Naturalmente esiste un vedere così
e un vedere diversamente
Ludwig Wittgenstein
Ricerche filosofiche
Il confronto fra la durezza dei termitai e la fluidità dei fiumi si ripropone, come metafora, nel momento in cui si vuole gettare uno sguardo sulla storia della regione occupata dai Medje-Mangbetu e sulla struttura attuale dei loro villaggi. In questo caso, la realtà sembra estremamente fluida, mentre i concetti utilizzati per descriverla appaiono duri come termitai.
Un osservatore, che la comunità degli antropologi non avrebbe dubbi nel definire sprovveduto1, non andrebbe molto per il sottile e inoltrandosi con un fuoristrada nella foresta occupata dai gruppi mangbetu, tutte le volte che attraversasse un agglomerato di case distribuite su entrambi i lati della strada si limiterebbe a constatare l’esistenza di un «villaggio». Non avrebbe neppure il tempo di domandarsi quali criteri sociali, economici e culturali tengano unite quelle poche decine di individui che si ritroverebbe nuovamente immerso nella vegetazione. L’antropologo, dal canto suo, ha il dovere di non accontentarsi e di raccogliere la terminologia e i significati indigeni che si nascondono fra quelle basse case di fango, oltre a rovistare nella bibliografia sulla regione alla ricerca dei termini e delle interpretazioni rintracciabili nei lavori di altri studiosi. Tuttavia non sempre (è il caso in questione) si raggiunge la chiarezza auspicata; ogni osservatore sceglie strade diverse, ognuno insistendo su elementi differenti e seguendo particolari percorsi di analisi e di interpretazione. Pare che un’unica realtà osservata si sia frantumata in una miriade di termini, concetti, metafore, immagini. Come afferma lo storico belga Jan Vansina2 la realtà è multipla, sempre vagliata dalla mente e dal punto di vista dell’osservatore (Vansina 1990a: 71).
Durante la ricerca sul campo, ebbi una prima occasione di riflettere sulla questione della traducibilità della terminologia indigena mentre in sella a una bicicletta mi recavo in qualche villaggio della zona in compagnia di Fabien, un amico del posto. Armato di taccuino e registratore arrancavo sulla strada fangosa e sdrucciolevole cercando di evitare le buche e di non investire polli e capre. Ogni qualvolta ci trovavamo ad attraversare un gruppo di case, mi affiancavo alla bici di Fabien e iniziavo, con il poco fiato che mi restava, a bersagliarlo di domande.
Non meno sprovveduto del comune osservatore, volevo semplicemente conoscere i termini locali corrispondenti a «casa», «villaggio», «famiglia», «clan» ecc. Volevo corrispondenze esatte fra i miei termini e i suoi e ovviamente, fu un fallimento. Non mi restava che risparmiare fiato e mettermi a ruota di Fabien pensando a quanto sia facile perdersi in foresta senza un amico del posto che ti conduce, e quanto sia facile perdersi viaggiando nella terminologia indigena con l’illusione che gli strumenti concettuali portati da casa funzionino da bussole.
Non mi è dato sapere se i pochi studiosi che mi hanno preceduto su quelle strade spesso fangose viaggiassero in sella a una bicicletta o al volante di un fuoristrada; tuttavia sono certo che si posero interrogativi analoghi ai miei. Per tale motivo, viaggiare nei loro scritti è stato altrettanto importante che viaggiare in bicicletta fra i villaggi.
L’antropologo statunitense, nonché missionario protestante, Robert McKee ha condotto di recente una ricerca sul campo inerente ai riti funerari medje-mangbetu (1995). Venni a sapere dell’esistenza di McKee durante il primo incontro con il vecchio Emalongo: a una mia precisa domanda sulla genealogia della sua famiglia mi disse che un altro bianco gliela aveva già posta anni addietro. Spesso gli antropologi vanno a svolgere le proprie ricerche in territori già visitati da colleghi, ancora più spesso si ostinano a raccogliere genealogie e discendenze immobilizzando gli attori sociali in aridi schemi piramidali al cui vertice si trova un antenato reale vissuto alcune generazioni precedenti il cui legame genealogico può essere ricostruito (in questo caso la piramide schematizza un lignaggio), oppure il vertice è occupato da un antenato sovente mitico il cui legame genealogico non è sempre ricostruibile (in questo caso lo schema rappresenta la struttura di un clan). La forza di questi schemi è rappresentata dall’ordine che si viene a creare (ogni individuo è in tal modo chiaramente inserito in una linea di discendenza e quindi in un gruppo di parentela), mentre la debolezza di tali impalcature risiede nella rigidità formale più ideale che reale (curiosamente questi schemi piramidali ricordano la forma di un termitaio, che come si rammenterà è stato definito nel capitolo precedente troppo «duro» e «ideale» per riguardare gli uomini).
Nella scia della consolidata tradizione di antropologi africanisti i quali, a partire soprattutto da Meyer Fortes ed Edward E. Evans-Pritchard, attribuirono ai gruppi di discendenza (in particolare ai lignaggi) un ruolo centrale nell’organizzazione sociale, la realtà osservata da McKee è vagliata dalla mente – direbbe Vansina – per mezzo di concetti come clan e lignaggio. Il fazzoletto di terra strappato alla foresta e costellato da poche abitazioni di fango risulta in tal modo occupato da individui riconducibili a un preciso patrilignaggio esogamico, concetto traducibile grosso modo nella lingua locale (il dialetto medje) con il termine némava (plurale émava).
Nel riferirsi alla stessa realtà (i villaggi dei gruppi mangbetu) gli storici africanisti come Jan Vansina (1990a) e Curtis Keim (1979) prediligono utilizzare non tanto un concetto riconducibile alla discendenza, come risulta essere patrilignaggio, ma un concetto riconducibile alla residenza, optando per la nozione di «casa» (house). L’ampio aggregato domestico – spesso grande un intero villaggio – insediato in un fazzoletto di terra strappato alla foresta viene così definito «casa», termine che nella lingua locale è traducibile con nébha (plurale ébhá).
Tuttavia sia il termine némava (gruppo di discendenza) che il termine nébha (gruppo di residenza) non sono chiaramente riconducibili alle nozioni analitiche che l’antropologia utilizza. Infatti il termine némava può essere utilizzato per designare un clan, un lignaggio e una famiglia, mentre il termine nébha viene impiegato indifferentemente in riferimento a un intero villaggio, a un compound3 e a una singola abitazione.
Se la terminologia indigena risulta difficilmente riconducibile agli univoci concetti contenuti nella «scatola degli attrezzi» dell’antropologo (come appunto «casa» e «lignaggio») anche la stessa separazione fra residenza e discendenza pare essere una violenza classificatoria nei confronti di una realtà che risulta effettivamente costituita da villaggi (ébhá), ma abitati prevalentemente da individui appartenenti a uno stesso némava. È evidente che il confronto fra gruppo di residenza e gruppo di discendenza (in relazione all’etnografia medje-mangbetu) non si risolve sul piano della nitidezza. Ci si inizia a domandare se non abbia ragione Wittgenstein quando afferma che: «se [...] nell’originale i colori sfumano l’uno nell’altro senza traccia di un confine, – non sarà un compito disperato il disegnare un’immagine nitida corrispondente a quella confusa?» (1983: 52).
Malgrado il concetto di «casa» sia generalmente connesso all’idea della residenza, gli studiosi che si affidano alla cosiddetta house analysis si prefiggono di ripensare i gruppi di discendenza in relazione al reale interagire degli individui nello spazio e nelle economie domestiche; in altre parole un certo impiego del concetto di «casa» permetterebbe dopotutto di coniugare gli aspetti legati alla residenza con quelli legati alla discendenza4.
Per ciò che concerne lo studio dei gruppi mangbetu, sembrerebbe che l’uso della nozione di «casa» sia servito soprattutto a connettere la storia della regione con l’organizzazione sociale. Gli studiosi che si sono occupati di ricostruire la storia del regno mangbetu – mi riferisco essenzialmente a Curtis Keim e Jan Vansina – si sono fortemente affidati al concetto di «casa». Tale concetto lo si ritrova però anche nel più recente lavoro etnografico dedicato a un gruppo del Congo nord-orientale, Houses in the Rain Forest (1994), in cui l’autore, Roy Richard Grinker, prendendo in esame le relazioni fra i raccoglitori Pigmei Efe e i coltivatori Lese (appartenenti allo stesso gruppo linguistico dei Medje-Mangbetu), adotta il termine «casa» (house) come «modello riferito all’organizzazione concettuale delle relazioni di differenza così come all’organizzazione della società». Per i Lese e i loro partner di scambio (i Pigmei Efe), «la casa lese è dove avviene la produzione, il consumo e la distribuzione. In altre parole, la casa è il luogo fisico dove avvengono le interazioni economiche fra i Lese e gli Efe» (Grinker 1994: 112).
Grinker lamenta il fatto che, soprattutto in ambiente africanistico, gli antropologi (in particolare quelli con interessi di antropologia economica) si siano decisamente affidati al concetto di household5 rinunciando a sistematizzare la house analysis. Poche sono le eccezioni: fra esse i lavori di Schildkrout sui contesti domestici in comunità urbane interetniche del Ghana (1975, 1978), le ricerche storiche nell’Africa centrale di Vansina e Keim, e lo studio di Saul (1991) sulla casa dei Bobo del Burkina Faso. Nel volume intitolato African Reflections (1990) incentrato quasi interamente sull’analisi della cultura mangbetu e scritto da Schildkrout e Keim (con un contributo di Vansina), è contenuta gran parte della house analysis africana.
Per intanto occorre sottolineare la prima delle ragioni per cui Grinker utilizza il termine «casa»: «questa è la migliore traduzione del termine ai, con cui i Lese usano descrivere l’attuale struttura dentro cui la gente vive e dentro cui le attività economiche sono organizzate» (Grinker 1994: 114). Non resta che scendere idealmente dalla bicicletta e gironzolare fra quelle basse case di fango descrivendo gli spazi dentro cui la gente vive.
Nel dialetto medje, l’abitazione viene denomitata nédjó (plur. édjo). Si tratta normalmente di un edificio rettangolare non più lungo di 7-8 metri e largo 3-4. Le pareti sono formate da una intelaiatura di canne su cui viene fissato il fango; il tetto, la cui struttura portante è di solito ricavata dal bambù (Annaert 1960: 61), è costituito da frasche di palme appoggiate su uno strato di ampie foglie di foresta; l’unica apertura è una piccola porta (nédjó-no) la quale, orientata nella maggior parte dei casi in direzione del sentiero (o strada), si affaccia su un ampio cortile (némúngálimá). Il némúngálimá è lo spazio domestico per eccellenza, è un frammento di terra strappato alla foresta e tenuto continuamente pulito. Al centro di questo spiazzo si trova il négbámú, un basso edificio senza pareti utilizzato come riparo (diurno e serale) dal sole e dalle piogge e luogo di riunione per gli uomini. Sotto il négbámú si è svolta la quasi totalità delle mie interviste e colloqui con informatori e amici, i quali mi ricordavano spesso che il négbámú è uno spazio riservato agli uomini, malgrado abbia potuto constatare ovunque la presenza femminile sotto il riparo. La valenza di genere del négbámú è confermata dalla vicinanza semantica dei termini négbama (il desiderio sessuale maschile) e négbámá (uomo giovane).
Sul cortile (némúngálimá), nel cui centro si trova il riparo (négbámú), si affacciano diverse case (édjo). Mantenendo come punto di osservazione il sentiero (néhí’e), lungo il quale si snoda su entrambi i lati il «villaggio», si osserva di solito la presenza di tre edifici collocati in semicerchio intorno a ogni négbámú (cfr. lo schema sottostante): l’edificio (nédjó) dietro al riparo viene utilizzato per dormire, mentre le due abitazioni ai lati (anch’esse rivolte verso il négbámú) sono state definite rispettivamente come la «cucina» (némáfíká) e la casa per i visitatori (nedjoi ombiamekualane).
Ancora una volta la descrizione proposta e le definizioni appaiono troppo rigide rispetto alla realtà, soprattutto per ciò che concerne gli édjo laterali. Infatti nel dialetto medje non esiste un termine corrispondente alla cucina (mafika è termine lingala) e nello spazio domestico non esiste un edificio (nédjó) in cui si preparano i cibi; tutt’al più l’edificio denominato cucina è un magazzino dove si ripongono utensili quali il mortaio e si conservano le poche derrate alimentari (arachidi, riso ecc.). È chiaramente identificabile, tuttavia, uno spazio caratterizzato dalla presenza femminile dove si cuoce il cibo: si tratta della zona del cortile fra il nédjó-némáfíká e il nédjó per il riposo notturno. Quest’area si contrappone al négbámú, spazio domestico occupato prevalentemente dall’uomo e dai figli maschi. Per ciò che concerne l’edificio riservato ai visitatori, esso può essere il nédjó di un figlio o parente adulto, può essere l’abitazione di un’altra moglie (nel caso non raro che si tratti di una famiglia poliginica), oppure può essere effettivamente un’abitazione il cui utilizzo varia notevolmente secondo l’incorporazione temporanea nell’aggregato domestico di individui esterni ad esso. Occorre infine precisare che il numero delle case che circondano il négbámú varia secondo le scelte e la composizione della famiglia.
Lo schema sopra riportato rappresenta un villaggio denominato dai locali nébha e solitamente formato da famiglie appartenenti a uno stesso patrilignaggio esogamico. Ogni famiglia occupa grosso modo un settore del villaggio composto da un riparo per gli uomini (négbámú) e da alcune abitazioni disposte intorno ad esso, questo settore viene anch’esso denominato dai locali nébha (parcelle nella traduzione francese). Tenendo conto che pure una singola abitazione può essere denominata nébha, risulta evidente la difficoltà che incontrai nel far coincidere la mia terminologia con quella di Fabien.
Benché il concetto di «casa» risulti centrale nei lavori degli storici, i termini che emergono dall’etnografia medje-mangbetu, quali nédjó e nébha, non sono presi in considerazione in tali studi. Vansina e Keim non fanno cenno a un eventuale termine indigeno capace di tradurre ciò che essi intendono per house («casa») e quindi sono facilmente comprensibili le riserve mosse da McKee, convinto che «la house analysis può essere una loro nuova costruzione (analitica) piuttosto che una valida ricostruzione» (1995: 336). Tuttavia, il ricorso nelle analisi storiche di Keim e di Schildkrout alla terminologia indigena emerge nel definire il nucleo centrale di ciò che intendono per Casa Mangbetu-Medje6:
La Casa [house] Mangbetu-Medje era formata attorno a un nucleo di membri di un patrilignaggio (nejoti o neikuku nel nord; nebasadjo nel sud) (Schildkrout e Keim 1990: 89).
È l’organizzazione sociale e in particolare il riferimento ai gruppi di discendenza a definire la Casa Mangbetu-Medje, la quale non si limitava a includere i componenti di un patrilignaggio ma incorporava clienti, schiavi, individui appartenenti ad altri lignaggi e addirittura altre intere «case».
È opportuno concentrare l’attenzione sul termine nebasadjo (uno dei termini che Schildkrout e Keim traducono come «patrilignaggio») in quanto, oltre a essere diffuso nel territorio in cui ho svolto la ricerca, permette di ribadire la difficoltà – nel contesto etnografico in questione – di tenere chiaramente distinti i concetti connessi alla residenza e quelli connessi alla discendenza, quasi fossero due opzioni di descrizione e di interpretazione fra cui dover scegliere.
Il termine nebasadjo è composto da due radicali: basa e djó. Quest’ultimo radicale, come si può constatare dai termini introdotti poco sopra, rimanda all’idea di abitazione, mentre la prima radice, basa, è contenuta nel sostantivo nébasa «luogo di ritrovo riparato»7. A detta di McKee (1995: 345), quest’ultimo termine non viene più utilizzato ed è rintracciabile soltanto in antichi resoconti di inizio secolo. Schubotz (1914: 46) denomina bassa una grande costruzione aperta su tutti i lati, collocata nel centro del villaggio del capo mangbetu Okondo, utilizzata come luogo per assemblee. Considerato che i villaggi dei grandi capi non erano altro che ampi aggregati domestici in cui le differenti abitazioni occupate dalle mogli, dagli schiavi e dai figli si snodavano tutte intorno a un grande négbámú utilizzato dal capo come luogo per le riunioni e per le udienze, il bassa non sarebbe stato altro che un grande négbámú al centro di un ampio aggregato domestico («casa»): nell’insieme il tutto si presentava come una grande nébha. Assente negli studi degli storici, il significato del termine nébha (villaggio, compound, «casa»), emerge dall’analisi semantica del termine nebasadjo; attraverso i radicali dei sostantivi di cui è composto, prende forma ciò che precedentemente si è descritto come nébha, un insieme di abitazioni (édjo) costruite intorno a un riparo aperto ai lati, denominato négbámú.
Prima di chiedersi «in che modo il nebasadjo [clan, lignaggio] mangbetu sorse dall’oscurità nel diciottesimo secolo alla posizione di dominio nel diciannovesimo secolo» (Keim 1979: 21), occorre accennare al popolamento della regione al fine di chiarire come si venne a diffondere nelle alte terre dell’est la particolare organizzazione sociale – assente nel bacino del Congo – definibile a partire dall’espressione di Vansina «one village, one house» (1990a: 173). Inoltre, attraverso la ricostruzione del passato8 sarà possibile porre l’attenzione sugli ipotetici percorsi di alcune pratiche socio-culturali, prima fra tutte la circoncisione.
Si è già ricordato nel capitolo precedente che fra il Bomokandi e il Nepoko emigrarono nell’arco di diversi secoli gruppi appartenenti a tre diverse famiglie linguistiche. Popolazioni ubangiane, bantu e sudanesi centrali raggiunsero questa regione al confine fra la foresta e la savana contribuendo a far nascere una nuova tradizione, frutto di un progressivo mescolamento di elementi culturali e pratiche sociali.
I gruppi ubangiani (a cui appartengono gli attuali Azande e Mayogo) arrivarono nella regione da nord-ovest. Si presume che queste popolazioni vivessero di caccia e di pesca, che fossero organizzati in aggregati domestici senza riconoscere particolari leader se non in tempo di conflitti e che non avessero riti di iniziazione per ragazzi (Vansina 1990a: 171).
I gruppi bantu-buan (a cui appartengono gli attuali Babudu e Balika) arrivarono nell’area da sud-ovest diversificandosi a sud del medio Bomokandi a partire dal 2300 a.C. (McMaster 1988: 19). Dal punto di vista delle pratiche e delle istituzioni sociali, gli antenati dei Babudu e dei gruppi di lingua buan avrebbero vissuto in villaggi governati da big men9 e avrebbero avuto complessi rituali di iniziazione incentrati sulla circoncisione dei ragazzi appartenenti a un villaggio o a un distretto (Vansina 1990b: 76).
Le popolazioni appartenenti alla famiglia linguistica sudanese centro-orientale (a cui appartengono gli attuali gruppi mangbetu10 e i Manvu) sarebbero giunti da est e nord-est, avrebbero vissuto in insediamenti dispersi non organizzati in strutture politiche centralizzate e non avrebbero conosciuto la pratica della circoncisione.
Gruppi originari della foresta e gruppi originari della savana si trovarono dunque a interagire nei territori fra il Bomokandi e il Nepoko dando origine a una nuova comune tradizione (Vansina 1990a: 172-75). Per ciò che concerne l’organizzazione sociale, la struttura di villaggio – «proveniente» dalla foresta – si mescolò con la struttura dell’aggregato domestico isolato («casa»); in tal modo «la nuova tradizione adottò insediamenti compatti, ma un villaggio era costituito da una sola casa» (Vansina 1990a: 172).
Come si cercherà di mostrare nei capitoli successivi, anche nell’ambito dei rituali di pubertà l’incontro fra le eredità ubangiana, sudanese e bantu-buan ha generato una nuova tradizione in cui si assiste alla commistione di antichi valori e nuove strategie intorno a una pratica – quella della circoncisione – che, lungi dall’essere stata travolta dai cambiamenti e dai mescolamenti, si è riadattata e diffusa in modo significativo negli ultimi cento anni.
In una regione che per secoli aveva subìto una continua immigrazione senza particolari movimenti di emigrazione, l’aumento della densità demografica incrementò le possibilità di conflitto fra popolazioni confinanti sempre più pressate. In questa situazione di estrema tensione e di forti contrapposizioni si fece urgente l’esigenza, da parte dei gruppi mangbetu, di catalizzare tutta la forza in una sola «casa». Per tale motivo, probabilmente, iniziò (a partire dal 1750 circa) l’ascesa che portò alla nascita del cosiddetto regno mangbetu.
Attualmente gli storici sono concordi nel rintracciare il luogo di origine del nebasadjo mangbetu, il punto di partenza delle conquiste di Nabiembali (l’eroe fondatore della dinastia mangbetu), nei territori occupati dai gruppi abelu11 nella zona del basso Nepoko.
La rapida ascesa del regno di Nabiembali non fu seguita da uno sviluppo di istituzioni appropriate in grado di garantire la centralizzazione della gestione del potere. In pratica Nabiembali creò un regno, ma continuò a pensare con la logica della «casa» (Vansina 1990a: 176-77); in tal modo nel momento della sua successione il regno – inteso come entità politica centralizzata – entrò in crisi. Iniziò un periodo di guerre civili fra diverse «case» e nel 1873 morì Mbunza12 l’ultimo vero sovrano mangbetu, colui che accolse Georg Schweinfurth (1879), il primo europeo a giungere nella regione.
La pressione dei mercanti arabo-sudanesi nubiani (interessati a schiavi e avorio) e dei potenti principati zande frantumò completamente l’unità politica di ciò che restava del regno e proprio in questa situazione di crisi è probabile che abbia iniziato ad affermarsi l’associazione segreta del nebeli (cap. VI), i cui aderenti si proteggevano vicendevolmente dai nemici esterni e dagli stessi capi. È certo che la rete degli appartenenti al nebeli si ampliò notevolmente durante il periodo coloniale iniziato nel 1891, quando una spedizione dello Stato Indipendente del Congo13 raggiunse per la prima volta i territori mangbetu. Le spedizioni militari nel nord-est della colonia e le modalità di gestione della nuova amministrazione furono giustificate con un’ideologia coloniale di dominio e di servizio incentrata sulla pacificazione e civilizzazione dei gruppi indigeni e sulla lotta contro i commercianti arabi di schiavi e di avorio14.
In effetti, la pacificazione fra i gruppi sembra essere stato uno dei risultati ottenuti dal potere coloniale, per altro confermato dai giudizi degli indigeni. Tale pacificazione non è altro che l’effetto di una sistematica riduzione dei vari capi indipendenti (fra cui quelli mangbetu) a semplici autorità delegate, il cui operato veniva controllato dall’amministrazione coloniale.
La pacificazione interetnica e lo spostamento della manodopera verso le grandi piantagioni impiantate dai belgi influenzarono le pratiche sociali dei Medje-Mangbetu e dei loro vicini. In seguito, si cercherà di mostrare come la stessa pratica della circoncisione probabilmente mutò in relazione agli stravolgimenti sociali della fine del secolo scorso.
La storia della regione è un susseguirsi continuo di movimenti e interazioni, di tradizioni che si fondono e inevitabilmente si rielaborano l’una con l’altra. In un’area in cui ambienti naturali molto diversi sfumano l’uno nell’altro, il villaggio della foresta si incontra con gli aggregati domestici sparsi tipici della savana, la coesione fra lignaggi dei gruppi buan-bantu si combina con le strategie di alleanze dei gruppi di origine sudanese, associazioni segrete e alleanze interetniche emergono e si rafforzano in base a particolari eventi contingenti. Le configurazioni socio-politiche e le pratiche rituali nascono, decadono o si trasformano assumendo forme particolari in momenti particolari della storia di un gruppo umano. Il processo storico mostra l’alternarsi di configurazioni e di processi trasformativi; anzi, questi ultimi sembrano essere costitutivi delle stesse configurazioni sociali.
Ancora una volta, l’antropologia dinamista di Georges Balandier pare adatta a descrivere questo intreccio indissolubile della strutturazione e del flusso, della forma e del mutamento: la società è una configurazione che si fa e si definisce continuamente, «è un ordine approssimativo e sempre mutevole» (1973: 4), essa «si rivela come una continua creazione, come dato e progetto insieme» (1973: 67).
Pur affermando che il dinamismo è insito in ogni società e periodo storico, Balandier è convinto che nel nostro secolo e in particolare nell’esperienza coloniale occorra intravedere le precarietà, i drammi e le crisi degli ordini sociali.
La storia attuale sta diventando un vero e proprio rivelatore della realtà sociale. Essa ci mostra delle configurazioni sociali in movimento, tronca l’illusione di una lunga permanenza delle società, che assumono sempre più l’aspetto di un’opera collettiva mai compiuta e continuamente da rifare (1973: 9).
L’esperienza coloniale creerebbe disordini e ordini nuovi e il lavoro collettivo a cui fa riferimento Balandier seguirebbe percorsi inediti. In effetti, il nebeli (associazione segreta interetnica) esprime «il punto di vista mangbetu sotto la pressione coloniale» (Schildkrout e Keim 1990: 190) e la pratica del noutu (alleanza con la circoncisione fra individui appartenenti a «case», villaggi e gruppi etnici differenti) si afferma probabilmente nei primi decenni di contatto con gli europei, periodo di notevoli stravolgimenti nei ruoli dei capi e nella gestione politica dei territori.
Più che indagare sulla specificità delle trasformazioni al tempo della colonia, è rilevante notare che soprattutto nei momenti di crisi o di forti pressioni e tensioni, determinate società (si potrebbe prudentemente generalizzare almeno ai gruppi insediati nelle alte terre del nord-est del bacino congolese) escogitano associazioni, alleanze, raggruppamenti che tagliano trasversalmente le appartenenze lignatiche, claniche, politiche ed etniche, in alcuni casi per superarle, in altri per affiancarle. Questa argomentazione verrà ripresa più diffusamente nei capitoli successivi, quando la riflessione sui progetti di costruzione delle configurazioni sociali si affiancherà alla riflessione sui progetti di costruzione dell’essere umano (progetti generalmente connessi ai rituali della pubertà). Le domande, i dubbi e le risposte che emergono quando si progetta l’essere umano sembrerebbero non lontani da quelli che emergono quando si progettano i gruppi umani (le configurazioni sociali). Nel caso del noutu, un rituale attraverso cui un individuo trasforma (con un’operazione) il suo essere umano e contemporaneamente trasforma e incrementa (attraverso un’alleanza) il proprio reticolo sociale, i due progetti sono inscindibili.
Tornando alle riflessioni terminologiche e ai disperati tentativi di traduzione compiuti pedalando attraverso i villaggi della zona, è probabile che quel giorno Fabien abbia utilizzato con una certa frequenza oltre al termine nébha anche il termine némava. Come si è già detto nébha può essere tradotto con «casa», compound e «villaggio», mentre némava significa «famiglia», «lignaggio» e «clan». I significati mutano secondo il contesto, in quanto un villaggio (nébha) è composto da diverse ébhá (compounds) e lo stesso villaggio viene ricondotto a un unico némava (lignaggio esogamico) pur essendo composto da differenti émava (famiglie).
L’appartenenza a un determinato compound (nébha) e a una determinata famiglia (némava) rappresenta il punto centrale attorno a cui un individuo medje-mangbetu organizza la propria rete di relazioni sociali15.
Robert McKee inserisce l’ipotetico individuo che si trova al centro di questa rete di relazioni (su cui si tornerà in seguito) in un lignaggio esogamico (clan exogamous segment), denominato appunto nella lingua locale némava. Questi segmenti clanici hanno una chiara proiezione spaziale, in quanto i componenti delle ébhá (intese come compounds) che costituiscono un villaggio, appartengono allo stesso lignaggio esogamico. I vari segmenti clanici occupano a loro volta territori adiacenti in modo tale da delineare un’area occupata da un determinato clan. In questo territorio la distanza spaziale fra due individui è direttamente proporzionale alla distanza nella linea di discendenza.
McKee propone una classificazione fra i diversi livelli di segmentazione del gruppo di discendenza patrilineare (1995: 108) introducendo quattro categorie: 1) interi gruppi di clan; 2) clan; 3) segmenti clanici primari; 4) segmenti clanici secondari (per questi ultimi è chiara la localizzazione in un determinato villaggio o segmento di villaggio).
Questa classificazione, probabilmente frutto più di una preoccupazione ordinatrice dell’antropologia che di una analisi dei significati indigeni, risulterebbe alquanto sterile, se non si recuperasse la terminologia locale connessa ai vari livelli di segmentazione. Fra i Medje-Mangbetu del sud, i livelli più alti (gruppi clanici e clan) vengono generalmente denominati nebasadjo, mentre in realtà soltanto per i segmenti clanici si usa il termine émava (in alcuni casi neikuku). È evidente che questa distinzione connessa ai gruppi di discendenza fornisce ulteriori chiarimenti sulle scelte terminologiche degli storici e degli antropologi, nonché sulla realtà che si sceglie di descrivere. Innanzitutto risulta più chiaro il motivo per cui i dati raccolti dagli storici attraverso la tradizione orale sono incentrati sul termine nebasadjo; infatti la storia (a ritroso nel tempo) riportata dall’informatore è una ricostruzione della propria genealogia (a ritroso lungo la linea di discendenza). Le ricostruzioni genealogiche compiute oggigiorno da un individuo adulto permettono di evidenziare come l’uso del termine nebasadjo sia abbinato ad antenati che indicativamente possono essere collocati nel periodo di formazione del regno mangbetu. Inoltre, la tradizione orale e i racconti storici (a partire da Schweinfurth) prediligono le descrizioni delle corti dei principi mangbetu in cui mogli, schiavi, clienti orbitavano idealmente e spazialmente intorno a un leader e al suo enorme négbámú costituendo un ampio aggregato domestico concettualmente vicino a ciò che si intende per «casa» e strutturalmente lontano dagli attuali villaggi medje-mangbetu.
Se l’analisi storica del regno mangbetu porta a prediligere il concetto di nebasadjo, l’analisi etno-antropologica rivolta a ciò che accade nei villaggi odierni della società medje-mangbetu, è incentrata invece sul gruppo di individui appartenenti al patrilignaggio esogamico (némava). Questo è in primo luogo il risultato della discrepanza che emerge fra i modi in cui gli informatori locali «pensano» la storia dei propri gruppi di discendenza e «agiscono» quotidianamente i rapporti di parentela. La discendenza pensata storicamente è quella del nebasadjo, mentre la discendenza agita socialmente e culturalmente è quella del némava o di gruppi di émava (in alcuni villaggi il gruppo di émava fra cui vige la regola esogamica viene denominato neikuku). Dalle parole di Emasiombe Anselme (chef de localité a Mbongyi, nei pressi di Makpulu) concernenti la rete di parenti coinvolti durante un rituale di circoncisione, emerge chiaramente quale sia il gruppo di parentela in cui si agisce socialmente:
Il neikuku è un insieme di émava. A Mbongyi ci sono cinque émava che hanno lo stesso antenato, Mbongyi. Fra questi non è possibile prendere moglie, fuori è possibile. Subito fuori, con le ébhá vicine, ci sono buoni rapporti, ma per sposarli bisogna vedere se non hanno il nostro stesso antenato anche se sono fuori. C’è sempre questione di neikuku, c’è sempre stata. C’è anche l’idea di tutti i Mandeya ma non è possibile prenderli tutti quando per esempio c’è una festa. Nel caso della circoncisione bisogna avvertire le famiglie legate a te e non tutto il groupement [Meika Mandeya]. Nel neikuku di Mbongyi ci sono più o meno 450 persone. Il neikuku è lungo una strada, questo è lungo due chilometri, ma ci sono neikuku di diversa lunghezza, per esempio a Badjo [si intende nel groupement Madjoo, nella collectivité Mongomasi] sono molto grandi e numerosi.
L’esistenza di un gruppo di discendenza localizzato, congiuntamente alla regola della residenza patrilocale e a quella esogamica, contribuiscono a fornire le più importanti coordinate in cui un individuo «agisce» la propria parentela consanguinea.
Poiché i villaggi si snodano lungo una via di comunicazione (strada o sentiero), sarà quest’ultima a rappresentare l’asse principale lungo il quale un individuo pensa e agisce gran parte delle proprie relazioni di parentela, soprattutto in rapporto alla regola esogamica. Infatti, mentre il luogo simbolico della discendenza patrilineare e delle relazioni che intercorrono fra gli individui appartenenti ad essa è il négbámú (il centro focale intorno a cui si costruisce un aggregato domestico che attraverso parentele e alleanze diventa una configurazione sociale ramificata), il luogo che incorpora simbolicamente la regola esogamica è la strada. La contrapposizione fra il négbámú e la strada si connette alla contrapposizione fra il maschile e il femminile e soprattutto fra la strutturazione e il flusso. Intorno al négbámú si costruisce il proprio aggregato domestico, al fianco di altri aggregati domestici. Ciò che si configura socialmente è un villaggio o un frammento di villaggio strutturato sulla base dell’appartenenza a un gruppo di discendenza. Questa configurazione così strutturata si sviluppa su entrambi i lati di una strada che, come nel caso del fiume, rimanda all’idea di flusso e riguarda maggiormente la vita della donna. È stato Alimasi, un informatore mangele a suggerirmi per primo la connessione fra il fiume, la donna e la strada:
Il fiume è più della donna, è lei che pesca di più, è lei che va a prendere l’acqua per lavare e per cucinare, è la donna che fa più pesca dell’uomo. Anche i tamburi d’acqua è una pratica della donna. Per il cadavere, l’uomo quando muore deve guardare il lato del sole che nasce [zebo] e la donna deve guardare il lato dove il sole muore. Zebu è della donna perché è lei che ha la sua vita lungo la strada. La donna dà la sua vita tutta in discesa lungo la strada.
Le donne che appartengono a un determinato némava vengono inviate come spose «lungo la strada», possibilmente in villaggi (ébhá) abbastanza lontani dai gruppi cognatici e strutturati sulla base di una discendenza sufficientemente diversa. In tal modo, la rete di ébhá con cui ogni singola nébha intratterrà rapporti particolari di scambi e alleanze, aumenta sensibilmente.
Malgrado un individuo si trovi quindi al centro di una rete di alleanze in quanto appartenente a una particolare nébha (nel duplice senso di villaggio e compound), occorre sottolineare che ogni singola famiglia cerca di creare alleanze al di là dei parenti e degli affini coinvolgendo l’intero villaggio. Ciò succede per esempio quando un individuo decide di circoncidere il proprio figlio insieme al figlio di un altro individuo appartenente a un altro villaggio, il più delle volte completamente esterno al proprio clan. Si tratta dell’alleanza tramite la circoncisione denominata noutu. Stringere alleanze al di là del proprio clan o del proprio gruppo etnico (Medje) è idealmente un modo per riannodare quelle liane spezzate che nella tradizione orale spiegavano il diversificarsi dei gruppi di lingua mangbetu durante le migrazioni (cap. I, § 3), ma è anche un modo per ribadire la tendenza dei popoli che nel corso dei secoli hanno occupato la regione fra il Bomokandi e il Nepoko, a mettere insieme tradizioni, tecniche, espressioni artistiche, strutture sociali, società segrete e, in ultimo, il sangue dei circoncisi.
1 Come mostra ironicamente Mary Louise Pratt, la figura dell’osservatore sprovveduto è difficilmente assente dagli scritti etnologici: «Quasi in ogni monografia etnografica, ottuse figure di ‘semplici viaggiatori’ o di ‘osservatori casuali’ compaiono di tanto in tanto per permettere al competente scienziato di correggere, o confermare, le loro superficiali impressioni» (1997: 51). In realtà anche l’antropologo (in qualità di «competente scienziato») dimostra «sprovvedutezza» sul piano della capacità di attraversamento culturale, in quanto non possiede una strumentazione concettuale che si ponga al di fuori della propria cultura e della cultura che ha scelto quale oggetto di studio (Remotti 1990: 162).
2 I lavori di Vansina sono da considerarsi fondamentali per chi si occupa della storia e dell’etnografia dei popoli dell’Africa centrale. Svolgendo le sue ricerche principalmente nel Congo (ex Zaire), in Rwanda e in Burundi, Vansina ha contribuito alla valorizzazione della tradizione orale come fonte storica (1967, 1985) fornendo inoltre importanti opere di sintesi sia per ciò che concerne l’etnografia dei popoli del bacino del Congo (1966), sia per ciò che riguarda il popolamento e l’evoluzione delle istituzioni politiche tradizionali in Africa equatoriale (1990a).
3 Per compound si intende un’unità residenziale composta da più abitazioni avente i confini ben delimitati.
4 Soprattutto nell’ultimo decennio la nozione di house si è inserita nel dibattito sulla ridefinizione delle relazioni di parentela nella salvaguardia delle categorie concettuali indigene (Gudeman 1990, Carsten e Hugh-Jones 1995).
5 Nella scia della revisione concettuale che vede le diverse scuole proporre – a volte in modo antagonistico – alternative e miglioramenti nei confronti di nozioni quali «clan», «lignaggio», «discendenza» e «famiglia», non va dimenticata la letteratura che pone al centro delle proprie descrizioni della società il concetto di household (Yanagisako 1979, Netting et al. 1984), traducibile in italiano con «aggregato domestico» (Barbagli 1977: 9) e utilizzato per definire solitamente un gruppo coresidente, in cui esistono funzioni specifiche e confini precisi. È stato osservato che anche quest’ultimo concetto apparterrebbe a quell’insieme di nozioni che – per dirla con Michel Verdon (1991: 2) – «hanno lasciato intravedere delle fessure» nel distinguere le attività domestiche da quelle esterne, i criteri di residenza e le funzioni economiche, cosicché alcuni studiosi hanno preferito utilizzare i concetti di domestic group, co-residential groups o budget unit (Grinker 1994: 114).
6 L’uso maiuscolo del termine (Casa) viene qui convenzionalmente riservato alle «case» reali come appunto la Casa Mangbetu.
7 Il termine nébasa lo si incontrerà nuovamente nel sesto capitolo in quanto l’edificio costruito in foresta e sede delle riunioni dell’associazione chiusa del nebeli viene denominato appunto nébasa.
8 I dati riportati in questo paragrafo sono desunti dalle ricerche di Mary Allen McMaster (1988) e di Christopher Ehret (il cui manoscritto Proto-Central-Sudanic Reconstructions è spesso citato nel lavoro della McMaster), entrambe ampiamente utilizzate da Vansina (1990a, 1990b) nella ricostruzione storica concernente il Congo nord-orientale. Il metodo utilizzato da Ehret e McMaster si basa sulla comparazione dei termini linguistici e degli oggetti di cultura materiale; è inevitabile che i dati riportati non possano essere verificati in altro modo e che quindi occorra valersene con opportuna cautela.
9 Il termine big man (utilizzato soprattutto nell’etnografia della Nuova Guinea) indica nel linguaggio tecnico dell’antropologia una particolare figura di leader il cui potere è fondato sulla ricchezza, sul prestigio e sull’abilità nello stringere alleanze. Lo status di big man, alquanto precario, non dipende da regole di legittimazione e non è neppure ereditario.
10 I gruppi mangbetu si presentarono divisi in parecchi sottogruppi linguistici: i Medje si insediarono fra il Nava e il Nepoko; i Malele, i Makere e i Popoi si spinsero più a ovest, mentre gli Abelu e i Lombi penetrarono notevolmente nella foresta in direzione sud.
11 Gli Abelu e i Lombi sono i gruppi di lingua sudanese centro-orientale insediati più a sud, gli unici di tale gruppo linguistico che sono penetrati in profondità nella foresta e quindi nei territori esclusivamente bantu. La contrapposizione a un mondo completamente altro (la foresta, culture e lingue bantu) viene espressa dagli stessi nomi etnici: infatti nei dialetti mangbetu esistono due termini per denominare genericamente l’essere umano (Larochette 1958a: 162, 173): nabélu (plur. ábélú) e nóómbí (plur. óómbi). Per gli Abelu e i Lombi – circondati da gruppi bantu – bastava definirsi nella loro lingua «uomini» per differenziarsi dagli altri, oppure furono gli altri (come spesso accade) a denominare con tali termini generici i loro vicini.
12 Sulla ricostruzione della cronologia dinastica e delle genealogie dei vari capi mangbetu si vedano Hutereau 1922 e Denis 1961.
13 Lo Stato Indipendente del Congo nacque nel 1885 in seguito al Trattato di Berlino che riconobbe la sovranità del re belga, Leopoldo II, su tali territori.
14 Sulle incursioni degli «Arabi» nelle terre del Uele e del Bomokandi e sugli scontri sia con le popolazioni autoctone sia con le prime spedizioni militari belghe (soprattutto la spedizione Vankerckoven) si segnalano le ricerche del missionario domenicano Léon Lotar incentrate sulla storia dell’occupazione del Congo settentrionale (Lotar 1935, 1946).
15 Sulle relazioni famigliari mangbetu si veda lo studio del missionario Luigi Moser sui rapporti di parentela per filiazione e per alleanza fra i Mangbetu della collectivité Azanga (Moser 1983), qui denominati Medje-Mangbetu del nord.