Capitolo primo.
Una strana classificazione indigena

Guardare il fiume fatto di tempo e acqua

e ricordare che il tempo è un altro fiume,

sapere che ci perdiamo come il fiume

e che i visi passano come l’acqua

Jorge Luis Borges, L’arte poetica

1. L’ingegnere idraulico nella stagione delle termiti

Quando riuscii finalmente a raggiungere il villaggio di Neisu nella foresta del Congo nord-orientale, Oscar, il medico missionario che avrebbe dovuto ospitarmi, non c’era. Era partito una settimana prima per una spedizione di piacere alle cascate del Nepoko (affluente dell’Ituri) organizzata dal capo del dominio Medje (confinante con il dominio Ndei a cui appartiene Neisu) e composta da decine di portatori e da alcuni cacciatori pigmei. L’arrivo non fu dei migliori: non c’era la persona con cui ero in contatto e per di più mi trascinavo da alcuni giorni un’infezione virale con febbre alta. Rimasi quasi l’intera giornata a letto. Il villaggio mi sembrò silenzioso: nessuno schiamazzo, pochi rumori, nessuno venne a curiosare o a indagare sulla mia identità. La sola sensazione fu che la foresta non riusciva a mitigare il calore della stagione secca.

Fortunatamente la stessa sera arrivò Oscar, il quale a partire dal giorno successivo mi aiutò a introdurmi fra gli abitanti del villaggio e a cercare potenziali collaboratori e informatori. – «Bonjour ingénieur de la chute!»; dalle prime presentazioni mi resi conto che l’intero villaggio mi aveva già attribuito una chiara identità: ero un ingegnere idraulico.

Per spiegare questa curiosa «classificazione indigena» occorre tornare indietro di alcuni mesi, quando era giunto a Neisu un ingegnere argentino, amico di Oscar, per valutare la fattibilità di un piccolo progetto idroelettrico su un fiume che scorre non lontano da Neisu in territorio Ndei. Tramite una piccola turbina sarebbe stato possibile alimentare l’ospedale del villaggio e prevedere eventuali allacciamenti.

Partendo dal presupposto che per un africano non si cammina in foresta per più di una settimana soltanto per piacere, Oscar si era evidentemente recato alle cascate del Nepoko per verificare la possibilità di trasferire il progetto idroelettrico laggiù nel dominio Medje. Tutto ciò era vissuto dagli abitanti di Neisu come un alto tradimento; tali supposizioni sarebbero state rafforzate dall’arrivo di un ingegnere esperto di fiumi e cascate.

Fu proprio in quei giorni che arrivai nel villaggio; la forzata reclusione durata un’intera giornata, dovuta all’infezione virale, aumentò la diffidenza nei confronti dell’intruso e favorì l’affermarsi dell’ipotesi che resistette alle mie precisazioni per alcune settimane.

A conferma che l’impatto con il campo non è mai neutro, un secondo evento si impose al mio «essere là». Durante una delle prime serate, diligentemente trascorse alla luce di una torcia elettrica a riflettere sulle modalità del debutto della ricerca, feci la conoscenza delle termiti alate. Infatti in un determinato periodo dell’anno, a una determinata ora di determinati giorni, numerosissime flotte di termiti alate lasciano i termitai per andare a fondarne altri poco lontano. Attratte dalla luce si dirigono in massa verso la fonte luminosa facendo la felicità di chi è pronto a catturarle per mangiarle, o la disperazione di chi stava ingenuamente riflettendo sulle modalità del debutto della ricerca. Non avevo scampo, ero un ingegnere idraulico arrivato fra i Medje-Mangbetu nel pieno della stagione delle termiti.

L’aspetto più rilevante del duplice evento (una falsa identità abbinata a un fatto naturale stagionale) fu l’impossibilità di relegare banalmente tutto ciò nel mondo degli aneddoti e delle curiosità. Le riflessioni serali in compagnia delle termiti, sulle modalità del debutto della ricerca, subirono una «rivoluzione tolemaica»: mi trovai al centro di tali riflessioni, dovetti riflettere su me stesso prima che sull’oggetto di studio. Il punto di partenza dell’intero lavoro sul campo fu completamente diverso da come era stato prospettato. Non più loro, «gli altri», non più l’inizio di un intreccio su di loro ma un frammento di narrazione indigena in cui l’antropologo era il personaggio. Tutto ciò ebbe il sapore di uno scacco matto, dell’essere stato preso in contropiede. La speranza di poter essere un discreto tessitore non doveva venire meno, ma sicuramente doveva fare i conti con una rete preventivamente tessuta dagli indigeni e in cui ero chiaramente inserito. Questa vertiginosa antropologia dell’antropologo mi portò, nelle interminabili serate in foresta, a riflettere (con ironia) su quanto tutto questo richiamasse il concetto heideggeriano della Geworfenheit (l’essere gettati nel mondo), o riecheggiasse l’impresa del capitano Cook identificato dagli Hawaiiani come il dio Lono.

Fu così che fin da subito ebbi la sensazione che tale impatto con il campo avrebbe influenzato la ricerca. Non riuscivo o non volevo liberarmene, e per l’intera durata del mio primo soggiorno sul campo molti colloqui con gli informatori riguardarono i fiumi e i termitai. Non fu una scelta ragionata ma una logica possibilità di approccio a una realtà su cui non era stato scritto molto e alla quale ero chiamato ad attingere per accumulare informazioni.

I fiumi e i termitai costituiranno uno sfondo sul quale sviluppare l’intera argomentazione del libro. In particolare in questo primo capitolo è mia intenzione, oscillando tra fiumi e termitai, proporre un percorso descrittivo e interpretativo attraverso il quale sia possibile fare emergere una parte di etnografia medje-mangbetu, ipotizzare un frammento di antropologia implicita e quindi iniziare il lavoro di «tessitura» in cui intrecci, connessioni e reticoli incominciano a prendere forma intorno alle due prime immagini che si imposero al mio «essere là».

2. L’ambiente, la dieta e il lavoro

Nei mesi di permanenza sul campo, non mi è stato difficile incontrare termitai lungo le strade e i sentieri, nel mezzo dei campi e nel fitto della foresta, e per ciò che concerne i fiumi e i ruscelli, solo la mia bicicletta può ricordare gli innumerevoli equilibrismi su ponti di tronchi instabili che insieme dovevamo affrontare a intervalli regolari ogni qualvolta bisognava raggiungere la nébha (compound, villaggio) di un anziano Medje troppo paziente o troppo timorato di un mondele («uomo bianco» in lingala) per non prestare ascolto alle mie domande.

I Medje-Mangbetu sono insediati in una piatta regione sul confine fra la foresta e la savana, attraversata da un’infinità di fiumi le cui acque, scorrendo per la quasi totalità da oriente a occidente, vanno a gettarsi nel Uele e nell’Aruwimi, affluenti del fiume Congo (fig. 2). Da un punto di vista amministrativo1, i Medje-Mangbetu occupano le collectivités (unità politiche che ricalcano le antiche chefferies) di Mongomasi, Ndei e Azanga (fig. 3).

Lo storico africanista Jan Vansina, riferendosi al bacino in­terno del grande fiume africano, include il territorio in questione nelle alte terre dell’est (Eastern Uplands); più specificamente pone la sua attenzione su un’area inclusa fra il medio Bomokandi e il Nepoko in cui «sono parlate 28 lingue appartenenti a tre delle maggiori famiglie linguistiche dell’Africa, come se la popolazione fosse immigrata in questa regione da ogni punto del compasso» (1990a: 169).

Gruppi ubangiani, sudanesi e bantu «si sono mescolati a partire dalla seconda metà del primo millennio della nostra era nell’area fra il medio Bomokandi e il Nepoko, e dal 1000 d.C. le loro differenti eredità si sono fuse in una nuova comune tradizione» (Vansina 1990a: 172). Una parte consistente di questa area è occupata dai Medje-Mangbetu che parlano il dialetto medje della lingua mangbetu2 e sono probabilmente originari delle regioni al confine fra Congo, Sudan e Uganda.

I motivi di questo confluire di popoli nella regione del medio Bomokandi-Nepoko sono in primo luogo dovuti alle caratteristiche ambientali, in quanto coesistono, sfumando l’una nell’altra, la foresta e la savana (Peeters 1964). Dal punto di vista ecologico si tratta di un’area di confine in cui la varietà di piante e di animali è decisamente più ricca a confronto degli ambienti uniformi di foresta a sud e di savana a nord. Dove finisca la foresta e dove inizi la savana non è facile stabilire con esattezza; il termitaio diventa così un elemento di semplificazione nella percezione dell’ambiente della regione in quanto, come sottolinea Emalongo, un anziano informatore medje: «qui ci sono termitai di foresta e altri di savana. La differenza è fra l’umido e il secco».

Mentre i fiumi forniscono direttamente le coordinate più significative (anche da un punto di vista storico-culturale) per presentare il territorio, i termitai che segnano e costellano ovunque la regione aiutano indirettamente a descriverla.

Se il fiume – come si vedrà in seguito – rientra nelle riflessioni degli antropologi, non altrettanto si può affermare riguardo ai termitai. Quando si ha bisogno di conforto ci si rivolge agli antenati; fu così che tornato dall’Africa dopo il primo soggiorno, andai a verificare se qualche antropologo africanista si fosse mai minimamente interessato alle termiti. Fra i pochi riferimenti che trovai ve n’era uno altamente significativo: Edward E. Evans-Pritchard, uno dei più noti antropologi africanisti, nel suo scritto sulla stregoneria e la divinazione zande descrive e analizza il ruolo dell’oracolo delle termiti fra gli Azande, confinanti a sud con i Medje-Mangbetu. Occorre sottolineare che nel volume in questione, il primo riferimento alle termiti non è in relazione alla divinazione ma alla dieta dei locali: «Per sopravvivere, coltivano il suolo, uccidono animali e pesci e raccolgono frutti selvatici, radici e insetti [...]. La selvaggina è molto abbondante, e le sciamature annuali delle termiti raramente deludono le loro speranze» (Evans-Pritchard 1976: 51).

Oggi, molti Medje-Mangbetu continuano a inserire le termiti nella loro dieta3 composta, di solito, da un piatto base consistente in radici e tuberi (soprattutto manioca) abbinati a legumi e olio di palma. Fagioli, arachidi, riso, semi di zucca e mais (raro) scarseggiano soprattutto al termine della stagione secca (febbraio-marzo), periodo in cui abbonda il pesce (il livello delle acque è basso e la pesca viene favorita) e avvengono le sciamature delle termiti. Il consumo di carne non è frequente, malgrado non sia difficile vedere intorno alle abitazioni polli, anatre, maiali e capre, tutti animali inseriti non tanto nei pasti quotidiani quanto nelle reti di scambi – rituali e non – e nel pagamento di determinate prestazioni. Poiché l’attività venatoria non è così generalizzata e frequente come gli stessi Medje-Mangbetu amano affermare, l’approvvigionamento di selvaggina è altamente irregolare. Le termiti, quindi, svolgono un ruolo fondamentale come integratore proteico al termine della stagione secca.

Esistono diversi tipi di termitai e ognuno ha la sua «personalità». Nominare il termitaio ebieto scatena risate collettive abbinate a disprezzo; le termiti anziuma e emangele sono le più consumate e se ne parla in termini alimentari; il termitaio eitia suscita un grande rispetto e facilmente si abbina a qualche storia di spiriti (nopi); il termitaio esubu è rispettato per le grandi dimensioni delle termiti e dal punto di vista alimentare viene solitamente connesso con i funghi che nascono sulla superficie, denominati nezubambu; il termitaio epopo è trattato con molta simpatia, in quanto si crede occorra utilizzare la musica per fare uscire le termiti.

I discorsi inerenti i termitai trascendono il gruppo etnico: se si parla delle termiti enyonyo si fa riferimento alle terre dei Babudu e genericamente all’est, mentre ogni discorso inerente le tecniche di raccolta porta inevitabilmente all’elogio dei vicini Mayogo (di solito disprezzati), in quanto riescono a fare uscire un numero maggiore di termiti.

Oziatandra, un famoso cacciatore della regione (il quale non mancava di regalarmi un pollo a ogni mia visita), sostenne che l’attività della raccolta delle termiti fosse simile alla caccia perché si va in foresta e alla coltivazione in quanto il termitaio va pulito come il campo. In effetti alcuni tipi di termitai si trovano in foresta e solitamente vengono utilizzati per la raccolta dei «soldati» e non delle termiti alate, mentre la pulizia del termitaio (che consiste nello sradicare ogni sorta di erba dalla crosta di fango esterna e nel preparare il buco utilizzato per la raccolta delle termiti alate) ricorda i lavori preliminari del campo. Queste operazioni vengono effettuate agli inizi della stagione delle piogge (marzo) prevalentemente dagli uomini. Il termitaio è considerato il luogo di incontro delle diverse attività lavorative: la raccolta delle termiti è ovviamente una raccolta, ma ricorda per alcuni aspetti la caccia e per altri la coltivazione.

I Medje-Mangbetu, perlomeno quelli con cui ho avuto occasione di parlare, appaiono coltivatori poco entusiasti. Durante la stagione secca (gennaio-marzo) gli uomini preparano i campi strappati alla foresta tagliando e bruciando la vegetazione, mentre le donne seminano e raccolgono. I prodotti che si riescono a ricavare per il consumo o per il piccolo commercio sono: arachidi, manioca, patata dolce, riso e un po’ di mais. Alle donne è affidata gran parte della attività di raccolta e hanno l’esclusiva per determinate tecniche di pesca, soprattutto quella denominata nóoli4.

La più gratificante attività maschile è la caccia in foresta. Può essere praticata con l’arco e le frecce, il machete, le lance oppure con le reti; solo in quest’ultimo caso è collettiva e di solito coinvolge gli uomini appartenenti a un medesimo «patrilignaggio esogamico»5. La raccolta delle termiti alate (per lo più del tipo anziuma) avviene parecchie volte fra febbraio e marzo a determinate ore della sera e del mattino successive a una giornata di sole caratterizzata da una alta umidità causata da recenti piogge. La tecnica consiste nel ripulire la superficie del termitaio e nel fare un buco ai piedi dello stesso; al momento opportuno occorre appoggiare una torcia su un lato della piccola fossa in modo tale che le termiti, attratte dalla luce, si infilino nel buco.

Nei mesi di permanenza in Africa, mi è capitato di raccoglierne nei pressi della mia stanza. La scena non presentava nulla di esotico e di «autentico»: dopo essermi spogliato il più possibile onde evitare che la nuvola di termiti si infilasse fra i vestiti, procedevo nella raccolta armato di scopa, paletta e secchiello. Ricordo che José, un amico missionario brasiliano, si divertiva a prenderle per le ali e a succhiarne il corpo, io le preferivo il giorno dopo, specie se immobili, rinsecchite e leggermente croccanti!

Durante l’intero anno è possibile avventurarsi in foresta, individuare un termitaio emangele e catturarne i «soldati» (le termiti munite di tenaglie, addette alla difesa del termitaio). La tecnica di raccolta – a detta dei locali – è di origine pigmea e consiste nel perforare la base del termitaio e introdurre il fumo ricavato dalla combustione di una banana secca che ha lo scopo di irritare e allarmare i «soldati». Nel buco si introduce successivamente uno strumento denominato nanzonzo: un piccolo bastone ricavato da piante particolari (nabelu o nebuanvi) alla cui estremità si fissano strisce sottili estratte dalla radice nóoli o dalla corteccia dell’albero nemoinvi. Le grandi e scure termiti-soldato si attaccano alle strisce del nanzonzo facilitando la raccolta.

Se i termitai conducono inevitabilmente a parlare non solo della dieta e del lavoro, ma anche del territorio, la percezione di quest’ultimo è tuttavia strettamente connessa all’immagine del fiume, o meglio, all’asse lungo il quale scorrono i corsi d’acqua della regione.

3. A monte e a valle

Dalle interviste condotte sembrerebbe che lo spazio in cui vivono i Medje-Mangbetu sia organizzato lungo l’asse est-ovest. Nella lingua locale questo asse prende forma attraverso l’uso frequente di due parole: zebo e zebu. Zebo significa indistintamente «levante» e «a monte (di un fiume)», mentre zebu significa «ponente» e «a valle (di un fiume)». I Medje-Mangbetu del sud (fra i quali ho svolto la ricerca) utilizzano il termine zeboi per denominare i Medje-Mangbetu della regione di Rungu (a nord-est di Neisu) e zebui per autonominarsi nei contesti in cui ci si contrappone agli zeboi. Zebui è una sorta di Noi situazionale.

Anche fra i Kuba del Kasai (una delle regioni centrali dell’ex Zaire) il termine ngel, che significa «a valle», e il termine tyeen, «a monte», sono riferiti ai corsi dei fiumi e ricorrono costantemente sia per posizionare un individuo nello spazio, sia per narrare le origini e le migrazioni dei Kuba (Vansina 1978). La grande migrazione capeggiata dall’eroe fondatore dei Kuba, Woot, è avvenuta da valle verso monte, contro corrente. Il luogo originario si troverebbe a valle del fiume nella più ampia distesa d’acqua concepibile6. A livello linguistico, qualcosa di simile è rintracciabile nel dialetto medje in cui la foce del fiume è denominata nedandreti. Questa parola è composta dal termine neda (fiume) e da neti (origine, ceppo, radice); gli stessi miei collaboratori trovavano curioso il fatto che «la radice del fiume» (così era la loro traduzione in francese) fosse la foce e non la sorgente.

Significativo è anche il simbolo dell’unità nazionale dei Kuba, il muyum, la pagaia su cui sono incisi tutti i modelli di scarificazione dei diversi gruppi etnici. Sia la pagaia sia la canoa (utilizzata per designare il re kuba) rappresentano la resistenza nei confronti della corrente, dello scorrere dell’acqua che porta via.

Particolarmente importante, in quanto si riferisce a un rituale di circoncisione, è ciò che scrive Wauthier De Mahieu sul rapporto tra i corsi d’acqua e la tradizione del gandjá kentende, uno stile di circoncisione introdotto dai basáyó fra i Komo del Congo:

Uno dei contributi della storia [...] è costituito dal legame che, in ragione delle loro migrazioni lungo il Maiko [il fiume che attraversa il territorio komo] connette i basáyó, instauratori del kentende, all’acqua. Questo elemento calza alla perfezione con certi riferimenti cosmologici secondo i quali la rivelazione del rituale giunge dagli antenati situati sotto l’acqua. Il punto importante è che i basáyó avrebbero portato il rituale del kentende dopo il loro ritorno dalle sorgenti del Maiko, situate a est del territorio occupato dai Komo. Dal fatto che il sole sorge da quel lato e tutti i grandi fiumi che attraversano il territorio scendono da est a ovest, si è sviluppato un certo numero di rappresentazioni, secondo le quali tutta la vita e tutto il costume autentico hanno la propria fonte a Oriente. L’est stesso si designa d’altronde con il termine okómo da cui i Komo fanno derivare il nome con cui si designano, collocando inoltre le proprie origini in questa direzione. [...] Il rituale del kentende si basa abbondantemente sul tema della risalita alle sorgenti (De Mahieu 1985: 43).

Anche per i Lele, studiati da Mary Douglas (1985), l’andare contro corrente, tende, è un movimento molto prestigioso in netta opposizione al discendere la corrente (angele); inoltre, per i Lele, la direzione tende è associata agli uomini, mentre la direzione angele alle donne. Quest’ultima associazione di genere ci riporta sorprendentemente nell’universo simbolico dei Medje-Mangbetu in cui l’orientamento del cadavere nella tomba risponde a regole precise: gli uomini vengono sepolti con il volto rivolto verso zebo (a monte, levante), le donne con il volto verso zebu (a valle, ponente).

Per i Medje-Mangbetu il risalire la corrente, il resistere alla forza dell’acqua che scorre, ha una grande importanza, ma prima di entrare nel merito occorre insistere su una particolarità del binomio zebo-zebu, la stessa particolarità che Wauthier De Mahieu ha evidenziato per i Komo. I due termini non si riferiscono soltanto allo scorrere delle acque dei fiumi ma anche al percorso che il sole compie nel cielo. Per comprendere il comune riferimento al fiume e al sole è sufficiente osservare una carta geografica della regione (fig. 2). Appare evidente come tutti i fiumi della zona (Uele, Nepoko, Nava, Bomokandi, Ituri, Uruwimi ecc.) scorrono da est a ovest (seguendo il percorso del sole), in quanto hanno origine lungo il versante occidentale della cresta Congo-Nilo e scendono nel bacino del Congo.

Dal punto di vista antropologico tale correlazione risulta estremamente rilevante in quanto l’orientamento spaziale investe in pieno la dimensione temporale. Sembra infatti lecito ipotizzare che lungo questo asse spazio-temporale prenda forma l’immagine della vita: il trascorrere del tempo sovrapposto ai letti dei fiumi, l’inesorabile procedere dei giorni, il susseguirsi ininterrotto dell’alba e del tramonto accompagnati dallo scorrere delle acque, riguardano direttamente la vita degli uomini.

Una sintesi significativa di tale concezione è riscontrabile in un proverbio raccolto sul campo: «Nekoko ogwea a mezebo ogwea sia mezebu», «la piroga non invecchia (non marcisce) a levante, invecchia verso ponente». Il trascorrere della vita è inesorabilmente inscritto nello scorrere delle acque; la forza impressa alla pagaia, la capacità di trattenere la piroga in un tratto di fiume ed eventualmente risalirlo, alla fine verranno meno e inesorabilmente si andrà verso valle, verso il tramonto.

Ciò che si prospetta è la lotta contro la corrente che trascina via, una lotta che riguarda non solo popolazioni africane7. Per gli amerindi Pirá-paraná del Vaupés (tra il Brasile e la Colombia) la foce del fiume è il luogo originario dell’umanità e il popolamento della terra sarebbe avvenuto attraverso la risalita degli anaconda e la loro successiva uscita dall’acqua (Hugh-Jones 1995: 276); analogamente la grande migrazione dei Kuba è avvenuta da valle verso monte. Anche fra i Medje-Mangbetu sono rintracciabili immagini significative concernenti il rapporto tra il fiume e il processo di formazione dei gruppi sociali.

Innanzitutto tali immagini riguardano l’origine della differenziazione etnica. I Medje, infatti, narrano di essere «scesi» dal Sudan e di aver avuto lungo il percorso l’esigenza di costruire ponti di liane per attraversare i fiumi. Il gruppo «indistinto» di migranti avrebbe tentato di attraversare i fiumi; a un certo momento di ogni singolo attraversamento, le liane si sarebbero però spezzate lasciando per sempre al di qua del fiume una parte del gruppo. Ciò che è interessante notare è che ogni gruppo etnico della regione spiega la formazione dei vicini in questo modo, attraverso storie di liane spezzate (Denis 1961: 12-13).

La più emblematica resistenza allo scorrere del fiume è però rappresentata dal rituale di intronizzazione di un capo mangbetu. L’individuo designato per ricoprire tale carica deve coricarsi sul letto di un piccolo fiume preventivamente sbarrato e prosciugato per un tratto. Il futuro capo, coricato su un letto di foglie ai piedi della diga, costruita per l’evento, deve resistere alla corrente dell’acqua fatta defluire dalla diga. Gli informatori sottolineano quanto sia importante che un capo sappia resistere «alle vicende della vita». In seguito il capo dovrà uscire dal fiume e correre velocemente verso la sua abitazione senza voltarsi indietro. Lungo il tragitto verrà bastonato duramente da chiunque lo voglia. Non si è di fronte a una vera risalita ma a una resistenza abbinata a una fuoriuscita.

Van Der Kerken (1932: 8) riporta una credenza mangbetu, la quale – benché non mi sia stata confermata sul campo – è significativa in relazione al tema della risalita. Secondo lo studioso belga ciò che risale il fiume per i Mangbetu è il «doppio» (na toro) del defunto, il quale raggiunge la sorgente e lì dimorerà. I locali con cui ho conversato sono stati invece concordi nel raccontare una simbolica risalita effettuata dai ragazzi sottoposti al rituale della circoncisione (noutu). Durante le fasi finali della cerimonia i circoncisi, dopo aver dormito ognuno per conto proprio in alcuni compound situati a zebu (a valle, ponente) rispetto al luogo dell’operazione, devono risalire verso zebo (a monte, levante) per ritrovarsi insieme a consumare un pasto speciale, con il quale si sancisce la loro unione in qualità di fratelli di circoncisione. Se la direzione zebu è associata alla dissoluzione, alla morte, all’oblio di ogni singolo individuo, la direzione zebo è connessa all’idea della costruzione. Ciò è particolarmente evidente durante il noutu in quanto è verso est che viene costruita una rete di relazioni che coinvolge i circoncisi e le loro famiglie. Come verrà diffusamente mostrato in seguito, la risalita verso est segna la strutturazione di un gruppo i cui componenti (i fratelli di circoncisione) dovranno nell’arco dell’intera vita collaborare e condividere i beni. In questo caso la risalita è un passaggio da una riflessione solitaria compiuta a zebu e concernente la propria sorte alla realizzazione di un gruppo: è un passaggio dalla singolarità alla pluralità. A ben vedere, anche fra i già menzionati Pirá-paraná, la connessione fra la risalita e la costruzione dei gruppi è rinvenibile nell’immagine di ogni singolo anaconda che, dopo aver risalito il fiume ed essere uscito dall’acqua, diventa un gruppo di persone (Hugh-Jones 1995: 56).

Un altro esempio significativo è quello degli indiani Huni Kuin dell’Amazzonia peruviana (Deshayes e Keifenheim 1994), i quali pensano il loro universo di relazioni attraverso una triplice divisione: due metà esogamiche sono al loro interno suddivise in un gruppo di uomini e uno di donne; i quattro gruppi così costituiti vengono ridivisi al loro interno in due gruppi di generazioni alternate. Queste suddivisioni, sconosciute ai loro antenati antidiluviani, sono connesse, nel mito d’origine, proprio con la risalita dei fiumi da parte dell’unica sopravvissuta al diluvio (Nete Bekun) e dei suoi figli (Inu, Dua, Inani, Banu). Durante la risalita dei corsi d’acqua Nete Bekun trova i resti delle piante coltivate e istruisce i figli, i quali alla fine di questo lungo tragitto verso monte si uniscono in matrimonio (Inu sposa Banu e Dua sposa Inani) dando origine alle metà esogamiche e ai gruppi di genere. È nella dire­zione verso monte che gli Huni Kuin si appropriano della cultura (piante coltivate e istruzioni) ed è alla fine della risalita che si dividono in due metà esogamiche (a loro volta divise in base al genere) diventando esseri umani; infatti, gli Hiri (antenati an­tidiluviani) non sono considerati umani in quanto non «divisi» fra discendenti di Inu/Dua/Inani/Banu (Deshayes e Keifenheim 1994: 67).

In molte società africane e non solo, il fiume è il luogo privilegiato in cui inscrivere una certa antropologia. La forza simbolica dello scorrere del fiume si manifesta in ogni cultura in modo diverso; gli stessi esempi etnografici riportati sopra esprimono caratteristiche peculiari nell’intendere il significato del discendere e del risalire il corso d’acqua. Tuttavia, volendo cogliere un elemento comune a tutti sembra che la direzione verso monte appaia come un tragitto che permetta all’uomo di specificare la propria esistenza culturale, mentre dalla parte opposta (a valle) permane tutto ciò che è ineluttabile e naturale. Per i Bakuba, i Pirá-paraná e gli Huni Kuin la risalita corrisponde al popolamento e alla distinzione fra gruppi di appartenenza e di discendenza; per i Komo e i Medje-Mangbetu la risalita è invece contenuta nel rituale di circoncisione e rappresenta un andare nella direzione dell’origine del costume autentico (Komo) o verso la strutturazione di una rete di relazioni (Medje-Mangbetu). Infine gli abbinamenti donna-valle e uomo-monte (Lele e Medje-Mangbetu) rimandano alle connessioni donna-natura e uomo-cultura riscontrate in diversi contesti etnografici e soggette nell’antropologia contemporanea a una analisi critica (MacCormack e Strathern 1980).

In opposizione all’ineluttabilità naturale della morte, della dissoluzione impressa nella direzione a valle, il tragitto dell’esistenza sociale e culturale dell’uomo viene condotto verso monte, verso il costume autentico, i gruppi di discendenza, le reti di relazioni. La risalita è un’espressione simbolica che sta alla base di molte antropologie indigene; contrapporsi allo scorrere delle acque non è solo una lotta contro ciò che è necessario e inevitabile ma diventa un progetto verso ciò che è possibile. La direzione «a monte» dischiude un ventaglio di possibilità: ci sono anaconda che si trasformano in sib, fratelli che danno origine a metà esogamiche, circoncisi che si dirigono verso l’origine del costume autentico, altri che si mettono insieme per diventare fratelli di sangue. Se l’ineluttabilità che si trova a valle è uguale per tutti (ogni cosa a valle è indistinta e dissoluta: i gruppi, la vita ecc.), la costruzione culturale verso monte si differenzia secondo le società. L’immagine del fiume è realmente efficace a rappresentare questa differenza, in quanto tutti i fiumi di un bacino idrico si dissolvono verso valle e si definiscono verso monte: la confusione è a valle, mentre la distinzione è a monte.

Come si è già accennato in precedenza, nel caso specifico del rito di circoncisione medje-mangbetu, la risalita verso zebu dei neofiti è un passaggio dalla singolarità alla pluralità. In seguito si tornerà sul peculiare tragitto culturale esplicitato nel rituale di circoncisione e inteso come un tentativo di «mettere insieme» una pluralità di individui. Per il momento – continuando a oscillare fra fiumi e termitai, e ampliando ulteriormente un reticolo di connessioni capace di fare emergere i significati di tali immagini – l’idea del «mettere insieme» può essere connessa alle gesta di Nabiembali (l’eroe fondatore del regno mangbetu), il quale prima di intraprendere la grande conquista (storicamente ricordata come un susseguirsi trionfale di attraversamenti di fiumi) salì su un termitaio per radunare il suo seguito, per «mettere insieme» i gruppi della regione.

4. L’immagine della società

Raccogliere informazioni su come si svolgono le attività umane intorno al termitaio, mi ha portato a focalizzare l’attenzione su una dicotomia costantemente rintracciata nelle interviste condotte sul campo. Analizziamone due frammenti:

Il termitaio è dove si è uniti – mi raccontò Neti, un anziano del villaggio di Neisu – ci sono i soldati, le termiti, i piccoli soldati bianchi. C’è il capo e la regina [...]. Il termitaio appartiene a colui che lo pulisce, che lo mette in ordine. Quando qualcuno va a prendere le termiti da un termitaio pulito da un altro possono scoppiare liti, ci possono essere combattimenti con il Nedaadaa [coltello da guerra] e feriti.

Le termiti – afferma Anyabose – lavorano insieme e per questo costruiscono rapidamente il termitaio. Tutto funziona perché tutti si danno da fare, tutti lavorano, non ci sono capi [...]. Quando un termitaio viene diviso fra due famiglie scoppiano disordini e scontri.

Nei due esempi riportati è in primo luogo evidente la contrapposizione fra il mondo del termitaio, chiaramente descritto come il mondo dell’unità, della collaborazione e dell’ordine, e il mondo degli uomini, allusivamente o esplicitamente definito come il luogo delle dispute, del disordine e delle divisioni. In secondo luogo, è curioso notare come i due informatori nell’idealizzare il misterioso universo delle termiti attribuiscano ad esse due opposti sistemi politico-sociali: per Neti, il termitaio cela una ordinata società centralizzata e gerarchizzata, mentre per Anyabose l’ordine e la funzionalità del termitaio poggia su un’organizzazione politica acefala. Il disordine e le contrapposizioni che caratterizzano l’agire umano intorno a un termitaio, sono in un certo senso rinvenibili anche nel modo in cui gli uomini immaginano lo sfondo politico di un ordine, di una unità relegata nel mondo delle tenebre.

Nelle occasioni in cui si discorreva di termitai era inevitabile il riferimento a conflitti e dispute fra uomini, fra animali o fra spiriti ed esseri umani. La tensione fra ordine e disordine, l’idealizzazione del primo e l’ineluttabilità del secondo rimandano ad alcune importanti riflessioni di Georges Balandier, secondo il quale la dicotomia ordine-disordine non va relegata fra gli strumenti di analisi della sociologia del mutamento, ma può assumere un valore paradigmatico all’interno dell’antropologia culturale (Balandier 1991). Tutto ciò non tanto per allontanarci dai termitai e dai fiumi del Congo nord-orientale, quanto per tessere un discorso significativo su di essi.

Balandier sostiene da sempre la necessità di valorizzare la dimensione temporale nelle analisi delle diverse società. La temporalità di cui parla si inscrive all’interno di una più ampia visione della società caratterizzata dalla complessità e dalla «vulcanicità». Il carattere vulcanico delle organizzazioni sociali fa sì che la continuità e gli equilibri siano relegati nel mondo delle illusioni e che i rivolgimenti, le crisi, le mutazioni, i disordini irrompano periodicamente sulla scena e negli interessi degli antropologi. In tal modo, lo studioso francese non intende riproporre la vecchia dicotomia fra le sociologie dell’equilibrio e quelle del mutamento, ma ritiene di poter cogliere un’essenza generativa della realtà sociale e cioè l’essere il risultato di una produzione continua e mai conclusa dove il disordine è inteso come una condizione dell’uomo che potenzialmente è in grado di agire come forza creativa e costruttiva.

Ciò che viene chiamato «società» non corrisponde ad un ordine globale già presente, già fatto, ma ad una costruzione di apparenze e di rappresentazioni o ad una proiezione nutrita dell’immaginario. Il sociale, si potrebbe dire con una formula, è ininterrottamente alla ricerca della propria unificazione: ed è questo il suo orizzonte (Balandier 1991: 88).

L’immagine dei termitai nella cultura medje-mangbetu, nel modo in cui gli informatori la narrano (la proiettano), contiene questa idea dell’unificazione alla quale si tende illusoriamente nel mondo degli uomini.

La direzione del movimento e del divenire attraverso uno sforzo individuale o collettivo tenderebbe a seguire l’ordine immaginato e successivamente proiettato. È interessante a questo punto verificare se e come l’immagine del termitaio attragga verso di sé il movimento creatore di una azione volontaria della società.

Fra gli innumerevoli racconti medje-mangbetu in cui compare l’immagine del termitaio, è stato possibile rintracciare due casi in cui il termitaio rappresenta l’ideale punto di arrivo di un tragitto. Come si vedrà, le differenze fra le due situazioni risultano molto significative.

Il primo caso è un racconto riportatomi dal vecchio kapita (capo) Emalongo. Ci si può servire ancora una volta delle parole di Balandier per introdurlo: «la storia pratica l’astuzia e l’ironia».

Una coppia pulisce un termitaio di foresta per poi andare a raccogliere le termiti. Un uomo volendo ingannare la coppia e prendere le termiti del loro termitaio si avventura in foresta [verso il termitaio] prima della coppia. Quando il sentiero giunge a una biforcazione, l’uomo pulisce il sentiero che si perde in foresta e si incammina lungo il sentiero del termitaio abbattendo gli alberi dietro di sé per farlo apparire abbandonato. In tal modo la coppia che aveva pulito il termitaio si perde in foresta e lui prende le termiti.

Lo stesso Emalongo nel commentare il racconto ne esplicita il significato: l’importanza dell’intelligenza e dell’astuzia per riuscire a raggiungere un obiettivo. Il termitaio, simbolo positivo di unità, collaborazione e funzionalità, è un obiettivo il cui raggiungimento comporta un’azione di astuzia e di intelligenza intorno a una biforcazione, la quale oltre a essere il luogo in cui si dischiudono le possibilità, in cui è possibile, anzi necessario, compiere una scelta, è il luogo in cui le potenzialità tipicamente umane, come l’intelligenza e l’elaborazione di una strategia, hanno una forza risolutiva notevole.

Il tema della scelta risulterà in seguito (cap. III, § 2) centrale nella descrizione dell’organizzazione del noutu (il rituale di circoncisione medje-mangbetu). Ogni singola famiglia sceglie accuratamente i compagni di circoncisione dei propri figli, in quanto il noutu crea una rigida fratellanza fra i vari circoncisi, i quali per il resto della vita avranno obblighi e doveri reciproci; lo scopo del rituale sembrerebbe quello di incrementare la rete di relazioni orbitante intorno a una famiglia. Attraverso il noutu si «mette insieme», sulla base di una scelta strategica, una pluralità di bambini, costruendo un legame nuovo che spesso trapassa i confini etnici.

In evidente contrapposizione con il racconto di Emalongo è possibile riportare la fase centrale dell’iniziazione alla società segreta nebeli diffusa nel Congo nord-orientale.

A qualche distanza dal «tempio», circa duecento metri, è stata costruita in foresta una specie di galleria di circa 150 m. di lunghezza, 0,50 m. di larghezza e 0,50 m. di altezza. Questa galleria, costruita per mezzo di bastoni ricurvi ricoperti di foglie, conduce a un grande termitaio trivellato da un buco. L’aspirante è introdotto con la forza e deve percorrerla il più rapidamente possibile strisciando, per scappare alle numerose bastonate inflitte dagli assistenti. Contemporaneamente, attraverso il buco scavato nel termitaio, si introduce del fumo nella galleria. Se ne approfitta anche per soffiare del pilipili negli occhi delle vittime (Philippe 1962: 98).

La biforcazione del sentiero si contrappone a una galleria dritta e chiusa; il fermarsi nei pressi della biforcazione per escogitare (pensare) una strategia si oppone al rapido strisciare del nebeli; l’eventualità del perdersi nella foresta, del non raggiungere l’obiettivo non può essere contemplata nella cerimonia di iniziazione. L’astuzia, l’ironia e la possibilità vengono sostituite dalla coercizione, dalla violenza, dalla necessità. Il disordine, le dispute e le contrapposizioni delle vicende umane vengono sospesi. Incanalare l’uomo lungo una galleria costringendolo a percorrerla velocemente strisciando comporta l’annullamento di ogni possibile fonte di disordine. La galleria non «lascia dubbi»8, elimina la biforcazione e con essa la scelta; a riprova di ciò, basti pensare alla pratica del reclutamento forzato esercitato dai membri del nebeli (si veda il cap. VI) nei confronti della popolazione, una pratica che non lascia scelta.

Al di là delle logiche contrapposte emerse nel racconto di Emalongo e nella ricostruzione di Philippe (una contrapposizione rintracciabile, come si vedrà, anche confrontando il noutu con il nebeli) pare che permangano due punti fermi: 1) il termitaio come obiettivo (indipendentemente dalle modalità di raggiungimento); 2) il movimento di moto a luogo – sia esso lento e riflessivo, o veloce e strisciante – che si esprime in una tensione verso un ordine e un’unità più ideale che reale. Questo movimento si connette a ciò che succede attraverso il noutu e il nebeli, modalità diverse e per tanti aspetti opposte per tenere insieme una pluralità di individui.

5. La costruzione e il flusso

Attorno al termitaio prende forma un mondo umano fatto di contrapposizioni, di dispute, di astuzie e strategie: il tutto tendente a un ideale di mondo il più possibile ordinato e strutturato. Come vedremo, in riferimento a certe istituzioni (società segrete), si compie lo sforzo obbligato e necessario di incanalare le forze umane verso un traguardo inevitabile e urgente (il nebeli si affermò negli anni dell’occupazione belga e l’attività dei membri era diretta contro i bianchi).

Il percorso verso il termitaio potrebbe essere pensato come un percorso di costruzione ideale della società, di fine tessitura dei rapporti sociali, il tutto tendente all’ordine, alla compattezza e alla funzionalità. Intraprendere metaforicamente il cammino che conduce al termitaio potrebbe voler dire partecipare a un progetto di costruzione e strutturazione che inevitabilmente prende le sembianze di un processo mai concluso. È sorprendente rintracciare nelle Memorie del sottosuolo (1864) di Fëdor Dostoevskij un ragionamento del tutto analogo a quello proposto in queste pagine; ancora più sorprendente è il riferimento dello scrittore russo al mondo degli insetti:

L’uomo è un animale per eccellenza costruttivo, condannato a tendere coscientemente verso la meta e ad esercitare l’arte dell’ingegneria, cioè a tracciare eternamente ed incessantemente una strada, sebbene diretta dove che sia. [...] L’uomo ama costruire e tracciar delle strade, è indiscutibile. Ma perché mai egli ama fino alla passione anche la distruzione e il caos? [...] Non può darsi ch’egli ami tanto la distruzione e il caos (perché è indiscutibile che a volte li ama molto, è proprio così), in quanto lui stesso istintivamente teme di raggiungere la meta e di ultimare l’edificio in costruzione? Che ne sapete? Forse l’edificio lo ama solo da lontano, e niente affatto da vicino; forse ama unicamente costruirlo, e non viverci dentro, riservandolo poi aux animaux domestiques, come formiche, montoni ecc. ecc. Ecco, le formiche hanno tutt’altro gusto. Esse hanno un solo meraviglioso edificio dello stesso genere, inalterabile in eterno: il formicaio (1988: 34).

Riconducendo l’argomentazione nell’ambito etnologico è opportuno riportare ciò che è scritto in un articolo di Marcel Griaule del 1961 sulla classificazione degli insetti presso i Dogon: «Quanto alla famiglia delle formiche e delle termiti, essa è associata alla costruzione, in quanto tali insetti costruiscono ‘abitazioni’ complesse; essi sono anche connessi alla fecondità, le termiti vengono considerati (con i pesci) gli animali più fecondi» (Griaule 1961: 13).

A conferma della stretta connessione fra l’immagine del termitaio e il concetto di strutturazione riportiamo un elenco di attributi utilizzati da Francesco Remotti per descrivere la «categoria» della strutturazione (Remotti 1993: 166). Al fine di verificare l’appropriatezza di tale elenco, è sufficiente immaginarsi fisicamente i termitai e ripensare a ciò che si è detto precedentemente riguardo al loro valore simbolico: unità, positività, coagulazione, identità, integrità, definitezza, compattezza, solidarietà, costruzione, mantenimento delle forme, sicurezza, dimensione vistosa, individuazione.

Remotti affianca a ognuno di questi attributi il suo contrario in modo da formare un secondo elenco utilizzato per presentare la categoria della «fluidità». L’intenzione è quella di riflettere sull’azione, in ogni singola società, di una duplice tendenza espressa dall’opposizione flusso/strutturazione e riferita in particolare alla tematica dell’identità. Le società irrigidiscono, solidificano ma al contempo decostruiscono e destrutturano; «il flusso è un cambiamento continuo, ed è di per sé destrutturante» (1993: 164). Alla strutturazione si contrappone l’ineluttabile fluidità della vita, del tempo e della storia. Tale fluidità può essere ricondotta, in certi termini, al nesso disordine-movimento teorizzato da Balandier e inoltre permette di recuperare l’immagine del fiume (cap. I, § 3).

Al di là del fatto che la connessione tra fiumi e termitai risulta evidente nell’opposizione flusso/struttura, basta procedere nella ricostruzione del rituale di iniziazione alla società segreta nebeli proposta da Philippe per passare dall’immagine del termitaio a quella del fiume. Infatti gli aspiranti, dopo aver percorso la galleria che conduce al termitaio, vengono condotti sulle rive di un fiume: «dopo che si sono purificati nelle acque di un corso d’acqua vicino, possono rientrare al tempio» (Philippe 1962: 98). L’acqua ha la capacità di purificare, ma ancora più giusto sarebbe dire – come mi è stato puntualizzato dagli informatori locali – che è lo scorrere dell’acqua che aiuta a portare via ciò che si vuole allontanare dal corpo di una persona. «Nel passato, quando c’erano dispute, per esempio, in famiglia si andava al fiume per lavarsi le mani insieme».

Il fiume è qualcosa che porta via; il termitaio è invece la proiezione di un qualcosa che si vuole raggiungere: l’uomo resiste alla corrente, esce dall’acqua, progetta e percorre tragitti. L’essere umano ha un rapporto ambiguo sia con il fiume sia con il termitaio.

Può essere soltanto una questione di sfumature narrative, ma l’ipotesi che si sta delineando porta a sottolineare come il frammento di antropologia indigena emerso dagli elementi finora proposti non preveda una completa risalita del fiume e una perfetta e ordinata tessitura della società (cioè, comportarsi come le diligenti termiti).

L’individuo costruisce verso zebo la propria esistenza sociale e culturale, e la tessitura di una rete sociale durante il noutu ne è una efficace rappresentazione. Ma la risalita non si completa nel corso della vita; tutt’al più, dopo che il corpo ha ineluttabilmente trovato la sua dissoluzione verso valle, è il «doppio» del defunto a raggiungere la fonte. Il termitaio si limita a occupare il centro ideale (l’ordine immaginato e proiettato) del disordinato mondo degli uomini e la vita – o meglio la vita del singolo – è altrove, nella contingenza di un breve spazio (lungo un frammento di riva) e in un limitato intervallo di tempo inscritto nello scorrere delle acque. Si cerca di resistere alla corrente, si esce dall’acqua, si corre senza voltarsi indietro, verso un ordine sociale proiettato all’orizzonte (Balandier 1991), ma la «piroga invecchia sempre verso valle mai verso monte».

La vita sociale coinvolge un frammento di fiume e la riva corrispondente, punto di fuga verso un tentativo di strutturazione. Significativo, al riguardo, è che ogni famiglia possiede un nedome (una porzione di fiume) dove si è liberi di pescare utilizzando la tecnica denominata nokyé9, e dove – secondo alcuni informatori – viene gettato il prepuzio del ragazzo circonciso. Il nedome appartiene a una singola famiglia e viene messo in relazione con gli antenati.

Più che un risalire c’è un farsi da parte, un uscire e una affannosa costruzione che non può però fermare la «discesa biologica» lungo il fiume. Ogni individuo vive entrambi i percorsi, non può evitare nulla. Si costruisce sulle sponde – parallelamente al fiume in un breve spazio – ma simultaneamente si scende a valle. Il fiume lo si ha dentro di sé.

1 A livello politico-amministrativo, il territorio medje-mangbetu – situato per la maggior parte fra i 2° e i 3° di latitudine nord e fra i 27° e i 28° di longitudine est – fa parte della Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire), della sotto regione (sous-région) dell’Haut-Uele e della zona (zone) di Rungu. Quest’ultima è suddivisa in diverse collectivités fra cui quelle di Mongomasi, Ndei e Azanga sono abitate da Medje-Mangbetu, mentre quella di Medje-Mango, non avendo subito la conquista mangbetu, è popolata in prevalenza da Medje. La collectivité è ulteriormente divisa in unità amministrative più piccole denominate groupement. È probabile che i nomi delle divisioni amministrative siano in parte mutati dopo la fine del regime di Mobutu. In queste pagine ho mantenuto le denominazioni ammesse e utilizzate nell’arco di tempo in cui ho svolto la ricerca sul campo (1995-1996) ad eccezione del nuovo nome regionale (Province Orientale al posto di Haut-Zaire).

2 È uno dei molteplici dialetti della lingua mangbetu appartenente – in base alla classificazione di Greenberg (1963) – alla famiglia linguistica sudanese centro-orientale (del grande gruppo delle lingue nilo-sahariane). Il nemedje è parlato dall’intera popolazione e si differenzia dal mangbetu soprattutto per la mancanza del prefisso consonantico «k» (per esempio, l’alleanza con la circoncisione è noutu in medje e nekutu in mangbetu). Oltre al dialetto autoctono, pochi individui parlano il francese mentre tutti conoscono la lingua bangala (una variante regionale del lingala, una delle lingue ufficiali del Congo). Alcuni individui (si tratta soprattutto di coloro che vivono vicino ai villaggi budu) affermano di comprendere il kiswahili; in effetti il confine fra gli insediamenti medje-mangbetu e quelli dei Babudu risulta essere anche un confine linguistico fra lingala e kiswahili. Durante il lavoro sul campo ho cercato di compiere le interviste sempre nella lingua autoctona dell’informatore con l’aiuto di collaboratori in grado di fornirmi traduzioni, anche letterali, in francese.

3 Sui cibi e le bevande consumate dai Mangbetu si veda Lelong 1946: 95-130. Un dettagliato resoconto sulla raccolta e il consumo delle termiti presso i Badjo (un importante clan assimilato ai Medje e insediato nella collectivité Mongomasi) è contenuto in Bernard 1912. Sul rapporto fra l’uomo e le termiti in Africa, analizzato da differenti punti di vista, si veda Iroko 1996.

4 Pesca eseguita dalle donne nella stagione secca. Nei piccoli fiumi o nelle insenature di quelli un po’ più grandi si creano sbarramenti con la terra e si attende che tutta l’acqua diminuisca di livello. I pesci si prendono con le mani o con una rete apposita denominata nado o noliandro.

5 La definizione è di Robert McKee (1995: 48). Si rimanda al capitolo successivo per un’analisi dei gruppi e dei lignaggi.

6 È Francesco Remotti ad aver connesso alcuni casi etnografici (Kuba, Lele e Pirá-paraná) parlando del rapporto fra l’immagine del fiume e la categoria del flusso opposta a quella della strutturazione (Remotti 1993: 167-170).

7 Lungi dal voler estendere la comparazione etnografica al di là di un ragionevole ambito regionale, mi pare tuttavia significativo accennare ad alcune culture amazzoniche dove la simbologia connessa all’immagine del fiume si impone nelle rappresentazioni che queste società elaborano su se stesse e sulla loro origine.

8 Nel senso in cui ne parla il filosofo tedesco contemporaneo Odo Marquard, il quale sottolinea come la parola dubbio, Zweifel, contiene il due, Zwei, cioè la molteplicità (Marquard 1991: 156).

9 Ci si procura dei fili «da pesca» (neipelo) ricavati dall’interno del tronco di banano. A una estremità del filo si lega una specie di amo (noki) costituito da una spina della foresta e un piccolo pezzo di ramo di kongolo. Il filo è legato nella parte mediana di quest’ultimo. I noki, a cui vengono infilzati i vermi, vengono inseriti fra le radici sommerse in acqua delle piante che crescono sui margini dei fiumi.