Premessa

Ricordo violenti temporali e forti raffiche di vento che si abbattevano la notte sulle fragili abitazioni di fango adagiate in un mare di vegetazione. Erano i preludi notturni alla stagione delle piogge. Al mattino, invece, dominava una calma assoluta resa irreale da una strana luce che a fatica si faceva spazio nella foschia. Il vento, la pioggia, e l’usura del tempo causavano spesso il crollo di qualche abitazione. Mi stupiva l’impassibilità dei miei collaboratori alla vista di quei crolli, dicevano che era normale e che in poco tempo tutto sarebbe stato ricostruito.

Questo libro racconta come nei villaggi del Congo nord-orientale, abitati da gruppi medje-mangbetu, vengono pensati e messi in atto alcuni progetti di costruzione, progetti che non riguardano gli edifici crollati sotto le intemperie, ma gli uomini stessi e i reticoli sociali in cui sono inseriti. Infatti, analogamente alla fragile casa modellata col fango, l’essere umano viene «forgiato» e le relazioni sociali vengono «plasmate», viene data loro una forma particolare corrispondente a una qualche idea di umanità e di società.

Durante i soggiorni sul campo (1995-1996) ho rintracciato in alcuni eventi rituali e in specifiche istituzioni i luoghi privilegiati dove cogliere tali progetti di costruzione; ho ascoltato ciò che la gente dei villaggi aveva da raccontarmi in proposito; ho riempito molti nastri e alcuni grossi quaderni. A mano a mano che la ricerca avanzava, i progetti indigeni di costruzione dell’essere umano e della società si intrecciavano nella mia mente e in quei grossi quaderni con il progetto di costruzione della mia ricerca, del modo di riportare i dati, di disporli in un prodotto finale. Analogamente alle case di fango, agli uomini e alle società, anche i dati raccolti, le annotazioni e le riflessioni necessitano di una forma, «chiedono di essere plasmate». Questo processo di costruzione non è altro che il mio tentativo di descrizione e di interpretazione, un tentativo che prende la forma di un susseguirsi di connessioni attraverso le quali vengono intrecciati fra loro riti di circoncisione, patti di sangue, società segrete, riflessioni indigene su cosa debba diventare un essere umano e su come debba essere costruito un reticolo sociale.

L’intreccio che si viene a creare fa emergere, dal groviglio di reti che rappresenta la complessità del reale, un frammento di rete sfilacciata e provvisoria. La costruzione dell’intreccio attraverso le connessioni dipende da una infinità di elementi e condizionamenti che coinvolgono la processualità del «fare» antropologico senza mai abbandonarlo. L’antropologo compie delle scelte specifiche, decide quali società connettere fra loro nella comparazione, quali elementi di una stessa cultura sottoporre a connessioni, e nel fare ciò l’antropologo non può prescindere dal proprio retroterra culturale, dalla «scatola degli attrezzi concettuali» che si porta sul terreno di ricerca, dalla scelta dei collaboratori e degli informatori indigeni, dagli eventi che accadono sul campo, dalle letture mirate e da quelle casuali, dai disegni di trame e spesso dalla progettazione di un libro.

Le scelte che l’osservatore compie per descrivere e interpretare il reale determinano il tipo di connessione e di conseguenza il frammento di rete che si vuole fare emergere. Questa prospettiva, secondo la quale la fabbricazione di un intreccio e l’emergere di un frammento di rete sono inseparabili nell’attività «poietica» dell’antropologo (nel «fare» antropologia), vorrebbe rappresentare un tentativo per rimanere contemporaneamente immuni sia dalle derive degli oggettivismi (piegati recentemente da forti raffiche di vento e da violenti temporali decostruzionisti) sia dalle derive dei riflessivismi radicali i cui risultati assomigliano alle calme e irreali mattine in foresta, dove la foschia lascia intravedere davvero poco.

L’intreccio inizia da una strana classificazione indigena (cap. I). L’essere identificato dai locali come ingegnere idraulico esperto di fiumi e l’essere arrivato nel Congo nord-orientale durante la stagione delle sciamature delle termiti ha influenzato l’indirizzo della ricerca e ha permesso di cogliere un frammento di antropologia indigena che il lettore ritroverà, a partire dal terzo capitolo, nel rituale di circoncisione. Si impongono fin da subito due immagini (quella del fiume e quella del termitaio) che permangono sullo sfondo dell’intero volume per poi riemergere nelle pagine finali chiudendo il cerchio della narrazione. Il fiume rappresenta lo scorrere inesorabile della vita, mentre il termitaio appare come l’immagine di una costruzione sociale che vorrebbe opporsi al flusso del tempo.

Gli strumenti, contenuti nella «scatola degli attrezzi concettuali» che l’antropologo porta con sé, spesso non sono appropriati alla realtà «altra» che si intende studiare. Parlando di villaggi, famiglie e clan e ricostruendo il popolamento della regione (cap. II), non solo si mescolano termini e concetti dell’osservatore e dei locali, ma si narra di un reale mescolarsi di lingue, popoli e pratiche rituali. Significativo è che i gruppi insediati nell’area della ricerca «mescolano», «mettono insieme» addirittura i loro bambini per mezzo di un rito di circoncisione che prevede un’alleanza tra famiglie sancita con lo scambio di sangue dei circoncisi.

Lasciando frequentemente parlare in prima persona gli intervistati, ho ricostruito il rito di alleanza tramite circoncisione dei Medje-Mangbetu denominato noutu (cap. III), un rituale di cui non esisteva finora alcun resoconto etnografico. Ancora una volta la «scatola degli attrezzi» è risultata inadeguata. Gran parte delle letture fatte prima della partenza, in particolare i testi concernenti i classici riti di circoncisione, non hanno fornito modelli adatti per il noutu, in cui ogni padre di famiglia sceglie per il proprio figlio un compagno di circoncisione fuori dalla cerchia dei parenti, sovente fuori dallo stesso gruppo etnico. Non è in gioco l’identità medje-mangbetu ma un’alleanza con gli altri gruppi della regione.

Accade spesso che il lavoro sul terreno subisca bruschi e repentini stravolgimenti dovuti al mutamento delle aspettative e dell’oggetto di studio. Così, il progetto di condurre la ricerca all’interno dei villaggi medje-mangbetu non poteva più essere sostenibile una volta appurata la valenza interetnica del rituale in questione. Occorreva andare fra gli «altri», nei villaggi dei Babudu, dei Balika, negli accampamenti dei Pigmei, ovunque avessi trovato famiglie alleate, con il sangue dei circoncisi, ai Medje-Mangbetu. Grazie a questa apertura verso gli altri, ha preso forma inaspettatamente un metodo di analisi dei riti particolarmente proficuo. Infatti, il viaggio ideale nella foresta delle alleanze ha permesso di comparare diversi stili e tradizioni rituali e la loro evoluzione nel tempo (cap. IV). In tal modo si sono potute ricostruire le dinamiche e rintracciare i motivi dell’affermarsi – probabilmente a causa della sopraggiunta logica coloniale – di questa curiosa alleanza fra famiglie di circoncisi.

Il rituale in questione (il noutu) non si presenta soltanto come una ragionevole possibilità per gli abitanti della regione di riformulare la pratica della circoncisione nel quadro del nuovo ordine coloniale, ma veicola e contribuisce a realizzare un preciso progetto «antropo-poietico» (di costruzione dell’uomo) che sottende una specifica idea di umanità. Per meglio cogliere tale progetto si sono suggerite connessioni tra l’alleanza con circoncisione e altri momenti della vita dell’individuo, in particolare la nascita e la morte (cap. V). In questi e altri ancora momenti cruciali della vita la riflessione sull’uomo si intreccia con la riflessione sulla pluralità di individui con cui si interagisce; la costruzione dell’individuo è inscritta nella costruzione della configurazione sociale. Il progetto di costruzione dell’uomo (progetto antropo-poietico) non può prescindere da un progetto di costruzione della società, della comunità (un progetto dunque «koino-poietico»).

L’intreccio fra antropo-poiesi e koino-poiesi si chiarisce attraverso la connessione dei significati che scaturiscono in vari momenti del processo di crescita dell’individuo. L’originalità del caso etnografico analizzato in questo libro non risiede soltanto nella centralità assunta dal concetto di alleanza ma anche nello stretto legame fra la riflessione sull’uomo e la riflessione sulla società. Il noutu «costruisce» individui adulti creando alleanze, cioè «mettendo insieme» una pluralità di esseri umani. Qualcosa di analogo sembra accadere nella società segreta denominata nebeli (cap. VI). La connessione fra il noutu e il nebeli mi sembrò talmente importante che a partire da un certo momento del mio soggiorno in Congo, decisi di concentrare la mia attenzione su tale associazione segreta, che – secondo gli indigeni – è un altro modo per «creare rapporti tra famiglie», un altro modo per mettere insieme una pluralità di individui in base a un preciso progetto di umanità. Sembra che entrambe le istituzioni si siano affermate nel periodo coloniale e rappresentino risposte «plurali», «collettive» alla crisi dei valori e dei punti di riferimento tradizionali. È oltremodo significativo il fatto che sia il noutu sia il nebeli creino reti di relazioni che si estendono al di là dei confini etnici, riformulando in termini nuovi il senso dell’appartenenza a un gruppo.

Nella parte conclusiva del volume si ripercorre l’intreccio – o meglio, le varie connessioni introdotte – e si sottolineano alcuni aspetti dell’antropologia implicita emersa dalla ricerca. Le riflessioni degli indigeni sull’inesorabile scorrere della vita e sui tentativi di costruzione e di modellamento sia dell’essere umano sia della società – tentativi strettamente connessi alla dimensione plurale dell’esistenza umana – vengono fatte dialogare con alcuni pensatori occidentali (da Dostoevskij a Nietzsche, da Sofocle ad Hannah Arendt), mostrando in tal modo come anche in sperduti angoli della foresta equatoriale africana i gruppi sociali, con i loro rituali, dibattano problemi di notevole profondità teorica come quelli evocati all’inizio del volume: ovvero i problemi connessi ai tentativi di costruire socialmente strutture dure come termitai, al bisogno di pluralità e all’inesorabile fluire del tempo.

Benché la responsabilità di ciò che è scritto in queste pagine ricada per intero sull’autore, un’infinità di persone e di amici hanno contribuito più o meno direttamente allo svolgimento della ricerca e alla stesura di questo libro. In primo luogo sono immensamente grato al compianto padre Oscar Goapper per avermi sostenuto umanamente fin dall’inizio e agli amici missionari della Consolata del villaggio di Neisu per avermi «adottato», non solo fornendomi una casa nei pressi della loro, ma soprattutto facendomi sentire a casa ogni qual volta rientravo dalle mie peregrinazioni nei villaggi della zona. Non sarei neppure riuscito ad arrivare nei territori della ricerca senza l’appoggio dei missionari della stessa congregazione che operano a Isiro e a Kinshasa; a loro e alla comunità delle Suore del Sacro Cuore di Neisu va il mio più sentito ringraziamento.

Ringrazio inoltre tutti coloro che a più riprese mi hanno aiutato a orientarmi nella cultura medje-mangbetu. In primo luogo, Padre Antonello Rossi che, rientrato in Italia dopo aver fondato la missione di Neisu, è diventato un cultore appassionato della storia mangbetu e mi ha fornito molto materiale bibliografico; in secondo luogo, i responsabili del centro evangelico di Egbita per avermi dato preziose informazioni linguistiche; in terzo luogo, l’etnomusicologo e linguista belga Didier Demolin e l’antropologo statunitense Robert McKee per aver messo a mia disposizione le loro conoscenze sulla cultura medje-mangbetu; e infine, il personale e i ricercatori che lavorano nelle biblioteche e negli archivi di Tervuren.

Il debito più grosso quando si conduce una ricerca sul terreno è nei confronti della gente del posto, le persone che mi hanno ospitato nei loro villaggi e coloro che aridamente vengono definiti «informatori» e «collaboratori», ma che in moltissimi casi diventano amici, come è accaduto con Dieudonné Abuomwandrodio e Roberto Mopay, che ringrazio particolarmente.

Un ringraziamento doveroso rivolgo alle istituzioni che hanno reso possibile lo svolgimento di questa ricerca: il Dipartimento di Scienze Antropologiche, Archeologiche e Storico-Territoriali del­l’Università di Torino, la Missione Etnologica Italiana in Africa Equatoriale patrocinata dal Ministero Affari Esteri e diretta dal professor Francesco Remotti e il dottorato di ricerca in «Antropologia culturale ed Etnologia: teoria e pratica della ricerca».

Vorrei ringraziare coloro che a vario titolo hanno letto la mia tesi di dottorato (dalla quale è tratto il presente libro) fornendomi consigli e osservazioni preziose: all’interno del dottorato i miei supervisori, professor Ugo Fabietti e professor Francesco Remotti che ha seguito fin dall’inizio lo svolgimento della ricerca e la stesura della dissertazione finale, i professori Adriana Destro, Salvatore D’Onofrio e Tullio Seppilli della commissione giudicatrice, il professor Pier Paolo Viazzo e il dottor Marco Aime. Penso che mia madre, mio padre e Brunella troveranno in queste pagine una ragione in più al grande sostegno che mi hanno dato e per il quale li ringrazio.