Mathilde von Tuszien

Matilde di Canossa

Parlando di regine, imperatrici e donne di potere del periodo medioevale, non si può non nominare la donna che probabilmente ebbe il potere più grande, non solo della propria epoca, ma forse di tutta la storia che va, in Occidente, dalla caduta dell’Impero Romano ai nostri giorni.

Mathilde von Tuszien, più comunemente conosciuta come Matilde di Canossa, dal nome di uno dei suoi numerosi castelli, riuscì, più di qualsiasi altra donna di potere, a dominare incontrastata, sola e per tutta la vita, un grande panorama politico e a governare un enorme territorio, senza sostegno o alleanza con nessun uomo da lei sposato.

Matilde fu potente feudatario, contessa, duchessa, marchesa, regina e insostituibile alleata dello Stato Pontificio. Il suo dominio si estendeva su una regione vastissima: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e tutti gli altri territori italici che si trovavano a nord dei possedimenti del papa. Il suo stato era praticamente una zona-cuscinetto di fondamentale importanza strategica fra i territori dell’imperatore e quelli del papa, perciò la sovrana ebbe grande potere e influenza su entrambi.

Nessuna figura ha più rilevanza politica di Matilde nella storia di questa Europa dilaniata dalla lotta per le investiture: lunga serie di scontri politici e militari che caratterizza due secoli interi.

La sua fama, il ricordo della sua figura di enorme levatura morale e ingegno politico, sfuma talvolta nella leggenda, che inquina il ricordo di quasi tutti i giganti della storia, ed è stata spesso vittima di interpretazioni arbitrarie che nulla hanno a che vedere con la realtà della persona.

Lo stesso Dante fa di lei un personaggio della Divina Commedia: è Matelda, la donna che nel Purgatorio accompagna il poeta nel percorso verso il Paradiso fino all’incontro con Beatrice. Questa raffigurazione, seppur poetica, è quella che più ci fa avvicinare alla realtà di Matilde. Dante la descrive come una donna sola, che canta dolci melodie e intreccia collane di fiori, con grazia e tristezza allo stesso tempo, ed è questo che in realtà connota fortemente l’immagine che si ha di lei: una donna che in nome della carriera ha accettato una solitudine profonda, vissuta come proprio destino ineluttabile.

Matilde nasce a Mantova nel 1046, terzogenita di una delle più potenti dinastie feudali dell’Italia, i marchesi di Tuscia, di origine e lingua longobarda, quindi tedesca.

Suo padre Bonifacio III “il tiranno” - soprannome che non ha riscontro in nessun particolare autoritarismo del duca - che già era di alto ceto sociale, aveva fatto un grande matrimonio: aveva sposato nientemeno che Beatrice di Lotaringia, di famiglia imperiale (Corrado II era suo zio) e imparentata anche con i duchi di Svevia e di Borgogna oltre che con papa Stefano IX.

Questo intreccio di altolocate parentele è motivo centrale del ruolo di mediazione che la contessa ebbe durante la lotta fra impero e papato.

È la madre ad avere il maggior peso in tutte le decisioni che riguardano Matilde e i suoi fratelli durante l’infanzia. Beatrice è di un casato superiore a quello del marito: sceglie lei il nome dei figli, così come la loro prima educazione.

Anche nella giovinezza di Matilde la figura paterna ha un peso limitato. La piccola si nutre da subito di forti indicazioni sulla possibilità per una donna di possedere e gestire il potere e la responsabilità al pari di un uomo.

Beatrice, donna di intelligenza acuta e lungimirante, allevata nell’arte della politica alla corte imperiale, non privilegia i due primogeniti maschi nelle opportunità educative: l’alta mortalità dei tempi fa sì che la regina offra a tutti e tre i figli identiche possibilità di regno.

Nessun investimento si dimostra più proficuo e ricompensato di quello che Beatrice di Lotaringia fa sulla piccola Matilde.

La bambina trascorre la prima infanzia prevalentemente nel castello di Canossa, che rimarrà per lei la residenza preferita e il suo “buon ritiro” per tutta la vita. A soli sei anni sa parlare perfettamente tedesco, francese e latino e, cosa rara, sa anche scrivere in tutte e tre le lingue.

Questa infanzia dorata viene interrotta bruscamente da un episodio che segna il successivo percorso della vita di Matilde: il 6 maggio 1053, il padre Bonifacio III viene ucciso a tradimento da una freccia avvelenata di un suo cavaliere. Il fatto accade durante una battuta di caccia e non vi sarà mai certezza dei mandanti.

La conseguenza immediata è che Beatrice si trova a governare da sola le immense proprietà e a tutelare i tre figli, rimasti senza la protezione del padre. Gli avvoltoi che pensano di minare il potere della famiglia in tale periodo di transizione sono molti.

Beatrice pensa di chiedere aiuto all’imperatore Enrico III (suo cugino), che concede subito il “privilegio di protezione personale”, che nel Medioevo, consisteva nel fatto che qualsiasi reato compiuto nei riguardi della persona sottoposta a tale stato giuridico, era considerato compiuto anche a danno del protettore; nel caso specifico, l’imperatore in persona.

Non che Enrico abbia un animo particolarmente sensibile; prende la sua decisione per trarre dalla situazione un vantaggio politico: poiché il privilegio poteva essere offerto da una sola autorità, l’imperatore preferisce concederla alla Lotaringia prima che lo faccia il papa, assicurando così a sé un’alleanza importante.

Non dobbiamo mai scordarci, in tutto questo percorso di difficile interpretazione per le numerose alleanze, tradimenti, guerre e fini giochi diplomatici, la posizione cruciale dei territori dei Tusci: chiunque dei due contendenti, papa e imperatore, volesse muovere guerra all’altro o difendersi da lui, doveva avere l’appoggio dei Canossa e il permesso di passaggio sulle loro terre.

Nel 1053, lo stesso anno della concessione del “privilegio”, muoiono per “maleficio” entrambi i fratelli di Matilde.

Il “maleficio” era una morte di cui non si riusciva a dare una spiegazione. Pare che i due ragazzi presentassero sintomi di avvelenamento, ma si suppone fosse un’intossicazione casuale di origine alimentare, evento frequente in tempi in cui le condizioni igieniche del cibo lasciavano molto a desiderare.

Matilde ha sette anni ed è unica erede del regno e del potere dei Tusci: è la bambina più importante dello scacchiere politico europeo.

Se ne rende conto Enrico che, spaventato anche dall’ascesa al soglio pontifico di Stefano IX, zio della piccola, decide di fare un colpo di mano: scende in Italia e prende in ostaggio Beatrice e la piccola erede. Matilde ha dieci anni: non dimenticherà mai l’umiliazione della prigionia in Germania.

Beatrice, ancora bella e giovane, non può tollerare che una discendente degli Svevi sia tenuta in ostaggio; ma è donna e, anche se intelligente e orgogliosa, non possiede la personalità forte e virile che invece contraddistinguerà la figlia. Trova una soddisfacente soluzione in un nuovo matrimonio con un nobile che può garantire a lei e a Matilde protezione, anche contro Enrico. L’uomo scelto è Goffredo il Barbuto, cugino di Beatrice stessa e fratello di Papa Stefano.

Nel frattempo muore l’imperatore e Matilde può tornare in Italia.

Il matrimonio fra Beatrice e Goffredo rafforza enormemente il potere dei Tusci: il Barbuto è uomo d’armi e ha al suo servizio un potente esercito.

Il periodo storico è tutto un succedersi di papi che decretano strategie e nuove regole interne riguardo alla gestione degli equilibri di potere: la Chiesa è, per tutto il Medioevo, un potere temporale. La supremazia per le investiture feudali sancisce rapporti di forza che sono oggi paragonabili - sempre che si possa fare un confronto - al possesso o meno di armi nucleari.

I Tusci stanno nel mezzo, sfruttano questa lotta fra titani per rafforzare il proprio potere e indebolire quello dell’imperatore e del papa.

Matilde non assisterà mai passiva a questa “guerra fredda”, ma cavalcherà le tensioni da vera signora della diplomazia e sarà artefice di equilibri e di avvicendamenti di potere.

È questa la sua scuola, alla corte di Goffredo e Beatrice, dove affina capacità innate e doti acquisite con la fatica della dedizione allo studio e all’ascolto.

Matilde ora è cresciuta. È una giovane donna, un’adolescente non bella come la madre ma graziosa e, al contrario di come si potrebbe ritenere, estremamente femminile.

Il matrimonio di Goffredo con Beatrice prevedeva un’importante clausola: il figlio del Barbuto, Goffredo il Gobbo, avrebbe sposato la figlia di Beatrice, Matilde appunto.

La clausola, voluta da entrambi i contraenti, avrebbe rafforzato il casato, impedendo che si disperdessero i possedimenti dei Tusci-Lotaringi.

Nel 1069, con il Barbuto morente, vengono celebrate in fretta le nozze tra i due giovani.

Matilde, subito dopo, accorre al capezzale del patrigno che sta morendo in Lotaringia e dimostra un affetto e un attaccamento sincero verso l’uomo che le ha fatto veramente da padre. Adesso è una donna sposata e, sotto indicazione della madre, decide di rimanere in Lotaringia al fianco del marito. Goffredo il Gobbo non è un cattivo soggetto ma è afflitto da numerosi problemi fisici fra i quali, oltre alla gobba, un enorme gozzo (si diceva assai più grosso di quello di un tacchino). Per di più, ha una personalità insignificante.

Matilde non è innamorata. L’amore è cosa superflua in un matrimonio tra nobili, ma la contessa lo ritiene addirittura un ostacolo al raggiungimento dei propri scopi: gestire il potere sulle sue terre e ricavare il massimo dalle controversie fra Impero e Papato.

Fa comunque buon viso a cattiva sorte e, con tanta buona volontà, cerca di sopportare il poveretto. Rimane persino incinta e partorisce la sua unica figlia, che chiama Beatrice. Il parto si dimostra drammatico e, come allora accadeva con frequenza incredibile, la bimba muore subito: è il 29 gennaio 1071.

La prima esperienza di Matilde con il matrimonio finisce qui: irritata dalle accuse della famiglia del Gobbo di portare il malocchio, accuse legate alla morte della bimba e alla mancata nascita di un maschio, fa - per così dire - i bagagli e torna a casa propria. È il 1073 e sono trascorsi solo tre anni dalle nozze, ma per Matilde è passato anche troppo tempo.

Il Gobbo, ferito nel virile orgoglio, scenderà in Italia nel 1074, a capo di truppe armate, deciso a riprendersi la moglie.

Matilde non è però affetta da romanticismo, né conosce i sensi di colpa e tantomeno rientra nei suoi programmi la sottomissione a un uomo. La risposta è talmente decisa che il Gobbo, non volendo scatenare una guerra, se ne torna in Lotaringia con le pive nel sacco.

Il povero marito, tra l’altro, camperà pochissimo: nel 1076, cadrà vittima di un’imboscata nelle sue terre, vicino ad Anversa. Durante la notte, spinto da necessità del corpo, si reca al gabinetto: lì lo attendeva un sicario che gli conficca una spada nell’ano. Il disgraziato sopravvive fra atroci dolori per una settimana e poi, finalmente, muore.

Subito viene accusata Matilde, poiché lo stato di vedova è per lei senz’altro migliore di quello creatosi alla separazione di fatto. La contessa non dà il minimo peso ai discorsi di accusa e, data la sua posizione, nessuno osa più chiacchierare di sospetti. Vero è, però, che Matilde non fa dire nemmeno una messa da requiem, né versa l’obolo alla Chiesa, né tantomeno, come si usava fra ricchi feudatari, fa costruire un convento alla memoria del marito.

Forte della sua posizione, dimostra semplicemente quello che prova: un gran sollievo.

Il 18 aprile 1076 muore anche sua madre e Matilde, trentenne e libera, diviene sovrana incontrastata di tutte le terre che vanno dal Lazio al Lago di Garda. Cominciano i suoi quarant’anni di regno.

Riuscirà a governare, amatissima e temutissima dal suo popolo, su quel territorio infido e frammentato, stretto fra le grandi potenze. Sarà in grado, complice una grande abilità diplomatica, di mantenersi imparziale, favorendo in modo equanime le posizioni del Papato e dell’Impero e garantendo, di volta in volta, le due parti avverse, in entrambe le quali militavano suoi diretti parenti.

Emblema e trionfo di quest’arte diplomatica è il famoso episodio di Canossa.

Senza entrare nei particolari di questo evento conosciutissimo, vogliamo evidenziare la completa libertà d’azione di Matilde che opera senza nessun atto di sottomissione verso l’uno o l’altro dei potenti. La sua totale autonomia e la sua capacità di mediazione politica sono riconosciute, sia da Gregorio VII che da Enrico IV.

Matilde umilia l’imperatore, suo cugino, nel 1079, quando dona al papa tutti i propri domini: è una sfida aperta a Enrico, che vanta su quei territori diritti feudali e di parente prossimo della contessa.

Nel 1080, con il Concilio di Bressanone, i giochi di potere si ribaltano: l’imperatore durante il Concilio fa deporre il papa e decide di scendere di nuovo in Italia per rivendicare i suoi diritti sui territori del centro della penisola.

Papa Gregorio è costretto all’esilio, però Matilde non si arrende. A Sorbara (Modena), il 2 luglio del 1084, in un’epica battaglia che la vede alla testa del proprio esercito, sbaraglia inaspettatamente le truppe imperiali e crea con il popolo di Bologna, fino a quel momento neutrale, una lega a favore del papa.

Nel 1088 Enrico IV prepara una nuova discesa in Italia.

Papa Gregorio è morto e l’attuale Pontefice non offre a Matilde grandi garanzie.

La contessa si deve allora decidere a fare ciò che più detesta: sposarsi per ottenere un’alleanza. Sceglie il marito più adatto a quello scopo e, com’è nel suo carattere, glielo dice senza intermediari. Il prescelto è Guelfo V di Baviera, un duca tedesco, erede di un casato pronto a fronteggiare l’imperatore.

Guelfo ha 19 anni, Matilde 40. Nella lettera di richiesta di matrimonio lei parla con una chiarezza che non permette dubbi: “Non per leggerezza femminile o per incoscienza, ma per il bene di tutto il mio popolo t’invio questa lettera... ti darò tante città e castelli e oro... se ti renderai a me caro... è lecito sia al sesso maschile che a quello femminile aspirare a un’unione... ” e così continua per tutta la lettera con toni e contenuti di una modernità e intraprendenza affascinanti.

Il problema nascerà dal fatto che il giovane Guelfo, comprensibilmente, non si rende “a lei caro”. Si rifiuta infatti di consumare il matrimonio.

Matilde, furibonda, prima di cacciare in malo modo dal castello il marito, in una celebre scenata, lo prende a schiaffi, sputi e pedate e, non contenta, gli affibbia il soprannome di “Guelfo l’Impotente” che nessuno osa contestare. Il duca viene ucciso pochi anni dopo in battaglia e di lui nessuno parlerà più.

Si conclude così l’ultimo tentativo di Matilde di avere una vita femminile normale. Il resto della vita lo trascorrerà nell’assoluta dedizione a un unico amore: il potere.

Fu protagonista assoluta di tutte le vicende di quegli anni nei quali l’avvicendarsi di papi e imperatori modificava di frequente, in maniera radicale, equilibri dati per certi, mentre il potere della contessa di Tuscia, marchesa e duchessa, rimaneva sempre incontrastato e indiscusso.

Enrico V, figlio del suo grande antagonista e cugino Enrico IV, le conferì nel 1111 il titolo di Regina d’Italia e Vicaria del Papa. Matilde, da parte sua, confermò all’imperatore il diritto feudale sulle proprie terre, mettendo così fine a una controversia durata vent’anni.

Nel 1115, malata di gotta, Matilde muore e viene sepolta a San Benedetto Po. Per volere di Urbano VIII, nel 1633, la salma viene traslata a Roma, in Castel Sant’Angelo. Alcuni anni dopo, la grancontessa viene definitivamente inumata nella basilica di San Pietro; a tutt’oggi è l’unica donna lì sepolta, insieme alla regina Cristina di Svezia.