1. Amintore Fanfani segretario generale delle Nazioni Unite, New York, 23 settembre 1965.
Il 23 settembre 1965 Amintore Fanfani venne eletto presidente della XX Assemblea delle Nazioni Unite (nella foto, alla sua destra è riconoscibile il birmano Sithu U Thant, segretario generale dell’ONU, mentre a sinistra siede il vicesegretario dell’Assemblea generale, l’indiano Chakravarthi V. Narasimhan). Unico italiano ad aver ricoperto la carica, Fanfani contribuì a migliorare e a potenziare il ruolo internazionale dell’Italia; inoltre, nell’arco del suo mandato si prodigò in favore dei negoziati per la cessazione delle operazioni belliche in Vietnam nonché per il consolidamento dei rapporti di cooperazione con i paesi affacciati sul Mediterraneo e con quelli dell’America Latina. Tra gli altri punti su cui lo statista intervenne, la trasparenza della gestione della democrazia all’interno del Palazzo di Vetro e la trasformazione del Consiglio di sicurezza in un organo più collegiale e rappresentativo.
2. Patrick Christain, Truppe americane in Vietnam, 3 gennaio 1967.
Il sostegno statunitense al governo sudvietnamita di Ngo Dinh Diem si delineò nel biennio 1955-1956, con compiti d’addestramento delle forze della Repubblica del Vietnam per contrastare l’azione dei vietcong, intenzionati a unificare il Nord e il Sud del Paese in un solo Stato. Negli anni seguenti il coinvolgimento in uomini e mezzi crebbe: nel 1960 gli effettivi USA di stanza nel paese ammontavano a 900 unità; due anni più tardi fu costituito il Comando di assistenza militare in Vietnam (MACV), mentre i militari americani, saliti a 11.000 unità, erano autorizzati a rispondere al fuoco contro i Nordvietnamiti. L’apice dell’escalation si ebbe nel corso del 1968, quando ben 535.100 soldati operavano sul territorio vietnamita. La mobilità delle truppe combattenti era assicurata dall’impiego dell’elicottero, un mezzo divenuto nell’immaginario collettivo inscindibile dal conflitto vietnamita.
3. David Rubinger, La guerra dei Sei giorni, 16 giugno 1967.
La tensione che regnava nel Medio Oriente per l’ostilità dell’Egitto, armato dall’Unione Sovietica, verso Israele sfociò nel 1967 nella cosiddetta guerra dei Sei giorni, causata dalla politica del presidente egiziano Gamal Abd el Nasser, preoccupato di recuperare prestigio in seno al mondo arabo dopo lo smacco subito in Yemen, dove aveva appoggiato i repubblicani. Nasser procedette ad accerchiare diplomaticamente Israele siglando accordi con la Giordania, la Siria e l’Iraq, e diede avvio a una violenta campagna antiisraeliana. Per tutta risposta, la mattina del 5 giugno 1967 le truppe israeliane lanciarono un deciso attacco su più fronti, senza questa volta godere dell’appoggio occidentale, come si era verificato nel 1956. A sud, le forze egiziane vennero rapidamente travolte e dopo solo tre giorni di scontri il generale Moshe Dayan era in vista del Canale di Suez. Verso est, gli Israeliani procedettero invece all’occupazione dei quartieri arabi di Gerusalemme e alle terre poste a occidente del Giordano, per cui la Giordania fu costretta a deporre le armi; a nord-est, essi si spinsero fin davanti a Damasco. L’intervento del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite indusse i combattenti a proclamare il cessate il fuoco, che divenne effettivo il pomeriggio del 10 giugno. Alla conclusione delle operazioni belliche Israele era saldamente padrona della Cisgiordania, della striscia di Gaza e della penisola del Sinai: il fermo rifiuto di sgomberarle fu all’origine delle difficoltà di realizzare il processo di pace.
4. La contestazione nel maggio parigino, Parigi, 10 maggio 1968.
Seppur in ritardo rispetto all’Italia, dove dal 1967 gli studenti universitari organizzavano manifestazioni per la riforma universitaria e nel marzo 1968 si era verificato il primo duro scontro con la polizia a Villa Giulia, Oltralpe scoppiò «un incendio di dimensioni colossali»: il maggio francese. Anche in questo caso la molla fu il fermento studentesco, ma rapidamente le ragioni ideologiche – la rivolta contro la società tradizionale, l’opposizione alla repubblica gollista – ebbero il sopravvento. Il 3 maggio il cortile della Sorbona fu occupato al grido di slogan divenuti famosi, come «l’immaginazione al potere», «proibito proibire», «siate ragionevoli, chiedete l’impossibile». Sette giorni più tardi gli studenti occuparono il Quartiere Latino; la polizia prese d’assalto le barricate e le smantellò. Nonostante l’iniziale presa di distanza dal movimento, il partito comunista francese e i sindacati proclamarono una manifestazione di solidarietà. Il 13 maggio Parigi fu teatro di una immensa manifestazione che vide sfilare insieme operai e studenti; il 15 maggio questi ultimi occuparono il teatro Odéon, trasformandolo in un centro permanente di incontri e discussioni. Quello del 13 maggio fu uno sciopero generale che diede a sua volta origine a altre contestazioni e a occupazioni di fabbriche in tutta la Francia. A questo punto De Gaulle reagì e indisse le elezioni per il mese di giugno: ne uscì vincitore, ma «prima del responso delle urne, gli ultimi fuochi del maggio s’erano spenti. Il 16 di giugno la Sorbona era stata evacuata dai duecento della “Comune studentesca” che ancora vi bivaccavano».
5. Richard Nixon è il candidato repubblicano per le elezioni presidenziali, Miami, agosto 1968.
Membro del Partito repubblicano, nel 1947 Nixon intraprese la carriera politica con l’elezione al Congresso, e nel 1951 divenne senatore della California. Intransigente anticomunista, nel 1952 fu scelto da Dwight Eisenhower come vicepresidente, ma suscitò presto gli attacchi di esponenti del suo stesso partito, che lo accusarono tra l’altro di corruzione. Nonostante le critiche, Nixon non abbandonò l’arena politica e nel 1960 si candidò per la presidenza, ma fu sconfitto da John F. Kennedy per una manciata di voti (49,71 per cento contro 49,55 per cento); si ripresentò nel 1968 come candidato repubblicano e questa volta fu eletto (5 novembre). I primi passi da Presidente li compì in politica estera, dove si impegnò a ridurre la presenza militare statunitense nel mondo, in particolare in Vietnam, dove gli USA erano ancora impegnati nel conflitto contro il Nord. Nel confronto tra i blocchi, realizzò la politica di distensione verso l’URSS con l’apertura dei negoziati SALT di Helsinki, che portarono a un primo accordo per la limitazione delle testate nucleari; normalizzò i rapporti con la Cina di Mao, dove si recò in una storica visita di stato nel febbraio 1972. In politica interna il suo primo quadriennio fu caratterizzato dalla svalutazione del dollaro, dal controllo di prezzi e salari e dalla riforma del sistema di sicurezza, che portò a una riduzione della criminalità. I successi conseguiti gli garantirono la rielezione nel 1972, ma il nuovo mandato fu travolto dallo scandalo Watergate, l’accusa di spionaggio ai danni dei democratici durante la campagna elettorale: in grave difficoltà e davanti alla minaccia di impeachment, Nixon rassegnò le dimissioni nell’agosto 1974.
6. L’astronauta Buzz Aldrin sulla superficie lunare, 20 luglio 1969.
Il il 20 luglio 1969 la missione Apollo 11 rese realtà il sogno umano di raggiungere la Luna. Il razzo Saturn V mise in orbita il modulo di comando Columbia con a bordo Michael Collins, e dal Columbia si separò il modulo lunare Eagle, che ospitava il pilota Buzz Aldrin e il comandante Neil Armstrong. Il 20 luglio l’Eagle allunò nel Mare della Tranquillità; i due astronauti, dopo varie difficoltà nel passare per lo sportello, uscirono dal modulo e toccarono la superficie lunare, sulla quale lasciarono impresse le loro orme. In questa occasione Armstrong pronunciò una frase divenuta celebre: «Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un balzo da gigante per l’umanità». Issata la bandiera americana, Aldrin e Armstrong raccolsero campioni di roccia, fotografarono la superficie lunare e attivarono i dispositivi per la diffusione delle immagini: le riprese da loro inviate sulla Terra furono viste da circa seicento milioni di persone.
7. Attentato a Piazza Fontana, Milano, 12 dicembre 1969.
Alle 16.37 del 12 dicembre 1969, a Milano, nella centralissima piazza Fontana, un ordigno collocato all’interno della sede della Banca dell’Agricoltura esplose provocando sedici morti e numerosi feriti. L’episodio di sangue «segnò uno spartiacque nella vita italiana degli ultimi quattro decenni […] perché diede l’avvio a questi gesti di cieca ferocia, e perché le indagini ebbero un andamento zigzagante, e grossolanamente contraddittorio». L’attentato fu inizialmente attribuito agli ambienti anarchici, e la pista seguita dagli investigatori generò una vicenda che avvelenò gli animi già esacerbati dalla contestazione, dagli scioperi, dagli scontri di piazza tra estremisti e polizia: il fermo dell’anarchico Giuseppe Pinelli e la sua morte durante le fasi dell’interrogatorio in Questura, episodio che tutt’ora resta avvolto nell’ombra. Della morte alcuni gruppi extraparlamentari accusarono il commissario Luigi Calabresi, che fu assassinato il 17 maggio 1972 da un commando di Lotta continua per vendicare Pinelli. L’attentato di piazza Fontana, come altra stragi che hanno segnato gli anni di piombo, è rimasto senza colpevoli: a conclusione dei processi celebrati fino al febbraio 1989 gli imputati sono stati scagionati.
8. Giulio Andreotti, 1972.
Protagonista indiscusso della politica italiana tra gli anni Sessanta e Ottanta del XX secolo, mosse i primi passi come collaboratore di Alcide De Gasperi; in seguito fu eletto all’Assemblea costituente, quindi nel parlamento della Repubblica. La sua ascesa politica iniziò nel 1947 con l’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, carica che tenne nel 1953 con il governo Pella; nel 1954 fu nominato Ministro dell’Interno nel governo retto da Amintore Fanfani e tre anni più tardi resse il dicastero delle Finanze nell’esecutivo Segni. Divenuto membro del Consiglio nazionale della DC, nel 1972 assunse l’incarico di formare un governo di transizione per fronteggiare la crisi che investiva la formula governativa di centrosinistra; a capo di una coalizione DC, PSDI, PLI e PRI inaugurava il primo governo di centro. Conclusasi l’esperienza di governo, fu nominato Ministro del Bilancio nel 1974 da Aldo Moro, ma fu a capo di un esecutivo monocolore già due anni più tardi e di nuovo nel 1978, questa volta con l’appoggio dei comunisti, nel quadro di un governo di solidarietà nazionale per rispondere all’emergenza del terrorismo, che nel marzo di quell’anno aveva colpito il presidente della DC Moro. Gli anni Ottanta videro Andreotti alla direzione del Ministero degli Esteri con i governi socialisti di Bettino Craxi e quello democristiano di Ciriaco De Mita. Nel 1991 fu nominato senatore a vita. Nella lunga carriera parlamentare, ha rivestito per sette volte la carica di Presidente del Consiglio, otto volte quella di Ministro della Difesa e cinque volte quella di Ministro degli Esteri.
9. Truppe cilene assediano La Moneda, Santiago del Cile, 11 settembre 1973.
Nell’ottobre 1970 un’ampia coalizione di sinistra (nella quale erano affluiti socialisti, comunisti, democraticocristiani di sinistra e radicali), detta di Unità nazionale, vinse le elezioni cilene. Il socialista Salvador Allende, eletto presidente il 24 ottobre, procedette senza indugi all’attuazione di un programma riformistico radicale, che prevedeva tra l’altro la nazionalizzazione della produzione di rame e del sistema bancario, espropriazioni fondiarie, sensibili aumenti salariali. La linea governativa incontrò tra i conservatori crescenti resistenze, in particolare dopo la nuova vittoria elettorale delle sinistre, che nel 1973 ottennero il 43,39 per cento dei voti, e non mancò di suscitare anche una reazione da parte degli Stati Uniti, principali beneficiari dello sfruttamento delle miniere di rame. Le profonde difficoltà economiche, aggravate dallo sciopero a oltranza proclamato dagli autotrasportatori, indussero Allende a chiamare al governo alcuni esponenti delle forze armate, nella speranza di attenuare l’azione dell’opposizione. Una decisione che tuttavia non diede i risultati sperati. L’11 settembre 1973 i militari misero in atto un colpo di Stato: Allende morì nella difesa del palazzo presidenziale, La Moneda; una giunta militare, capeggiata dal generale Augusto Pinochet, ne prese il posto e inaugurò una sanguinosa repressione contro i militanti dei partiti di Unità nazionale, molti dei quali furono arrestati e fatti sparire.
10. Amintore Fanfani durante il referendum sul divorzio, Roma, 12 maggio 1974.
Il referendum del 12-13 maggio 1974 chiamava l’elettorato italiano a esprimersi sull’abrogazione della legge 1° dicembre 1970 sullo scioglimento dei matrimoni (legge Fortuna-Baslini). Favorevoli all’abrogazioni erano la Democrazia cristiana guidata da Amintore Fanfani, il Movimento sociale italiano e il Partito democratico italiano di unità monarchica; contrari i radicali, i socialisti, i comunisti, i repubblicani, i socialdemocratici e i liberali. Nonostante «Berlinguer [avesse affrontato] con grandi esitazioni [il referendum,] sia perché gli piaceva poco la frattura tra l’Italia cattolica e l’Italia laica – proprio l’opposto del compromesso storico – sia perché era sicuro che l’Italia laica sarebbe rimasta soccombente», i sostenitori del divorzio vinsero con il 59,3 per cento dei voti. Il referendum richiamò alle urne l’88,1 per cento degli elettori, divenendo così la seconda votazione per affluenza dopo quella che aveva deciso l’assetto costituzionale italiano tra Repubblica e Monarchia.
11. Attentato in piazza della Loggia, Brescia, 28 maggio 1974.
Il 28 maggio 1974 a Brescia, in piazza della Loggia, durante «una manifestazione antifascista indetta per protestare contro veri o supposti rigurgiti di violenza fascista», un ordigno collocato in un cestino portarifiuti provocò otto morti e 103 feriti. Anche in questo caso, come per piazza Fontana, gli inquirenti non riuscirono a identificare con certezza gli attentatori, anche a causa di sospette interferenze di rami dei servizi segreti collusi con ambienti eversivi. Un primo processo portò nel 1979 alla condanna di alcuni elementi di centrodestra, assolti in secondo grado nel 1982, sentenza confermata dalla Cassazione tre anni più tardi. Nel 1984 fu aperta una seconda inchiesta, sempre a carico di esponenti della destra, assolti però con formula piena nel 1989. Una terza istruttoria fu a carico di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, legati al gruppo neofascista Ordine Nuovo, dell’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino e di Giovanni Maifredi. Il 21 ottobre 2010 gli imputati sono stati accusati di concorso in strage, sentenza che il seguente mese di novembre la Corte d’Assise di Brescia ha ribaltato, assolvendoli con formula dubitativa. L’ultimo atto si è concluso il 14 aprile 2012, con la conferma da parte della Corte d’Appello di Brescia dell’assoluzione; ha destato sorpresa e critiche il fatto che le parti civili siano state condannate al rimborso delle sperse processuali.
12. Attentato al treno «Italicus», San Benedetto Val di Sambro, 4 agosto 1974.
Tra il 3 e il 4 agosto 1974, nei pressi di Bologna, un ordigno dilaniò un vagone dell’Italicus, il treno espresso che collegava Roma con Monaco di Baviera. L’esplosione causò la morte di dodici passeggeri e il ferimento di altri 48. L’attentato venne rivendicato da Ordine Nero, gruppo eversivo di estrema destra; le indagini «incerte, contraddittorie e poco convincenti» non permisero di identificare i responsabili e i mandanti, e di conseguenza il processo si concluse con l’assoluzione degli imputati. Tuttavia la commissione parlamentare che ha indagato sulla loggia massonica deviata P2 ha sottolineato come la strage dell’Italicus possa essere riconducibile non solo a organizzazioni neofasciste ma anche alla stessa P2, che istigò e finanziò i gruppi di destra.
13. Il trattato di Osimo, 10 novembre 1975.
A Osimo, presso Ancona, il 10 novembre 1975 Italia e Jugoslavia (rappresentate rispettivamente da Mariano Rumor e da Miloš Minić) risolvevano diplomaticamente la questione – irrisolta dal 1947 – del confine tra i due Stati, cui si era tentato di dare una prima soluzione con il Trattato di Londra del 5 ottobre 1954. In base al trattato del 1975, l’Italia rinunciava definitivamente alla Zona B, ossia ai territori dell’Istria e delle terre a est di Gorizia comprese tra Capodistria e Cittanova, costituita nell’ambito del Territorio Libero di Trieste e amministrata dalla Jugoslavia. La rinuncia fu duramente avversata dalla popolazione istriana, già in gran parte esule in Italia, la quale si ritenne abbandonata e tradita dal governo italiano.
14. L’assassinio del procuratore Coco e della scorta, Genova, 8 giugno 1976.
Il 18 aprile 1974 le BR rapirono il sostituto procuratore di Genova Mario Sossi e chiesero, in cambio della sua liberazione in buone condizioni, il rilascio di alcuni brigatisti legati al Gruppo XXII ottobre. Ma su Sossi, una volta liberato, furono riscontrate delle lesioni; questo spinse Francesco Coco, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Genova, a bloccare la scarcerazione. Due anni dopo, la rappresaglia dei brigatisti: nel centro di Genova, nei pressi della sua abitazione, Coco fu ucciso insieme con la sua scorta, composta dal brigadiere di polizia Giovanni Saponara e dall’appuntato dei carabinieri Antioco Deiana. L’attacco lanciato dal terrorismo ai rappresentanti dello Stato era solo agli inizi: il seguente 10 luglio fu trucidato a Roma da un gruppo di fuoco di Ordine Nuovo il giudice Vittorio Occorsio, che conduceva le indagini sul terrorismo e sulla Loggia P2. Dopo di lui altri nove tra magistrati e alti funzionari del sistema penitenziario (Vittorio Bachelet, Guido Galli, Emilio Alessandrini, Girolamo Minervini, Fedele Calvosa, Girolamo Tartaglione, Riccardo Palma, Nicola Giacumbi, Mario Amato) caddero tra il 1977 e il 1980 sotto i colpi di BR, Ordine Nuovo, Prima Linea, Nuclei Armati Rivoluzionari, Unità comuniste combattenti.
15. Il sequestro di Aldo Moro in via Fani, Roma, 16 marzo 1978.
L’«attacco al cuore dello Stato» venne portato dalle BR nel giorno in cui alla Camera era all’ordine del giorno la discussione sulla fiducia al governo monocolore presieduto da Giulio Andreotti, che ebbe l’appoggio esterno del PCI di Enrico Berlinguer. Alle ore 9 di quel 16 marzo undici brigatisti, tra cui Mario Moretti, Barbara Balzerani, Valerio Morucci e Prospero Gallinari, attuarono in via Fani un’operazione di natura militare pianificata fin nei minimi dettagli. Con un’azione fulminea le due auto su cui viaggiavano il presidente della DC e la sua scorta furono bloccate senza lasciar loro alcuna via di fuga: i cinque agenti caddero sotto una selva di proiettili e non ebbero pressoché il tempo di reagire, mentre lo statista fu prelevato di forza. Il sanguinoso agguato venne rivendicato 48 ore più tardi con il primo dei nove comunicati che scandirono i 55 giorni del sequestro Moro. La reazione fu «disorganizzata». Gli organi di sicurezza «agivano in base a norme superate: la pianificazione dei provvedimenti da adottare in caso di emergenza risaliva agli anni Cinquanta, e non era stata aggiornata neppure dopo la crescita allarmante del terrorismo». Nonostante la recente riforma dei servizi segreti e la costituzione dell’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali «“nei mesi nei quali maturò e fu eseguito il sequestro Moro in Italia non vi fu in pratica nessun servizio segreto preposto alla lotta contro l’eversione interna”». Mentre gli inquirenti brancolavano nel buio, nella «prigione del popolo» di via Cirollo Montalcini 8 iniziò a carico di Moro un processo che si sarebbe concluso con la sua condanna a morte.
16. Il governo rifiuta il negoziato con le Brigate Rosse per la liberazione di Aldo Moro, Roma, 2 maggio 1978.
All’indomani del rapimento l’Italia politica si trovò divisa in due fazioni: da una parte coloro che componevano il fronte della fermezza – la DC, il PCI, il PSDI, il PLI e il PRI –, dall’altra i possibilisti, tra cui spiccavano Craxi, i radicali, la sinistra non comunista, Amintore Fanfani e Giuseppe Saragat. Per i primi accogliere le richieste di rilascio dei compagni dei brigatisti sarebbe equivalso a una resa dello Stato davanti alla minaccia armata, mentre la via della trattativa poteva costituire un pericoloso precedente per il ripetersi di altri simili casi. A conclusione dei 55 giorni di prigionia, il 9 maggio 1978, le BR emisero il verdetto di condanna a morte nei confronti di Moro e fecero rinvenire il suo cadavere nel bagagliaio di una Renault 4 rossa lasciata in via Caetani, nel centro di Roma, ma con questo atto non avevano prevalso sullo Stato: «a distanza di pochi giorni dall’epilogo della tragedia si ebbero i primi arresti di brigatisti coinvolti nell’agguato […] I componenti del commando di via Fani e del gruppo di carcerieri […] furono via via catturati, e condannati in primo grado il 28 gennaio 1983, dalla Corte d’Assise di Roma».