Harry

In veranda Harry, mezzo nudo salvo gli occhiali da sole Dolce&Gabbana e gli Speedo neri di lycra, stava ammirando le acque calme e piatte della baia di Port Phillip. Il sole al tramonto disegnava all'orizzonte arabeschi rossi e arancioni e le guglie e i grattacieli di Melbourne con i loro tetti piatti erano appena visibili nella nebbiolina che ristagnava sulla città nel tardo pomeriggio. Il corpo di Harry luccicava di crema solare e sudore: la giornata era ancora torrida e non c'era stato un alito di vento fin dal mattino. Dalla cucina gli arrivava l'odore della cotoletta che Sandi stava facendo friggere e Harry si passò una mano sullo stomaco, pregustando la cena. Lungo Beach Road le auto procedevano incolonnate a passo d'uomo. Cazzi vostri, sfigati. Harry sorrise tra sé. Dalla veranda appena ultimata aveva una buona visuale fino alla spiaggia. Quattro ragazzine nei loro bikini succinti facevano la doccia nel parco. Bionde, snelle, avevano dei seni piccoli e sodi. Sorridendo, Harry premette forte il cavallo degli Speedo contro la parete a vetri della terrazza e respirò a pieni polmoni senza perdere di vista le ragazzine da basso che, spruzzandosi acqua a vicenda, sghignazzavano e strillavano. Il suo uccello si indurí, premendo contro il tessuto elasticizzato. Lentamente, si sfregò contro la vetrata. Coraggio, stronzetta, disse a fior di labbra. Una delle ragazze si era chinata in avanti e Harry liberò un grugnito di piacere alla vista delle sue natiche sode, palestrate. Puttanella, ti piacerebbe il mio cazzo su per quel bel culetto, eh?

Harry fece un passo indietro. Le ragazzine si stavano asciugando e raccoglievano i teli e gli zainetti, ma il suo interesse era svanito. Lanciò un'ultima occhiata al mondo lí sotto, girò sui tacchi e si tuffò in piscina. Harry schiaffeggiò la superficie dell'acqua e s'immerse nella meravigliosa frescura sottostante; riemerse per prendere una boccata d'aria, sorrise, tornò sott'acqua e si rotolò come le foche che Rocco osservava rapito allo zoo. Poi passò a nuotare sul dorso e allungò le gambe e le braccia sull'acqua. «Sono il re del mondo!» strillò al cielo.

«Vostra maestà ha fame?».

Sandi era sul bordo della piscina. La sua pelle era color miele e anche lei era in bikini, ma mentre i costumi da bagno delle ragazzine gli erano sembrati volgari, la moglie gli apparve stupenda come le eleganti modelle europee sulle copertine delle riviste che leggeva lei. Il bikini era un suo regalo. Le spalline color perla erano tenute ferme da serpentine d'oro. Harry alzò gli occhi e si pentí di avere perso tempo a fantasticare sulle ragazzine in spiaggia. Sandi sí che era una donna. Sul bikini indossava una vecchia maglietta di Harry e riusciva lo stesso a fare un figurone. Sono il re del mondo, ripeté fra sé.

«Ho una fame da lupo».

«Vostra maestà, la cena è servita».

In cucina la TV era accesa e sullo schermo scorreva una catastrofe. Una bomba? Un terremoto? Una guerra? Non gliene fregava un cazzo, gli arabi con la kefiah e i coloni ebrei potevano pure scannarsi tra loro. Harry schiacciò un tasto del telecomando, trovò un documentario su una delle stazioni via cavo e abbassò il volume. Versò del vino anche per Sandi, accese una sigaretta e si appollaiò su uno sgabello mentre lei preparava il condimento per l'insalata.

«Dov'è Rocco?».

«In soggiorno davanti al televisore».

Harry urlò il nome del figlio e aspettò una risposta.

«Cosa c'è?» strillò di rimando Rocco.

«Vieni qui».

Rocco, come reazione alla disinvoltura con cui i genitori mettevano in mostra i loro corpi seminudi, aveva i pantaloni della tuta, un berretto da baseball e una T-shirt nera troppo grande con davanti un vistoso logo da rapper. In piú si era messo le calze e le sneaker.

«Non hai caldo?».

Rocco fece spallucce e con calma si tirò sullo sgabello accanto al padre. «Cosa si mangia?».

«Braciole di maiale».

«Con patatine?».

«Mangi troppe patatine» lo sgridò la madre.

«Le patatine non sono mai abbastanza».

«Grazie del sostegno, vostra maestà».

Rocco, perplesso, si stava mordicchiando il labbro inferiore. Harry soffocò a stento la voglia di rimproverarlo. Quando assecondava quella cattiva abitudine, Rocco diventava inguardabile.

«Mamma, perché chiami papà “vostra maestà”?».

«Perché sono il re della casa».

Rocco smise di mordicchiarsi il labbro e Harry, per gioco, gli tirò il lobo dell'orecchio. «E un giorno lo sarai tu».

Rocco si era stufato dell'argomento e cosí si girò sullo sgabello a guardare la TV. Afferrò il telecomando e cominciò a fare zapping.

Sandi si allungò sulla tavola e gli strappò di mano il telecomando. «Lascia stare. Dopo cena, magari… Guardi troppa televisione».

«La televisione non è mai abbastanza».

L'espressione irritata di Sandi strappò una sonora risata ai due maschi di casa, ancora una volta colpevolmente in combutta.

 

«Hai chiamato l'avvocato?».

Rocco era andato a letto e adesso stavano guardando un DVD sul nuovo televisore al plasma. Era costato un occhio della testa, ma ne era valsa la pena: grande come un piccolo schermo cinematografico, era lí al centro della parete. A destra e a sinistra dello schermo c'erano delle lastre di granito, illuminate da una fioca luce arancione, con una cascatella d'acqua gorgogliante che lambiva la superficie del granito. Il tutto era costato una cifra spropositata, ma era perfetto. Harry stava prestando poca attenzione al film che era un'insulsa commediola romantica; a rendergliela sopportabile era unicamente la testa di Sandi in grembo. Non voleva disturbarla allungandosi per prendere il telecomando. Ma fu lei a tirarsi su e ad abbassare il volume. Harry rispose alla domanda di sua moglie con un mugugno.

«L'hai chiamato o no?».

«Domani».

Harry la guardò, sospettoso. Capitava di rado che Sandi discutesse con lui. Infatti aveva imparato fin dalle prime schermaglie amorose che, quando una donna lo prendeva di petto, Harry diventava ancor piú cocciuto e testardo. Sandi annuí senza sprecare un sorriso.

«Lo chiamo io».

Vaffanculo.

«Lo chiamo domani».

L'espressione di Sandi era ancora petulante, per niente convinta.

«Promesso».

La sua faccia si aprí in un sorriso smagliante. Sandi si sporse in avanti e lo baciò sulle labbra. «Grazie, tesoro».

Harry le accarezzò il collo e le spalle. Sandi aveva ancora addosso la sua maglietta e lui gliela sfilò dalla testa. Ma quella domanda gli aveva fatto venire i nervi e, ricordandogli la settimana lavorativa che gli si prospettava, aveva distrutto di colpo la pace della domenica sera. «Scusami, amore. Sono stanco morto».

Sandi si staccò dall'abbraccio e s'infilò la maglietta.

Lui la baciò sulla fronte. Lei alzò il volume del televisore e ritornò ad appoggiargli la testa in grembo. Ma ormai Harry era troppo agitato per stare immobile. Si alzò con delicatezza, le piazzò un cuscino sotto la testa e andò a prendere una Crown dal frigo. Poi gironzolò per la casa finché non si bloccò fuori dalla camera da letto di Rocco. Il figlio russava beato, rannicchiato nel letto, con le lenzuola aggrovigliate intorno al corpo. La serata era ancora torrida e c'era soltanto un alito di vento che veniva dal mare. Harry alzò gli occhi fino all'effigie della Madonna con il Bambin Gesú sopra la testata del letto e fece veloce il segno della croce. Grazie, Panagia, bisbigliò. Un tempo lui e Sandi avevano corso il rischio di non avere figli. Sandi non riusciva a restare incinta e le prime tre gravidanze si erano concluse con un aborto spontaneo. Al pensiero del calvario di sua moglie, Harry fece una smorfia e ribadí la promessa che aveva fatto a Dio di proteggerla e amarla per tutta la vita. Guardò il figlio sprofondato nel sonno e fu felice della casa e della famiglia che lui e Sandi avevano creato insieme.

E quella stronza vuole mandare tutto a puttane. Chi gli stava piú sul cazzo? La moglie isterica che gli aveva urlato in faccia tutto il suo disprezzo, quella merda del marito ubriacone o lo stronzetto che aveva preso a schiaffi? Harry era indeciso su chi scegliere. Magari fossero crepati tutti e tre… In culo all'avvocato. Se avesse avuto i coglioni, avrebbe preso il suo fucile da caccia e avrebbe ficcato tre pallottole a testa nelle loro zucche. Lui li conosceva come le sue tasche quei parassiti, quelle lagne, quei piagnoni. Erano come quei clienti che scantonavano e tiravano sul prezzo e quando poi veniva il momento di pagare, avevano il conto in rosso per averlo speso tutto in alcol, sigarette, canne o altre schifezze che utilizzavano per riempire la loro vita di merda. Erano cialtroni, avrebbero dovuto sterilizzarli appena nati. Vero: non avrebbe dovuto schiaffeggiare il marmocchio, avrebbe dovuto strappargli la mazza di mano e sbatterla una, due, cento volte su quella testolina del cazzo, fino a ridurla in poltiglia. Quasi che fiutasse il sangue e avesse davanti agli occhi la faccia spappolata del ragazzino con le ossa sporgenti e i muscoli spiaccicati, Harry ritrovò la calma per la prima volta da quando Sandi aveva tirato in ballo l'avvocato. Mandò giú un sorso di birra e tornò in soggiorno. Sandi si era appisolata. Spense il televisore e prese in braccio la moglie.

«È ora di andare a nanna» bisbigliò.

 

Harry e Sandi si svegliarono alle sei e lui andò dritto in spiaggia. Harry cercava di nuotare ogni mattina, perfino d'inverno, ma se l'acqua era troppo fredda, si accontentava di una lunga camminata su e giú per la caletta. Ma quella mattina il cielo era terso e la baia calma, e anche se il primo tuffo fu un pugno nello stomaco e un calcio nelle palle, nel giro di un minuto le sue bracciate energiche l'avevano portato al largo, facendogli dimenticare il freddo. Quando tornò a casa, Rocco era ancora a letto e Sandi, sull'onda di una musichetta parafricchettona, era impegnata in una serie di esercizi yoga. Harry fece la doccia, divorò un toast innaffiandolo con il caffè e andò in camera di Rocco. Il figlio aveva spinto le lenzuola sul bordo del letto, e il suo corpo luccicava del sudore della notte. Rocco aveva un buon odore, pensò Harry. Rocco trasudava innocenza e pulizia.

«Sveglialo». Sandi era dietro di lui e gli aveva messo le braccia intorno al torace. Harry guardò l'orologio. Erano appena le sette e il ragazzino si meritava un'altra mezz'ora di sonno. Harry scrollò la testa. «Piú tardi».

Baciò la moglie e discese le scale del garage. A quell'ora avrebbe trovato la strada quasi sgombra fino al Westgate Bridge.

 

Alex aveva già aperto l'officina e stava trafficando sotto il cofano di una Mitsubishi Verada dei primi anni Novanta. Harry infilò il fuoristrada accanto alle pompe di benzina e suonò il clacson. Alex si girò, vide Harry, lo salutò con un cenno e tornò al lavoro. I pantaloni blu scuro della tuta da ginnastica, unti e bisunti, erano in equilibrio precario sui fianchi grassocci. Un ciuffo ispido di peli neri sporgeva fuori dai pantaloni e s'inabissava nel solco fra le chiappe. Harry appallottolò un sacchetto di McDonald's che Rocco aveva abbandonato sotto il suo sedile e, scostandosi dall'auto, prese di mira il sedere di Alex.

«Cosa c'è?».

Beccato.

«Cosa c'è?» gli fece il verso Harry e scoppiò in una risa­ta. «Tira su le braghe, bestia» disse in greco. «Nessuno ha voglia di ammirare quel culo grasso e peloso».

«Mi stanno larghe». Alex era incapace di inanellare frasi complesse. E stava trafficando, imperterrito, con il motore.

«Stai ingrassando, amico». Dopo il divorzio Alex aveva messo su una ventina di chili per colpa soprattutto di sua madre. Era tornato dai genitori e la signora Kyriakou lo ingozzava tre volte al giorno, senza contare i takeaway che Alex ingurgitava al lavoro. Per non parlare delle patatine e delle tavolette di cioccolato che si sparava in pausa. Ma la colpa non era tutta della madre. Alex non era mai stato ambizioso e, da quando Eva l'aveva lasciato, si era arreso agli assalti del tempo al suo corpo. Lui e Harry erano coetanei – c'era meno di una settimana a dividerli – ma Alex sembrava piú vecchio di dieci anni. Era ancora possibile intravedere in lui il bel ragazzo che Harry aveva avuto come compagno di scuola, il suo amico del cuore per vent'anni e il suo testimone di nozze, ma ormai qualunque donna l'avrebbe degnato appena di un'occhiata.

Quando Harry aveva pensato di acquistare un'autofficina ad Altona, aveva chiesto ad Alex di entrare in società. Il suo amico gli aveva stretto la mano, orgoglioso, con le lacrime agli occhi. Ma io non sono portato per gli affari, l'aveva anche avvertito, proprio non ci so fare. Alex aveva ragione. Se fossero diventati soci, Harry l'avrebbe strozzato già da tempo. Alex amava riparare le automobili e i camion, era un meccanico eccellente, coscienzioso, ma detestava le scartoffie ed era un orso con i clienti. Non sopportava di dovere rendere conto dei soldi, lo faceva irrigidire, lo rendeva afasico, lo isolava dal resto del mondo. Ormai erano vent'anni che lavorava per Harry e ogni anno Harry gli riconosceva una gratifica e regolarmente gli aumentava lo stipendio. Alex lo ringraziava, ma Harry era sicuro che se anche lo avesse imbrogliato, Alex non avrebbe aperto bocca. Era questa passività che aveva spinto Eva a piantare il marito. I genitori di Alex avevano versato un anticipo su un piccolo cottage a Richmond quando aveva finito il tirocinio, e poco alla volta Alex si era pagato la casa. Ma perfino quando era arrivato in famiglia un bambino, Alex aveva escluso tassativamente di traslocare e cercare una casa piú spaziosa. Secondo Harry, probabilmente Alex non avrebbe neanche pensato di sposarsi se i genitori non fossero stati ossessionati dall'idea di restare senza nipotini. Cosí, come per ogni altra cosa, si era sposato per dovere. Harry non era rimasto sorpreso dal divorzio e aveva giustificato Eva per averlo mollato. Alex non sarebbe mai cambiato. Era felice a casa sua, a sbronzarsi con gli amici di una volta, a vedere i figli ogni due settimane e a Pasqua, e a sgobbare in officina da Harry. Probabilmente Alex era soddisfatto della sua vita. E forse era anche vero, pensò Harry, che cosí non c'era stress. Però sembrava già alla frutta. Era come se il mondo non potesse offrirgli altro.

«Devi dimagrire, vecchio. Tutti i chili che hai messo su non ti fanno bene».

«Hai ragione».

«Dovresti tornare a giocare a pallone nei weekend».

«Certo, come no».

«E basta con quelle porcherie. Da oggi in avanti a pranzo panini con l'insalata».

A questo punto Alex alzò la testa da sotto il cofano e guardò l'amico. «Chi cazzo se ne frega… A cosa mi serve invecchiare se per arrivarci devo mangiare come un criceto? A me piacciono le torte e gli hamburger».

«Che cos'ha il motore?».

«L'auto si surriscalda. Il radiatore non perde, quindi sto controllando la ventola».

«Di chi è?».

Alex fece spallucce. «Boh. L'ha presa Con». A un tratto gli venne in mente che era strano che il suo capo fosse lí in officina di lunedí mattina presto. Harry e Sandi avevano appena aperto una terza officina a Moorabbin e negli ultimi mesi Harry aveva dedicato quasi tutto il suo tempo al nuovo business.

Harry sorrise come se avesse intuito i pensieri che lentamente stavano prendendo forma nella testa dell'amico.

Alex si pulí le mani, mise giú lo straccio e offrí una sigaretta a Harry. «Cosa ci fai qui a quest'ora?».

Harry prese la sigaretta e Alex gliel'accese. «Sono venuto a controllare le scartoffie».

Alex alzò un sopracciglio. «Problemi?».

Harry guardò la strada. Il traffico era incolonnato verso il centro. Intorno a lui la periferia si estendeva piatta e monotona, tutta grigia e silenziosa, funzionale e scialba. Anche se era lí a pochi isolati, anche la spiaggia sembrava tetra e respingente rispetto al tratto di mare color smeraldo proprio di fronte al suo giardino. Cristo, pensò Harry, non sopporto la periferia di questa città.

«Sí» rispose alla fine. «Mi sa di sí».

Alex raccolse lo straccio, spense la sigaretta e tornò sotto il cofano. Harry sapeva che la chiacchierata poteva considerarsi finita. Quale che fosse l'opinione di Alex – semmai ne avesse avuta una, naturalmente – l'avrebbe tenuta per sé.

Harry finí la sigaretta in silenzio, poi si spostò verso il bugigattolo di fortuna che aveva costruito con le proprie mani quando aveva acquistato l'officina. Frugò nello schedario, trovò i libri contabili, accese la radio e si mise al lavoro.

A volte, quando il carico di responsabilità lo stressava e angosciava, Harry avrebbe voluto tornare alla vita semplice di quando faceva il commesso. A differenza di Alex, non aveva mai avuta la fissa delle auto, ma una forte curiosità di capire la causa delle avarie di un motore. Sua madre – pace all'anima sua – era convissuta con la paura che il suo adorato figlio unico finisse folgorato trafficando con tostapane difettosi, batterie scariche e giocattoli elettrici che funzionavano male. Fa' qualcosa, urlava al marito, fermalo o finirà per lasciarci la pelle. Zitta, la rimbeccava il marito, lascialo in pace. Non vorrai farne un maledetto pousti. Lascialo in pace. Invece quel poveraccio di suo padre – pace all'animaccia sua – lo aiutava a esplorare il mondo intricato dei circuiti elettrici e dei fili fino a lasciargli mettere mano all'auto di famiglia. Quando erano tutti e due chini sul motore, padre e figlio avevano un legame esclusivo che la madre di Harry non poteva scalfire. Era soltanto in cucina e negli angoli segreti della casa che Harry non si sentiva al sicuro. I suoi genitori passavano magari intere settimane limitandosi a scambiare parole di circostanza. Harry imparò presto ad assaporare questi periodi di silenzio. Quello che non riusciva a sopportare erano le occasioni in cui quel silenzio era squarciato dall'odio che i genitori nutrivano l'uno per l'altro. Era sempre la madre ad aprire le ostilità. Sei un animale, diceva d'improvviso a tavola. Sei un porco, un degenerato. Suo padre continuava a masticare in silenzio. Tu non conosci tuo padre, insisteva lei con il figlio. Non conosci le sue puttane, i suoi peccati contro Dio e la natura. E Harry aspettava pazientemente il momento in cui suo padre si alzava da tavola e la picchiava. A quel punto pregava che un pugno o una sberla potessero bastare. A volte vedeva suo padre slacciare la cintura dei pantaloni e allora gli urlava di non farlo o cercava di mettersi in mezzo. Ma Tassios Apostolous era un uomo forte, e scostava il figlio con facilità. Da grande capirai, ripeteva al figlio, le donne sono l'incarnazione del demonio. Per distrarsi Harry s'isolava nella sua stanza a riparare i giocattoli, la radio, il vecchio televisore in bianco e nero che suo padre gli aveva regalato per farci la mano. Quando si riaffacciava nelle parti nobili della casa, suo padre era seduto davanti al televisore e la madre stirava o cuciva in cucina. Magari aveva la camicetta strappata o un rivolo di sangue all'angolo della bocca, ma le botte e le urla erano finite. Il silenzio era tornato, e Harry era felice.

Harry si fece il segno della croce e pregò per le anime dei genitori. Gli avevano dato un tetto, avevano pagato gli studi e gli avevano lasciato quanto bastava per avviare un'attività. Cosa si poteva chiedere di piú?

Ora aveva poco tempo per gingillarsi. Controllò il telefonino e c'era già un mucchio di messaggi. Ormai trafficava di rado con le auto, se non quelle dei clienti affezionati. Alex e Con lavoravano ad Altona, aveva tre operai a libro paga a Hawthorn e altri tre in un nuovo garage. In piú a Moorabbin c'era uno spaccio aperto giorno e notte accanto all'officina e aveva assunto dei ragazzi che ci lavoravano a turno. La sua giornata trascorreva tra stipendi, contributi, consegne e telefonate ai fornitori. Sandi gli aveva sempre dato una mano, ma dopo la nascita di Rocco, Harry le aveva ripetuto piú volte che doveva sentirsi libera di non lavorare. E infatti per un anno era rimasta a casa, salvo poi chiedere di tornare a lavorare part-time. Harry si era detto d'accordo ed era orgoglioso di sua moglie. Adorava la sua nuova casa, amava vivere a due passi dalla spiaggia – era sempre stato il suo sogno nel cassetto – ma aveva poco tempo e rispetto per le riccone vicine di casa, donne senz'arte né parte perennemente abbronzate con le labbra e le tette siliconate che sperperavano lo stipendio dei mariti nei negozi alla moda, in tè pomeridiani e personal trainer. Harry si sporse in avanti e sfiorò il crocifisso. Grazie, Panagia, pregò in silenzio. Grazie di tutto.

 

L'intuizione di Sandi era giusta. La contabilità era come impazzita. Alex sosteneva che gli affari non erano diminuiti, semmai nell'ultimo anno erano aumentati. Ma, ciononostante, i profitti languivano. Era vero che quella guerra del cazzo in Medio Oriente aveva scombussolato i prezzi del petrolio e negli ultimi due anni avevano speso un mucchio di soldi per rimettere a nuovo l'officina, ma tutto questo era stato già defalcato dalla contabilità. L'auto di Con entrò in cortile. Harry si accese una sigaretta e controllò l'orologio a muro. Il quadrante era imbrattato da una fitta ragnatela che assomigliava al bozzolo di un baco da seta e tre mosconi morti erano intrappolati dentro.

Sentí Con salutare Alex. Il giovanotto si bloccò, sorpreso, quando notò Harry seduto alla scrivania.

«Ehi, capo».

Il coglione si era tagliato i capelli come i giocatori di calcio inglesi, che ormai sembravano yuppie. Tagliati a spazzola sui lati, salivano formando una cresta cotonata che finiva a punta in mezzo al cranio. Si era fatto fare delle mèches bionde.

«L'orologio andrebbe spolverato». Harry si guardò attorno. «In realtà tutto l'ufficio ha bisogno di una pulita».

«Okay, me ne occupo oggi stesso. Come sta Sandi? E il piccolo?».

«Sandi sta bene. E anche Rocco».

«Come mai qui?».

Il cellulare di Harry vibrò e fece bip.

«Rispondi pure».

«Non importa. Sto controllando la contabilità».

Con s'infilò una sigaretta fra le labbra e sorrise. Aveva una bella faccia tosta. «Problemi?».

«Sí, problemi. Anzi, il problema sei tu».

Il sorriso di Con scomparve e lui si mise a giocherellare con la sigaretta. La voce s'era incrinata. «Capo, che dici?».

Harry si limitò a fissare in silenzio il suo dipendente.

«Cristo, Harry… Non vorrai licenziarmi?». Gli si incrinò la voce e crollando cominciò a singhiozzare. Harry notò Alex accanto alla pompa di benzina. Una tipa era scesa da una Toyota Corolla rossa fiammante e si stava guardando attorno. Asiatica, giovane e spocchiosa, stringeva una borsetta di stoffa a fiorellini gialli e rosa, aspettava con il mento alzato in segno di sfida. Aspetta fin che vuoi, tesoro, è difficile che Alex se ne accorga. Harry tornò a occuparsi di Con soltanto quando smise di singhiozzare.

«Siediti».

Con si sedette subito sulla sedia di fronte, si asciugò gli occhi e fissò preoccupato il capo.

«Cazzo, non riesco a raccapezzarmi. Si può sapere quanto mi hai rubato, pousti? Ti spiace buttare lí una cifra?».

«Capo, ho fatto una stronzata, lo so. Harry, ti restituirò tutto fino all'ultimo centesimo».

«Vuoi dire una cifra o no?».

Con sembrò spaventato, diffidente. «Capo, non ne ho la piú pallida idea».

«Piú o meno».

«Ventimila?».

Harry fece un lungo fischio. Era una bella risposta. Un centesimo di meno e avrebbe preso a randellate quella testa di cazzo. «Facciamo il doppio. Mi devi quaranta bigliettoni».

Con fece di sí con la testa. Allargò le braccia. «Capo, dove li trovo?».

«Dove sono finiti?».

Harry sapeva benissimo dov'erano finiti. Nel mutuo stratosferico che Con pagava per quell'appartamento di merda in centro, nella sua nuova Peugeot, nella coca e nelle pasticche e nelle cene per quella stupida sciacquetta che Con stava cercando d'intortare. Per quanto ancora credeva di abbindolarla?

«Non lo so, non lo so dove sono finiti…». Con aveva ripreso a singhiozzare.

Con era un pezzo di merda smidollato, ma Harry s'impietosí. Non troppo, però. Decise lí per lí che gli a­vrebbe concesso una via d'uscita. Sandi non sarebbe stata d'accordo, ma Con non aveva tentato di mentire o raccontare palle. Doveva dargliene atto.

«Un terzo della tua paga settimanale me la prendo io. Da oggi comincio a calcolare gli interessi su quarantamila dollari. Ci stai?».

Con respirava a fatica, non riusciva a parlare. Annuí.

«E non provarci a piantarmi in asso o a farmi fesso un'altra volta perché allora vado dalla polizia e ti denuncio. Ma prima ti rompo quei denti del cazzo con una chiave inglese e t'inculo con un cacciavite come un finocchio a una festicciola di castrati. Intesi?».

Le lacrime si erano asciugate. Il ragazzo si alzò in piedi.

«Grazie, Harry». Allungò la mano, ma Harry si rifiutò di stringergliela.

«Fuori dalle palle e al lavoro! Ti stringerò la mano quando mi avrai restituito tutto fino all'ultimo centesimo. Ti stringerò la mano quando sarai tornato a essere un uomo».

Per un attimo negli occhi del giovanotto balenò un odio feroce e ostinato. Poi sparí e Con chinò la testa. «D'accordo, capo».

Il passo era lento, scoraggiato mentre andava a raggiungere il collega.

Harry controllò i messaggi. Un vecchio cliente italiano voleva che fosse lui a dare un'occhiata alla sua auto. Harry prese tempo, poi richiamò per confermare l'appuntamento con il signor Paioli a Hawthorn alle undici. C'era anche un messaggio di richiamare Warwick Kelly. E che cazzo, ragionò Harry, devo pur ammazzare il tempo fino a dopo l'ora di punta.

Fece il numero e al telefono rispose Angela, la figlia minore.

«C'è la mamma?».

«Come stai, zio Harry?».

«Io bene. E tu, tesoro? Ti stai preparando per la scuola?».

«Sono malata».

«Davvero?».

«Sí, ho mal di pancia». La ragazzina sembrò offesa che lui mettesse in dubbio la sua buona fede.

«Allora niente cioccolato. Non fa bene al tuo pancino». Harry sorrise per la lunga pausa di silenzio.

«Posso mangiarlo quando sarò guarita».

Kelly prese la linea. «Angela è malata».

«Cosí dice». Harry sentí che la ragazzina protestava. «Passo a trovarti».

 

Kelly viveva in un appartamento in Geelong Road a dieci minuti di macchina. Quando Harry suonò il campanello, lei era al telefono. Aprí la porta, lo baciò e conti­nuò a parlare in arabo con il suo interlocutore, chiunque fosse. Dal tono stizzito Harry immaginò che stesse parlando con sua madre. Le passò accanto e andò nella stanza della ragazzina. Angela era a letto con un orsacchiotto rosa sul cuscino e guardava un programma per i piú piccoli su un televisorino. Nel tentativo di passare davvero per malata, non alzò neanche una mano per salutarlo. Harry si mise seduto accanto e la baciò sulla testa.

«Mi hai portato il cioccolato?».

«Sí, ma adesso non puoi mangiarlo, sei malata».

«Infatti. Mettilo in frigo».

«Certo, tesoro». Harry tornò a baciarla. Quando stava per andarsene, Angela si tirò su e gli urlò dietro: «Che cioccolato è?».

«Cherry Ripe».

«Sííííí!» strillò, poi si ricordò che era malata, si mise giú e fece un sospiro stanco. «Grazie, zio Harry».

Kelly era ancora al telefono e gli fece segno di accomodarsi. Harry andò a sedersi al tavolino rotondo in cucina, sbirciò le fatture dell'acqua e del gas e del telefono. Tirò fuori il portafogli e lasciò sul tavolo centocinquanta dollari. Harry pagava tutte le bollette tranne il telefono. Aveva regalato a Kelly il cellulare che doveva usare quando lo chiamava e pagava solo quello. Kelly era un tesoro. Utilizzava soltanto quel telefono, non gli faceva mai correre rischi con la moglie. Harry la osservò mentre faceva il giro della casa. Kelly era piccola di statura, con le chiappe ben in carne e due grossi seni penduli. Era anche scura di carnagione e grassottella, a differenza di Sandi che, con le sue ascendenze serbe, era alta e bionda. La differenza lo ingolosiva. Kelly fece una smorfia, lui si abbassò la cerniera dei jeans ridacchiando e cominciò a menarsi il cazzo. Lei gli lanciò un'occhiata esasperata, chiuse la porta della stanza dei bambini e si avvicinò.

«Certo, mamma» fece a un tratto in inglese. «Domenica te li porto, tranquilla». Con la mano libera si mise ad accarezzargli le palle, poi le dita presero a tamburellare lentamente lungo l'asta del cazzo che s'ingrossava. «Certo che mi ricordo». Harry alzò gli occhi alla Madonna che dal muro della cucina lo guardava in cagnesco. Poi strinse le dita di Kelly intorno al cazzo per farglielo afferrare bene e si mise a muoverle avanti e indietro, masturban­dosi con la sua mano. Nel mentre le prese un capezzolo, che strizzò finché lei non gli schiaffeggiò la mano. Harry era cosciente che la ragazzina stava guardando la televisione al di là del muro della cucina. Annusò il sudore della sua amante e le baciò il braccio, il collo e i capelli mentre finiva la chiacchierata con la madre. Harry ebbe un sussulto, soffocò un gemito e le venne in mano. Kelly mise giú il telefono.

«Guarda cos'hai fatto» sibilò Kelly, mostrandogli la mano bagnata di sperma. «Sei un porco». Poi, con metodo, come se si dedicasse alle faccende domestiche, afferrò una spugnetta pulita, la inumidí, si pulí le mani e gliela passò.

«Ti va un caffè?».

«Sí».

Harry si pulí l'uccello, strofinò via una macchia di sperma dai jeans e le restituí la spugnetta. Kelly la buttò nella pattumiera.

«Stamattina ha chiamato Van. La sua attrezzatura è andata in malora. Ha bisogno di un prestito».

Cristo santo. Ce l'avevano tutti con lui quella mattina? «Quanto gli serve?».

«Due bigliettoni». Kelly sbirciò i soldi sul tavolo. «Grazie, tesoro».

«Ma va'. Lo sai quanto adoro la mia concubina libanese». Harry la afferrò e la spinse a sedersi sulle sue ginocchia. Faceva ancora a tempo a farselo venire duro e a scoparla? Controllò l'orologio. Neanche a parlarne. Kelly spense il bollitore, versò l'acqua nelle tazze. Andò a sedersi di fronte a lui e gli sorrise, mentre si grattava un seno sotto la felpa.

«Harry, lo sai che Van non racconta palle».

Aveva ragione. Van era un vecchio compagno di scuola di Kelly che duplicava DVD da casa. Si faceva mandare gli originali da Shanghai o Saigon, in genere le copie staffetta dei film di Hollywood e qualche porno, e come i commessi viaggiatori di una volta, lui e Kelly andavano di casa in casa ad allietare i pomeriggi e a vendere le copie piratate. Era un business solido e facile, e Harry e Sandi avevano un armadietto pieno di DVD acquistati da Van.

«Van è pieno di soldi».

«È sovraesposto come il nostro ministro delle Finanze. Questa settimana è a corto di contanti».

Harry fece un risolino. «Voglio il venti per cento della prossima consegna».

La reazione di Kelly fu immediata. «Il dieci per cento e i due bigliettoni indietro fra una settimana».

Harry sghignazzò. Kelly, sí che aveva i coglioni. Pensò a Con che un'ora prima frignava come una donnicciola. «Affare fatto. Oggi pomeriggio passo a portargli la grana».

«Grazie, tesoro. Quando ti fai rivedere?».

«Presto». Kelly non era sua moglie. Con lei poteva essere elastico.

Harry buttò giú il caffè, baciò la sua amante sulle labbra e lasciò il Cherry Ripe sul letto di Angela. La scuola era iniziata e, ormai sicura di averla saltata, Angela era seduta sul letto a giocare con le bambole. Harry l'abbracciò forte. Aveva lo stesso odore di Rocco, probabilmente usavano lo stesso sapone. Incamminandosi verso l'auto, Harry fischiettava beato.

 

Il cellulare squillò mentre stava lentamente circumnavigando la città. Sul display lampeggiava il suo numero di casa, quindi Harry decise di non rispondere. Doveva essere Sandi, voleva sapere se aveva chiamato l'avvocato. Accese lo stereo a tutto volume e si fece cullare da un ritmo hip-hop spaccatimpani. Alla sua sinistra un nuovo modello di Pajero Cruiser stava cercando di invadere la sua corsia. Harry non gli lasciò nemmeno un centimetro, spinse sull'acceleratore e sghignazzò alla vista della faccia furibonda del vecchio malaka nello specchietto laterale. Un rimorso di coscienza, abbastanza frequente dopo le improvvisate a casa di Kelly, gli fece decidere di comprare delle rose alla moglie sulla via di casa. Sandi aveva ragione. Doveva chiamare l'avvocato.

 

All'inizio la segretaria si rifiutò di passarglielo. «L'avvocato Petrious è con un cliente».

«Gli dica che è Harry Apostolou».

Ci fu una pausa. «È per un appuntamento?».

A te cosa te ne frega, testa di cazzo?

«Andrew sa già tutto».

L'uso del nome di battesimo funzionò alla perfezione. Il tono annoiato, sprezzante della ragazza cambiò di colpo.

«Un attimo, signore. Provo a sentire l'avvocato».

Harry osservò dall'ufficio i suoi dipendenti al lavoro su due auto: un pick-up Ford di due anni prima e un coupé BMW fine anni Novanta. Delle tre officine che aveva, quella a Hawthorn era la sua preferita. Il posto era una solida palazzina liberty di mattoni rossi risalente agli anni Trenta. Allora sí che costruivano le cose per farle durare. L'officina era in fondo a una stradina dalle parti di Glenferrie Road e questo voleva dire che il pranzo era a due passi. Glenferrie Road era sempre trafficata e Harry amava passeggiare lungo quella strada, fare tappa nel caffè all'angolo, mettersi seduto a sfogliare i giornali, fumare qualche sigaretta, chiacchierare con Irzik, il proprietario turco. L'officina ad Altona era nel cuore di un orrendo sobborgo popolare, e quella a Moorabbin, sebbene avesse un ampio cortile di cui andava orgoglioso, si trovava dalle parti di quel mostro di asfalto che era la Nepean Highway: otto corsie di autostrada, una fiumana di auto che non sembrava fermarsi mai. E quanto a trovare un caffè decente, te lo potevi scordare. No, Harry preferiva Hawthorn, anche per l'aria che c'era. Un filare di eucalipti fiancheggiava il muro sul retro dell'officina e i binari della ferrovia che correvano paralleli alla stradina. L'aria a Hawthorn era pulita. Niente al confronto con l'aria salmastra di Sandringham – figurarsi con l'aria fresca e tonificante che si respirava sul suo terrazzo a casa – ma era un milione di volte meglio della puzza di sale e spazzatura ad Altona e una botta di salute rispetto allo smog stagnante di Moorabbin. Appena Rocco fosse stato abbastanza grande, Harry pensava di recintare il cortile e di far accatastare il sito come residenziale. Avrebbe ristrutturato l'officina per farne la casa di Rocco. Era vicina al centro, vicina alla movida, in un sobborgo ricco, sicuro, bello. Nessun mutuo. La prima casa di suo figlio.

La voce profonda di Andrew Petrious interruppe le sue fantasticherie. «Come butta, gaglioffo?».

«Pendo dalle tue labbra, stronzo».

Andrew strillava come se fosse allo stadio quando mancano tre minuti al fischio finale e la tua squadra è sotto di un gol. Harry staccò il cellulare dall'orecchio.

«Cosí vuoi vedermi oggi».

«Sí».

«Cosa fai a pranzo?».

«Vedo te».

«Aggiudicato, malaka».

«Dove?».

«Tu dove sei?».

«A Hawthorn».

Andrew scelse un pub a Richmond. «Ci si vede all'una».

«Grazie, Andrea».

«Chiudi il becco, Apostolou. Offri tu, no?». Con una risata Andrew riattaccò.

Harry chiamò subito la moglie.

«Scusami, tesoro. Ero in mezzo al traffico».

«Hai chiamato l'avvocato?».

«Fatto».

Harry poté quasi assaporare la gioia di sua moglie. Sandi adorava le rose bianche, le avrebbe comprato rose bianche.

Invece le comprò un carillon. Harry era finito a Hawthorn prima del previsto e per una quindicina di minuti aveva fatto quattro passi per Burke Road fermandosi davanti alle vetrine. In un negozietto aveva adocchiato un carillon placcato in rame, tempestato di schegge d'argento e con una scritta a sbalzo, probabilmente in arabo, in similoro. Sandi adorava quel ciarpame buddista. Harry entrò nel negozio e indicò il carillon.

«Ottima scelta» sbavò la commessa e alzò il coperchio. L'interno era foderato di velluto crespo color rubino. Il tempo di aprire il coperchio, e da dentro arrivò una simpatica melodia orientale simile a un ronzio. Harry indicò la scritta.

«Mi sa dire cosa significa?».

«È sanscrito».

«Sarebbe?». Harry non si vergognava di passare per ignorante. Sapeva di essere poco istruito e non vedeva perché nasconderlo alla ragazza che aveva di fronte. Era ricco e il resto contava zero.

«È l'antica lingua indiana».

Era indecisa. Nemmeno lei sapeva di cosa stava parlando.

«Insomma, non sa cosa c'è scritto».

La commessa si mordicchiò il labbro inferiore in segno di scuse e scrollò la testa.

Harry sorrise e prese il carillon. «Probabilmente c'è scritto Andatevene affanculo, yankee».

Per la sorpresa la ragazza restò a bocca aperta, dopodiché scoppiò a ridere. Harry le strizzò l'occhio.

«Fammi un bel pacchetto, tesoro, mi raccomando. È un regalo per la mogliettina».

 

Andrew era al banco con una birra quando Harry fece il suo ingresso. Il pub era stato appena restaurato, ma i nuovi proprietari avevano conservato quasi tutte le caratteristiche tipiche del locale e tutte le aggiunte non stonavano con il palazzo e gli interni tardovittoriani. Harry diede un'occhiata di sfuggita al locale e, soddisfatto, si ripromise di portarci a cena Sandi. Infine mollò una pacca a Andrew sulla spalla. L'avvocato era sudato, ancora in grisaglia con il nodo della cravatta ben stretto. Era incredibilmente magro, un manico di scopa, e cosí alto che anche da seduto guardava Harry, che era in piedi, negli occhi. I due amici si abbracciarono e Andrew ordinò al barista un'altra birra. Harry fece segno di no, ma Andrew lo ignorò.

«Una, per favore».

«Amico, devo guidare tutto il pomeriggio».

«Mangiamo un boccone, beviamo un caffè, sta' tranquillo». Andrew lo guardò, sospettoso. «Vuoi dirmi che lo Stato balia ti ha rubato l'anima?».

«Stai scherzando?».

Harry si stravaccò sullo sgabello accanto e sbirciò il menu scarabocchiato su una lavagnetta.

«Si mangia bene?».

«Alla grande».

E cosí era. Harry aveva ordinato un piatto di calamari alla griglia, ben sapendo che quel pomeriggio non avrebbe avuto il tempo di andare in palestra. Andrew, ovviamente, non aveva di che preoccuparsi. Ordinò un hamburger con le patatine e una bottiglia di vino che scolò quasi tutta da solo. Harry era esterrefatto della sua capacità di ingozzarsi senza mai prendere un chilo. Questo perché Andrew non sapeva stare fermo, ed era sempre stato cosí fin da quando erano vicini di casa a Colling­wood. A scuola una stronza d'insegnante con una vena di sadismo ce l'aveva messa tutta nel tentativo di farlo diventare un agnellino. Se lo vedeva nervoso o irrequieto, lo faceva stare in piedi davanti alla lavagna e tutte le volte che si muoveva, lo colpiva con un righello dietro le gambe. Andrew sobbalzava, faceva una smorfia e per un minuto cercava di stare il piú possibile immobile, senza riuscirci. Alla fine della lezione le gambe erano tutte rosse e viola per i colpi che aveva ricevuto. Le crudeli puni­zioni della maestra terminarono soltanto quando durante una riunione serale a scuola la madre di Andrew aggredí l'insegnante afferrandola per i capelli e prendendola sonoramente a schiaffi. Andrew non fu espulso per la semplice ragione che era l'allievo piú sveglio e intelligente in una scuola che soltanto grazie alle sue vittorie nelle gare statali di matematica e inglese riusciva a compensare gli spaventosi insuccessi degli altri studenti. Naturalmente Andrew non serbò mai rancore all'insegnante che l'aveva picchiato. Quella era una bestia, ragio­nò Harry, ma oggi a scuola un po' della sua cattiveria non avrebbe guastato. La virtú sta nel mezzo. Allora nessuno aveva pensato di andare dalla polizia o da un avvocato per sistemare la faccenda. La madre di Andrew si era scusata e la maestra – probabilmente a malincuore – aveva accettato le scuse.

«Ricordi la Ballingham?».

«Chi?» fece Andrew con la bocca piena.

«La maestra, a scuola».

«Cristo, quella psicopatica. Ormai sarà finita in qualche prigione di massima sicurezza. A fare il secondino, però».

«In fondo, non era cosí cattiva».

Andrew mandò giú il boccone e guardò di traverso il suo amico. Posò la forchetta e sorseggiò il vino.

«Allora che succede, malaka?».

Harry avvertí il tap tap del suo calcagno sul pavimento e immobilizzò il piede.

«La gente penserà che sono uguale a lei».

Andrew sembrò sinceramente inorridito, poi indignato.

«Tu sei tutta un'altra cosa».

«Ma sí, io non c'entro niente con quella Ballingham del cazzo!» imprecò Harry in greco.

Andrew si pulí le labbra e il mento con il tovagliolo di carta, lo appallottolò e lo gettò sul tavolo. Prese una sigaretta, si appoggiò allo schienale della sedia e fece un bel rutto.

«Ho finito. Al lavoro!». Andrew si dondolò avanti e indietro sulla sedia. «Malaka, ci penso io. Hai la fedina penale pulita, hai una piccola macchia che risale a quando eri un ragazzino, sei un buon padre di famiglia, un bravo marito, un gran lavoratore. Non t'impiccheranno di sicuro perché hai preso a schiaffi un rompicoglioni che se l'era cercata».

«Devo dire cosí in tribunale?».

Andrew ridacchiò. Un po' di cenere gli era finita sulla camicia e distrattamente la spazzolò via.

«No, ti mostrerai pentito… Dovrai sembrare un marito e un padre affettuoso. Ed è quello che sei. Sarò io a parlare per te. Ecco perché il tuo portafogli piange, malaka, stai per spillare dei soldi per potermi ammirare mentre farò bella figura al posto tuo». Andrew ruttò di nuovo forte per farsi notare dai tavoli intorno. «E se siamo fortu­nati quel buono a nulla si presenterà ubriaco. Tranquillo».

«Sandi vuole sapere quando sarà finita».

«Bah». Andrew agitò le mani nell'aria e sembrò tutt'altro che preoccupato. «Mancano mesi».

«Voglio una data».

«Fra un mese probabilmente ci arriverà la notifica. Che fretta c'è?».

«Voglio metterci una pietra sopra. Non vedo l'ora che tutta questa storia del cazzo sia finita».

Andrew fece un gesto di noncuranza. «Non è niente! Amico mio, cosa vuoi che ti succeda?».

«Hai detto che posso beccarmi una seconda condanna».

«Ma figurati, Apostolou». La voce diventò incalzante e Andrew si sporse in avanti. «A sedici anni sei stato coinvolto in una rissa. Tutto qua. Nessun giudice ti condannerà per questo. Hai schiaffeggiato questo moccioso perché minacciava tuo figlio. Okay, possono cercare di piantare un casino, ma non andranno molto lontano. L'accusa di violenza su minore non reggerà in tribunale. Male che vada, ti becchi una lavata di capo perché il giudice è una femminista fanatica o un malato di protagonismo pazzo furioso che vede abusi dappertutto. Ma anche se sono fuori di testa, tu non hai fatto un bel niente, ascoltami, niente di niente. Nada. Zero». La voce di Andrew s'indurí. «Harry, lo sai cosa avrà visto il giudice prima di te? Parlo con cognizione di causa. Il giudice avrà visto dei bambini di due anni con la mascella fratturata e il cranio sfondato perché il ragazzo strafatto di qualche sedicenne strafatta le avrà preso il bambino e lo avrà sbattuto contro il muro perché quella mattina non ha potuto farsi una pera. Il giudice avrà visto qualche pervertito che ha inculato cosí spesso la figlia di cinque anni che la poveretta non riesce piú a cagare e per il resto della vita è destinata ad avere una sacca. Cosí va il mondo. Benvenuto in Australia all'inizio del ventunesimo secolo. Non c'è da meravigliarsi se gli arabi c'invidiano. Non saresti anche tu invidioso? Cazzo, non è fantastico?». Andrew si bloccò, imbarazzato da quello sfogo, tirò su con il naso e finí il bicchiere di vino. Quando riaprí bocca, gli era tornata la solita cadenza ironica.

«Harry, andrà tutto a posto. Tu, Sandi e Rocco, siete tutti persone normali. Non c'è di che preoccuparsi. Allora dimmi, cos'è che in realtà ti preoccupa?».

«In che senso?».

Andrew scrutò in silenzio Harry. Intanto, si dondolava avanti e indietro sulla sedia. Harry diede una sbirciata a un tavolo in fondo al cortile dove tre giovani donne stavano finendo di pranzare. La bionda era una figa. Aveva delle gambe lunghe abbronzate sotto la minigonna jeans sottile, attillata. Che schianto, pensò Harry, che schianto. Poi si girò verso l'amico. Andrew aveva tenuto gli occhi fissi su di lui per tutto il tempo.

«Sandi ha una fifa boia che una emittente televisiva lo venga a sapere». Per un attimo Harry pensò che stava per piangere. Era assurdo. Cazzo, ti proibisco di piangere, minacciò se stesso. Prese le sigarette e se ne accese una di corsa, inalando a pieni polmoni. Si sentí meglio. Era bello confessare le proprie preoccupazioni a un amico. La paura di Sandi era diventata la sua, un seme che era germogliato e lentamente, ostinatamente, era attecchito e fiorito nel suo cervello. Tutto quello che avevano creato insieme poteva essere imbrattato e distrutto da quell'animale che stava manipolando e travisando quello che era successo al figlio per dimostrare che Harry era una specie di mostro.

La cosa era nell'aria quando gli sbirri erano passati da casa a interrogare lui e Sandi all'indomani del barbecue. La poliziotta in particolare. Una bionda niente male. Lo disprezzava, si vedeva. Con gli sbirri lo capisci sempre. Lui aveva cercato di essere cortese, aveva messo in campo tutto il suo charme, ma niente. La tipa si era apparta­ta con Sandi e l'aveva lasciato solo con il collega. Giovane, alle prime armi, anche lui era stato scorbutico.

«Cosí ha picchiato un bambino?» gli aveva chiesto con un ghigno orribile, come se Harry fosse un pervertito. «Lo fa spesso?».

Harry avrebbe voluto strozzarlo. Invece aveva liquidato il tutto con una risata. Lo sbirro era rimasto serio, e la vergogna di Harry era aumentata in proporzione. Poi Sandi gli aveva raccontato che la poliziotta aveva cercato di farle confessare che Harry la picchiava, picchiava Rocco, che era manesco. Sandi aveva educatamente negato che suo marito fosse un tipo violento e rissoso: se aveva schiaffeggiato quel bambino era soltanto perché aveva avuto paura che Hugo stesse per fare male al loro figlio. Un santo, eh?, l'aveva sfottuta la poliziotta. Sandi aveva la faccia disgustata quando aveva raccontato a Harry l'interrogatorio. Poi un risolino d'intesa le aveva corrugato le labbra. Ho rischiato, raccontò a Harry, ho chiesto a quella stronza se aveva dei figli. Naturalmente non ne aveva e questo le ha fatto chiudere il becco. No, pensò Harry, quello che le aveva fatto chiudere il becco era stata la richiesta di vedere Rocco. Il loro figlio li aveva fatti tacere perché era evidente a tutti, perfino a uno sbirro idiota del cazzo, che Rocco era un bambino meraviglioso, sano, fortunatamente normale, buono. Grazie a Dio, era normale. Grazie a te, Panagia, è un bravo bambino. Ecco cosa li aveva messi a tacere.

«Il caso non farà notizia».

«Sí?».

«Perché dovrebbe?».

«Quello sfigato, il padre di Hugo, ha detto a Sandi al telefono che vuole portare il caso a Current Affair».

Andrew si mise a sghignazzare.

«Non c'è niente da ridere».

«Rido perché ti preoccupi di una trasmissione cosí stupida e ridicola. Chi se ne frega di quello che uno di quei programmi del cazzo dice o fa! Non è un notiziario, si limita a far scorrere delle immagini su uno schermo per dei ritardati mentali».

«Tu magari te ne sbatti, ma i miei vicini lo seguono, lo seguono i genitori degli amici di Rocco, lo seguono i miei dipendenti, lo segue la mia thea. Noi siamo i ritardati mentali che guardano quel programma».

Il tono di Andrew si ammorbidí, diventò quasi contrito. «Non finirai a Current Affair. Non sei un caso. Non sei abbastanza psicopatico. Se vuoi finire in un programma come quello, la prossima volta devi spedire il moccioso all'ospedale».

«Lo sai cosa è successo dopo che gli sbirri sono venuti a casa quel giorno, no? I vicini da allora ci ignorano. Per loro io, Sandi e Rocco non esistiamo piú. E questo solo perché hanno visto un'auto della polizia davanti a casa».

«I tuoi vicini sono il tipo di persone che vorrebbero avere la polizia a disposizione giorno e notte sette giorni su sette, ma per il resto non vogliono nemmeno sapere che esiste». Il tono di Andrew era tornato tagliente. «Sono sicuro che i tuoi vicini non sono rimasti scioccati. Sono sicuro che non aspettavano altro da quando gli immigrati greci hanno cominciato a invadere il quartiere».

Stronzo di un avvocato, adesso faceva anche lo spiritoso. Lo sai che potrei riempirti di botte?

«Sto cercando di farti capire perché Sandi è cosí spaventata, perché siamo cosí nervosi. Ci ho messo anni a mettere in piedi questa famiglia. E questo rompicoglioni, questa nullità, questo pezzo di merda di un australiano sta cercando di distruggere tutto. Perché devo finire in tribunale? Non puoi bloccare tutto? Non è giusto».

«No, non è giusto». Andrew raccattò le sigarette e se le infilò in tasca. «Devo andare. Ti chiamo appena arriva la citazione del tribunale. Di' a Sandi di sbattersene di Current Affair. Quello sballato probabilmente si è attaccato al telefono quando era ubriaco fradicio e non sarà andato oltre la centralinista. Quanto ai tuoi vicini, dovrai imparare a conviverci. Se volevi dei vicini simpatici, non avresti dovuto comprare una merdosa proprietà proprio di fronte a Brighton Beach».

 

Quella sera, quando arrivò a casa, Harry rimpianse amaramente di avere ceduto all'alcol. Per tutto il pomeriggio era stato mezzo intontito e verso le tre gli era venu­to un mal di testa leggero ma persistente. Aveva perso le staffe con il ragazzo indiano che gestiva lo spaccio a Moorabbin. Lo scansafatiche cercava in continuazione di cambiare orario e appena Harry aveva messo piede dentro, Sanjiv era uscito da dietro la cassa per chiedere il sabato libero.

«E se invece ti licenziassi?».

«Per favore, signor Apostolou, questo sabato sera non posso lavorare».

In fondo al negozio c'era un gruppo di studenti, probabilmente dei taccheggiatori. Un giovanotto si fece largo fra le porte. Harry fece un cenno nella sua direzione. Ma Sanjiv ignorò il cliente e restò invece ad aspettare una risposta dal suo capo.

Magari potessi licenziarti in tronco, indiano di merda.

«No» tagliò corto Harry. «Dovevi avvisarmi prima. Adesso non riesco a trovare nessuno che ti sostituisca. Dovrai fare il tuo turno, rassegnati».

L'espressione del ragazzo non cambiò. Annuí lentamente, si girò sui tacchi e tornò alla cassa. Harry si toccò la fronte, gli pesavano le palpebre e gli pulsavano le tempie. Passò accanto agli studenti e per un attimo fu tentato di afferrare uno zainetto e rovesciare il contenuto a terra. Era sicuro che stavano rubando. Erano in quattro, due australiani e due asiatici, ridacchiavano, e lo spilungone bianco parlava ad alta voce di porcate e sesso, cercando di fare colpo sugli altri. Harry si morse le labbra. Avrebbe voluto dire a quei figli di puttana: Ehi voi, se non dovete comprare niente, fuori dalle palle! Ma non poteva rischiare. Non poteva correre il rischio che una di quelle teste di cazzo gli rispondesse a tono. Per come stava in quel momento, Harry non poteva rischiare di peggiorare l'umore. Si sentiva in trappola ed era una sensazione orribile.

Il ronzio dell'elettricità, l'aria, le voci degli studenti lo avvolgevano come un'impalpabile cortina. La mano gli tremava mentre armeggiava con la chiave per aprire il magazzino. Si fiondò dentro, sbatté la porta alle spalle e appoggiò la testa al metallo gelido dello scaffale. Harry guardò l'orologio a muro della dispensa e spudoratamente si lasciò andare al tipico sogno infantile di riportare indietro l'orologio del tempo a prima del barbecue da suo cugino, a prima che picchiasse quel piccolo rompicoglioni. E pensare che era stato cosí felice. Alzò la testa, scrollò via il mondo. Non ti meriti questa porcata, si disse. Non hai fatto niente di male.

Preparò gli stipendi, fece un po' di conti e poi chiuse il negozio. Di passaggio avvertí Sanjiv che avrebbe trovato qualcuno per sostituirlo sabato sera.

 

«Ti va un massaggio?».

Era stata la prima cosa che gli aveva detto quando era rientrato a casa, e le sue premure, la sua sensibilità, le sue attenzioni, il suo affetto sbaragliarono l'emicrania. Harry l'abbracciò e Sandi si lasciò avvolgere. La stretta si fece piú imperiosa, e lei si consegnò senza ansie o paure.

Dopo qualche secondo lo scostò appena e lo prese sottobraccio. «Cos'hai, amore?».

«Niente. Sono stanco e felice di essere a casa, ecco».

«Cos'ha detto Andrew?».

«È tutto okay. Non c'è di che preoccuparsi». Harry sentí tornare il ronzio nella testa.

Sandi stava per aprire bocca, ma si bloccò. Lui notò che era tesa e avrebbe voluto poter dire a sua moglie qualcosa capace di eliminare tutte le sue preoccupazioni e spazzare via le sue paure una alla volta. In quel preciso istante prese la decisione di mentire.

«Te l'ho detto, non c'è di che preoccuparsi. Un giornalista di una rete televisiva l'ha contattato, ma Andrew gli ha chiarito come stanno le cose. Il giornalista gli ha detto che confermava i suoi sospetti perché il rompicoglioni era ubriaco fradicio quando ha chiamato. Ha insultato la centralinista e tutti quelli con cui ha parlato. Nessuno prenderà sul serio quella testa di cazzo». Mentre la sua versione prendeva corpo, Harry scoprí che la bugia gli piaceva e che cominciava a crederci anche lui.

La moglie non reagí. Andò al lavello e si mise ad asciugare i piatti.

Harry le si mise a fianco e le tolse lo strofinaccio. «Ci penso io».

«Gary andrà a bussare da qualcun altro».

Cristo, sono stanco.

«La risposta sarà la stessa dovunque andrà a bussare. Sandi, non capisci? Quella testa di cazzo è uno sfigato».

«Come fai a essere cosí sicuro? Qualcuno potrebbe dargli retta… Fiutare il caso».

Harry buttò il canovaccio sul tavolo. «Quale caso, Sandi, quale? Ho schiaffeggiato un bambino. Tutto qui. Nessuno se ne interesserà».

Sandi era immobile. Sembrava uno spot pubblicitario: sua moglie in piedi al centro della cucina moderna, costosa, perfetta che lui aveva costruito per lei.

Harry le accarezzò i capelli, la baciò sulle labbra. «Quel figlio di puttana non deve farti del male, non lo permetterò».

Lei afferrò lo strofinaccio. Quando finalmente aprí bocca, uscí un filo di voce. «Non sono preoccupata per me, ma per te. È il male che sta facendo a te che mi addo­lora». Si mise a piangere. Harry ci restò di stucco e a un tratto si rese conto che Rocco doveva essere da qualche parte in casa, nella sua stanza. I singhiozzi erano forti, e lui non voleva che il ragazzino li sentisse. Abbracciò Sandi e la tenne stretta.

«Sssh» le bisbigliò. «Finirà tutto in una bolla di sapone».

Il corpo si rilassò un po' alla volta. Sandi smise di singhiozzare, ma continuò a restare aggrappata al marito.

«Potrei ammazzarlo» gli borbottò con il viso contro il petto. «Potrei ammazzare lui e quella stronza».

E quell'idiota del bambino. Potrei ammazzare anche lui.

«Metto via i piatti. Vai a salutare Rocco».

Il figlio era in camera sua a giocare alla PlayStation. Harry si accucciò accanto a lui a terra.

«Vuoi giocare?».

«Certo». Si sporse in avanti e abbracciò Rocco. «A scuola com'è andata?».

«Il solito».

«Cosa hai fatto?».

«Abbiamo guardato un video».

«Quale?».

«Un video sugli eschimesi, ma li chiamavano in un altro modo».

«Bello?».

«Sí, ma un po' palloso». Rocco stava avviando un altro gioco e teneva gli occhi fissi sullo schermo del televi­sore. «Doveva fare un freddo cane. C'era questa famiglia costretta a vivere in una casa di ghiaccio sotto terra per un sacco di mesi, un'eternità, e tutto quello che avevano da mangiare era grasso di foca. Che schifo!».

«La PlayStation ce l'avevano?».

Rocco guardò il padre e poi sorrise. «No, ma hanno Internet. Non è strano?».

Mentre giocava con il figlio, appoggiati tutt'e due con la schiena al letto a una piazza di Rocco, e ridacchiava per l'agonismo forsennato del figlio, Harry sentí che l'emicrania stava passando. Non aveva nessuna voglia di bere, di prendersi un analgesico o di fumare. All'ora di cena aveva una fame da lupi. Sandi aveva cucinato delle bistecche con un purè di patate, e la semplicità e l'abbondanza della cena furono una vera soddisfazione. Mentre lei lavava i piatti, Harry nascose il carillon nell'armadietto del bagno accanto allo spazzolino di Sandi. Poi fece la doccia, s'infilò a letto nudo e restò in attesa di un urlo di gioia dal bagno accanto. Sandi si fiondò nel letto e si mise a cavalcioni su di lui.

«Ti amo». Sandi aveva in mano il carillon. Apriva e chiudeva il coperchio, la musica orientale metallica continuava ad andare e venire. Harry le slacciò il reggiseno e le disegnò dei cerchi intorno a un capezzolo. Sandi, continuando a gingillarsi con il regalo, allungò la mano destra dietro e gli prese in mano le palle. Piazzò il carillon sul davanzale della finestra e scivolò lungo il suo corpo. Gli baciò il petto, gli leccò il ventre, lo stuzzicò. Sfiorò l'uccello con le labbra e lo prese in bocca. Harry chiuse gli occhi e si sforzò di non pensare ad altro, ma a un tratto ritornò a quando, all'inizio della giornata, Kelly gliel'aveva fatto tirare in cucina. Aprí gli occhi, alzò la testa per guardare negli occhi la moglie e cercò di tirarla indietro.

«No» bisbigliò Sandi. «Voglio farti venire in bocca. Voglio che mi scopi la bocca».

«Sicura?».

Le parole sconce lo eccitarono.

«Scopami in bocca» insistette e tornò a prendere l'uccello in bocca. Harry chiuse gli occhi e stavolta si abbandonò completamente. «Prendilo, tesoro, mi piace». In silenzio, non volendo offenderla, Harry disse a Kelly, muovendo solo le labbra, Succhiamelo, troia. Dai, puttana, fammi un pompino. Harry si sollevò contro la testiera del letto, montò sulle ginocchia. Intanto, continuava a scopare la moglie in bocca. Vedeva che Sandi aveva dei conati di vomito, ma quando lui smise di spingere, lei gli afferrò il sedere e spinse in bocca il cazzo fino in fondo. Harry gonfiò le guance, soffocò un urlo e venne con forza. Sandi si rifiutò di mollare la presa. Harry tremò e finí contro la testiera del letto. Harry non la guardò mentre andava in bagno. Poi sentí l'acqua scorrere e capí che si stava lavando di nuovo i denti. Quando tornò a letto, Harry sorrise imbarazzato. Sandi riprese il carillon e si sdraiò, mangiandolo con gli occhi. Lui si girò su un fianco e la prese fra le braccia.

«Non devi esserti divertita molto, vero?».

Sandi stava studiando il carillon.

«Mi piace fare l'amore con te. Non devi ringraziarmi. Sei mio marito».

«Il mio cazzo ti ringrazia».

Lei continuava ad aprire e chiudere il carillon. Harry l'abbracciò piú forte.

«Raccontami la tua giornata».

Mentre le lisciava i capelli, Harry raccontò che aveva messo in riga Con, che Sanjiv era un rompipalle e del prestito che aveva fatto a Van. Le disse dell'auto che aveva cominciato a riparare a Hawthorn, una Valiant fine anni Sessanta che il proprietario voleva riportare alle condizioni originarie. Sandi restò ad ascoltarlo fino alla fine.

«Sabato vorrei far venire qui le ragazze per passare in rassegna qualche DVD. Ti va di dirlo a Van?».

Harry farfugliò un sí. Si stava appisolando.

«E chiama Hector. È da un mucchio di tempo che non ci vediamo con lui e Aish».

Lui si bloccò, in attesa. Era dal barbecue che non vedevano piú suo cugino. Ma Sandi sembrava rilassata, tranquilla. Harry la strinse a sé.

«Li chiamerò».

 

La bugia sembrava funzionare. Mercoledí Sandi an­dò a Moorabbin insieme a lui ed era allegra, rideva e scherzava con i clienti e il personale. Harry notò le occhiate di apprezzamento che i ragazzi indiani le lanciavano e se ne compiacque. Vedendola calma, felice, fu soddisfatto della bugia e cominciò ad apprezzarla anche lui. Tutto sarebbe finito bene, erano in una botte di ferro. Felice della normalità ritrovata, chiamò Kelly e cancellò una cena che le aveva promesso. Kelly, al solito, non fece una piega.

«Okay. Quando ci si vede?».

«Non saprei».

«Chiamami quando ti senti solo».

«Ti chiamo quando mi tira». Harry era eccitato dai suoi risolini al telefono.

«Ho saputo che sabato Van passa da te».

Era scocciato che Kelly lo sapesse. Ma non era una sorpresa. Van era l'unica persona informata della loro storia. Sapeva che quella testa di cazzo di vietnamita non avrebbe mai osato parlarne con Sandi, ma non gli andava giú che ci fosse un testimone del suo adulterio. Avrebbe preferito che Kelly fosse una puttana e basta, che le transazioni fossero puramente finanziarie, senza complicazioni. Stava imparando la lezione. Una volta finita la storia, non avrebbe ripetuto l'errore. Avrebbe trovato una bella prostituta, una volta ogni due settimane, pagando il dovuto. Cristo, probabilmente avrebbe anche risparmiato.

Kelly valutò il suo silenzio correttamente. «Di Van ti puoi fidare».

Ti puoi fidare solo della tua famiglia. Punto e basta. E anche cosí corri comunque dei rischi.

«Sí, lo so».

Un attimo dopo chiamò il cugino.

«Yia sou, Ecttora, sono tuo cugino».

«Come va, amico? E Sandi? E il ragazzino?».

Bene, benissimo, possibile che dobbiamo sempre sorbirci queste cazzate?

«Bene. Stanno tutti bene. E Aish, Adam e Melissa?».

«Non mi lamento».

Harry si accorse che era a disagio quando parlava con suo cugino. Sapeva che era schierato dalla sua parte, ma non riusciva a dimenticare la serata del barbecue, la faccia tirata e scontrosa di quella strega di sua moglie. Lei sí che doveva vergognarsi. Non era una scimunita australiana del cazzo: era un'indiana, una straniera. Lei avrebbe dovuto sapere cos'è una famiglia.

«Sabato pomeriggio passa da noi il nostro amico. Ha un mucchio di DVD nuovi. Perché non fate un salto con i bambini?».

Harry avvertí un attimo di esitazione.

«Certo, Adam sarà contento di vedere Rocco. Aish, invece, lavora in ambulatorio questo sabato. Porto io i ragazzi».

«Tranquillo, un giorno di questi ci vediamo anche con lei».

Harry aspettò che il cugino chiudesse la telefonata, poi sbatté il cellulare sulla scrivania. Accese una sigaretta e uscí in cortile. In quel momento i ragazzi erano indaffarati e non ci fecero caso. Harry si spostò in fondo al garage e guardò su e giú il ronzio incessante e il traffico dell'autostrada. Sapeva benissimo cosa lo spaventava: dover dire a Sandi che Aisha non sarebbe andata a trovarli.

Ma la bugia aveva colpito nel segno. Quando gliene parlò quella sera, Sandi annuí.

«Quella ragazza lavora troppo».

Harry baciò la moglie sulla spalla nuda.

 

Arrivò sabato mattina. Il cielo era sereno e la temperatura mite. Sandi si era alzata presto per andare al super e passò la mattina a preparare insalate. Dopo una nuotata Harry si fece una fumata al bong, poi si stravaccò sul divano a guardare dei videoclip. Rocco si uní a lui e in silenzio guardarono le scimmiette che sculettavano sullo schermo. Tutte le ragazze nere sembravano zoccole e Harry si domandò se era un bene per il figlio vedere queste piccolette che si strofinavano le chiappe e le tette. Ma non fece in tempo ad aprire bocca che Rocco si alzò dal divano.

«Che barba!».

Harry gli allungò il telecomando. «Se non ti va, cambia».

«No» rispose il figlio. «Vado a farmi una nuotata in piscina».

«Okay. Ti seguo». Ma la droga l'aveva intontito, cosí mollò il telecomando e continuò a guardare la televisione.

«E di quella che ne dici?» urlò al figlio. Una ragazza nera in top giallo e minigonna jeans faceva delle giravolte intorno a un rapper ciccione che sparava cazzate sui revolver, le mignotte e il crack. Harry amava l'hip-hop, ma quella canzone in particolare gli sembrava brutta e ridicola. Non c'era una storia, non aveva un ritmo. Dio, era orrenda. In piedi davanti al televisore Rocco fissava la ragazza che ora stava mimando un orgasmo e si sfregava le cosce.

Rocco rispose al padre. «Okay».

«Ti piace?».

«No, ma è okay».

«Cosa ne pensi?».

Rocco restò interdetto. «In che senso?».

«Ti sembra sexy?».

«Eddai, papà». Il disgusto di Rocco era evidente.

Harry ridacchiò e azzerò il volume. «Un giorno capirai, caro Rocco. Non si sfugge alle grinfie delle donne». Indicò lo schermo. «È una gran figa, ma è poco seria, e le donne cosí non sono buone a niente». Salvo a fare una cosa, ma ne parleremo piú avanti.

Rocco fissò in silenzio la modella che si stava allontanando dallo schermo, volteggiando. Annoiato, girò sui tacchi. «Sono tutte puttane» concluse mentre andava in stanza a cambiarsi. «Le ragazze nere sono tutte puttane, lo sanno tutti».

 

Van arrivò a mezzogiorno in punto. Parcheggiò nel vialetto e urlò a Harry di aprire il garage. Harry, che aveva appena acceso il barbecue, si sporse dal terrazzino e sorrise.

«Perché non suoni il campanello, brutto muso giallo? La gente civile fa cosí».

Van ricambiò il sorriso. «Vai a fare in culo, brutto scimmione di un greco. Ma prima apri quel garage del cazzo».

Aveva portato cinque grandi album pieni di DVD e Harry lo aiutò a portarli in soggiorno. Sandi si asciugò le mani e baciò Van. Lui le sorrise.

«Sei uno schianto, Sandi. Perché non molli questo greco merdoso e vieni a vivere con me?».

«E Jia cosa dirà?».

«Sandi, bellezza, vieni a vivere con me, e io oggi stesso metto alla porta Jia, promesso».

Rocco uscí dal bagno e strinse la mano a Van. Van sorrise e aprí un album, tirò fuori tre DVD da un fodero, e li allungò al ragazzo.

«Adam Sandler ti piace, no? Ho qui il suo ultimo film».

«Figo. Posso vedermelo subito?». Il ragazzo guardò la madre, speranzoso.

«Certo, ma lo spegni quando arrivano gli altri. Promesso?».

«Promesso». Con un urrà Rocco si tuffò sul lettore DVD, ma prima si girò.

«Grazie, zio Van».

Nel giro di un'ora erano arrivati tutti. Alex si era subito fiondato sul cibo, salvo passare il resto del pomeriggio a giocare con Rocco alla PlayStation. La mise non gli era costata fatica: si era messo i pantaloni neri della tuta e una T-shirt dell'Olympiakos con un buco sotto l'ascella sinistra. Le donne non lo guardavano nemmeno. Erano quasi tutte sposate, certo, ma Tina era ancora single e Annalise divorziata. In ogni caso Alex sembrava ignorarle. Hector, invece, fece sicuramente colpo. Harry fu felice del successo che suo cugino riscuoteva in giro quel pomeriggio. La loro era una bella famiglia, poco ma sicuro. Eccoli lí ormai verso l'età di mezzo, eppure facevano ancora girare la testa alle ragazzine. Hector era l'esatto contrario di Alex: indossava una camicia attillata che gli aderiva ai pettorali e al torace. Gli short di cotone erano il classico capo di abbigliamento costoso. Dopo avere baciato e salutato il cugino sulla porta, Harry gli aveva bisbigliato all'orecchio: Sei cosí bello che ti scoperei quasi. Adesso, lí fuori in veranda, impegnato a girare le salsicce sul barbecue, Harry sbirciò oltre la vetrata del soggiorno e vide che suo cugino chiacchierava con Annalise sul divano. La tipa guardava Hector estasiata. Harry sorrise. Annalise gli piaceva. Sí, sarà stata anche logor­roica, ma era generosa, simpatica e di sicuro non si era meritata quello sfigato di suo marito. Chissà, magari si sarebbero messi assieme, cosí Hector avrebbe divorziato da quella stronzetta della moglie. A questo punto gli arrivarono all'orecchio gli strilli di gioia, gli spruzzi e le risate di Rocco, Adam e Melissa che si tuffavano e giocavano in piscina, e si vergognò di aver pensato una cosa del genere. Aisha era la loro madre, fine del discorso.

Harry lanciò un urlo. «A tavola!».

«Altri dieci minuti, papà».

«Fuori. Subito». Il tono si addolcí. «Se uscite subito, magari questo pomeriggio vi portiamo in spiaggia, cosa ne dite?».

«Fantastico, cazzo!».

Harry minacciò il figlio con lo spiedino. «Bada a come parli!». Poi girò le salsicce un'ultima volta. «Venite, è pronto».

 

Quel pomeriggio Van piazzò un mucchio di DVD. Aveva le edizioni in cofanetto dei serial televisivi di successo e tutti gli ultimi film, fra cui quello di Tom Cruise che in Australia non era ancora uscito. Harry si mise comodo sul divano e restò a osservare le donne che frugavano fra gli album. Sandi acquistò alcune commedie romantiche, la nuova serie di Lost e tutto il cofanetto di Sex and the City. In piú qualche film d'azione per il marito. Alex era interessato soltanto ai film di arti marziali targati Hong Kong, e si avventurò in un'animata discussione con Van sul genere.

«Questo è il massimo, amico». Van era gasato e tirò fuori un DVD con in copertina l'immagine choc di una ragazza cinese in bikini inginocchiata ai piedi di un ti­po con un giaccone di pelle e gli occhiali da sole che le puntava un fucile alla testa. «Questa roba è la fine del mondo».

«Lo prendo».

Sandi gli aveva lanciato un'occhiata interrogativa. «Lo vuoi anche tu, tesoro?».

Harry scrollò la testa. Un po' di quella robaccia orientale andava bene, ma era sempre la stessa menata. Ne aveva fin sopra i capelli. Suo cugino stava spulciando gli album per pura cortesia, ma non aveva ancora scelto niente.

«Forza, Ecttora, non hai ancora trovato niente?».

Hector scrollò la testa con un sorriso. «Scusami, ma io e Aish preferiamo vedere i film al cinema».

«Maddai, amico». Van sembrava scandalizzato. «Il cinema è morto, fratello. Il vostro impianto di home entertainment com'è?».

Hector rise. «Si chiama televisore».

Nadia, una delle amiche di Sandi di piú vecchia data, smise di frugare fra i DVD e alzò gli occhi. «Io e Ben è da anni che non andiamo al cinema».

Van fece finta di niente. «Che tipo di televisore?».

Hector nicchiò. «Un Sony. Sí, mi sa che è un Sony».

«Vecchio quanto?».

«Otto anni? L'abbiamo da quando è nata Melissa».

«Mi stai prendendo per il culo? Ascoltami, devi regalare a tua moglie un nuovo televisore, una figata a schermo piatto con il dolby surround».

Annalise sorrise a Hector. «Hector, io sono dalla tua parte. Anch'io preferisco andare al cinema».

Van sbuffò e accese una sigaretta. «Okay, cosí pago trenta dollari di merda per me e Jia per vedere un film, altri trenta per il popcorn e le bevande, quindi una ragazzina fumata mi accompagna fino a una poltrona su cui ha posato il culo sudaticcio per ore qualche figlio di mignotta, e tutto per vedere un film che avrei potuto scari­care gratis da solo». Van scrollò la testa, scettico. «Detesto quei cinema di merda». Guardò Hector con un'aria di sfida. «Coraggio, amico, deve esserci qualcosa che ti piace».

«Ce l'hai The West Wing?».

Harry si alzò e andò al mobile bar a riempirsi un bicchiere, di cattivo umore. Voleva bene a suo cugino ma Hector e Aisha erano davvero due lagne. West Wing? Tutto quello che facevano in quel telefilm del cazzo era parlarsi addosso. Bla, bla, bla, bla. E le donne erano tutte dei cessi. Si versò un bel bicchiere di whisky e restò lí dov'era. Forse doveva portare Sandi al cinema. A lei piaceva, ed era passato un sacco di tempo. Ma Van non aveva tutti i torti. A che pro? Guardò orgoglioso l'enorme schermo al plasma sulla parete.

«Quale serie vuoi?».

Harry sorrise. Era chiaro che anche Van detestava il programma.

«Io e Aisha abbiamo visto la serie uno e due. Il resto ce lo siamo perso. Lo sai meglio di me come funzionano oggi i canali televisivi. Una settimana lo danno di martedí, quella dopo giovedí a mezzanotte. Come fai a stargli dietro?».

Allora perché non ti abboni al satellite, tirchio maledetto? Il whisky andava giú che era una bellezza. Harry tornò sui suoi passi, si accucciò a terra accanto alla moglie e iniziò a riempire il bong.

«Fratello, purtroppo West Wing non ce l'ho qui con me». Van si guardò attorno, strizzò l'occhio a Nadia e sogghignò. «Non pensavo che a qualcuno potesse interessare. Ma la prossima volta ti porto tutta la serie, okay?».

«Aggiudicato» rispose Hector. «E Six Feet Under ce l'hai?».

Bisognava riconoscere al cugino che quella testa di cazzo non si lasciava intimidire dall'ovvio disprezzo di Van per i suoi gusti da sfigato.

«Stranieri, stranieri» si mise a cantilenare Van all'indirizzo di Harry in una tiritera da ometto orientale. «Mi sa che tuo cugino è un pousti-malaka».

Harry fece gorgogliare il bong. Hector si limitò a sorridere. Chiuse l'album che aveva in mano, lo restituí a Van e si alzò dal divano.

«Sandi, porto i ragazzi in spiaggia».

Van prese il bong da Harry. «Ehi, amico, senza offesa».

«Senza offesa. Allora mi porti The West Wing?».

Van inspirò, l'acqua del cilum scoppiettò e gorgogliò, e Van espirò. «Certo, amico. Affare fatto».

«Anche per me? Ho sempre voluto vederlo».

Harry annuí fra sé. Annalise voleva farsi suo cugino, chiaro.

«Lo vuoi anche tu? Okay, tesoro». Van prese il bong e lo passò ad Annalise. Il suo tono di voce adesso era innocente, seduttivo. «Potresti chiamare Hector, vi trovate e decidete insieme qual è la serie migliore».

Harry scoppiò a ridere, ma soffocò la risata facendo finta di tossire.

«Harry, vieni con me?».

Guardò il cugino. Stava bene lí seduto accanto alla moglie sbronzo e mezzo fatto, l'unica voglia che aveva era di farsi una bella dormita. Non aveva energie per andare in spiaggia. Ma lo sguardo di Hector era intenso, insistente.

«Certo che vengo». Harry si tirò su, barcollante. «Andiamo».

 

«Quel tipo è uno stronzo».

Alex aveva deciso di accompagnarli.

«Van è uno a posto».

«Quel coglione con gli occhi a mandorla è una gran testa di cazzo. E tu lasci che si rivolga cosí a tuo cugino?».

Harry restò di stucco. Era sempre sembrato che Alex e Van filassero d'amore e d'accordo. Harry si aspettava da Alex una spiegazione, ma il suo amico, per non smentirsi, si tappò la bocca. All'altezza del semaforo, i due attraversarono la strada e s'incamminarono verso la spiaggia lungo il vialetto alberato. I ragazzini, in costume da bagno, correvano in avanscoperta con gli asciugamani intorno al collo. In spiaggia aspettarono impazienti che Hector e Harry li spalmassero di crema solare, poi con un grido si lanciarono verso il mare. Harry era orgoglioso del figlio. Rocco si precipitò a rotta di collo verso la battigia e senza esitazione si tuffò nelle prime ondine. Adam, invece, con la ciccia ballonzolante, ci mise un secolo a trovare il coraggio di sfidare il mare. Perfino la piccola Melissa si buttò prima di lui. Harry si accese una sigaretta e si distese sull'asciugamano. Alex si era tolto le scarpe e stando in piedi con le gambe immerse nell'acqua fino alle ginocchia teneva d'occhio i bambini o piú probabilmente le due biondine in topless che nuotavano nei paraggi.

«Sandi vuole che io faccia incontrare voi due con Rosie e Gary per uno scambio di opinioni».

Harry grugní. Alla fine la bugia non aveva funzionato. Si alzò e scrutò il mare. Rocco, impavido, si era spinto al largo piú di tutti gli altri bagnanti. Orgoglio e ansia battagliarono dentro di lui. Stava quasi per alzarsi e richiamare all'ordine il figlio, ma poi vide che, dopo un altro tuffo sott'acqua, Rocco stava tornando a nuoto verso i cugini.

«Quando te l'ha chiesto?».

«Appena prima di andare a tavola».

Chi l'aveva autorizzata?

«Harry, è molto preoccupata. Ma Gary è una testa di cazzo. Non si riesce a farlo ragionare. Io non credo che un incontro servirà a qualcosa».

Servirebbe se potessi approfittarne per fare secco quel coglione.

«Che altro ti ha detto Sandi?».

Hector stava guardando languidamente le sigarette ai piedi dell'asciugamano. Harry si divertí a stuzzicarlo, accendendosene un'altra pur avendone appena spenta una. La boccata di fumo e nicotina gli diede una calmata.

«Dai spara» ripeté in greco. «Ha aggiunto qualcosa, Sandi?».

«È preoccupata per te. Secondo lei, non te ne occupi abbastanza. E poi dice che sei sempre incazzato».

Hector stava tenendo d'occhio i figli al largo, le loro grida arrivavano fino alla spiaggia.

«Me ne sto occupando, tranquillo. È lei che si sta facendo sfuggire di mano la situazione». Harry spense la sigaretta nella sabbia dopo pochi tiri. «Sandi non riesce a pensare ad altro».

«Capisco. Accusarti di maltrattamenti è una stronzata. Gary non può vivere senza fare casino. È fatto cosí».

«E lei è innocente?».

Hector esitò. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra».

Che stronzo.

«Nemmeno io?».

«Non avresti dovuto schiaffeggiarlo».

«Vaffanculo, Hector. Quello stronzetto se l'è cercata. Io badavo a mio figlio. L'ho protetto. È quello che fanno i genitori».

Harry strinse i pugni. Sentiva come un macigno sulle spalle il calore del sole, lo spazio immenso del cielo. Il cuore gli batteva all'impazzata. Hector gli posò una mano sulla spalla, ma lui se la scrollò di dosso.

«Harry, ascoltami. Tu sei una brava persona. Non ti meriti una cosa cosí…».

«Ma?».

«Ma non avresti dovuto schiaffeggiarlo».

Avrebbe voluto urlare. Avrebbe voluto riprendersi quel momento, aggiustare quel momento, cambiare quel momento, non avere mai toccato quel bambino. Quel rompicoglioni di un bambino, quell'animale del cazzo. Panagia, bisbigliò al suo Dio, lo voglio morto. Era tornato a sdraiarsi sulla sabbia, con il sole cocente sulla nuca. Rocco stava ridendo. Rocco, al solito, lo riportò alla realtà.

«Okay. D'accordo. Andrò da loro a scusarmi. Ci pensi tu a organizzare l'incontro?».

Hector stava scrollando la testa. «Io lo conosco quello. Non servirà a niente».

«Voglio provarci, lo farò per il bene di Sandi. Ma lei non deve venire con noi… Non voglio che abbia a che fare con quel vroma, quel pezzo di merda. Ci pensi tu?».

Hector annuí a malincuore.

«Lo dirai ad Aish?».

La faccia di Hector era torva, determinata. «Certo che glielo dirò. Sarà lei a sondare Rosie. Non preoccuparti per Aish».

Harry fissò il mare nel punto in cui i tre bambini stavano giocando. «Sono felice che i ragazzi abbiano legato». Si schiarí la gola. «Per Rocco è una buona cosa, visto che non ha fratelli o sorelle. Per fortuna ha Adam e Melissa».

«Sono una famiglia» aggiunse soltanto Hector.

Harry rise e indicò il mare. «Non ti ricordano noi due alla loro età?». Prese le sigarette. «Sei sicuro che non ne vuoi una?».

«Non indurmi in tentazione, bastardo che non sei altro». Hector si girò verso Harry. «E tu quando smetti?».

«Quando mi sarò stufato. Per ora mi piace». Accese la sigaretta. «Amico» continuò, scimmiottando il tono da rapper, «tutta la mia grana finisce in alcol, nicotina e benza».

«Yeah» ribatté Hector con una risata. «Chi avrebbe mai pensato che sarà probabilmente la benza a darci il colpo di grazia?».

Harry mugugnò. «Cristo santo, cugino, tu pensi troppo». Posò un braccio sulle spalle di Hector. «Non pensare a tutta quella merda, il surriscaldamento globale, il terrorismo, la guerra e gli arabi. In culo a tutti. Che vadano tutti a fare in culo». Harry accennò al mare scintillante, al cielo sfrontato e senza fine. «A noi è andata di lusso. Pensa a come ci è andata di lusso».

E rimasero in silenzio a osservare i figli che giocavano.

 

Al ritorno dalla spiaggia, pur costandogli molto – era cosí infuriato che aveva voglia di bestemmiare – Harry restò cortese, gentile, un anfitrione di classe. Era sicuro che tutti quanti, suo cugino, suo figlio, Alex, Van, e le amiche della moglie, lo credevano felice, magari soltanto un po' distaccato. Fu orgoglioso di come tenne a freno la rabbia e per tutto quell'interminabile pomeriggio conservò il buonumore. Harry coltivò quell'orgoglio, calandosi perfettamente nel ruolo del padrone di casa generoso, in modo da non dare i numeri e sbottare, non perdere il controllo, agguantare sua moglie e scuotere quella stronza senza cervello fino a sentire i suoi denti sbatacchiare, fino a vedere gli occhi uscire dalle orbite, fino a costringerla a chiedere perdono in ginocchio. In. Ginocchio. Cazzo. Harry si congedò affettuosamente dal cugino e dai figli, facendo battute spiritose e sorridendo per tutta la cena veloce che Sandi aveva preparato al volo per Van, Alex e Annalise: quand'è che i rompicoglioni toglievano il disturbo? Leggiucchiò a Rocco una favola per farlo addormentare. Van offrí un passaggio ad Alex, e Harry fu felice di avere fumato e bevuto quel tanto che bastava per non sentirsi in obbligo di accompagnare Annalise in macchina a Frankston. Sorrideva quando la scortò lungo il vialetto fino al taxi. Lei lo baciò goffamente sulle labbra e lui pensò, Sei proprio una troia.

«Sandi è fortunata» gridò mentre il taxi ingranava la retro e si allontanava sgommando su Beach Road. Annalise sporse la testa dal finestrino. «Ma dei due il piú fortunato sei tu» strillò. «Ricordatelo sempre!». Dalla spiaggia arrivava l'eco delle onde e la voce di Annalise suonò orrenda, come le strida rauche di un gabbiano. Harry tornò a sorridere, fece un cenno di saluto, annuí, fingendo di essere d'accordo. Guardò il taxi allontanarsi. Ora non sorrideva piú. Risalí lentamente il vialetto verso casa.

 

Sandi stava caricando la lavastoviglie. Anche lei era alticcia e quando lo sentí arrivare fece una giravolta su se stessa. Una tazzina di caffè finí per terra, rimbalzò e rotolò piú volte sul pavimento prima di arrestarsi, intatta.

«Incredibile». Sandi fece spallucce e si chinò a raccogliere la tazzina. Cosí sí che avrebbe potuto prenderla a calci in faccia. Lei si raddrizzò con un sorriso sciocco sulle labbra. «Che bella giornata».

In quel momento Sandi dovette accorgersi del pericolo che si annidava negli occhi di Harry perché fece un passo indietro e andò a sbattere con il sedere contro la porta aperta della lavapiatti.

«Tesoro, cos'hai?».

«Come ti è saltato in mente di parlare con Hector a mia insaputa?». Harry vide che la paura le segnava i tratti del viso e un'ondata di eccitazione minacciò di travolgerlo. L'afferrò per i capelli e tirò la testa verso di lui. «Come cazzo ti è saltato in mente?».

Sandi si afflosciò, senza opporre resistenza. «Harry, te l'avrei detto».

«Imbecille che non sei altro, non devi parlare a nessuno delle nostre cose. Né a Hector né a tua madre né alle tue sorelle né alle tue amiche. Le nostre menate sono roba nostra e di nessun altro». Parlava a bassa voce. Non voleva svegliare il figlio. Le tirò ancora una volta i capelli, una ciocca arrotolata intorno al pugno. «Vuoi che quella stronza indiana piena di sé venga a sapere le tue cose? Eh? Non lo sai che dopo correrà da quella troia della sua amica a raccontarle tutto?». Ora aveva voglia di urlare, magari avesse potuto urlare e mollarle un cazzotto in faccia. Harry tirò la ciocca di capelli che stringeva e portò la faccia di lei a pochi centimetri dalla sua.

Dagli occhi di Sandi trapelava il terrore. Era impietrita e tremava come un animale braccato e Harry, guardandola negli occhi, capí di averla delusa. Sandi non sarebbe mai riuscita a dimenticare la sua violenza, non avrebbe piú dimenticato lo schiaffo. Adesso avrebbe potuto picchiarla come suo padre, per vedere fin dove poteva arrivare, fin dove l'avrebbe lasciato fare e fin dove lui si sarebbe spinto.

Harry lasciò andare i capelli, la prese fra le braccia e la strinse forte nonostante il suo disorientamento, le sue lacrime, fino a quel benedetto momento di sollievo quando il corpo teso di Sandi si accasciò fra le sue braccia e lui capí che la paura era sparita del tutto.

«Scusami» continuava a ripetergli. «Harry, scusami tanto».

«Okay». Le baciò la testa. «Andrò da quel bastardo, ci andrò con Hector. Andrò da lui e da quella stronza di sua moglie. Che cazzo! Mi costerà, ma chiederò scusa a quei due pezzi di merda. Lo farò, tesoro, te lo prometto. Ma tu non ci verrai. Tu e Rocco non avrete mai piú a che fare con quei due».

Sandi annuí subito, felice del suo amore. Di nuovo gli ricordò un cagnolino scemo ma fedele.

 

Con una brusca sterzata Hector infilò una stradina laterale e di colpo Harry ritornò alla sua infanzia. Una volta suo padre l'aveva portato a passeggio proprio da quelle parti. Probabilmente allora era piú giovane di Rocco – sei, sette anni? – e doveva essere una domenica perché ricordava che il padre aveva una camiciola bianca stirata di fresco invece della sua solita salopette. La zona a quei tempi era priva di alberi, il sole arroventava le strade asfaltate e Harry si ricordò che era stato come ipnotizzato dalle scintille di calore che sembravano alzarsi dal cemento, formando delle onde opache. Allora le case non gli erano sembrate cosí carine, ma piccole, brutte e tozze. Ora che gli immigrati se ne erano andati e gli yuppie avevano traslocato lí, le case erano state ristrutturate, abbellite, e le strade trasudavano soldi. Il comune aveva piantato arbusti e platani lungo le strisce di cemento che un tempo puzzavano di merda di cane, benzina e spazzatura. Lui, comunque, lí non ci sarebbe mai andato ad abitare. Le case costavano una barca di soldi, ma restavano dei cessi. Suo padre l'aveva trascinato in un piccolo cottage di operai. Gli uomini avevano giocato a carte fino a sera e lui si era eclissato con un ragazzino che abitava lí e aveva passato tutto il giorno a giocare nel piccolo parco abbandonato dall'altra parte della strada.

Hector svoltò in un'altra strada e Harry era sicuro che sarebbero passati accanto a quel parco. A quei tempi non c'erano le altalene per i bambini, le panchine, niente. Piú che a un parco assomigliava a un terreno in vendita. Quando verso sera erano rientrati a casa, Harry ricordava che gli immigrati del quartiere erano seduti fuori in veranda a gruppi a bere il caffè, fumare, chiacchierare con i dirimpettai. Anche adesso era quasi sera, ma le case davanti cui passavano erano immerse nel silenzio.

Hector frenò e parcheggiò. Harry guardò fuori dal finestrino e suo cugino indicò una casetta di tavole di legno a spiovente abbandonata fra altre due di mattoni rossi appena restaurate. Le assi in origine erano state dipinte di bianco, chissà quanti decenni prima, ma anni di piogge e vento le avevano fatte diventare giallastre. Il giardino sul davanti era infestato dalle erbacce, e l'unico cespuglio di rose stava appassendo.

«Abitano qui?».

Hector annuí.

A quanto sembra, pensò Harry, quei rompicoglioni se ne fregano di tenere in ordine la casa. Lui, invece, si sarebbe vergognato se i vicini avessero pensato che era troppo pigro o sbadato o disperato da non riuscire neanche a curare quel giardino di merda.

«La casa è loro?».

«No, sono in affitto».

Naturale. Perfetto. Gente cosí stava in affitto tutta la vita. Comunque, adesso era la loro casa. Possibile che fossero cosí svogliati da non desiderare una bella casa dove rientrare alla sera? E il figlio? Quale modello di vita volevano inculcargli? O se ne sbattevano perfino di questo?

«Coraggio, andiamo».

Harry non aveva ancora slacciato la cintura. Per un attimo restò immobile, poi annuí.

«Okay».

 

Il campanello era rotto e Harry colpí la spessa porta di legno con il palmo della mano. Da dentro arrivò l'urlo di un bambino, seguito dai passi affrettati di qualcuno in corridoio. Venne ad aprire il padrone di casa. Indossava una salopette su una camicia slacciata macchiata di vernice. Ci fu un momento di imbarazzo. Harry allungò la mano. Gary restò a guardarla, incerto, perplesso. La stretta di mano risultò molliccia.

La casa profumava d'incenso. Harry era l'ultimo in fila indiana a percorrere il corridoio, cosí sbirciò nelle stanze. Erano tutte in penombra, in disordine. Harry notò che il letto era disfatto e non vedeva una stanza per il bambino. Sbucarono in una cucina illuminata a giorno. Lo spazio era quasi interamente occupato da un grande tavolo. Lei era lí seduta con il bambino in grembo che ciucciava il seno. Rosie non ricambiò neppure il sorriso che Harry le aveva fatto.

«Ciao» bofonchiò Harry. «Grazie per avermi ricevuto».

«Io non volevo vederti». La voce era fredda, distante. Era strafatta?

Era una bellezza glaciale, una bionda stupenda con gli occhi azzurri chiari. Ma lui non la trovava per niente attraente. Nello sguardo c'era una malizia che lo rendeva diffidente. Sembravano gli occhi di un serpente.

Il bambino guardò verso Harry e Hector con un'occhiata interrogativa ma amichevole. La vista di un bambino cosí grande che ciucciava aveva un che di osceno e – forse proprio per questo? – erotico. Un pensiero fugace attraversò la mente di Harry. Cosa avrebbe fatto quando il moccioso iniziava a frequentare la scuola? Lo avrebbe fatto attaccare al seno fino all'adolescenza?

«Come va, Hector?».

Il tono di voce era freddo anche con il cugino. Gary era tornato da un bugigattolo accanto alla cucina con tre bottiglie di birra. In cucina non c'era spazio per un frigo. Come si faceva a vivere cosí? Lei non gli aveva neanche offerto una sedia e toccò a Gary indicarne una.

Harry si accomodò e sorseggiò la birra, salvo scoprire che non aveva sete.

«Hugo, ti ricordi di questo signore?».

Il bimbo aveva ereditato i capelli biondi della madre e l'opacità innaturale dei suoi occhi. Nel suo sguardo non sembrava esserci né rancore né paura. Il bambino annuí lentamente.

«Sí, è il cattivo che mi ha picchiato e che adesso andrà in prigione».

Tutti gli uomini scoppiarono a ridere, come se le parole innocenti del bambino li avessero autorizzati ad affrontare con calma la situazione. Il bambino, sorpreso dalla reazione alle sue parole, guardò prima l'uno poi l'altro, giulivo. La faccia di Rosie restò impassibile. Riprese Hugo in grembo, infilò il capezzolo nel reggiseno e tirò fuori l'altro. Immediatamente Hugo si girò a succhiarlo. Che idiota. Harry non riusciva a guardarli e allora sbirciò Gary. Il padrone di casa non era d'accordo. Ovviamente disapprovava tutto questo, ma non aveva il fegato per intervenire.

«Perché sei venuto?». Il tono era sprezzante.

«Sono qui per chiedere scusa».

«Respinte, grazie».

«Rosie, almeno stallo a sentire».

Cristo, il padrone di casa era un piagnone. Harry notò che aveva quasi finito la sua birra.

«L'ho fatto. È venuto a scusarsi». Si girò verso Harry. «Allora?».

Non sapeva come prendere quel sarcasmo, era confuso. Harry capí che Rosie era incontentabile. «Mi dispiace di avere colpito Hugo. Non avrei dovuto farlo. Avrete anche capito che l'ho fatto per difendere Rocco…».

Rosie lo interruppe. «Tuo figlio è il doppio di lui» sogghignò.

E grazie a Dio che è lui mio figlio invece di quel piccolo frocio che tu ancora tiri su a poppate. Perché era andato lí? Ora avrebbe voluto prendere a schiaffi quella cretina.

«Harry è molto dispiaciuto, Rosie. Fidati. È successo tutto in un attimo, aveva paura per Rocco».

«Hector, fatti gli affari tuoi».

Fatti gli affari tuoi? Era successo a casa di suo cugino. Ovvio che la cosa lo riguardava.

«Lo so che sono affari vostri, ma oggi sono venuto qui per vedere se posso contribuire ad aggiustare la situazione. La cosa mi riguarda, e non potrebbe essere altrimenti. Harry è mio cugino e tu sei la migliore amica di mia moglie. Cazzo, ci sono dentro fino al collo!».

«Eh, no» strillò Gary dallo sgabuzzino dove era andato a rifornirsi di birra. «Tu non c'entri. Le uniche persone coinvolte siamo io, Rosie e questa testa di cazzo, chiaro?». Tornò con altre tre bottiglie. Harry e Hector non avevano quasi toccato la birra.

Gary le sbatté sul tavolo e si mise seduto con un ghigno sulle labbra. «Chiaro?» ripeté, sbirciando Harry. «È una cosa nostra».

«E di Sandi».

«Sicuro». Il ghigno di Gary sparí. «Sí, c'entra anche lei».

«Lei non ha nessuna colpa». La voce di Rosie era metallica. L'odio era reciproco. «Non è colpa sua se ha sposato uno stronzo».

Basta. Che andassero a fare in culo, che dessero il peggio. Harry si guardò attorno. La scansafatiche non ha neanche iniziato a preparare la cena. Fra qualche anno dopo la scuola probabilmente Hugo farà compagnia a suo padre con una birrozza. Avrebbe fatto un ultimo tentativo, uno soltanto.

«Pensate pure di me quello che volete, ma Sandi è sconvolta da questa storia. Per favore, chiudiamola qui. È uno spreco di soldi, una perdita di tempo. Il mio e il vostro. È ingiusto. È ingiusto nei suoi confronti».

Il ghigno non aveva abbandonato la faccia di Rosie. Alla fine del discorsetto restò seduta in silenzio senza staccargli gli occhi di dosso. Harry si sforzò di non batte­re ciglio e continuò a fissare i suoi algidi occhi azzurri. Gary, il bambino, suo cugino, erano tutti spariti dalla scena. Erano rimasti soltanto lui e Rosie a darsi battaglia. Il moccioso mollò il capezzolo e fece un ruttino. Un lampo di preoccupazione attraversò il viso della madre che abbassò gli occhi. Harry sospirò. Rosie stava accarezzando i capelli di Hugo. Poi si mise in grembo il bambino e lui attaccò a giocare con le chiavi di suo padre.

«Mi spiace per tua moglie, ma è stata lei a scegliere di stare con te. Hai picchiato il mio bambino. Picchi anche lei?».

Harry restò immobile, inspirando ed espirando lentamente.

«Scommetto che la pesti. Pesti anche tuo figlio? Quante volte alzi le mani su di lui?».

Inspirare, espirare.

«Spero che adesso ti lascerà. Spero che avrà il buonsenso di piantarti finalmente, schifoso porco maschilista».

Fu tutta colpa di quel ghigno. Il risolino isterico di Gary mezzo ubriaco, con la saliva che gli gocciolava da un angolo della bocca.

Harry scattò in piedi e la sedia andò a sbattere contro il muro cosí forte che Hugo cominciò a strillare. Rosie si fece piccola nella sedia.

«Mamma!». Il bambino era terrorizzato e il piagnisteo non finiva piú.

Rosie lo strinse a sé e si alzò in piedi. «Gary». Stampato in viso aveva un sorriso trionfante. «Chiama la polizia».

La strega l'aveva messo in trappola.

«Gary, ho detto di chiamare la polizia».

«Cristo, calmati. Non è successo niente. Hugo s'è preso soltanto un brutto spavento».

Rosie ignorò Hector. «Ci sta minacciando. Ha fatto spaventare Hugo. Chiama la polizia, merda!».

Gary, malfermo sulle gambe, guardò perplesso prima la moglie, poi Harry. Harry non staccava gli occhi da quella stronza. Se soltanto avesse potuto spaccarle la faccia, riempirla di lividi, farle del male… Il bambino continuava a strillare fra le braccia della madre, di tanto in tanto lanciava un'occhiata all'intruso per poi rannicchiarsi subito contro il petto della madre.

«Devo chiamare la polizia?».

Che verme succube della moglie! Che scusa del cazzo per un uomo! Harry intravide una possibilità, c'era qualcosa che poteva fare. Avrebbe potuto massacrarlo di botte, tramortirlo, lí in quella stanza, davanti a suo figlio. Hector non sarebbe riuscito a fermarlo. Avrebbe potuto riempirlo di botte davanti a suo figlio e quel bambino del cazzo non avrebbe mai dimenticato la scena. Quello sareb­be stato per sempre uno dei suoi primi ricordi. Non avrebbe mai potuto scordare che suo padre era un codardo.

Inspirò.

Allora sarebbe stato in trappola. L'avrebbero crocefisso. Che mondo brutto, schifoso, ingiusto era questo che lasciava sopravvivere i deboli, gli scoppiati e i disperati, gliela dava vinta. Ci voleva una pallottola in ognuna di quelle teste, tre colpi e via.

Harry raccattò la giacca e si allontanò con calma lungo il corridoio. Sentí che la strega urlava che avrebbe chiamato la polizia, sentí che suo cugino lo stava seguendo. Sentí gli strilli del bambino, ormai quasi isterici, come se respirasse a fatica e fosse sul punto di soffocare. Con una pedata aprí la porta di casa e s'inoltrò nella notte fredda, limpida.

Espirò.

 

Aspettò Hector accanto alla macchina. Si accese una sigaretta e la prima boccata gli sembrò magnifica.

«Aish non vuole che qualcuno fumi in macchina».

Anche lui succube. Erano tutti succubi delle loro mogli del cazzo. Harry schiacciò la sigaretta sotto il tallone.

«Scusa».

«Lascia perdere. È stata un'idea cretina andare a parlare con quella gentaglia».

Arrivarono a casa di Hector.

«Vuoi entrare?».

Mi fai prendere a schiaffi quella stronza che hai sposato?

«No, scappo. Sono troppo agitato».

«Sono…». Hector si arrabattò a trovare le parole giuste per descrivere la serata.

«Come cazzo fai a frequentare della gentaglia di merda come quella? Chi te lo fa fare?».

Lasciò Hector che lo fissava a bocca aperta, imbarazzato. Avviò il motore, fece scattare l'accendino, si allontanò senza salutare e accese una sigaretta. Se gli andava, avrebbe lasciato riempire l'auto di fumo, l'avrebbe lasciata bruciare; se gli andava, l'avrebbe fracassata e spinta nel fiume. Harry guidò con calma, senza correre. Quella sigaretta era il massimo. Il massimo, cazzo.

Non si era neanche accorto che stava andando a casa di Kelly. Arrivato, prese a pugni la porta e Kelly andò ad aprire in maglietta gialla e tuta da ginnastica grigia. I capelli erano raccolti in una coda di cavallo ed era senza trucco. Cosí sembrava piú giovane. Harry si chinò in avanti e la baciò con foga, mordendole il labbro inferiore. Kelly indietreggiò e lo guardò preoccupata.

«Ciccio, qualcosa non va?».

Senza rispondere, Harry entrò in casa e la trascinò nella sua stanza. Kelly si staccò e controllò la camera da letto delle ragazzine. Intanto, in soggiorno, Harry sentiva le loro voci, ma non distingueva le parole. Kelly uscí e si chiuse dietro la porta della camera.

«Le hai spaventate. Sei ubriaco?».

Harry la guardò senza rispondere. Kelly sembrava cosí scura, piccola e grassa a confronto con l'aplomb freddo e distaccato di quell'australiana del cazzo.

«Non sono sbronzo». Cominciò a spingerla verso la sua camera da letto. «Sono arrapato, ho voglia di scoparti».

Kelly tornò a fare resistenza, ma si intravedeva un sorriso sulla sua faccia.

«Arrapatissimo, eh? Vado un attimo in bagno».

Le saltò addosso.

«Lascia perdere. Entra in quella stanza del cazzo».

Lei saltellò di lato, tirò fuori la lingua e si sottrasse alla sua presa.

«Torno fra un attimo».

La camera da letto odorava d'incenso e di un profumo intenso al limone. Harry aprí il cassetto in basso della toeletta e passò a frugare sotto le T-shirt e le magliette.

«Tesoro, cosa cerchi?».

Kelly era sulla soglia della porta senza la maglietta e con il reggiseno slacciato. Una tetta enorme si era afflosciata e penzolava molle. Kelly si sbarazzò del reggiseno, andò verso di lui, gli prese una mano e la fece scivolare fra i vestiti fin sul fondo del cassetto, dove Harry sentí la fredda superficie metallica di una scatola di latta. Kelly tirò fuori la scatoletta che aveva sul coperchio una foto di Tupac Shakur, e da lí prese una bustina di plastica di polvere bianca. Poi tagliò tre piste di coca sulla ribalta in legno laccato della toeletta.

«Ecco qua».

Le baciò le tette, prima la sinistra, poi la destra. Ripensava al bambino attaccato al seno della madre e sentí tirare il cazzo. Arrotolò un biglietto da venti e spazzolò via due piste. Kelly si chinò e finí la terza. Era fantastica, non faceva domande, non aveva pretese di nessun genere. Perché le altre donne non erano come Kelly? La coca era di buona qualità; lentamente Harry sentí che gli si schiarivano le idee e avvertí una vampata di calore in tutto il corpo. Le gengive erano insensibili e sospirò. Ecco di cosa aveva bisogno.

Scalciò via le scarpe e cadde indietro sul letto. «Vieni qui».

Harry chiuse gli occhi. Sotto la camicia le mani di Kelly gli massaggiavano dolcemente il ventre, il torace, il collo. Kelly gli slacciò la patta, fece scivolare le dita sotto l'elastico degli slip. Lui immaginò la faccia di Rosie, gli zigomi sporgenti, gli occhi azzurri, indecifrabili. Adesso Kelly lo baciava sulle labbra, vogliosa, la sua lingua gli guizzava nella bocca. Aprí gli occhi. Lei alzò la testa e lo guardò. Di colpo gli apparve brutta, scura di pelle, un'immigrata. Non era Rosie.

Harry la spinse via, si alzò in piedi, allacciò la cintura e tirò su la lampo dei pantaloni.

Kelly restò sdraiata a letto.

«Che c'è?».

«Dev'essere la coca. Mi è passata la voglia».

Kelly fece per toccargli il cazzo. Harry le schiaffeggiò la mano.

«Non ho piú voglia».

«Okay».

Harry sbirciò la toeletta. «Posso farmi un'altra pista?».

«Come no, tesoro».

Prima di togliere il disturbo, frugò nel portafogli, tirò fuori duecento dollari e glieli allungò. Lei ci restò male. «Harry, non sono una puttana». Poi ne prese cinquanta. «Giusto per la coca».

Lei era forte. Lei era fortissima. Perché le altre donne non erano come Kelly?

Tornando fuori, l'abbraccio della notte gli sembrò meraviglioso.

 

Superato il ponte, invece di andare verso sud lungo Kings Way, Harry sterzò in direzione nord e attraversò il centro fino a svoltare in Brunswick Street. Il traffico era piú intenso e c'era gente dappertutto. Continuò a puntare a nord e si ritrovò a zigzagare fra le stradine di Fitz­roy. Trovata la via, parcheggiò e restò seduto al buio a guardare la casa. Anche al buio sembrava cadente, negletta. L'erba non veniva tagliata da mesi, il bambino avrebbe potuto perdersi in mezzo. Respirò a pieni polmoni. Il ruscello e il fiume erano lí vicino: Cristo santo, non avevano paura delle pantegane, dei topi, dei serpenti tigre? Con Rocco non avrebbe mai corso un rischio simile e, mentre rifletteva, si rese conto che lui e Sandi non avevano di che preoccuparsi. Le persone che abitavano in quella casa erano parassiti, degli animali. Lui era un ubriacone e lei un'idiota. Non c'era da stupirsi se il bambino era viziato. Per la prima volta dopo il barbecue Harry provò qualcosa che assomigliava molto alla pietà. La colpa non era del bambino: come avrebbe potuto essere diverso con dei genitori come quelli? Certe persone avrebbero dovuto essere sterilizzate. Girò la chiave nel cruscotto. Non sarebbe dovuto andare lí; uno di loro avrebbe potuto uscire, riconoscerlo dall'altra parte della strada. Fatto di cocaina, aveva fantasticato di ficcare una pallottola in ognuna di quelle testoline. Non ce n'era bisogno. Sarebbe stato uno spreco di cartucce. Erano feccia. Lui, Rocco e Sandi non facevano neppure parte della loro stessa razza. Erano distanti da loro come la luna dalla terra. Lui non doveva fare nulla. Sarebbe stato il tempo a compiere la sua vendetta.

Harry puntò a sud, in direzione del mare, verso casa. Pensò alla villa che adorava con la piscina, la cucina moderna, il garage doppio, l'impianto stereo, la TV al plasma; pensò al suo barbecue e agli attrezzi da pesca, e infine alla sua bella moglie e al figlio. Guidava veloce, in silenzio, con i finestrini chiusi. La musica e il baccano del mondo esterno avrebbero soltanto rovinato i suoi pensieri, i suoi pensieri immacolati di felicità e soddisfazione. Lui sí che era un uomo fortunato, davvero un uomo fortunato.

L'auto sembrava volare lungo Hotham Street e, quando sterzò, adocchiò i giochi di luce sull'acqua scura della baia. La casa era vicina, i raggi della luna luccicavano sul mare. Schiacciò un pulsante, il finestrino scivolò giú, e sentí l'odore del mare. Harry si riempí i polmoni di mare e luna e notte e aria pura. Mentre imboccava il vialetto d'accesso, alzò gli occhi e vide che la luce in camera da letto era ancora accesa. Sandi lo stava aspettando. Probabilmente nell'attesa aveva cenato. Lui, dopo un boccone, si sarebbe intrufolato nella stanza di suo figlio per dargli il bacio della buonanotte. Poi si sarebbe infilato a letto accanto a Sandi e addormentato con sua moglie accoccolata fra le braccia. Grazie, Dio. Parcheggiò in garage, schiacciò il telecomando e la serranda del garage cominciò a rotolare giú. Grazie, Panagia. Era a casa.