita sociale.

Poi fu la volta di Rosie e Gary, due amici di Aisha, e del loro figlio Hugo di tre anni. Hugo era bello come un putto. Aveva i capelli color paglia di Rosie, e gli stessi occhi azzurri quasi spettrali. Era un amore di bambino, ma Hector diffidava di lui, avendo sperimentato una volta che caratteraccio aveva. Non camminava ancora e aveva già preso a calci Aisha, una volta che gli avevano fatto da baby-sitter. Hector e Aisha avevano sempre applicato una disciplina ferrea con i loro figli quando si trattava di spedirli a letto, ma Hugo da quell'orecchio non ci sentiva. Si era messo a piangere e a strillare e quando Aisha l'aveva preso in braccio per portarlo a letto di peso, lui l'aveva presa a calci. Si era trasformato in un animale selvatico, che scalciava come un ossesso, e una pedata aveva colpito il gomito di Aisha che per il dolore si era messa a urlare, rischiando di far cadere a terra il bambino. A Hector era venuta voglia di scaraventarlo contro il muro. Invece l'aveva strappato dalle braccia della moglie e, senza dire una parola, l'aveva portato in camera e sbattuto a letto. Non si ricordava cosa diavolo gli aveva detto, ma aveva urlato un ordine cosí vicino all'orecchio che il bimbo, incredulo, si era rannicchiato e aveva cominciato a piagnucolare. Hector, che aveva capito di aver terrorizzato il bambino, l'aveva preso in braccio e cullato fino a farlo addormentare.

«Che c'è da bere?». Gary guardò speranzoso Hector, fregandosi le mani.

«Vado io» rispose il padre. «Ti va una birra?».

«Sí, grazie Manny, scegli tu».

«Lascia stare, papà, ci penso io».

Gary si sarebbe ubriacato. Gary si ubriacava sempre. Fra i familiari di Hector era diventata una specie di barzelletta, anche se Aisha storceva il naso perché era legata alla moglie da una sincera amicizia. Nel corso degli anni, era capitato che Gary e Rosie festeggiassero il Natale con loro e ogni volta che se ne andavano con Rosie che cercava di reggere il marito barcollante, la madre di Hector si girava verso gli amici greci, alzava il sopracciglio ed esclamava: Australezi, cosa vuoi aspettarti? Ce l'hanno nel sangue!

Hector prese una birra dalla montagna di bottiglie immerse nel ghiaccio nella vasca da bagno. Dal soggiorno gli arrivava l'audio del DVD. Adam stava presentando Hugo ai cugini e questo lo fece sorridere: aveva un tono cortese, gentile, ospitale come sua madre.

Erano arrivati anche Anouk e Rhys. Anouk si era vestita come se dovesse andare a un cocktail party e non a un barbecue in giardino. La gonna jeans nera arrivava appena sopra il ginocchio e lasciava scoperto uno squarcio di pelle perlacea sopra gli stivali neri di pelle. Su un reggiseno nero di pizzo operato portava un top di seta trasparente color cioccolato. Hector notò che alla vista di Anouk sua madre si era cucita le labbra e si era messa ad affettare la lattuga con furia sul tagliere in cucina. Invece le s'illuminò il viso quando le presentarono il ragazzo di Anouk. Rhys recitava nella soap di cui Anouk era la sceneggiatrice e, anche se Hector non guardava mai il programma, la faccia di Rhys era abbastanza conosciuta. Hector gli strinse la mano e Anouk baciò il padrone di casa sulla guancia. Il fiato era dolciastro e il profumo, inebriante, sapeva di miele con una nota aspra e pungente. Doveva costare un occhio della testa.

Hector stava per mettere un CD di Sonny Rollins quando avvertí un colpetto sulla spalla. Alzò gli occhi e vide che Anouk aveva in mano un disco.

«Basta jazz. Aisha è stufa». Sembrava tanto un ordine. Hector obbedí e prese il CD dalle sue mani. Era maste­rizzato e sul disco erano scarabocchiate con un pennarello blu le parole BROKEN SOCIAL SCENE a caratteri cubitali.

«Mettilo. È di Rhys. Ascolta quello che piace ai giovani d'oggi».

Hector infilò il disco, schiacciò play e si alzò in piedi con un sorriso a fior di labbra. «I giovani d'oggi, eh? Allora sarà qualche schifezza r'n'b, no?».

Ora il fumo saliva copioso dal barbecue e Hector frenò a stento l'impulso di gridare qualcosa al padre. Invece, andò in giro fra gli ospiti a versare da bere mentre Aisha serviva i samosa. Una alla volta, le donne erano uscite e tutti bevevano o addentavano gli stuzzichini in piedi sul prato o sulla veranda. Hector notò che Ari si era staccato dal gruppo principale e stava esaminando il giardino. Harry annunciò che aveva iscritto Rocco a una scuola privata e subito Gary lo provocò. Hector restò zitto. Sandi argomentò che la scuola di quartiere non era all'altezza, che la struttura era degradata e le classi troppo numerose. Avrebbe voluto iscrivere il figlio a una scuola pubblica, ma nei paraggi non ce n'era una valida. Hector sapeva che questo non era vero. Sandi e Harry si erano lasciati alle spalle la loro infanzia e adolescenza in periferia: ora abitavano in un immobile di pregio.

«Senti…». Harry interruppe la moglie e Hector intuí che suo cugino era infastidito dalle lamentele di Gary. «Amico, con me sfondi una porta aperta, io ho frequentato un istituto tecnico statale. Allora era tutto okay, ma non chiedermi d'iscrivere Rocco a una merdosissima scuola media di quartiere. I tempi sono cambiati… Tutti i governi, di destra o di sinistra, se ne sbattono della scuola. Gira la droga, gli insegnanti scarseggiano…».

«La droga gira dappertutto».

Harry voltò le spalle a Gary e bisbigliò in greco a Manolis: «Gli australiani se ne sbattono dei loro figli».

Suo padre ridacchiò, e di colpo la madre di Hector s'intromise.

«E se tutti iscrivessero i loro figli alle scuole private? Per la scuola pubblica sarebbe un danno, ci vanno solo i poveracci e il governo taglia i finanziamenti. È una rovina. Io sono contenta di avere mandato i miei figli a una scuola pubblica».

«Allora era diverso, Thea. Il mondo è andato a rotoli. Ognuno tira l'acqua al suo mulino. Io continuo a difende­re la scuola pubblica, sia chiaro, ma non voglio sacrificare l'educazione di Rocco alle mie convinzioni. Io e Sandi siamo a favore della scuola pubblica… Lo eravamo prima e lo saremo in futuro».

«Ma come farete?». A un tratto Bilal, che era rimasto ad ascoltare, aprí bocca. «Scusate, come farete a sapere cosa succede nelle scuole… Come farete a conoscere i problemi che i miei figli devono affrontare?».

«Cazzo, i giornali li leggo ancora».

Bilal sorrise e non aggiunse altro. Aisha restò zitta. Hector sapeva che quella discussione non le andava a genio. Era un argomento che si riproponeva fra loro due con una regolarità sconfortante. Aisha era preoccupata per lo scarso rendimento scolastico di Adam e avrebbe voluto iscriverlo a una scuola privata. Hector dubitava che sarebbe cambiata qualche cosa: semplicemente il bambino non era una cima. Con Melissa era diverso. Era pigra, ma probabilmente a scuola sarebbe stata brava. Ma questo era, appunto, il motivo per cui non era un problema con Melissa. Lei alla media di Northcote si sarebbe trovata bene, anzi benissimo. Hector era uno snob all'incontrario. A suo parere, l'istruzione privata nuoceva al carattere di un bambino. I ragazzi delle scuole private sembravano sempre smidollati mentre le ragazze erano algide e spocchiose.

«Non pensi a quello che questa scuola farà a tuo figlio?».

Era come se Gary gli avesse letto nel pensiero.

Harry ignorò Gary e in greco chiese a Hector un'altra birra.

Ma Gary era insistente. «Non pensi che frequenterà tutti quei ragazzini ricchi con la puzza sotto il naso?».

«Ascolta, amico, i nonni di Rocco erano operai. Suo padre fa il meccanico. Sono sicuro che non dimenticherà mai le sue origini».

«Ma l'officina è tua, o no?».

Hector sapeva che le domande di Gary non erano perfide, che quel ragazzo nutriva una sincera curiosità per le persone e la loro vita, che stava cercando di capire l'esatta collocazione di Harry e dei suoi familiari nella gerarchia sociale. Ma a quel punto, sapendo che suo cugino detestava le domande troppo invadenti, Hector decise d'intervenire.

«Mi sa che con le salsicce ci siamo. Sei d'accordo, papà?».

«Cinque minuti e sono pronte».

Gary si quietò. Adesso Harry gli dava le spalle e parlava di sport con Dedjan. Sandi si mise a discutere con Rosie dei figli.

Gary si uní alla chiacchierata, all'inizio controvoglia, ma si appassionò quasi subito, e si mise a parlare del piacere che provava nel veder crescere il figlio, e delle difficoltà che aveva nel rispondere alle domande sempre piú complesse del piccolo. «Sapete cosa mi ha chiesto ieri quando l'ho portato alle altalene nel parco sotto casa? Mi ha chiesto com'è che i piedi avevano imparato a fare un passo dopo l'altro. Mi ha lasciato di stucco. Ce ne ho messo di tempo a dargli una risposta».

Sí, come no. Quale bambino non aveva fatto quella domanda? Hector si avvicinò a dove Ari stava fumando una sigaretta e intanto dava un'occhiata all'orto di casa, alle melanzane fuori stagione, sode e scure, che penzolavano in bilico dai loro grossi piccioli.

«Una birra?».

«Devo ancora finire questa».

«Sono le ultime melentzanes… Dovremo farle fuori nelle prossime due settimane».

«Potreste fare una moussaka».

«Perché no? Aish le usa spesso. Gli indiani le adorano».

I due ammutolirono. Hector cercò di intavolare una conversazione. La faccia di Ari restava impassibile, gli occhi spenti.

«Che lavoro fai?».

«Corriere». Una parola e basta era tutto quello che il ragazzo era disposto a concedere. Nessuna indicazione se lavorava in proprio o sotto padrone o in società con qualcuno. Eddai, amico, avrebbe voluto implorarlo Hector, dammi una mano.

«Sei anche tu un impiegato statale?». Ari accennò a Dedj che stava ancora chiacchierando con Harry.

«Eh già». Ridicolo. Perché provava sempre imbarazzo quando parlava del suo lavoro, come se fosse una cosa illecita, un mestiere poco serio? Oppure lo detestava perché suonava cosí triste?

L'atteggiamento di Ari cambiò. «Sei fortunato» aggiunse con un ghigno malefico. «Bel lavoro, il vostro» concluse, dando alla frase un accento greco volutamente forzato.

Hector non poté fare a meno di ridere. «Bel lavoro» gli fece eco, ed era precisamente quello che i suoi genitori dicevano. E infatti lo era. Basta con quell'imbarazzo del cazzo. Cosa avrebbe voluto fare? La rockstar, il jazzista? Quelli erano stati sogni adolescenziali.

L'attenzione di Hector venne attirata da Dedj e Leanna che stavano facendo ridere suo cugino. Quando si era laureato, Hector aveva ventitré anni e degli ideali. Aveva cercato e trovato lavoro come ragioniere in un ente assistenziale d'oltremare. Aveva resistito solo un anno. Non gli andava giú il caos dell'ufficio, lo zelo e l'ostilità dei colleghi: i conti devono quadrare se vuoi dare da mangia­re al mondo, brutti stronzi. E lo stipendio era una miseria. Da lí era passato a stagista in una compagnia assicurativa multinazionale. Gli piaceva lavorare con i numeri, ne apprezzava l'ordine e la purezza, ma trovava i colleghi di lavoro noiosi e retrogradi. Sicuro di sé, fisicamente in forma, non aveva mai sentito il bisogno di avventu­rarsi in noiose diatribe o battute da caserma. Nel periodo fra la nascita di Adam e quella di Melissa si era barcamenato fra quattro posti di lavoro. Poi per tre mesi di fila aveva lavorato a un appalto con l'amministrazione locale. Dedj era l'impiegato pubblico di collegamento nella sua squadra e i due avevano fatto subito amicizia. Dedjan era un gran bevitore, un festaiolo e un altro appassionato di musica. Inoltre sul lavoro era ordinato e di buon umore. Hector si era visto offrire un contratto annuale e alla fine Aisha, pur dubitando fortemente delle possibilità di far carriera, aveva appoggiato malvolentieri la sua assunzione. Hector aveva scoperto che gli piace­va l'ambiente cameratesco di un ufficio pubblico. Vent'anni di razionalismo economico avevano tagliato gli eccessi. Certo, non era uno sballo, non era figo, ma lui era rispettato, faceva il lavoro a puntino e gli veniva riconosciuta una crescente responsabilità manageriale. Ormai era comodamente ai vertici, impegnato a negoziare compromessi fra le anime belle della vecchia scuola e i giovani turchi capitalisti. Era diventato “fisso”, il Santo Graal, e il congedo per anzianità di servizio era dietro l'angolo. L'aspetto piú importante per Hector era che con Dedj e Leanna, piú con altri tre o quattro, erano come una famiglia.

«Cos'è quello?». Quella voce sorda strappò Hector alle sue meditazioni. Ari stava indicando la palizzata in giardino e il crocefisso artigianale smangiato dalla pioggia che avevano piazzato sulla tomba di Molly.

«Lí abbiamo seppellito il nostro cane. Era mia, un setter irlandese rincitrullito che avevo da anni. Anche i bambini le volevano un bene dell'anima. Aish, invece, la dete­stava… Mi rimproverava di non averla mai addestrata. Ma, entaxi, tu li conosci i greci. Te li vedi i miei genito­ri che spendono dei soldi per addestrare uno stupido cane?».

«I setter irlandesi devono costare, no?».

«L'ho avuto tramite amici. Il nome l'avevo rubato a Molly Ringwald, ricordi?».

«Bella in rosa».

«Sí, amico, gli schifosi anni Ottanta. Tutta merda».

A questo punto Ari si girò verso di lui e Hector fu colpito dal magnetismo dei suoi occhi corvini.

«Ho portato un po' di anfetamina. Dedj mi ha detto che magari poteva andarti».

Hector esitò. Era da un sacco di tempo che non si faceva di speed. L'ultima volta doveva essere stato, appunto, con Dedj a un party di Natale in ufficio. Stava per declinare l'offerta quando si ricordò che il giorno dopo avrebbe smesso di fumare. Per chissà quanto tempo, poi, non avrebbe piú toccato droga.

«Ma sí, dai, ne prendo un po'».

«Fanno cento a botta».

«Cazzo, a botta? Non erano sessanta per un grammo?».

«Sí, malaka, ma erano gli schifosi anni Ottanta, no?».

Tutti e due scoppiarono a ridere.

«È roba buona, credimi».

«Sí, va bene».

«No, no». Il tono di voce di Ari era insistente. «Dico sul serio, è roba buona».

 

Con dei colpetti Hector tirò fuori metà speed sull'asse del gabinetto. Tagliò due lunghe piste spesse, ma gli sembrò subito che fosse una quantità enorme. Arrotolò un biglietto da venti e sniffò al volo le due strisce. La droga fece effetto quasi subito: fosse stato merito dell'anfetamina o soltanto della cara vecchia botta che gli veniva dal vizio di fare qualcosa di illegale, non avrebbe saputo dirlo, ma all'improvviso avvampò in volto e sentí il cuore battere all'impazzata. Il CD di Rhys stava ancora andando e Hector trovò la musica lacrimevole e stonata. Tornando fuori, tolse il CD a metà di una canzone e lo rimpiazzò con Sly and the Family Stone. Alzò il volume al massimo. Anouk, in giardino, si girò e scrollò la testa, prendendolo in giro. Di fianco, Rhys stava muovendo la testa al ritmo della musica.

«I giovani d'oggi lo adorano!» le urlò.

Il sole del tardo pomeriggio calava all'orizzonte basso e tiepido, disegnando in cielo striature di nubi rosse incandescenti. In piedi sulla veranda Hector si accese una sigaretta.

Da dietro gli arrivarono i suoni di un bisticcio, dentro casa, quindi le urla di un bambino. Rosie gli passò accanto di corsa. Hugo era in cucina, inconsolabile. Rosie lo prese in braccio e lo strinse forte. Il bambino non riusciva a parlare e respirava a fatica.

Hector si precipitò in soggiorno dove i quattro ragazzini erano seduti sul divano ammutoliti e spaventati. Melissa aveva pianto, ma si stava asciugando le lacrime. Angeliki parlò per prima.

«Hugo non voleva guardare il DVD».

A un tratto tutti cominciarono ad accusarlo.

«Noi volevamo vedere Spiderman…».

«Mi ha colpita…».

«Noi non abbiamo fatto niente…».

«Mi ha dato un pizzicotto…».

«Non abbiamo fatto niente…».

Aisha entrò in soggiorno. Di colpo i bambini si zittirono.

«Spiderman è troppo violento. Oggi non va bene».

«Ma mamma!». Adam era furioso.

«Mi hai sentito?».

Il ragazzino incrociò le braccia, ma sapeva benissimo che era inutile continuare a protestare.

«Lasciategli vedere quello che vuole lui. È un ordine».

«Hugo vuole vedere Pinocchio» disse Sava, chiaramente disgustato.

«Allora guarderete tutti Pinocchio».

Hector seguí Aisha in cucina. Hugo si era calmato e ciucciava beato il seno di Rosie.

«Perché fumi in casa?» fece Aisha.

Hector guardò la sigaretta. «Sono entrato a vedere cosa cazzo stava succedendo».

Sua madre scattò verso di lui, gli strappò la sigaretta di bocca e andò a spegnerla sotto il getto d'acqua del rubinetto. «Basta cosí» disse sdegnata, buttando il mozzicone fradicio nella pattumiera. «I bambini litigano sempre per niente. Non c'è da preoccuparsi». Sua madre non riusciva a staccare gli occhi dal bambino che succhiava il seno.

Hector sapeva che era disgustata dal fatto che Rosie continuava ad allattare Hugo alla sua età. E lui non poteva darle torto.

 

Poi arrivò Brendan. Connie non c'era. Hector gli strinse la mano e gli diede il benvenuto. Avrebbe voluto chiedergli: dove cavolo è Connie? Perché non è qui con te?

Brendan baciò Aisha. «Connie arriva piú tardi. È andata a casa a cambiarsi».

Connie sarebbe arrivata. Hector si sentí attraversare da una scarica di adrenalina. Avrebbe voluto urlare, cantare e abbracciare tutto il giardino, tutta la casa – sí, perfino Rosie e Hugo, quel moccioso viziato – abbracciare tutti e tenerli stretti.

 

«È roba buona» bisbigliò ad Ari.

«Se ne hai bisogno, non hai che da chiedere».

Hector fece un gran sorriso senza aggiungere altro. Stava pensando. Da domani io di certo non ne ho bisogno. Tesoro, dimenticati di me, non ne ho mai avuto biso­gno, io.

 

Arrivò il fratello di Aisha. Ravi era arrivato da Perth per una vacanza di lavoro di qualche giorno e alloggiava in un albergo lussuoso in centro. Era dimagrito e indossava una camiciola azzurro chiaro attillata che metteva in risalto le braccia e il torace palestrati. I capelli scuri erano tagliati a spazzola.

«Ti trovo bene, vecchio mio».

Ravi abbracciò prima il cognato, poi si fiondò da Koula e Manolis. Li abbracciò tutti e due e baciò Koula sulle guance.

«Sono felice di vederti, Ravi».

«È sempre bello vedervi. Quand'è che venite a trovarmi a Perth? I miei mi chiedono sempre di voi».

«A proposito, come stanno?».

«Bene, bene».

Anche se aveva qualche problema con la nuora, la madre di Hector adorava il fratello minore di Aisha. Hector sapeva che quella sera, prima o poi, sua madre si sarebbe seduta accanto a lui e gli avrebbe bisbigliato in greco: Hector, tuo cognato è bello come il sole. E la sua carnagione è proprio delicata, non è per niente scura. Sua madre non sarebbe andata oltre, ma il significato era fin troppo chiaro. A differenza di tua moglie.

Adam e Melissa uscirono di corsa e si avventarono sullo zio. Ravi sollevò in aria la nipotina e strinse forte la spalla del nipote. «Andiamo fino alla macchina».

Ravi viziava i nipotini. Hector li sentí strillare e ride­re mentre seguivano lo zio. Tornarono indietro reggendo ognuno uno scatolone. Gli altri bambini uscirono sulla veranda mentre Adam e Melissa si avventavano sui regali.

«Cos'è?». Sava s'inginocchiò accanto a Adam. Scartata la scatola, saltò fuori un nuovo videogame. Intanto Melissa, che era piú meticolosa, strappava via con calma lo scotch e ripiegava ordinatamente la carta da pacchi. Ravi le aveva regalato una casa di bambola rosa e bianca.

Melissa abbracciò lo zio, poi prese Sonja con una ma­no e la scatola con l'altra, infine si rivolse alla cugina.

«Dai, andiamo a giocare nella mia stanza». Angeliki la seguí a ruota.

I ragazzini si girarono di scatto e guardarono Hector. Gli veniva da ridere. Le loro facce luccicanti, gli occhi luminosi e speranzosi. Adam teneva stretto il suo regalo.

«Possiamo giocare con questo?».

Hector annuí. Urlando di gioia, i ragazzi entrarono di corsa in casa.

«Cosí li vizi».

«Macché, sono bambini».

Aisha non se la prese. Hector sapeva quant'era contenta che il fratello fosse a Melbourne per il party. Ravi prese sottobraccio Hector e insieme si avviarono verso il barbecue.

Gary aveva ripreso a discutere, questa volta con Rhys e Anouk.

Manolis diede di gomito a Hector e lo apostrofò in greco. «Vai a prendere le braciole».

«È già ora?».

«Sí. Quell'australiano deve assolutamente mangiare. Da quando è arrivato, non ha fatto che bere».

In effetti Gary era già paonazzo in viso e stava biascicando una raffica di domande ad Anouk, puntandole il dito contro il petto. «È una cagata. Le famiglie vere non sono cosí».

«È televisione, Gary, televisione commerciale». Anouk riusciva a sembrare insieme graffiante e scocciata. «Certo che le famiglie vere non sono cosí».

«Ma cosí metti in giro delle stronzate che influenzano milioni di famiglie in tutto il mondo! Tutti pensano che le famiglie australiane sono esattamente come quelle che vedono sullo schermo. Non vorresti fare qualcosa di meglio con la scrittura?».

«Infatti. Ecco perché faccio la sceneggiatrice per la televisione. Per fare i soldi e per poter scrivere in santa pace quello che mi pare».

«E a che punto sei?».

«È arrivata a cento pagine».

Anouk si girò verso il suo ragazzo. «Taci, Rhys».

«Perché? È la verità». Si rivolse a Hector. «Anouk me l'ha confessato stamattina. Ha già buttato giú cento pagine del romanzo».

Gary scrollò la testa e guardò tristemente la birra. «Quello che non capisco è come fai a scrivere quelle stronzate».

«Gazza, è facile. Ci riusciresti anche tu».

«Non mi sogno neanche. Non voglio fare parte di quella merdosa industria del cazzo che avvelena le coscienze».

Harry fece l'occhiolino ad Anouk. «A me il telefilm piace».

«Sentiamo, cosa ti piace?».

Harry ignorò Gary.

«Cosa ti piace, si può sapere?». Gary alzò la voce.

Che rompipalle. Ecco da chi aveva preso Hugo. Hector intercettò la strizzata d'occhio di suo cugino. «È l'ideale per poltrire davanti alla TV. A volte basta qualcosa che ti tenga compagnia per mezz'ora, no?».

Sandi prese sottobraccio il marito. Stava sorridendo a Rhys che ricambiò il sorriso. «E, a mio modesto parere, tu sei fantastico» aggiunse timidamente.

Hector soffocò a stento una risata e sbirciò in direzione degli altri ospiti che erano seduti in giardino, tutti intenti ad ascoltare la discussione. Dedjan incrociò il suo sguardo e Hector fece una smorfia di scherno. E, a mio modesto parere, tu sei fantastico, disse a fior di labbra Dedj, beffardo. Hector, che adorava la moglie di suo cugino, evitò di rispondere. Si girò verso il capannello e regalò un gran sorriso a Sandi. Snella e longilinea, Sandi era alta quasi come il marito. Con quel corpo da fotomodella unito a uno stile da donna provocante – i capelli tinti e cotonati, le lunghe unghie dipinte, il trucco troppo vistoso – la si poteva scambiare per una sciacquetta. Niente di piú sbagliato. Magari non era laureata, ma Sandi era sveglia, affettuosa e fedele. Harry aveva una fortuna pazzesca. In piú continuava a lavorare qualche giorno alla settimana alla cassa di una delle officine di suo marito. Ma non era costretta a farlo. Harry faceva soldi a palate, cavalcando l'onda apparentemente inarrestabile del boom economico. Suo cugino era un figlio di puttana nato con la camicia.

Hector sentí una scarica di adrenalina che lo attraversava come una scossa di corrente dalla testa ai piedi. I suoi occhi sfrecciarono verso il cancello che separava il cortile sul retro dal viale di accesso. Dove diavolo era finita? Ormai avrebbe dovuto essere lí.

«Perché dici che è fantastico?». Gary non mollava tanto facilmente l'osso, voleva tener viva la discussione. Stava guardando negli occhi Sandi che era imbarazzata dalla fissità dello sguardo, e non riusciva a capire se la sua domanda era una presa in giro. Forse lo voleva sapere sul serio. Il suo mondo non era uguale al loro e questa era una delle ragioni per cui Hector preferiva stargli alla larga e aveva sempre evitato di litigare con lui. Con lui frivolezze e banalità erano bandite dalla conversazione: anche quando erano innocenti o innocue, le sue domande o affermazioni sembravano nascondere una minaccia. Gary diffidava del loro mondo, era chiaro.

Presa in contropiede, Sandi ammutolí. Hector le posò una mano sulla spalla e lei di colpo alzò la testa. Ma ignorò Gary e fissò invece Rhys.

«Mi sei sembrato fantastico in quelle scene l'anno scorso quando per sbaglio ti avevano arrestato per l'omicidio di Sioban». Ora nel suo sorriso c'era un che di civettuolo. «Nemmeno io ero sicura che non fossi stato tu».

Cristo santo! Allora davvero guardava quella porcheria?

Gary stava annuendo, come dovesse assimilare le parole una alla volta. Infine si girò verso Rhys e lo squadrò dall'alto in basso, abbracciando con lo sguardo la camicia di cotone da cowboy, casual ma costosa, i jeans neri, la fibbia della cintura con la bandiera sudista.

«Hai sparato a un tizio in Vermont, eh? Just to watch him die».

Hector non riuscí a trattenersi e scoppiò a ridere. Era quasi sicuro che Anouk stava cercando di soffocare un sogghigno scandalizzato ma rivelatore. Gary era un coglione, ma non era scemo. Hector aveva visto solo a sprazzi la soap, al massimo la tenevano come sottofondo, ma quel poco gli era bastato per capire che Rhys non sarebbe mai diventato una star. Era una brutta copia di Joaquin Phoenix che interpretava Johnny Cash. Rhys era destinato a una vita di televendite per la vacanza perfetta o una ristrutturazione edilizia. Il Vermont era perfetto, il Vermont era cogliere nel segno. Il giovane attore trasudava scuole private, colazioni nutrienti da bambino, le immense dolci praterie dei sobborghi orientali.

Rhys ebbe almeno la decenza di arrossire.

«Non l'ho capita».

«È il verso di una canzone di Johnny Cash» spiegò Hector a Sandi.

«Non l'ho capita lo stesso».

Gary inclinò la bottiglia di birra verso Rhys. «Stavo semplicemente dando il benvenuto all'artista tormentato».

Era l'anfetamina? Hector sentí nell'aria che il corpo di Anouk era pronto ad avventarsi sulla preda. Scattante e letale, come un pescecane.

«Anche Gary è un artista tormentato… Uno dei piú tormentati, anzi».

«Anouk, io sono soltanto un manovale». La voce di Gary assomigliava a un ringhio. «E tu lo sai».

«Quello è il suo lavoro di giorno». La frase di Anouk era innocente e feroce al tempo stesso. «A Gary non basta essere un uomo comune. Gary in realtà è un pittore, un artista visivo». Anouk era come Cleopatra e l'aspide al tempo stesso: calma e rilassata, ma le sue parole erano veleno puro. Quando Rosie l'aveva presentato alla combriccola tanti anni prima, Gary aveva detto di fare il pittore. Hector dubitava che avesse mai imbrattato una tela negli ultimi anni. Per fortuna, visto che faceva cagare.

Le parole di Anouk avevano colpito nel segno. Gary sembrava sul punto di esplodere. Hector osservò la scena con distacco. Aspettava che la tensione raggiungesse il culmine, e Gary desse i numeri. Non c'era un party senza una bella litigata fra Gary e Anouk. Suo padre stava girando le braciole e le salcicce sulla carbonella, indifferente a tutto e a tutti. Io sono come mio padre, pensò Hector in cuor suo, non voglio farmi tirare dentro. Non voglio, tutto qui.

Tornò in sé. Dall'interno della casa arrivò un altro scoppio di grida isteriche. Anouk girò le spalle a Gary, sulle labbra un sorriso glaciale. «Mi sa che è di nuovo tuo figlio».

 

Hugo aveva sottratto il telecomando del videogioco e l'aveva sbattuto sul tavolino. La custodia nera di plastica si era scheggiata e lungo la superficie rossa gommosa del tavolino c'era uno sfregio color latte. Stranamente Adam non piangeva e non era neanche arrabbiato. Sembrava soltanto sinceramente sorpreso e incredulo di fronte allo spettacolo che aveva davanti agli occhi. Rosie abbracciava Hugo che le si stringeva al seno, come se chiedesse a gran voce di sparire dentro di lei. Il piccolo stava nascondendo la faccia al mondo intero. Anche Rocco fissava incredulo Rosie e Hugo, ma il suo caratteraccio – proprio come quello di Harry; tutti e due i bambini erano tali e quali al loro papà – stava per venire fuori. Gli altri ragazzini, terrorizzati da quella tensione, tenevano gli occhi fissi a terra. Le bambine, invece, erano uscite dalla camera da letto di Melissa e osservavano la scena dalla porta. Sonja, spaventata e confusa, piagnucolava. Hector era entrato in soggiorno e stava a metà strada fra Aisha ed Elizabeth.

Sua madre, con il coltello in una mano e uno spiedino di carne nell'altra, gli arrivò alle spalle. «Visto? Questi stupidi videogiochi creano un mucchio di guai».

Adam aveva il viso gonfio di collera. «Non è vero, giagia, si giocava e basta». Puntò il dito contro Hugo che continuava a nascondersi in braccio a Rosie. «Ha perso perché è una schiappa».

«Be', è piú piccolo» sbottò Rosie. «È impaziente di imparare, di giocare con voi che siete piú grandi. Perché non gli insegnate a giocare, invece?».

«Non va in punizione?».

Hector scrollò la testa per mettere in riga Rocco. Il ragazzo lo ignorò.

«L'ha fatto a pezzi. Deve finire in castigo».

«Non era sua intenzione».

Rocco avvampò di rabbia. «Cazzo, non è giusto».

Hector notò che Sandi era scivolata in silenzio nella stanza. Sandi redarguí Rocco che si eclissò nella stanza del cuginetto. Adam diede un'occhiata di sfuggita agli adulti – padre e figlio incrociarono lo sguardo, il cenno di Hector fu impercettibile – e si affrettò a raggiungere il cugino. Sonja singhiozzava e sua madre si precipitò a consolarla. Aisha e sua madre stavano cercando di rispedire le bambine nella stanza di Melissa, mentre Sandi continuava a sgridare Rocco. Hector girò sui tacchi e si allontanò. Avrebbe voluto dare una scrollata a Rosie, non riusciva nemmeno a guardarla. Era stufo marcio dei bambini. Toccava alle donne metterci una pezza.

Gary era rimasto vicino al barbecue e stava scolando un'altra birra, scuro in viso.

«Cos'è successo?».

Hector fece spallucce e non rispose alla domanda di Anouk che, a sua volta, si rivolse a Gary. «Non sarebbe il caso che andassi a vedere?».

Hector capí che Gary era a pezzi. Aveva un lavoro di merda e una famiglia sul groppone. Anouk non aveva idea di cosa volesse dire.

«Ci penserà Rosie. È lei che lo vizia, è lei che deve sistemare la faccenda». La sua voce si addolcí, la tristezza era evidente. «Avevi ragione, Anouk, non avrei dovuto avere un figlio. Come padre faccio schifo».

«Non dire idiozie. Sei un padre fantastico. Tuo figlio ti adora». Manolis prese una salsiccia bruciacchiata dal barbecue e la offrí a Gary. Hector era accanto al padre, tanto vicino da toccarlo. Hector era molto piú alto e pensare che una volta il vecchio gli sembrava un gigante. «Vuoi una mano, papà?» disse in greco.

«È quasi pronto. Avvisa la mamma».

In cucina le donne erano impegnate a preparare i piatti e i bicchieri, a condire le insalate. La faccia di Rosie era rigata di lacrime, come quella del figlio che succhiava avidamente il capezzolo.

«Papà ha detto che la carne è pronta. Dai, si mangia».

In soggiorno, stravaccati sul divano o per terra, i bambini ora erano passati a Spiderman. Hector non aveva la piú pallida idea di come la loro rabbia avesse potuto rientrare, ma era quasi sicuro che in questo ci fosse lo zampino di Aisha.

«Stop, è ora di mangiare» ordinò, e i bambini obbedirono. A un tratto Hector notò un cambio repentino di ritmo, un rullo sensuale di basso. Era una melodia del passato, una canzone che non ascoltava da anni, da prima della nascita dei bambini, prima delle striature di grigio fra i capelli e sul torace. Quella era Neneh Cherry. Qualcuno, probabilmente Anouk, aveva cambiato il CD. La scelta era azzeccata.

 

Era un vero banchetto. Costolette d'agnello alla brace e medaglioni di filetto succulenti. C'era uno stufato di melanzane e pomodoro, mantecato con dei pezzetti di feta burrosa. C'era una zuppa di fagioli neri e un pilaf di spinaci cotti al forno. E poi un'insalata di cavoli, carote e cipolle condita con la maionese, un'insalata greca con dei pomodori e dei grossi tocchi di feta; un'altra di patate e coriandolo e anche una ciotola di gamberoni. A Hector era sfuggita del tutto l'attività frenetica in cucina. Sua madre aveva portato un pasticcio di carne, Aisha aveva marinato l'agnello in un curry al cardamomo, e insieme avevano cucinato due polli arrosto e delle patate al forno aromatizzate al limone. C'era uno tzatziki e una sal­s­ina di cipolle; c'era una taramosalata fragrante e un vassoio di peperoni rossi alla griglia, pelati, che nuotavano nell'olio d'oliva e nell'aceto balsamico. I commensali si allinearono per ricevere i piatti e le posate, e i bambini mangiarono seduti intorno a un tavolino in soggiorno. La conversazione era quasi azzerata: tutti erano troppo impegnati a mangiare e a bere, e se facevano una pausa era per complimentarsi con sua moglie e sua madre per la cena.

Hector assaggiò un po' di tutto senza gustare davvero niente. Era ancora sotto l'effetto delle anfetamine e ogni boccone gli sembrava sciapo e indigesto, anche se era orgoglioso di quello che sua moglie aveva reso possibile. A un tratto sentí sbattere la portiera di un'auto. In ansia, alzò gli occhi, contò i passi lungo il viale d'accesso e scattò ad aprire il cancelletto della veranda. Tasha lo baciò sulla guancia. Connie e la zia non si assomigliavano molto. Tasha era piccola e tarchiata, con i capelli neri lisci. Connie indossava una felpa blu troppo grande che le nascondeva le curve. Quando Hector si protese per baciarla, Connie fece un passo indietro, andando a sbattere contro il ragazzino timoroso che era entrato in casa dietro di loro. All'inizio Hector non lo riconobbe, salvo poi ricordare che era il figlio di Tracey, l'infermiera che lavorava nello studio di Aisha. Tutto acne e timidezza, il ragazzino nascondeva gli occhi sotto il berretto da baseball rossoblu che si era calato sulla fronte. Hector gli strinse meccanicamente la mano. Intanto, fissava Connie che ricambiò l'occhiata. I suoi occhi malandrini gli procurarono un'ondata di calore in tutto il corpo.

Hector condusse i tre in cucina. «C'è da mangiare per tutti» esclamò gongolante. «Venite, vi porto io da mangiare».

«Sono capaci da soli, tu occupati delle bevande». Aisha li baciò uno alla volta. Il ragazzino brufoloso arrossí come un peperone.

«Dov'è la mamma, Richie?».

Tasha rispose al suo posto. «Tracey non ce l'ha fatta a venire. È arrivata sua sorella da Adelaide».

«Ma io avevo detto a Tracey di portare anche lei. Il cibo bastava e avanzava. Ci hanno pensato i genitori di Hector».

Richie biascicò qualcosa e seguí un silenzio imbarazzato. Dopodiché si schiarí la gola, e riprovò a rispondere. Le sue frasi risultarono concise e confuse, un miscuglio di parole senza senso.

«Solo una notte. Poi gli amici, vanno a Lakes Entrance. Ha solo una notte. Lei e la mamma devono mettersi in pari».

Aisha trovò spassoso il racconto quasi incoerente, ma non lo diede a vedere e fece un gran sorriso al ragazzino che glielo restituí. «Comunque, sono felice che siate qui». Poi Aisha si rivolse a Hector. «Allora, ci porti qualcosa da bere?».

Richie chiese un succo di frutta e Connie, diffidente, una birra. Hector lanciò un'occhiata alla zia di Connie, ma Tasha sembrava assente. Quindi tornò a guardare Connie e non poté fare a meno di notare un'ombra di irritazione dietro il sorriso forzato che aveva sulle labbra. Hector aveva sbagliato a chiedere il permesso della zia.

I suoi occhi seguirono Connie. La guardò riempire il piatto, osservò le piccole grinze sulla lunga gola pallida mentre scolava la birra. Mangiava lentamente, con calma, ma si vedeva che apprezzava il cibo. Connie si pulí la bocca distrattamente, sovrappensiero. Il ragazzino mangiava a quattro palmenti: nel giro di qualche minuto le labbra e il mento erano unti. All'improvviso Hector sentí una fitta di gelosia. Connie e Richie erano andati a seder­si in fondo al giardino sui lastroni di pietra che costeggiavano l'orto di casa. Mangiavano e bevevano in silenzio sotto il gigantesco fico. Ma la gelosia, cosí come si era manifestata, sparí rapidamente. Non c'era motivo di sentirsi minacciato dal figlio dell'infermiera. Il ragazzino era ancora preso dai turbamenti adolescenziali; era evidente in tutto quello che faceva. Richie aveva i capelli biondi della madre e la pelle coperta di lentiggini. Un giorno sarebbe stato un bel tipo. Aveva i lineamenti regolari, gli zigomi alti e uno sguardo seducente. Ma quel povero ragazzo non aveva la minima idea di quello che avrebbe potuto diventare. Hector si portò una sigaretta alle labbra. Ari stava fumando. Nemmeno lui aveva mangiato molto, come anche Leanna. Hector le sorrise e lei fece una smorfia per scusarsi.

«Il cibo è squisito» bisbigliò. «Solo che non ho fame».

Hector andò a sedersi accanto a lei. Gli occhi di Leanna, sbarazzini, brillavano a ricordo delle sue origini birmane.

Hector le sfiorò il naso. «Io lo so perché non hai fame».

Lei ridacchiò e sbirciò Dedjan che era andato di nuovo a riempire il piatto. «Dedj è incontenibile».

Dedjan stava divorando il cibo. Al lavoro si sprecavano le battute su quanto mangiava e su come riusciva, comunque, a essere magro come un chiodo, anche se guardando l'amico a Hector venne da pensare che gli anni passavano anche per lui. Le guance erano piú piene e lí non s'intravedeva forse un inizio di pancetta?

Hector accese una sigaretta e si ripromise, ora che finalmente avrebbe smesso di fumare, di riprendere a nuotare. Sapeva che Connie non gli toglieva gli occhi di dosso e che forse voleva una sigaretta da lui. Cosí decise di guardare di proposito da un'altra parte.

Sua madre stava cominciando a sparecchiare. Ravi si alzò in piedi ed entrò in casa. Dopo qualche minuto uscí con i bambini in fila indiana alle sue spalle. Adam era il primo dietro lo zio e rideva. Se Hector non fosse stato sotto l'effetto dell'anfetamina, non era escluso che il pensiero successivo gli avrebbe fatto male: Adam ama suo zio con tutto se stesso, come non amerà mai me… Come io non riuscirò mai ad amare lui.

«Zio Raf, non abbiamo le porte per giocare».

«Amigo, lavora di fantasia. C'è un secchio?».

Sava e Adam scattarono verso il garage. Adam ne uscí trionfante con un secchio verde, seguito da Sava con in mano una vecchia mazza da cricket coperta di macchioline verdi di muffa, il risultato di troppi inverni passati all'aperto sotto la pioggia. Era stata la mazza di Hector quando era bambino. Melissa aveva rovistato nel sottobosco e rispuntò con una pallina da tennis. Con mano esperta, Ravi si affrettò a dividere i ragazzi in due squadre. Gli adulti rientrarono in casa. Con le mani piene di piatti, Hector si guardò alle spalle e vide che Connie e Richie si erano arrampicati sul fico e da lí stavano tenendo d'occhio i bambini che prendevano le posizioni assegnate. In cucina Aisha aveva iniziato a preparare il caffè.

 

«No! No no no no no!». Era come se il bambino si fosse smarrito in quella parolina, come se tutto il mondo fosse racchiuso in quel rifiuto urlato a squarciagola. «No no no no no!». Era Hugo. Ormai tutti, immaginò Hector, dovevano sapere che poteva essere soltanto lui. Toccò agli uomini precipitarsi fuori, come se le urla del bambino avessero a che fare con le regole del gioco e quindi spettasse a loro dirimere la disputa. Hugo stava sbattendo goffamente la mazza a terra; era costretto ad aggrapparsi con tutte e due le mani, ma la presa era salda e non voleva mollarla per nessuna ragione al mondo. Ravi stava cercando di far ragionare il bambino. Rocco, dietro il wicket, era scuro in volto.

«Okay, Hugo, non sei stato eliminato».

«E invece sí». Rocco non cedeva di un millimetro. «La gamba è stata colpita prima. È fuori».

Ravi sorrise al ragazzino piú grande. «Guarda che Hugo non sa neppure cosa significa».

Gary saltò giú dalla veranda e si avviò a grandi falca­te verso il figlio. «Coraggio, Hugo, ora ti spiego perché sei stato eliminato».

«No!». L'identico urlo lacerante di prima. Sembrava quasi che Hugo volesse bastonare il padre.

«Adesso metti giú quella mazza».

Hugo non fece una piega.

«Subito!».

Ci fu una pausa. Hector si accorse che stava trattenendo il respiro.

«Sei fuori, Hugo, guastafeste che non sei altro». Rocco, fuori dalla grazia di Dio, fece per strappargli la mazza dalle mani. Con un altro urlo Hugo schivò le mani del bambino piú grande e, inarcandosi indietro, alzò in aria la mazza. Hector si paralizzò. Sta per colpirlo. Sta per randellare Rocco con quella mazza. Nel secondo che fu necessario a Hector per rifiatare, vide Ravi scattare verso i ragazzi, sentí Gary imprecare come un dannato e vide Harry farsi largo a spintoni e afferrare Hugo. Sollevò il bambino per aria e, scioccato, Hugo lasciò andare la mazza.

«Mettimi giú» ringhiò il bambino.

Harry lo mise a terra. La faccia del bambino era diventata scura di rabbia. Hugo alzò un piede e colpí selvaggiamente Harry a uno stinco. Hector aveva ancora in circolo l'anfetamina e gli si erano drizzati i peli sul collo. Hector vide il braccio di suo cugino alzarsi e fendere l'aria, poi il palmo della mano abbassarsi e colpire il bambino. Lo schiaffo sembrò echeggiare nell'aria. Incrinò il crepuscolo. Il ragazzino alzò gli occhi, scioccato. Seguí un lungo silenzio. Era come se Hugo non riuscisse a capacitarsi di quello che era appena successo, del fatto che il gesto dell'uomo e il dolore che provava coincidevano. Il silenzio fu rotto, una smorfia si disegnò sul volto del bambino, ma stavolta non ci fu nessun piagnisteo: le lacrime cominciarono a sgorgare, in silenzio.

«Sei un animale del cazzo!». Gary spintonò Harry a rischio di farlo cadere a terra. Ci fu un urlo e Rosie, facen­dosi largo fra i due, si precipitò a prendere in braccio il suo bambino. Lei e Gary urlavano e insultavano Harry che era indietreggiato fino al portellone del garage e sembrava anche lui sotto shock. I bambini osservavano la scena incantati. La faccia di Rocco trasudava orgoglio. Hector sentí di avere accanto Aisha e sapeva che, in quanto padrone di casa, doveva assolutamente fare qualcosa. Ma cosa? Hector voleva lasciare intervenire la moglie perché, lei sí, sarebbe stata calma, giusta e corretta. Lui no. Lui ricordava benissimo l'euforia che aveva provato quando l'eco della sberla gli aveva attraversato il corpo. Era stato come una scossa elettrica, come una vampata d'eccitazione: gli aveva quasi fatto tirare il cazzo. Era lo schiaffo che avrebbe voluto dare lui. Era contento che il bambino fosse stato punito, contento che ora piangesse, intontito e terrorizzato. Connie era scesa dall'albero e stava correndo verso la madre e il bambino in lacrime. Hector capí che non poteva lasciarla sola in quella situazione difficile. Corse a mettersi fra suo cugino e i genitori infuriati.

«Coraggio, rientriamo in casa».

Gary se la prese con lui. Era congestionato in viso, stava sbraitando e uno spruzzo di saliva finí sulla guancia di Hector. «No che non rientriamo, cazzo!».

«Ora chiamo la polizia». Rosie stringeva i pugni.

Lo stupore di Harry si trasformò in indignazione. «Chiama la polizia, allora! Cazzo, vediamo se ne avete il coraggio».

«Questa è violenza su un minore, testa di cazzo. Ecco cos'è».

«Se l'è cercata, vostro figlio. Ma la colpa non è sua, è dei suoi genitori cafoni».

Connie, che era corsa da Rosie, le toccò la spalla. La donna si girò su se stessa, infuriata.

«Dovremmo fargli causa».

Rosie annuí. Adesso tutti si erano radunati in veranda e fecero ala ai tre che passavano in mezzo. Hugo continuava a singhiozzare.

Hector prese di petto il cugino. «È meglio se ve ne andate».

Harry era una furia, ma Hector gli parlò in greco. «È ubriaco fradicio. Non puoi ragionarci».

«Cosa gli hai detto?».

La faccia di Gary era incollata alla sua, naso contro naso. Hector sentí il sudore acre e la puzza d'alcol.

«Ho solo detto a Harry di andare a casa».

«Invece questi stronzi non vanno da nessuna parte. Adesso chiamo la polizia». Gary prese il cellulare di tasca e lo sbandierò sotto gli occhi di tutti.

«Visto? Ora chiamo la polizia. Siete tutti testimoni».

«Puoi farlo dopo». Sandi aveva la voce tremante mentre si avvicinava a Gary. «Ti darò il nostro recapito e numero di telefono. Se vuoi sporgere denuncia piú tardi, potrai sempre farlo. Ma stasera forse dobbiamo tornare tutti a casa e pensare ai nostri figli». E scoppiò in lacrime.

Gary sembrava ribellarsi alla prospettiva e sghignazzò, come se fosse sul punto di prendere di mira Sandi, ma in quel momento Rocco si avvicinò zitto zitto alla madre. Quindi alzò gli occhi su Gary in segno di sfida.

Gary abbassò la voce. «Che ci fai con quel bastardo? Picchia anche te?».

Hector strinse la spalla del cugino.

«Mio marito è una brava persona».

«Ha picchiato un bambino».

Sandi restò zitta.

«Dove abitate?».

Sandi scrollò la testa. «Aspetta, ti do il numero di telefono».

«Voglio l'indirizzo».

Aisha si mise accanto a Gary.

«Gary, ho io l'indirizzo e tutto. Sandi ha ragione, dovreste tornare tutti a casa». Gli aveva appoggiato una ma­no sulla spalla e quel semplice gesto lo calmò.

Hector adorava sua moglie. Aisha sapeva esattamente cosa fare, sempre e comunque. Avrebbe voluto baciarla sul collo, abbracciarla forte. Melissa aveva raggiunto sua madre, e anche lei stava piangendo. Aisha prese per mano la figlia. Arrivò anche Adam e gli si mise accanto, cosí Hector lo prese per mano.

Cosa cazzo sto facendo? Sto mettendo a repentaglio tutto quello che ho, tutta la mia fortuna. La mano sudata di Adam sembrava incollata alla sua. All'improvviso Hector mollò la mano del figlio ed entrò in casa.

Quando passò accanto alla madre in cucina, lei gli bisbigliò in greco. «Tuo cugino aveva ragione».

«Koula, dai» la riprese il marito. «Non mettere zizzania». Suo padre sembrava spaventato. O forse era solo stufo di quel nuovo mondo.

 

Hector si bloccò sulla soglia della camera da letto. Hugo stava succhiando al seno materno. Connie era seduta accanto e gli accarezzava la testa.

«È incredibile quello che ha fatto quel mostro. Né io né mio marito abbiamo mai picchiato Hugo».

Hector sentí lo sguardo del piccolo.

Hugo si staccò dal seno di Rosie. «Nessuno è autorizzato a toccare il mio corpo senza il mio permesso». La voce era squillante e decisa. Dove diavolo aveva imparato quelle parole? Da Rosie? All'asilo nido? O era una pubblicità progresso mandata in televisione?

«Hai ragione, tesoro, hai ragione». Rosie lo baciò in fronte.

E quando prende a calci qualcuno o picchia gli altri bambini, chi lo autorizza a farlo?

«Sí». Connie fece di sí con la testa, convinta. «Hai ragione, Hugo. Nessuno ha il diritto di farlo».

Connie era una bambina. A un tratto, la cosa lo disgustò.

Rosie raccattò la borsetta dal letto, prese in braccio Hugo e passò davanti a Hector senza rivolgergli la parola.

Hector chiuse la porta e si ritrovò solo con Connie. A­vrebbe voluto essere gentile, ma non sapeva come fare.

«Non possiamo continuare a vederci. Non come prima. Capisci?».

La ragazza guardò altrove, arricciando il naso. «È incredibile che l'abbia picchiato. Che razza di stronzo picchia un bambino?».

Era incredibile il rischio che aveva corso. Ora gli era chiaro come il sole. Voleva sbatterla fuori da quella stanza, fuori da quella casa. Voleva che uscisse dalla sua vita.

«Hai capito, Connie?». Hector abbassò il tono della voce.

«Certo». Ancora non riusciva a guardarlo negli occhi.

«Connie, sei la fine del mondo. Ma io amo Aisha, credimi».

La sua reazione fu quasi violenta. Cominciò a tremare. «Anch'io, non lo capisci? Mi fa schifo quello che le facciamo». Con un brivido Connie prese fiato. «È…». Stava cercando la parola giusta. «È disgustoso».

Era troppo, tutto era sopra le righe. Avrebbe voluto spingerla fuori da quella stanza, fuori dalla sua vita. Era immatura. Era una bambina e basta.

«Scusami».

Non lo racconterai a nessuno, vero? Era il terrore con cui conviveva da mesi, sempre presente sotto l'eccitamento. Era da mesi che immaginava la vergogna: gli sbirri, il divorzio, il carcere e il suicidio.

Connie gli lesse nel pensiero. «Non lo sa nessuno».

«Scusami» ripeté Hector.

Lei evitava di guardarlo. Invece dondolava un piede e si tormentava una ciocca di capelli che si era portata alla bocca. Una bambina, ecco cos'era.

Connie parlò cosí sottovoce che lui non riuscí a sentirla.

«Come?».

Stavolta Connie gli lanciò un'occhiata assassina. «Ho detto che le tue braccia sono orribili, cosí pelose. Sembri un gorilla».

Hector restò di stucco. Avrebbe voluto ridere. Si mi­se a sedere sul letto accanto a lei, evitando il contatto. «Connie, in fondo fra noi due non è successo niente».

Lei fece una smorfia. Gli arrivò alle narici il suo profumo dozzinale: troppo forte e dolciastro, tanto che gli fe­ce il solletico al naso. Era il profumo di un'adolescente. Avrebbe voluto poterla toccare ancora una volta, accarezzarle i capelli, baciarla. Ma non riusciva a mostrarsi affettuoso. Ormai ogni contatto sarebbe stato ripugnante. Hector guardò nello specchio un uomo e una bambina seduti su un letto, e in quell'istante lei fece lo stesso. Lo sguardo di Connie era supplichevole, tormentato, e quasi a malincuore, non volendo farle ancora del male, Hector fece segno di no con la testa.

Connie saltò giú dal letto, spalancò la porta e filò via. Per un attimo Hector restò immobile, assaporando il senso di liberazione. Ce l'aveva fatta, aveva messo la parola fine. Andò a chiudere la porta e tornò a sedersi sul letto. Il torace gli faceva male, i polmoni erano stretti in una morsa. Provò inutilmente a respirare. Sapeva che non doveva farsi prendere dal panico, non era un infarto, non poteva essere, perché mai? Doveva soltanto respirare. Eppure non riusciva ad aprirla, quella gola del cazzo. Grondava sudore, non riusciva a vedere il suo riflesso nello specchio. Non era lí, dove cazzo era? Dov'era?

Con grande sforzo, Hector inalò aria nella gola e nei polmoni. Vacillò per un attimo e finalmente si ricordò di come si faceva a respirare. Con un fazzoletto si asciugò la faccia e il collo, e ritrovò la propria immagine riflessa nello specchio. La faccia era pallida, gli occhi rossi. Era gonfio, grigio, vecchio. Si rese conto che stava piangendo. Gli gocciolava il naso, le lacrime gli rigavano le guance. L'ultima volta che aveva pianto era stato da bambino. Hector si massaggiò il petto. Cambierò, si ripromise. Cambierò.

 

Quando Hector tornò fuori all'aperto, Richie era da solo in giardino ed era ancora seduto su un grosso ramo del fico. Gary, Rosie e Hugo se ne erano andati. In silenzio, tutti gli altri ospiti stavano raccogliendo le loro cose e si scambiavano sottovoce i saluti di rito. Fuori in strada Hector domandò a Leanna, Dedjan e Ari dove sarebbero andati. C'era l'idea di farsi una bevuta, un bar in High Street, magari una discoteca. Hector si sentiva irrimediabilmente lontano da loro, separato dalle loro vite senza figli.

Quando rientrò in casa, anche Harry era sull'orlo delle lacrime. Vedere suo cugino cosí triste peggiorò le cose e la collera montò dentro di lui. Era contento che Gary e Rosie si fossero levati di torno. Non sopportava di vederli, di essere costretto a fingere un'amicizia e una comprensione inesistenti. Rocco era incollato al padre, i loro corpi si toccavano. Sandi salutò Hector e Aisha con un bacio, ma ci pensarono i suoi genitori ad accompagnarli all'auto. Hector aveva stretto calorosamente la mano di suo cugino, ma non sapeva cosa Aisha si aspettava da lui, per chi parteggiava. Sapeva però che mentre lo accompagnavano, i suoi genitori l'avrebbero consolato in greco, che avrebbero sfogato la loro collera contro quei maledetti australiani. Hector era d'accordo, ma non aveva la minima idea di come la pensasse Aisha. Temeva la discussione che lo aspettava.

In giardino Connie stava richiamando all'ordine Richie.

Il ragazzino non si mosse. Hector accese una sigaretta e ne offrí un'altra a Tasha.

Tasha lo prese sottobraccio. «Mi spiace».

«Perché?».

«Mi spiace che sia finita cosí».

Hector fece spallucce.

Richie stava sbirciando il vicolo alle spalle oltre i tetti delle case. Dall'alto urlò a Connie: «Da qui si vede casa tua».

«Scendi, Richie!» ordinò Tasha con calma.

Richie saltò giú dal ramo. Hector chiuse gli occhi: si aspettava di sentire un osso fare crac e invece Richie atterrò in piedi, barcollò appena e si raddrizzò. Aveva un sorriso smagliante. Raggiunse di corsa la veranda e si bloccò di fronte a Hector. Gli prese la mano e la strinse forte.

«Complimenti! Il cibo era una delizia». Poi arrossí di colpo e fece un passo indietro.

Hector restò letteralmente senza parole, ma per sua fortuna Aisha si materializzò sull'uscio di casa. «Grazie, Richie. Purtroppo la festa è finita».

«Ti aiutiamo a sparecchiare?».

«No, grazie, Tasha. Ci pensiamo noi».

Connie gli strinse fiaccamente la mano, senza degnarlo di uno sguardo, e invece abbracciò forte Aisha. Hector guardò fisso nel vuoto. Finalmente, quando sentí che Tasha avviava il motore, riprese fiato e attirò a sé Aisha. Senza dire nulla, Aisha si lasciò stringere, con le braccia intorno alla vita. I capelli puzzavano del fumo del barbecue e di succo di limone. Hector era contento che potessero restare finalmente soli, in silenzio, ma l'idillio finí appena lui andò a spegnere la sigaretta.

Aisha si allontanò. «Vado a mettere a letto i bambini».

«È ancora presto».

«Ho deciso cosí».

«È sabato sera».

«Hector, ti prego, non darmi contro».

Hector esitò. Avrebbe voluto rimandare l'inevitabile conversazione e restare in quel silenzio ovattato, magico. «Allora, che ne dici?».

«Sono incazzata».

«Con chi?».

I suoi occhi fiammeggiarono di rabbia. «Ma con tuo cugino, naturalmente».

«Io no».

«Se fosse stato tuo figlio, avresti fatto fuoco e fiamme».

Ma non era il loro figlio e il loro figlio non sarebbe mai stato cosí. Non grazie a lui, lo sapeva benissimo, non certo grazie a lui, ma grazie a lei. Aisha era una madre fantastica. Adesso lo guardava in cagnesco, Hector sapeva che si stava preparando a contrattaccare. Per fortuna che si era impasticcato. Hector non voleva litigare, non poteva chiamare a raccolta né l'irritazione né l'indignazione. Aisha, invece, eccola lí già pronta a dargli contro. Aisha aveva voglia di insultare Harry, di farlo a pezzi perché faceva parte della sua famiglia. Hector non si era neppure accorto che Ravi se n'era andato e lí per lí gli venne in mente – come aveva fatto a rimbecillirsi fino a quel punto? – che la riunione di famiglia era anche un mo­do per festeggiare la visita del fratello di sua moglie.

Gli occhi di Aisha erano vivi, luccicanti, e stringeva forte il pugno destro. Tutto quello che poteva inventarsi sul momento era sedurla.

«Hai ragione» fece con calma. «Harry non aveva il diritto di picchiare Hugo».

Lei fu colta di sorpresa: gli sembrò addirittura che un'ombra di disappunto le attraversasse il viso. Aisha aprí il pugno. «Certo che no». Ma la sua reazione era stata blanda, poco convincente.

«Porta i bambini a letto. Io comincio a mettere in ordine».

 

Stava caricando la lavastoviglie in cucina e gli venne voglia di ballare. Desiderando qualcosa di allegro ma solido, mise il CD di Benny Goodman. Quando chiuse la lavastoviglie e cominciò a pulire le panchine, stava fischiettando.

«Come diavolo fai a essere cosí allegro?». Aisha era lí in piedi con le mani sui fianchi e un'aria per niente divertita.

Hector fece un passo di danza verso di lei e la baciò sulle labbra. «Perché ci sei tu, tesoro».

Ed era vero. Cazzo se era vero. Hector le mise le braccia attorno ai fianchi e poi abbassò le mani a coppa fino alle natiche. Le baciò gli occhi, le guance, i lobi delle orecchie. Poi strinse piú forte.

«I bambini sono ancora svegli».

«Me ne frego» bisbigliò. Aveva il cazzo duro: le prese una mano e gliela mise fra le gambe. Aisha ridacchiò, e questo gli ricordò Connie. Lui chiuse gli occhi, e capí di avere sperato con tutte le sue forze che la ragazza sparisse per sempre dalle sue fantasie. Ma naturalmente non era cosí. Hector si abbandonò all'immaginazione. Intanto slacciava la fibbia della cintura di sua moglie, le abbassava la gonna, le accarezzava il ventre, le palpava il seno. A occhi chiusi, ripensava alla peluria soffice, rada della figa di Connie.

«Non serve un preservativo, vero?».

Aisha scrollò la testa. «Non dovrebbe essere un problema» gli bisbigliò nell'orecchio. Hector ebbe un brivido. La canzone, il respiro di Aisha lo invasero, ondate di euforia e allegria lo attraversavano, una dopo l'altra.

«Andiamo in camera da letto».

Hector non rispose e invece sollevò in aria le braccia di Aisha e cominciò a baciarla sul collo. Le tirò su la maglietta e prima le palpò le tette, poi cominciò a baciarle. Le sue labbra si chiusero su un capezzolo sempre piú duro e arrendevole, poi prese a succhiarlo e a morderlo finché Aisha non lanciò un mugolio di dolore, e lui con riluttanza si fermò. Si raddrizzò, la guardò in faccia, gli occhi di Aisha brillavano, poi all'improvviso tutti e due fecero un risolino. Hector si domandò per un attimo se i figli non rischiassero di sentire, ma subito il pensiero svaní. La lampo si era abbassata, il cazzo era stato liberato dalla prigione degli slip e lui sentí nell'aria la voglia di Aisha. Hector le infilò un dito dentro, Aisha mugolò di piacere, lui abbassò i pantaloni e le infilò il cazzo. Lí in piedi, la gonna abbassata intorno alle caviglie e i jeans all'altezza delle ginocchia, godendo alla grande, con la droga che glielo faceva tirare e lo aiutava a rimandare l'orgasmo, scoparono per un'eternità. Quando venne, non riuscí a controllarsi e Aisha, ridendo, gli piazzò una mano sulla bocca per soffocare l'urlo. Hector le lasciò dentro per un po' il cazzo che si stava ammosciando, spingendo piano, sussurrandole che l'amava, sussurrando il suo nome. La sentí senza fiato, poi prese a baciarlo con forza, fino quasi a mordergli le labbra. Hector non aveva ancora aperto gli occhi, avrebbe voluto restare dentro di lei. Ora che era venuto, aveva cancellato ogni ricordo di Connie. Prima no, non ci sarebbe riuscito. Prima le aveva confuse nelle sue fantasie morbose, scopava la moglie e la ragazza insieme, il loro corpo, le loro fighe, la loro pelle, un'unica cosa ma anche diverse l'una dall'altra. Aisha si spostò e il cazzo scivolò fuori. Ancora ridacchiando, si rivestirono.

Aisha andò a dare un'occhiata ai bambini e poi tornò indietro. «Mi sa che dormono». Era da anni che non sembrava cosí docile.

«Abbiamo fatto in silenzio».

«Non tanto». Aisha si accostò al lavello in cucina e cominciò a vuotare gli avanzi delle insalate nel secchio del compost.

Hector si avvicinò da dietro e l'abbracciò. «Lascia stare, ci penso io».

«Facciamolo insieme».

«Ci penso io». Era irremovibile. L'anfetamina, anche se ormai l'effetto stava scemando, continuava a scorrergli nelle vene, e lui voleva darsi da fare, muoversi. Il sesso lo aveva ritemprato.

«E io cosa faccio? Non ho ancora sonno, è troppo presto».

«Guarda la TV, leggi un libro. Sparecchio io». Mentre metteva in ordine la casa, avrebbe preso il Valium e si sarebbe goduto in santa pace il rientro dal trip.

Aisha fece una giravolta, sempre stretta fra le sue braccia, e lo guardò negli occhi. Era calma, una gocciolina di sudore le era rimasta sul labbro superiore. Hector la leccò via.

«Cosa dirai a tuo cugino?».

Niente.

«Boh».

«Hector…». Le bastò chiamarlo per nome. C'era un'urgenza, una grande forza. Hector si domandò se sarebbe riuscito a scoparla di nuovo, cosí contro il tavolo della cucina.

Aisha ripeté il suo nome. «Devi essere piú gentile con Adam».

E questa da dove arrivava? Hector la lasciò andare, cercò le sigarette, aprí la porta scorrevole, e si fermò fra la cucina e la veranda. Aisha lo seguí e gli strappò la sigaretta di mano. Da quanto non la vedeva fumare? Doveva essere da prima che restasse incinta di Melissa. Era come se quella sera lei e la loro vita coniugale gli apparissero sotto un'altra veste. Avrebbe voluto confessarsi, raccontarle di quegli ultimi mesi, di come l'aveva tradita e di come aveva rischiato di non provare piú niente per lei. Voleva confessarsi perché in quell'istante era sicuro al cento per cento del suo amore per lei, di quello che lei era, di tutto quello che li accomunava. Questa casa, i loro figli, il loro giardino, il lettone ancora confortevole che cominciava a cedere in mezzo dopo tutti quegli anni in cui i loro corpi erano stati incollati nel sonno, con le sue braccia sempre intorno a lei e che si spostavano soltanto quando Aisha, ancora sveglia, gli dava un colpetto con il gomito per farlo spostare e perché smettesse di russare. Senza di lei la vita era insopportabile. Irrigidí il torace, strinse i pugni con decisione. Non voleva lasciare trapelare le sue paure.

«Ti prometto che cambierò. D'ora in avanti sarò meno severo con nostro figlio».