Nanzi kporo kana ebhua ate mbuo
(Una sola termite non può produrre olio in una pentola)
Proverbio mangbetu
I riti di circoncisione sono di solito intesi come riti di passaggio. Il candidato viene inserito in un processo formalmente definito che lo porterà dallo status di bambino a quello di adulto o per lo meno gli «effetti» (fisici e psichici) di tali riti lo rendono in grado di agire successivamente come un vero uomo. Al centro del rituale c’è un’operazione che segna in modo irreversibile il corpo del ragazzo il quale, privato del prepuzio, può lecitamente impegnarsi nella ricerca di una compagna con cui costruire una famiglia. L’individuo viene trasformato nel corpo e nel proprio ruolo sociale, in quanto risulta sempre più chiaro ciò che il gruppo si aspetta dal suo progetto di vita.
Questo passaggio è nella maggior parte dei casi un evento di ulteriore specificazione nella crescita di un individuo la cui natura biologica risulta carente nel fornirgli le indicazioni necessarie al fine di diventare adulto. L’idea dell’uomo come essere carente e incompiuto è centrale nell’antropologia filosofica di Arnold Gehlen, il cui punto di partenza è proprio la constatazione dell’insufficienza dell’equipaggiamento biologico. L’uomo, essendo per natura incompiuto, non costituito una volta per tutte, deve in primo luogo interpretare se stesso e «prendere posizione circa se stesso, cosa per la quale è precisamente necessaria un’immagine, una formula interpretativa» (1990: 35). L’essere umano, svincolato da un rigido apparato istintivo, dispone della propria esistenza e assume un comportamento nei propri confronti, in quanto, disponendo di se stesso, «dirige la propria vita» (1990: 43). L’argomentazione di Gehlen si incentra, a questo punto, sul concetto di «azione», la categoria fondamentale della sua antropologia. La «non-definitezza» dell’uomo lo sottopone a un «eccesso pulsionale» che, durante la conduzione dell’esistenza, deve essere controllato: ogni individuo diventa in tal modo un essere da disciplinare attraverso una decisa strutturazione per mezzo delle istituzioni.
In seguito (cap. VI) si tornerà su questo schema antropologico, che dall’azione con cui si «dirige» la vita conduce alla strutturazione (uno schema che rimanda all’immagine dei percorsi verso il termitaio introdotti nel primo capitolo). Per ora è opportuno concentrarsi sul fatto che la carenza di istinti innati, che differenzia l’uomo dal resto del regno animale, si connette con l’esigenza dell’essere umano di costruire se stesso, di crescere sulla base di indicazioni di ordine culturale. La sua genesi non è racchiusa nell’atto biologico della nascita, ma continua lungo tutto l’arco di vita, in particolare nelle fasi dell’infanzia e dell’adolescenza, cioè nelle fasi in cui i ruoli non sono ancora definiti e il corpo è soggetto alle più evidenti trasformazioni. L’uomo è destinato a «fabbricare» e a «costruire» se stesso seguendo modelli e idee che non sono innate, ma vengono formulate nell’ambiente culturale in cui vive. Esistendo differenti ambienti culturali esistono differenti idee su cosa debba diventare un essere umano e di conseguenza esistono diversi progetti di fabbricazione degli uomini che sottendono diverse idee di umanità. Alla prospettiva secondo la quale ogni individuo nel processo di crescita successivo alla nascita biologica deve rinascere socialmente – e per fare ciò è invitato dal gruppo al quale appartiene a seguire un determinato e specifico percorso di trasformazione fisica, psichica e intellettuale alla cui base c’è una particolare idea di umanità – è stato dato il nome di «antropo-poiesi» (Remotti 1996a). La «formula interpretativa» (l’immagine), di cui parla Gehlen, esprime d’altro canto l’esigenza di un’antropologia, di un’idea di umanità sulla quale basare le proprie azioni e la «direzione» della propria vita.
I momenti maggiormente significativi dal punto di vista sociale e culturale di questo processo di costruzione e di trasformazione si manifestano in eventi rituali, che nell’ambito antropologico vengono di solito definiti riti di iniziazione. Affinché si possa parlare di «iniziazione» connessa al passaggio all’età adulta (iniziazione che in molti casi prevede la circoncisione) occorre che la trasformazione dell’individuo avvenga non solo attraverso un’incisione corporea, ma anche attraverso una modificazione del carattere e delle conoscenze dell’iniziato. Occorre che il gruppo trasmetta al ragazzo un nuovo sapere incentrato sui valori esclusivi della cultura a cui appartiene e che il candidato superi determinate prove di solito connesse al coraggio e alla resistenza fisica. Solo a questo punto sarà «diventato» un vero uomo e sarà considerato tale dagli individui che lo circondano.
In molti contesti etnografici la trasmissione del sapere iniziatico e lo svolgimento delle prove di resistenza fisica sono associate alla massima segretezza. I candidati non possono raccontare ai non-iniziati ciò che si svolge nel luogo appartato (in foresta, in una abitazione isolata ecc.) e nel caso del rito di iniziazione maschile alla vita adulta nulla deve trapelare alle donne del gruppo.
Come si è visto precedentemente (cap. III), il noutu non prevede alcuna fase iniziatica: nessun sapere segreto viene trasmesso ai circoncisi, nessuna prova dolorosa li attende nel periodo di guarigione, nessuna reclusione e isolamento caratterizzano la fase centrale del rito. Pur non subendo alcuna iniziazione, i partecipanti al noutu vivono un passaggio significativo caratterizzato da una effettiva trasformazione (del corpo, dello status e dell’ambiente sociale). Come suggerisce Suzette Heald (1982) analizzando il rituale di iniziazione dei Gisu dell’Uganda denominato imbalu, occorre evitare di considerare i riti di passaggio come esempi di riti di transizione senza afferrare la natura specifica della transizione quale è percepita dalla società stessa. Per tale motivo, occorre non limitarsi a rilevare le modalità attraverso le quali un individuo viene formalmente trasportato da uno status definito a un altro concentrandosi sulle somiglianze funzionali e formali dei riti di passaggio, ma cogliere il carattere trasformazionale dei riti. Anche per ciò che concerne il noutu si vorrebbe dirigere l’attenzione più sugli aspetti trasformativi del rito che su quelli transizionali: il rito di passaggio contenente la circoncisione «trasporta» un ragazzo da uno status a un altro, ma soprattutto lo «trasforma». Ora, non si tratta in tal modo di evidenziare – come nell’analisi dell’imbalu proposta dalla Heald – la trasformazione psicologica del circonciso, quanto la trasformazione dell’ambiente sociale che lo circonda. L’idea che la trasformazione successiva a un rito di circoncisione riguardi più l’ambiente sociale circostante che non il corpo e la psiche individuale sembra alquanto bizzarra; infatti si presume che durante il rito di passaggio all’età adulta vengano manipolati e modellati i corpi e le menti dei ragazzi e non ciò che sta intorno. Tuttavia, come cercherò di mostrare in questo capitolo, se si vuole cogliere la natura della trasformazione successiva al noutu e quindi il senso stesso del rito, occorre «uscire» dal corpo del circonciso e, metaforicamente, verificare gli effetti del «tagliare» non solo sul pene del candidato ma soprattutto sull’ambiente sociale.
Ciò che si ipotizza è «un’antropo-poiesi dal giro lungo»: si incide il corpo dei propri bambini per modellare l’ambiente sociale circostante e l’effetto di tutto ciò è la trasformazione dei bambini stessi in quanto «l’uomo si ‘fa’, si ‘costruisce’, nello stesso tempo in cui rimodella i propri ambienti» (Remotti 1996a: 19). Qualcosa di analogo lo sostiene anche Gehlen quando afferma che l’uomo, prendendo posizione verso l’esterno, fa di se stesso qualcosa:
L’uomo è l’essere che agisce. [...] Egli non è «definito», è cioè ancora compito a se medesimo; è, come si può anche dire, l’essere che prende posizione. Gli atti del suo prendere posizione verso l’esterno chiamiamo azioni, e proprio perché egli è anche compito a se medesimo, prende posizione verso se stesso e «fa di se stesso qualcosa» (1990: 58).
Ritengo si possa affermare che l’incisione effettuata sul corpo (il taglio del prepuzio) durante il noutu comporti un’incisione metaforica dell’ambiente sociale circostante; il segno impresso sul corpo è un segno impresso sulla società. Qualcosa di simile sembra emergere nel rituale di iniziazione dei Rukuba della Nigeria studiato da Jean-Claude Muller (1989).
L’iniziazione dei giovani rukuba si estende su un periodo di circa dieci anni e prevede diversi stadi. Durante la prima fase – vivendo in una società in cui vige la poliandria – al ragazzo viene attribuito un padre attraverso la messa in scena di uno psicodramma in cui il marito preferenziale estende i suoi diritti sui figli di sua moglie per poi svelare e accettare la vera paternità (Muller 1989: 41); l’ambiente indistinto dei mariti della propria madre viene «segnato» in questo primo stadio e così facendo il ragazzo ridisegna i legami di parentela in modo più preciso. La seconda fase dell’iniziazione è incentrata sulla circoncisione (izaru), attraverso la quale il prepuzio viene separato dal pene e contemporaneamente il circonciso viene separato dalla madre e dall’intera parentela materna, i cui componenti maschi protestano vigorosamente inscenando una finta guerra. In tal modo, il proseguimento dell’iniziazione attraverso un taglio sul corpo implica un’ulteriore specificazione dell’ambiente sociale del ragazzo, al quale non solo viene chiarita la paternità, ma gli si impone l’opzione patrilineare nella scelta della linea di discendenza: la circoncisione è «sia in senso letterale sia in senso figurato un taglio» (Muller 1989: 70). Questa progressiva trasformazione e costruzione dell’ambiente sociale circostante continuano nella terza fase dell’iniziazione incentrata sul matrimonio rituale fra l’iniziato e una donna incinta, scelta sulla base delle reali regole matrimoniali. Il ragazzo impara a suddividere in base a tali regole i lignaggi rukuba, i quali si presentano non più indistinti ma differenziati in base a precise norme matrimoniali. Infine, durante l’ultima fase dell’iniziazione i candidati devono coscientemente ed esplicitamente rifiutare di bere nel recipiente sacro del capo: in altre parole devono rifiutarsi di proseguire l’iniziazione in quanto solo il capo è realmente iniziato. La rinuncia a concludere il ciclo iniziatico è una simbolica adesione al patto sociale che consente a un solo individuo di essere capo; così facendo i giovani rukuba rendono l’ambiente sociale circostante ancora meno indistinto, sottoponendosi alle regole politiche della società divisa in governanti e governati.
L’intero ciclo iniziatico rukuba si presenta quindi come un progressivo modellamento dell’ambiente sociale che circonda l’iniziato: si sceglie una paternità, una linea di discendenza, una regola matrimoniale, un sistema politico e così facendo si «tagliano via» ipotetici padri, discendenze, possibilità di matrimoni, ipotetici sistemi politici. Ciò che viene plasmato e costruito non è il corpo e neppure la psiche dell’individuo, ma piuttosto la società rukuba la quale «utilizza gli iniziati per concepire e realizzare un discorso ideale su se stessa» (Muller 1989: 209). Questa affermazione è molto significativa in rapporto a ciò che succede durante il noutu: gli adulti utilizzano la circoncisione dei propri figli per costruire nuovi rapporti sociali che esprimono concetti quali la fraternità, l’esogamia, l’alleanza, lo scambio economico, la scelta matrimoniale ecc., tutti elementi centrali nella costruzione della società e nelle aspettative che il gruppo ha nei confronti dei singoli individui.
La costruzione dell’uomo (antropo-poiesi) è connessa ed è funzionale alla costruzione della società (koino-poiesi1). Il progetto, inerente a ciò che deve «diventare» l’uomo, messo in atto e in scena da una determinata cultura, presuppone non solo un’idea di umanità ma anche un’idea di società; dopotutto tale progetto – esplicitato nei riti di iniziazione – non coinvolge quasi mai un singolo individuo, ma richiede una partecipazione plurale e coinvolge molto spesso l’intero gruppo. Le due componenti (antropo-poiesi e koino-poiesi) sono presenti in tutti i processi rituali di passaggio all’età adulta: in alcuni casi etnografici l’accento viene posto sulla trasformazione e costruzione dell’individuo, in altri (come si presume fra i Rukuba e i Medje-Mangbetu) sulla trasformazione e costruzione della società, cioè sulle scelte e sulle modalità attraverso le quali una pluralità di individui costruisce una particolare rete di relazioni. Jean-Claude Muller sottolinea la peculiarità del ciclo iniziatico rukuba rispetto ai classici riti di iniziazione africani enucleando alcune caratteristiche riscontrabili anche nel noutu: non c’è reclusione in foresta, non ci sono segreti e non ci sono prove fisiche. Malgrado si registri l’assenza dei tipici elementi iniziatici drammaticamente incentrati sull’individuo e sulla scelta che l’iniziando ha di fronte a sé (diventare o meno un uomo corrispondente al modello proposto dal gruppo di appartenenza), è presente un significato particolare:
l’iniziazione rukuba non è solo un discorso sull’individuo e sul posto che occupa nella società, è anche una meditazione e un discorso della società su se stessa, sul suo funzionamento e sui suoi presupposti filosofici. È una messa in scena [...] che permette alla società di pensare a se stessa ponendosi delle alternative per l’intera durata dell’iniziazione (Muller 1989: 208).
Durante il processo di costruzione dell’individuo comprendente la circoncisione si mette mano all’uomo ma anche alla società, si riflette su come debba essere l’uomo ma anche su come debba essere un gruppo di uomini: le due riflessioni non viaggiano parallele ma si incrociano in continuazione, determinandosi vicendevolmente. In alcuni contesti etnografici, come si è già accennato, la riflessione sul gruppo, sulla pluralità si impone sulla riflessione inerente al singolo, al suo corpo e alla sua psiche. Per tale motivo occorre innanzitutto verificare in che modo nel noutu – che è pur sempre un rito di passaggio – si esprima questa centralità del gruppo, della pluralità rispetto alla solitudine del corpo e della psiche.
La transizione del circonciso da uno status all’altro dovrebbe quindi esprimersi attraverso la riflessione sull’ambiente sociale circostante, cioè la pluralità di individui con cui interagisce e in cui è inserito. A ben vedere, fin dai primi giorni di vita – cioè all’inizio del processo antropo-genetico che ovviamente non si riduce al noutu – la crescita dell’individuo viene ritualmente connessa al gruppo di appartenenza. Infatti, dopo essere uscito dal grembo materno, occorre aspettare la caduta del cordone ombelicale per poter mostrare il neonato in pubblico. Dalla porta dell’abitazione non uscirà da solo (come nel momento della nascita biologica) ma insieme a un cospicuo numero di persone appartenenti al suo patrilignaggio. Come si vedrà nel paragrafo successivo, questa seconda uscita inaugura l’esistenza sociale del neonato al quale, con gesti e parole, verranno ricordati i doveri e i significati di una vita in gruppo.
I primi giorni di vita di un neonato sono particolarmente precari: le possibilità che il bambino muoia sono alte; il bambino vive un periodo di reclusione e la madre, oltre a non avere contatti con il mondo esterno, è soggetta a determinati tabu alimentari, primo fra tutti l’obbligo di mangiare solo le banane che si trovano al centro di una «mano di banane»; «soltanto dopo il nóbu si incomincia a essere sicuri della vita del bambino» (Teresa Amanzibandro Sani). Il nóbu è una breve cerimonia che si svolge in occasione della prima uscita del neonato dall’abitazione in cui è avvenuto il parto; per effettuare questo rito occorre che il cordone ombelicale (notunvo) sia caduto e la ferita si sia rimarginata. Anche questo rituale, come il noutu, sta scomparendo e a detta di molti non si organizza più da parecchi anni2.
All’alba del giorno prestabilito, la mamma con il neonato in braccio si sedeva all’interno dell’abitazione di fronte alla porta; tutti i bambini della famiglia appartenenti all’aggregato domestico del neonato e a quelli vicini (appartenenti allo stesso patrilignaggio) dovevano entrare nella casa. Nel mentre veniva preparato un fuoco sull’uscio dove si mettevano a bruciare determinate foglie ancora verdi in modo da produrre molto fumo. A questo punto, la più influente e importante fra le sorelle del padre doveva – aiutandosi con un vassoio – fare entrare il fumo dentro l’abitazione per irritare gli occhi dei bambini; allora la madre e il neonato in braccio, seguiti da tutti i bambini, uscivano dalla casa e si disponevano sotto il négbámú. La zia paterna (nédadá) prendeva in braccio il neonato e gli sussurrava all’orecchio: «tu bambino sei venuto qui al mondo, bisogna che tu comprenda tutte le cose che ti verranno dette durante la vita, che tu sia comprensivo e che tu sia rispettoso dei tuoi fratelli che hanno sofferto con te». Dopo il discorso, la madre e tutti i bambini del patrilignaggio si mettevano a mangiare insieme un cibo appositamente preparato con le banane poste all’estremità della «mano» (quelle vietate durante il periodo che trascorre fra la nascita e il nóbu) e – a detta di alcuni informatori – con alcune foglie netonyo.
Questa breve cerimonia contiene alcuni elementi che, oltre a connettersi al noutu, rimandano a uno specifico progetto di umanità:
1) In primo luogo, è evidente la centralità del gruppo e della pluralità in relazione all’esistenza del singolo: mentre la nascita biologica è un evento privato che riguarda il neonato e la propria madre, il debutto sociale nel mondo è caratterizzato dall’appartenenza al proprio patrilignaggio. Dalla casa si esce in gruppo: in altre parole, si «partecipa» al mondo insieme ad altri individui. Al riguardo è significativa l’interpretazione del rito proposta da Teresa Amanzibandro Sani:
Questa cerimonia si faceva per far comprendere al bambino che è uscito da un luogo felice per venire a vivere in un luogo dove ci sono molte difficoltà. È così che quando il fumo lo infastidisce si metterà a piangere e verrà a conoscenza di questa differenza. In tal modo capirà di essere in un mondo dove ci sono molte difficoltà. Quelli della famiglia [i bambini entrati nell’abitazione] hanno sofferto con lui nella casa a causa del fumo e lui dovrà rispettare quelli che hanno sofferto con lui.
Il mondo degli uomini, nel quale il neonato sta entrando, si mostra per la prima volta attraverso il sentimento della compassione (soffrire con). Tale con-patire è un modo per esprimere la propria umanità (avere umanità) e infatti – come sostiene il filosofo Fernando Savater – «gli uomini diventano umani nel loro rapporto reciproco, e nessuno può darsi l’umanità da se stesso nella solitudine, o meglio, nell’isolamento» (1990: 75). Nella cerimonia del fumo è implicita un’idea di umanità che si realizza soltanto in una condizione di pluralità.
2) In secondo luogo, il nóbu presenta le caratteristiche di un vero rito di passaggio. Dopo essersi separato dal grembo materno, il neonato vive alcuni giorni in una fase liminare caratterizzata dalla reclusione e dall’insicurezza, per poi entrare ufficialmente nel mondo. Questa seconda uscita (una seconda nascita) lo segna irrimediabilmente come appartenente a uno specifico patrilignaggio, nei confronti del quale deve essere riconoscente «per aver sofferto insieme con i suoi componenti». La connessione con il noutu è tangibile nella simbologia del pasto rituale successivo all’uscita: un pasto da consumarsi insieme agli altri «fratelli» e contenente le banane vietate alla madre durante i primi giorni dopo la nascita del figlio. La fase conclusiva del noutu può essere infatti considerata come una rinascita rituale, che nel classico schema dei riti di passaggio è successiva a una morte simbolica (cap. V, § 3).
3) In terzo luogo, pare evidente come il progetto di costruzione dell’individuo sia connesso al progetto di costruzione di un gruppo. Il neonato entra a far parte di una pluralità di individui; la sua nascita è un contributo alla costruzione di un gruppo che vive sotto lo stesso tetto o meglio in uno stesso villaggio. A rafforzare tale interpretazione è sufficiente soffermarsi sul termine nóbu che, oltre a designare la cerimonia in questione, viene utilizzato per denominare l’atto di costruzione di un edificio. Infatti nóbu significa applicare il fango sull’intelaiatura di canne e di rami della casa; in altre parole, si prende una sostanza molle e gli si dà forma secondo un modello già esistente: lo scheletro di canne dell’abitazione. Così come la periodica aggiunta di fango contribuisce alla costruzione e alla ristrutturazione di una casa, la nascita di un nuovo individuo contribuisce alla costruzione e al perdurare di una famiglia.
4) Un’ultima considerazione è resa possibile ancora una volta da una comparazione regionale. Diversamente dai riti di iniziazione e di circoncisione, la cerimonia dell’uscita del neonato fa volgere lo sguardo a nord, proprio verso quei gruppi zande esclusi dalle reti di relazioni tipiche del noutu. Fra gli Azande esiste una cerimonia del tutto simile al nóbu medje-mangbetu (cerimonia del fumo, pasto in comune ecc.), mentre gli informatori budu e lika sembrano ignorare tale pratica rituale. Inoltre, dalle testimonianze raccolte sul campo e dai resoconti etnografici esistenti (in particolare Lagae 1926: 164-79) si rileva una certa importanza di tale rito nella società zande.
In queste pagine non è la prima volta che, analizzando un’azione rituale in termini comparativi, l’attenzione viene posta sui gruppi a nord dei domini medje-mangbetu: infatti, anche l’istituzione del patto di sangue è sembrata maggiormente tipica dei gruppi esterni alla grande foresta congolese (cap. IV, § 1). A questo punto è interessante verificare se la cerimonia dell’uscita del neonato e l’istituzione dello scambio di sangue siano accomunate da qualche elemento pregnante e contemporaneamente assente nei riti di iniziazione e circoncisione tipici delle culture di foresta. Se così fosse, è probabile che si possa fare luce ulteriormente sulle esigenze che sottendono le scelte culturali e rituali di un determinato gruppo, in quanto la ritualizzazione avviene nei confronti di aspetti che si reputano centrali per la società.
In effetti, da un punto di vista sociale la cerimonia dell’uscita del neonato e la fratellanza di sangue hanno un elemento di convergenza: in entrambi i casi si incorpora nell’aggregato domestico un nuovo individuo; la famiglia aumenta di numero. Pare oltremodo significativo che siano proprio le società di savana, organizzate in insediamenti sparsi composti da una sola grande famiglia, a ritualizzare (a riflettere su) questi momenti di arricchimento, più che i gruppi di foresta organizzati in villaggi.
Questo esercizio connessionistico che lega inizialmente il noutu al nóbu e successivamente – attraverso una prospettiva comparativa – il rito della nascita zande al patto di sangue non ci allontana in realtà dal tema centrale di questo libro (l’alleanza con la circoncisione), ma permette di identificare l’elemento che permane negli eventi rituali di un determinato gruppo. Al riguardo, occorre ricordare che il sostantivo noutu rimanda a un altro termine, nóótwóotu che significa «moltiplicarsi», «accrescersi», «aumentare di numero». Questi concetti si ritrovano nei riti di circoncisione, nei patti di sangue e nei rituali di nascita, mentre non appaiono nei tipici rituali di iniziazione delle culture di foresta, incentrati più che altro sull’esigenza di ribadire un’identità di gruppo, un Noi già esistente.
Gli eventi significativi nel processo antropo-genetico di un individuo (nóbu e noutu) sono connessi alla costruzione della società di appartenenza orbitante intorno a un villaggio abitato dai componenti del proprio patrilignaggio. L’idea di appartenere a una pluralità di individui orientata a moltiplicarsi e ad aumentare di numero occupa il centro della riflessione su come deve agire l’uomo e su come deve agire un gruppo di uomini.
Le fasi rituali successive alla separazione dal cordone ombelicale e alla separazione dal prepuzio sono accomunate da un pasto comunitario in cui vengono consumati i cibi vietati durante un periodo di attesa caratterizzato da una estrema precarietà. Analizzando il noutu a partire dalla classica tripartizione (separazione, liminarità e aggregazione) proposta da Van Gennep (1981: 11), la fase conclusiva del rituale di circoncisione è segnata da un evento emblematicamente aggregante (il pasto del netonyo), inserito in una più ampia azione rituale comprendente il lavaggio al fiume, il lancio della freccia verso ponente e il pernottamento a zebu (cap. III, § 6). Dopo un lungo periodo di guarigione contraddistinto da una relativa chiusura e da determinati tabu alimentari, il circonciso viene introdotto nuovamente nel mondo ordinario; l’uscita dal periodo di guarigione sembrerebbe in qualche modo interpretabile come una rinascita. Tuttavia, durante il noutu, più che a una vera rinascita si assiste a una plasmazione dell’ambiente sociale; come si è già sottolineato, l’attenzione non è tanto posta sulla trasformazione dell’individuo quanto sulla creazione di una rete di relazioni in cui il neo-circonciso viene inserito. Così come la fase di aggregazione non è una vera rinascita, anche il periodo di guarigione non sembra presentare le peculiarità tipiche della morte rituale che normalmente caratterizzano la fase liminare dei riti di iniziazione. Il classico schema con cui si analizzano i riti di iniziazione (morte e rinascita rituale) non sembra rinvenibile nel noutu medje-mangbetu.
Nei giorni che trascorrono fra l’operazione e il lavaggio al fiume, i circoncisi si trovano in uno stato particolare definito dagli informatori con il termine neigwa. Ai circoncisi non vengono tagliati i capelli e le unghie; i loro corpi non devono avere particolari cure, ad eccezione della ferita sul pene soggetta a medicazioni quasi quotidiane; in questa fase i bambini operati devono lavarsi in modo sommario e superficiale. Cercando di spiegarmi il significato del termine neigwa i miei collaboratori hanno utilizzato in particolare i concetti di «sporcizia», «impurità» e «incuria». Tuttavia non basta essere sporco e trascurato per essere neigwa, in quanto occorre vivere un particolare momento della propria vita caratterizzato dalla precarietà, dalla difficoltà e dalla sospensione della normale condizione di un individuo. Sembrerebbe che esistano due momenti nella vita di un uomo contraddistinti dalla precarietà, in cui ci si comporta ed effettivamente si è neigwa: il periodo di guarigione dopo la circoncisione e il periodo di lutto successivo alla morte del proprio coniuge. In effetti il significato letterale del termine neigwa è «vedovo, vedova».
Durante la fase di guarigione il circonciso è considerato come se fosse vedovo. Oltre a trattare il proprio corpo nel modo sopra indicato, deve dormire su un letto particolare (denominato ekpongbolo) utilizzato dal vedovo durante il periodo di lutto, in quanto dormire sul letto ekpongbolo – si dice – aiuta a superare un momento problematico della vita. Inoltre, «durante i giorni della guarigione si cantano canzoni simili a quelle del lutto. I bambini [quelli che hanno subìto l’operazione] non sono proprio vedovi, ma bisogna trattarli come vedovi» (Mayele Amansibandrodjo).
A prima vista, questa connessione fra il circonciso e il vedovo rimanda alla diffusa interpretazione secondo la quale l’atto della circoncisione esprime l’uccisione simbolica del novizio. Il passaggio da uno stadio all’altro della vita presuppone una morte simbolica del bambino e una rinascita come uomo; la morte simbolica avviene proprio nel momento dell’operazione. Per esempio, nel rituale mukanda degli Ndembu è lo stesso circoncisore a essere paragonato a un leone che divora il novizio (Turner 1976: 233); durante l’intero periodo di reclusione, il novizio è «morto al mondo» e si prepara a rinascere trasformato in uomo. Tuttavia, nel caso del noutu medje-mangbetu, essere neigwa non vuol dire essere morti: il circonciso non viene simbolicamente ucciso; tutt’al più subisce simbolicamente una perdita, e in questo senso rimane vedovo. Esiste ovviamente una differenza sostanziale fra l’essere morto e il rimanere vedovo: tale differenza è reperibile nei rituali di iniziazione. Per esempio, fra gli Ngbaka della regione nord-occidentale del Congo i circoncisi (gaza) vengono considerati durante il periodo di reclusione come se fossero morti, mentre è la giovane ragazza scelta per preparare il cibo ai novizi (denominata yakoso) a dover portare il lutto (Katumba Ndadua 1983: 12). In questo caso, è chiaro che i gaza sono morti, mentre la yakoso è vedova. Nel noutu invece, i bambini che hanno subìto la circoncisione sono considerati vedovi – un elemento simbolico non di poco conto, e che aiuta a cogliere il particolare significato che assume il noutu nella vita di un individuo.
Fra i Medje-Mangbetu, quando una persona muore, avviene una elaborata compensazione funeraria che nel caso paradigmatico (McKee 1995: 189-229) si esprime attraverso una «guerra» inscenata dagli zii materni del defunto nei confronti della famiglia del padre del defunto. Robert McKee analizza l’intero rituale della compensazione funeraria come un rito di passaggio fra gruppi, in quanto la transizione da uno stadio all’altro non riguarda singole persone ma interi gruppi di discendenza. Il sopraggiungere di un decesso rompe l’alleanza fra i due gruppi di discendenza (quello materno e quello paterno) a cui faceva riferimento il morto. La lunga compensazione funeraria ha lo scopo di ripristinare l’alleanza.
McKee accenna a una variante della compensazione funeraria in cui alla morte di una sposa la sua famiglia inscena una guerra con la famiglia del coniuge rimasto vedovo (1995: 234). Il costo per la composizione della disputa è in questo caso molto alto, soprattutto se il prezzo della sposa non era stato pagato interamente. Durante il periodo del lutto il vedovo si trova costretto a sospendere una serie di rapporti di alleanze: la trascuratezza che contraddistingue il suo corpo ha un chiaro riflesso sulle relazioni sociali. In molti casi, la famiglia della moglie defunta considera il vedovo alla stregua di uno schiavo (némodja), facendolo lavorare per un determinato periodo nei propri campi o più spesso obbligandolo a costruire o ristrutturare l’abitazione del padre della sposa. Questo periodo di sfruttamento, di denigrazione e di svilimento serve a ricostruire il legame perduto a causa del decesso, è una fase liminare in cui viene nuovamente tessuta l’alleanza.
Il circonciso è portato a vivere il periodo liminare del noutu con lo spirito del vedovo: la genesi dell’alleanza con i nuovi amekenge lo segna nel corpo e anch’egli vive una fase della propria vita in cui i legami sociali vengono sospesi per essere ridisegnati. Probabilmente è in questi termini che occorre interpretare la connessione fra il circonciso e il vedovo. Ancora una volta, il senso e il significato dell’azione rituale è da rintracciare fuori dal corpo della singola persona: la liminarità è una fase di riflessione sugli sconvolgimenti che subisce il reticolo sociale dell’individuo. Come è evidente nel caso dei Rukuba della Nigeria, il «taglio» (della circoncisione) viene praticato sul singolo ma riguarda la società. Durante la fase centrale del noutu il circonciso ha ormai perso lo status di bambino, ma attende la cicatrizzazione di quella ferita che metaforicamente è stata inferta sul proprio ambiente sociale. Guarire dall’operazione vuol dire sancire l’alleanza con i propri amekenge e ciò, come si è visto, significa entrare in un mondo fatto di divieti matrimoniali, reciprocità di scambi e quant’altro.
Analizzando il noutu come un rito di passaggio, si è constatato come il simbolismo connesso alle differenti fasi del rituale non rimanda alla nascita e alla morte, ma piuttosto a ciò che succede dopo la nascita (il rito del fumo) e a ciò che succede dopo la morte (lo stato di vedovanza durante il lutto). In altre parole, non si riflette sullo stato del singolo come nascituro e come cadavere, ma sullo stato del reticolo sociale in cui l’individuo è inserito. Durante il noutu, il candidato subisce un taglio che lo isola dal proprio aggregato domestico e lo obbliga a trascorrere un periodo in una abitazione nella quale con altri bambini aspetta la cicatrizzazione della ferita. Solo a questo punto verrà suggellata una nuova alleanza intorno alla pentola del netonyo: le proprie reti di relazioni si estendono e nuovi individui vengono coinvolti.
Il processo antropo-poietico rinvenibile nel noutu sembra chiaramente connesso a un più ampio progetto concernente la società medje-mangbetu. Come pare evidente nel nóbu (il rito dell’uscita del neonato) e nell’analogia che si crea fra il circonciso e il vedovo, ogni qual volta i Medje-Mangbetu ritualizzano eventi connessi alla crescita e alla costruzione dell’essere umano vengono sottolineati i valori inerenti al gruppo, alla pluralità, alla tessitura delle relazioni sociali. L’attenzione è posta sull’ambiente sociale circostante, fuori dall’individuo (dal suo corpo, dalla sua psiche, dalle sue conoscenze).
Nelle pagine precedenti si è potuto già intravedere intorno a quali valori orbiti la costruzione dell’uomo e della società; mentre la pluralità sembra essere una conditio sine qua non affinché un essere umano possa diventare tale, è l’idea dell’accrescere, dell’aumentare di numero a caratterizzare l’esistenza di un individuo, a segnare la sua crescita. L’essere umano viene presentato al mondo (nella cerimonia del nóbu) come parte integrante e inscindibile di un aggregato domestico, inserito in un villaggio i cui componenti si riconoscono in un segmento clanico esogamico. Con il noutu il bambino diventa adulto e inizia a essere responsabile di un frammento di reticolo sociale attraverso cui la sua nébha (compound, villaggio) si arricchisce, aumenta di numero. Avere fratelli di circoncisione (amekenge) vuol dire estendere al di fuori del proprio gruppo la regola esogamica e contemporaneamente intrattenere rapporti «al di là della parentela» che possono esplicitarsi attraverso lo scambio di beni e di donne. In effetti l’individuo ormai circonciso possiede un requisito corporeo indispensabile per ampliare ulteriormente la rete di relazioni nel cui centro è collocato. Ciò avviene con il matrimonio (o i matrimoni) per mezzo del quale la nébha aggiunge un nuovo frammento nella rete di relazioni legandosi a un gruppo cognatico.
L’idea secondo la quale con il noutu ci si accresce e si aumenta di numero traspare dall’analisi semantica del termine. Infatti noutu rimanda al verbo nóótwóotu che significa «moltiplicarsi», «accrescere». Il linguista Tucker nell’analisi comparativa sulle lingue sudanesi orientali identifica un suffisso numerale -tu in alcuni dialetti di tale famiglia (1940: 288), mentre Larochette (1958b: 127) comparando le lingue del gruppo moru-mangbetu riporta le diverse traduzioni del termine «numeroso» che ricordano da vicino il noutu (nékutu nella variante mangbetu):
mangbetu |
nékutu |
medje |
nóòtu |
moru |
òto, kotó, kwató |
avukaya |
otó |
kaliko |
òto |
lugbara |
òto |
logo |
kùtwa |
ma’di |
otó |
Per ciò che concerne la lingua dei Logo (un gruppo etnico insediato nel Congo nord-orientale), nel dizionario di Vallaeys (1986) si riporta un termine interessante che rientra pienamente (sia per la forma sia per il significato) nelle somiglianze di famiglia concernenti il termine noutu. Per Vallaeys (1986: 367), kutú, utú, significa in logo «essere diffuso», «essere sparso».
Ora, partendo dal presupposto che in tutte le lingue sudanesi la radice della maggior parte delle parole è del tipo CV (consonante + vocale) e che per formare i radicali si utilizza un prefisso vocalico con valore semantico e grammaticale denominato vocale caratteristica (nel dialetto mangbetu preceduta spesso da k-), si riscontra una significativa somiglianza di famiglia fra determinati termini tutti orbitanti intorno all’idea della quantità, dell’accrescimento e dell’estensione.
Fin dal lavoro sul campo mi sembrò importante insistere sull’analisi semantica del termine noutu, ma la confusione aumentò sensibilmente quando, domandando se mai qualcuno avesse sentito parlare dello stile di circoncisione denominato gandja alútú – una tradizione rituale che secondo De Mahieu (1985: 32-33) fu progressivamente abbandonata dai Bakomo –, alcuni ricordarono di aver udito il termine alútú fra i Kakwa (un gruppo insediato sul confine con l’Uganda).
Durante uno dei miei soggiorni nella città multietnica di Isiro cercai precisazioni al riguardo e quando alcuni Kakwa mi dissero che nella loro lingua alútú, o meglio aloto, vuol dire «fratello della moglie» pensai di aver imboccato un vicolo cieco, ma probabilmente non fu così. In primo luogo, occorre precisare che in altre lingue sudanesi i gruppi cognatici vengono denominati a partire dal radicale -utu. Fra i Bari, per esempio, il termine lutu designa – secondo Spagnolo (1942) – il fratello o la sorella della propria moglie, la moglie del fratello della propria moglie, il marito della sorella della propria moglie. Secondo Huntingford (1953: 31), esso designa invece il marito della sorella, il marito della figlia del fratello del padre, il marito della figlia della sorella della madre e il fratello e la sorella della moglie; in altre parole: il marito della sorella, il marito delle cugine parallele e i siblings della moglie. Benché non ci sia concordanza fra le due fonti rintracciate, in entrambi i casi il termine lutu designa gli affini incorporati nel gruppo di parentela patrilineare e appartenenti alla stessa generazione, cioè individui originariamente fuori dalla parentela con i quali si sono instaurati rapporti di alleanza (matrimoniale)3.
A ben vedere, sia il termine medje noutu (con la variante mangbetu nékutu) sia il termine lutu definiscono un’incorporazione all’interno del gruppo famigliare di individui non parenti, ovvero un’estensione della rete di alleanze (con la circoncisione o con i matrimoni) al di là della parentela. A conferma che la vicinanza semantica può essere connessa alla funzionalità sociale, ecco come Gaga Gabriel, un amico mulika, mi spiegò con sue parole il significato dell’alleanza con la circoncisione:
Il rapporto fra le due famiglie è che una è il cognato, l’altra è la sorella, questo è un paragone. La famiglia-cognato va a cercare delle cose per l’altra famiglia e la famiglia-sorella va a cercare delle cose per la dote. Oggi [la circoncisione] è così, un’imitazione del matrimonio.
Volendo ampliare ulteriormente le connessioni semantiche, è possibile estendere «l’aria di famiglia» al termine lese4 atu, con cui le donne lese chiamano i mariti delle sorelle e gli uomini lese chiamano le mogli dei fratelli. In aggiunta a questi significati del tutto simili a quelli rintracciati nel termine dei Bari lutu, i Balese chiamano atu il proprio omonimo. Ciò succede quando un Lese attribuisce un nome lese a un individuo del clan del suo partner pigmeo efe5. Anche in questo caso, come per i cognati e le cognate, la relazione coinvolge potenziali partner sessuali fra i quali, proprio per il fatto di essere atu, è proibito ogni rapporto6.
I tre termini noutu, lutu e atu descrivono relazioni in cui sono evidenti: 1) l’incorporazione di individui nella rete di relazioni orbitante intorno a una singola persona; 2) l’estensione della rete di relazioni a gruppi che si trovano al di là della parentela; 3) l’ampliamento del gruppo in cui vige la regola esogamica e in ogni caso il divieto di intrattenere rapporti sessuali; 4) la consapevolezza che sono proprio determinate alleanze matrimoniali a essere la premessa oppure la conseguenza di tali rapporti.
Se con il noutu un individuo acquista un fratello di sangue, le cui sorelle «un po’ in là nella parentela» possono essere date in sposa a lui stesso o meglio a un suo famigliare, allora il risultato è simile al lutu, benché il meccanismo risulti capovolto in quanto si dà in sposa una propria sorella e quindi il marito viene incorporato non tanto nel gruppo di discendenza quanto nella rete di relazioni esattamente come un fratello di sangue.
Lo scopo del noutu è aumentare e incrementare. L’arricchimento che ne consegue è particolarmente evidente nell’estensione del reticolo sociale in cui avvengono gran parte delle interazioni. Il noutu è una fase di un’elaborata e meditata tessitura che a partire dal nóbu – cioè dal momento in cui l’individuo è presentato al mondo come facente parte di un gruppo – porta ogni singola persona e l’aggregato domestico di appartenenza ad aprirsi verso l’esterno. Questa apertura orientata strategicamente verso determinati villaggi e famiglie esprime l’idea dell’incremento e dell’estensione.
Ora, da un punto di vista sociale, tale apertura rappresenta l’esigenza di una capillare diffusione (come si è visto sopra, nella lingua logo kutú, utú, significa «essere diffuso», «essere sparso») al di fuori dei confini territoriali entro cui si ritrovano i componenti di uno stesso patrilignaggio esogamico. Gli scambi, il commercio, i matrimoni, l’amicizia sembrano essere le ragioni maggiormente sostenute dai locali per giustificare l’alleanza con la circoncisione. Oltre che evidenziare tali motivazioni, occorre riflettere sul ruolo dell’apertura all’interno di un particolare e significativo percorso antropo-poietico. Infatti, se bene si comprende l’esigenza di rivolgersi fuori dal gruppo per instaurare alleanze matrimoniali, pare curioso il fatto di prediligere l’apertura al di là della parentela nell’ambito di un rituale di passaggio all’età adulta incentrato sulla circoncisione. È vero che il noutu è più un’alleanza che un’iniziazione, ma qual è il senso della correlazione fra l’alleanza, il moltiplicarsi, l’incrementarsi e la crescita e costruzione di un individuo? Quando l’anziano notabile di Egbunda, Banda Charles (che il lettore incontrerà nuovamente nel sesto capitolo in qualità di esperto di società segrete), afferma che «il noutu è iniziato per riempire delle lacune che si hanno sul posto», tali lacune hanno a che fare solo con esigenze socio-economiche o coinvolgono la costruzione del singolo uomo in base a un progetto di umanità? Quando i locali sostengono che attraverso il noutu ci si arricchisce, si riferiscono soltanto al disporre dei beni immobili dei propri amekenge o il ricorso agli altri contribuisce all’arricchimento del progetto antropo-poietico messo in atto?
A questi interrogativi, che reputo cruciali, ho cercato già di rispondere nelle pagine precedenti constatando lo stretto legame tra la riflessione sulla natura dell’uomo e la riflessione sulla natura delle configurazioni sociali. Questo legame è risultato non tanto una premessa quanto il vero senso e significato del noutu, e alla luce di ciò le idee della pluralità e dell’incremento sono apparse centrali non solo nel pensare un gruppo di uomini ma l’essere umano in sé.
Rispetto all’immagine precedentemente introdotta del compound (nébha) centrato intorno al négbámú (il riparo degli uomini) e rivolto verso una strada o un sentiero, sono le donne della famiglia a doversene andare lungo la via per collocarsi come spose in un altro villaggio. Gli uomini hanno il dovere di preservare la propria famiglia, incrementare la propria nébha garantendole fortuna; sembra che il noutu esprima proprio queste intenzioni. Il valore della vita di un uomo è inversamente proporzionale alla chiusura nei confini della propria parcelle e del proprio villaggio.
Il percorso che conduce dal nóbu al noutu è un passaggio dalla consapevolezza dell’appartenere a un gruppo ben circoscritto (la famiglia, il villaggio) alla consapevolezza dell’insufficienza di tale appartenenza. Questo passaggio sembra simbolicamente rappresentato nel compound attraverso la contrapposizione fra la casa per il riposo notturno (il nédjó da cui esce il neonato dopo la caduta del cordone ombelicale) e il négbámú (il riparo degli uomini aperto ai lati e collocato al centro del compound). Infatti – come è già stato detto (cap. V, § 2) – nóbu non è solo il nome di una cerimonia ma significa collocare il terriccio sull’intelaiatura di una abitazione (nédjó), dare consistenza e chiudere ai lati la casa. Il rituale del noutu invece sembra maggiormente connesso al négbámú, in quanto per mezzo della circoncisione il bambino acquista quella virilità contenuta nei significati dei termini négbama (desiderio sessuale maschile) e négbàmà (giovane uomo), appartenenti allo stesso campo semantico di négbámú la cui caratteristica principale è l’assenza di pareti. Mentre gli édjo si trovano lontani dalla strada e preservano la vita privata della famiglia, il négbámú, collocato nella parte anteriore del compound, è il luogo pubblico per eccellenza, lo spazio idealmente riservato agli uomini nel quale intrattengono i rapporti sociali. Il négbámú è aperto non soltanto in termini architettonici ma soprattutto in termini sociali; è lo spazio dell’incontro e del dialogo; è un luogo ideale da dove si diramano i fili della rete di relazioni la quale non coinvolge soltanto i componenti del patrilignaggio ma si propaga al di là della parentela.
Nell’evento rituale del noutu il candidato alla circoncisione prende coscienza della necessità di creare relazioni al di là del gruppo esogamico a partire dagli interessi della sua nébha. La natura di tali relazioni è idealmente rappresentata dalla fratellanza attraverso la circoncisione: l’amicizia, la lealtà verso i consanguinei, l’interesse economico, lo scambio di beni, la possibilità di contrarre matrimoni e più in generale la scelta delle alleanze orbitano intorno a una finzione di fratellanza che è collocata nell’alterità. In quest’ottica l’unione matrimoniale con l’alterità (l’eso-gamia) è soltanto un aspetto del ricorso all’alterità contenuto anch’esso nei significati e molte volte nelle conseguenze del noutu.
L’interpretazione del noutu come evento poietico dell’uomo si arricchisce di un terzo concetto in aggiunta alla pluralità e all’incremento, quello dell’alterità. La pluralità è la condizione necessaria per costruire l’uomo; l’incremento è il fine che accomuna il progetto sull’uomo e il progetto sulla configurazione sociale (la rete di relazioni) in cui l’uomo vive; l’alterità è il mezzo attraverso il quale diventa possibile costruire l’uomo e la configurazione sociale.
Non si può diventare uomini chiudendosi nel proprio gruppo, così come non si può incrementare il reticolo sociale senza rispettare le esigenze del proprio patrilignaggio. Per tali ragioni occorre orientare strategicamente il ricorso agli altri; e in effetti la scelta che inaugura l’azione rituale del noutu (cap. III, § 2) è uno dei momenti cruciali nel processo antropo-poietico di un individuo. Attraverso tale scelta si attinge all’alterità (spesso un’alterità «etnica»: budu, lika, asoa ecc.) per costruire se stessi e così facendo si rende meno indistinto l’ambiente sociale che sta al di là del patrilignaggio esogamico. Il noutu non esprime soltanto la necessità della circoncisione per poter un giorno aprirsi al di fuori del patrilignaggio esogamico e instaurare alleanze matrimoniali, ma permette di riflettere in termini più generali sull’esigenza di tale apertura (il ricorso all’alterità) per diventare veri uomini.
La riflessione sulla costruzione dell’uomo è irrimediabilmente intrecciata alla riflessione sulla società. L’uomo è la sua rete di relazioni; esso si specchia nella tessitura che a partire dal patrilignaggio esogamico si estende nell’alterità. Pertanto, il fatto che il noutu sia «iniziato per riempire delle lacune che si hanno sul posto» – come sostiene Banda Charles – non è probabilmente interpretabile soltanto come una riflessione sulle risorse di un territorio, ma riguarda il ruolo dell’alterità nella costruzione dell’individuo e della società medje-mangbetu.
L’alleanza mediante circoncisione dei Medje-Mangbetu porta inevitabilmente ad adottare una prospettiva di analisi incentrata sull’apertura. In tal modo sono emersi confronti comparativi con altri gruppi della regione e riflessioni su concetti quali la pluralità, l’incremento e l’alterità. Si è visto come intorno alla pratica del noutu prenda forma un complesso reticolo vissuto dai locali non certo come qualcosa di accessorio ma come qualcosa di essenziale per il proprio progetto di vita.
Dopo aver perlustrato le diramazioni della rete che ha origine dall’alleanza con la circoncisione occorre soffermarsi sul centro di tale reticolo – la stessa fratellanza di sangue – e verificare quale sia il rapporto fra tale centro (la coppia di amekenge) e la «periferia» (l’alleanza agita dagli attori sociali delle due famiglie coinvolte). A ben vedere, se il noutu rappresenta un momento cruciale nella costruzione dell’individuo e della propria rete di relazioni, questi processi poietici orbitano intorno a una fratellanza di sangue che si presenta come una finzione di parentela.
Il termine «finzione» è da intendersi qui in un duplice senso. In primo luogo, si «finge» un rapporto naturale (l’essere fratelli), come sottolinea efficacemente Tegnaeus: «l’essenziale della relazione tra fratelli di sangue consiste piuttosto, come si è detto, in una finzione: ‘come se’ fossero fratelli» (1954: 11). In secondo luogo, ciò che risulta è qualcosa di artificioso: la fratellanza di sangue è una costruzione dell’uomo, è un artificio attorno a cui si cerca di realizzare una certa forma di koiné (in questo caso la finzione è da intendersi nel significato vicino all’etimo latino fingo, «foggiare», «modellare», «costruire»). È bene precisare che il primo significato (l’idea del fingere di essere fratelli) non si presenta in tutti i contesti etnografici nello stesso modo. Evans-Pritchard (1933) sostiene, per esempio, che fra gli Zande la fratellanza di sangue non è tanto una questione di parentela (fittizia) quanto di forza magica del sangue; Maurice Hocart imposta interamente il suo contributo sullo studio dello scambio rituale del sangue (1935) proprio sulla non fratellanza dei fratelli di sangue. Anche in questo libro si è preferito non insistere particolarmente su una visione del noutu come ampliamento dei legami patrilineari (un ampliamento della consanguineità); infatti fra i Medje-Mangbetu, benché si utilizzi il linguaggio della parentela, ciò che si realizza è un’alleanza al di là della parentela stessa: è un modo per attingere nell’alterità al fine di costruire se stessi e la propria rete di relazioni.
Nell’ambito del noutu, l’intera rete di relazioni vissuta attraverso l’ospitalità, lo scambio di beni, di prestazioni e di donne, orbita intorno a un rapporto espresso con il linguaggio della parentela e della consanguineità. Inoltre, alla dinamicità formale del reticolo (il quale, come si è visto precedentemente, si presenta sfilacciato e mutevole nella sua struttura) si contrappone la rigidità della fratellanza di sangue, in conseguenza della quale si diventa amekenge per tutta la vita, e il tradimento della fratellanza comporta spiacevoli conseguenze, compresa la morte stessa dei contraenti e dei loro famigliari. Il quadro che emerge è formato da relazioni dinamiche tessute attorno a una rigida finzione; la base su cui poggia la rete di relazioni presenta caratteristiche (finzione e rigidità) opposte a quelle della rete stessa (scambi reali e dinamicità).
Se con il termine koino-poiesi si intende la generica strutturazione di un gruppo (comunità, Stato, rete di relazioni), allora è possibile rintracciare altre «rigide finzioni» collocate nel centro di una koiné allo scopo di attribuire un senso e una legittimazione alla specifica modalità con cui si stanno «tenendo insieme» esseri umani. Per esempio, nell’antico regno del Burundi, al centro dell’organizzazione politica si trovava un vecchio tamburo (Allovio 1997). Karyenda (questo è il nome del tamburo) era il simbolo dell’intero regno e la morte dei singoli sovrani non metteva fine al suo potere. Karyenda era una invenzione, una finzione (nel senso di costruzione) degli uomini, e la sua esistenza poteva addirittura essere messa in dubbio, in quanto restava sempre occultato in uno specifico capanno avvolto in stuoie, uscendo soltanto durante la festa annuale della semina del sorgo. Karyenda si trovava al centro di una raffinata organizzazione politica e rappresentava la fonte di legittimazione per governare il paese, pur essendo un vecchio tamburo costruito dagli uomini di cui si potrebbe dubitare persino l’esistenza. Karyenda era una reificazione (si potrebbe dire «sacralizzazione») che esprimeva l’appartenenza a un determinato gruppo. Il Noi dei Barundi veniva costruito a partire da un vecchio tamburo trattato «come se» fosse un vero individuo con il suo capanno, una sua vestale ecc. La costruzione della realtà sociale in questione (il regno del Burundi) poggia sulla costruzione e sulla reificazione di un tamburo emblema dell’intero regno.
Attraverso un altro esempio che ci giunge dalla Nuova Britannia Occidentale, è possibile nuovamente intrecciare i processi antropo-poietici con quelli koino-poietici incentrati ancora una volta su una rigida finzione. Nell’area della boscaglia Kaliai, il rito di iniziazione all’età adulta prevede che un mostro (il tambaran Varku) ingurgiti gli iniziati, i quali rinascono dalla bocca del mostro solo dopo averlo saziato con un maiale (Lattas 1989). Quando i ragazzi giungono nel recinto dell’iniziazione non viene presentato loro nulla di misterioso, di sacro e di segreto, e neppure vengono loro impartiti speciali insegnamenti. Gli uomini adulti si limitano a spiegare che Varku è in realtà una menzogna, un trucco: «noi uomini siamo il vero tambaran» essi dicono, eppure il trucco serve per costruire una certa realtà sociale in cui le donne terrorizzate restino obbedienti e disciplinate7.
Così come la forza di Varku risiede nella sua finzione (è un trucco per mezzo del quale gli uomini si impongono sulle donne), anche la fratellanza di sangue diventa un rapporto inviolabile proprio perché finto (costruito) e gli stessi informatori sottolineano quanto sia più forte il legame fra amekenge rispetto al legame tra fratelli naturali. L’incremento della propria rete di relazioni al di là della parentela (del patrilignaggio esogamico) è ambiguamente sospeso fra la naturalizzazione e l’artificiosità. Da una parte si getta un ponte verso l’alterità utilizzando il linguaggio della «consanguineità», dall’altra si sottolinea la maggiore rigidità e forza di un rapporto di fratellanza «finto». La forza del rapporto fra amekenge risiede proprio nel fatto di non essere una fratellanza «naturale», ma un legame artificiale costruito dagli uomini. In questo senso l’idea dell’artificio rimanda alla scelta che sta alla base di ogni evento rituale denominato noutu: a differenza dei legami di filiazione e di siblingship, nell’alleanza mediante circoncisione si scelgono, in un ventaglio di possibilità teoricamente illimitate, i propri fratelli e si costruisce con essi e con i loro gruppi di appartenenza una relazione ben più salda e inviolabile rispetto ai legami della parentela biologica. Questo primato che l’artificio, la possibilità e la scelta hanno su ciò che si presenta come naturale e necessario esprime in fondo il primato della cultura sulla natura nei processi di costruzione dell’uomo (antropo-poiesi) e della propria rete di relazioni (koino-poiesi), processi di costruzione che – a causa della carenza istintiva (naturale) dell’uomo – si realizzano solo con trucchi, artifici, finzioni culturali.
Questa argomentazione rimanda al racconto, riportato nel primo capitolo, in cui si escogitava un trucco per raggiungere il termitaio, simbolo dell’unità e della strutturazione, la cui perfezione veniva irrimediabilmente relegata fuori dal mondo degli uomini. È mediante un trucco che si riesce a possedere un termitaio. In altre parole, l’essere umano manchevole dell’istinto delle termiti riesce a costruire, a strutturare una koiné per mezzo di un artificio.
Sempre nel primo capitolo, in contrapposizione all’immagine del termitaio (connessa all’idea della strutturazione) si è introdotta l’immagine del fiume (connessa all’idea del flusso). L’importanza del fiume nella cultura medje-mangbetu è dovuta innanzitutto al fatto che la percezione del territorio si basa sulle coordinate spaziali zebu e zebo, che significano rispettivamente «a valle» e «a monte» di un fiume. Considerando che tutti i più importanti fiumi della regione scorrono da est a ovest, tali coordinate diventano ancora più pregnanti, in quanto anche il «cammino» del sole procede come le acque da zebo a zebu. Dialogando con i locali non è raro che l’immagine del flusso dell’acqua venga utilizzata per descrivere il fluire della vita umana; come testimonia il proverbio Nekoko ogwea a mezebo ogwea sia mezebu, «la piroga non invecchia (non marcisce) a levante, invecchia verso ponente». Il tempo passa così come l’acqua scorre via e il sole tramonta; zebu non è più soltanto una direzione ma diventa il luogo dell’oblio, della vecchiaia e della morte, un luogo carico di valenze negative con il quale inesorabilmente ogni essere umano deve confrontarsi. Se la corrente del fiume porta via «la piroga della vita», è anche vero che nel corso della propria esistenza si cerca di resistere alla corrente e quanto meno «gettare» a zebu la malasorte e tutto ciò che è considerato svantaggioso. Il lavaggio al fiume viene spesso associato all’abbandono di uno stato di disagio: ci si lava le mani al fiume per suggellare la composizione di una disputa; ci si immerge per guarire da certe malattie o per porre fine al lutto o al periodo di guarigione dopo la circoncisione.
Durante le fasi conclusive del noutu si ricorre più volte alla simbologia associata a zebu. La sera successiva al lavaggio al fiume i circoncisi devono lanciare la freccia verso ponente e subito dopo recarsi in una nébha a zebu per trascorrervi la notte. La freccia secondo l’interpretazione dei locali trasporta la malasorte verso valle, mentre durante la notte trascorsa a ponente il circonciso completa la sua «purificazione» abbandonando a zebu i residui della sfortuna che «esce durante il sonno».
Quello che vorrei sottolineare è che la simbologia connessa a questi gesti rituali non riguarda soltanto un’auspicabile buona sorte capace di segnare la vita dei singoli circoncisi, ma esprime valori riconducibili all’antropo-poiesi e alla koino-poiesi. A ben vedere, non si tratta soltanto di «gettare via» la malasorte e contemporaneamente resistere alla corrente, ma di riprodurre – o meglio di inscrivere – nello spazio rituale orientato lungo l’asse zebu-zebo il progetto di umanità e di società contenuto nel noutu e riassumibile nei concetti di pluralità, incremento e alterità.
L’intera sequenza rituale può essere interpretata come un alternarsi di fasi vissute dai circoncisi in solitudine con fasi vissute dai circoncisi come gruppo.
1) I candidati vengono trasportati dal circoncisore uno alla volta e l’operazione deve essere affrontata in solitudine; avere coraggio e resistere al dolore è una questione personale difficilmente condivisibile con i propri compagni di circoncisione.
2) Il periodo di guarigione viceversa è vissuto in gruppo: i circoncisi dormono nella stessa nébha, consumano lo stesso cibo, sono soggetti alle stesse regole e divieti, eseguono le stesse azioni quotidiane. Pur rappresentando una pluralità di individui, non sono ancora realmente amekenge (fratelli di sangue) e quindi permangono nella loro alterità reciproca. Uno degli scopi principali perseguiti dai circoncisi durante il periodo di guarigione è quello di catturare nella boscaglia intorno alla nébha piccoli animali da consumare insieme al netonyo nel giorno della festa finale. La caccia si svolge singolarmente, ma le prede catturate contribuiscono ad aumentare un pasto comune che sancisce l’unione e il patto di fratellanza fra gli amekenge. La lenta guarigione delle ferite è abbinata a una prima presa di coscienza di ciò che vuol dire essere fratelli: si caccia per il gruppo e non per se stessi, o meglio, si caccia per costruire il gruppo incrementando il contenuto del pasto del netonyo. Se il noutu è un rito di passaggio interpretabile come rito trasformazionale, ciò che subisce una trasformazione non è tanto il singolo circonciso quanto la pluralità dei bambini, i quali attraverso la caccia si comportano per la prima volta come se fossero un gruppo di amekenge.
3) La terza fase del rituale è nuovamente incentrata sul singolo. I circoncisi si recano uno alla volta al fiume dove vengono immersi nell’acqua, vestiti e singolarmente frustati lungo la via del ritorno. In questa fase il circonciso affronta zebu in solitudine, lancia la freccia in cui è infilzata la propria malasorte e si reca in una nébha (a lui assegnata) situata a valle rispetto al luogo della circoncisione per trascorrervi la notte. L’abbandono dello stato di neigwa è nuovamente una questione personale; ciò che viene trasformato non è il gruppo ma il singolo.
4) L’ultima fase ha inizio la mattina seguente, quando i circoncisi abbandonano le ébhá situate a zebu dove erano stati inviati per trascorrere la notte. La risalita verso zebo (verso levante) è un passaggio dalla solitudine della «purificazione» alla piena realizzazione del gruppo di amekenge. Se la direzione della risalita è zebo, il punto conclusivo del tragitto è la pentola del netonyo intorno alla quale si ritrovano i compagni di circoncisione che sanciscono la nascita di una unione particolare (quella fra amekenge).
La direzione zebu si connette alla vita del singolo individuo, presenta le caratteristiche dell’ineluttabilità e simboleggia il naturale corso della vita; la direzione zebo si connette invece ai tentativi di mettere insieme gli uomini, presenta le caratteristiche della costruzione (della finzione) e simboleggia il percorso di creazione di una koiné. Verso zebu si inscrive la vita biologica dell’uomo: ogni uomo ha un suo proprio personale «decorso» biologico; verso zebo si inscrive la vita culturale e sociale dell’uomo, la quale è irrimediabilmente legata alla pluralità di individui con cui si interagisce (e con cui si sceglie di interagire). L’ineluttabilità della discesa biologica verso zebu è indubbiamente un ostacolo temporale ai tentativi di costruzione simbolicamente connessi alla direzione opposta. La canzone con cui i bambini durante le prime ore del mattino esortano il circoncisore a effettuare l’operazione («sambee neyko awoda»: «nesamba circoncidimi perché il sole sta calando») esprime il senso della lotta fra l’inarrestabile flusso del tempo e il desiderio di costruire (un gruppo di amekenge, relazioni sociali, rapporti matrimoniali), prima che la parabola della vita brevis si concluda.
L’azione rituale del noutu mette in scena un percorso antropo-poietico che significativamente prende le sembianze di un progetto koino-poietico. L’uscita dal fiume e il successivo tragitto che conduce i circoncisi da zebu a zebo è un tragitto di strutturazione lungo il quale si propone un modello per mettere insieme una pluralità di individui. Per dirla con Gehlen, l’uomo dirige la propria vita verso un tentativo di strutturazione il quale, nel caso in questione, prende le sembianze di un gruppo di amekenge seduti intorno a un cibo da condividere. A ben vedere, il punto iniziale di questo capitolo (l’uomo come essere carente) e quello finale (la strutturazione in una koiné) coincidono con la premessa principale e la conclusione dell’intera argomentazione gehleniana sintetizzata efficacemente da Karl-Siegbert Rehberg:
Lo «schema antropologico» che Gehlen delinea muove dal concetto di azione e definisce l’uomo come «essere da disciplinare» (Wesen der Zucht), che appunto a causa della sua incompiutezza è costretto a strutturarsi (1990: 10).
Lungi dal voler riesumare la teoria sociale fondata sui principi dell’ordine, della disciplina e dei «sistemi guida superiori» in cui sfocia la riflessione gehleniana in perfetto accordo con i valori del nazionalsocialismo tedesco, mi pare tuttavia interessante l’intuizione di Gehlen concernente il nesso fra la plasticità, l’apertura e la non-definitezza dell’uomo con l’esigenza di una qualche forma di strutturazione sociale (mettere insieme, unire, una pluralità di individui). In considerazione del fatto che i tentativi di strutturazione non si limitano soltanto alla sfera politica, ma possono presentarsi nei più disparati ambiti della vita sociale, e che quindi il potere non è l’unico dominio in cui possono emergere istituzioni strutturanti, sembra opportuno riflettere sul tipo e il grado di strutturazione che emerge in conseguenza del noutu.
L’immagine che ho maggiormente utilizzato per rappresentare l’alleanza tramite la circoncisione è stata quella della rete di relazione, la quale, benché orbiti intorno a una rigida finzione, assume le sembianze di un reticolo sfilacciato che si annoda con altri reticoli. Ciò che prende forma non è certo l’ordinato mondo del termitaio abitato da esseri perfettamente disciplinati (l’immagine in cui ci si è imbattuti all’inizio del libro) ma una rete di alleanze caratterizzata da un forte dinamismo interno e da una elevata apertura e variabilità. Attraverso il noutu avviene un tentativo di strutturazione per nulla riconducibile all’immagine del termitaio contrassegnata dalla compattezza, dalla rigidità e dalla netta delimitazione.
Nella società medje-mangbetu l’immagine del termitaio si connette maggiormente al tentativo di strutturazione per mezzo della società segreta nebeli, un modo per creare un gruppo di individui che si presenta del tutto diverso dalla rete di relazioni che scaturisce dal noutu. Il capitolo successivo sarà appunto dedicato all’analisi del nebeli, un’associazione di persone anch’essa basata su un progetto di costruzione dell’uomo in cui l’antropo-poiesi sfocia in una koino-poiesi.
1 Volendo rintracciare un termine da affiancare ad «antropo-poiesi» si è scelto il termine «koino-poiesi», in quanto i significati che orbitano intorno agli etimi greci koiné e koinós risultano i più consoni a ciò che si vuole affermare. ϰοινός, comunità, società, compagno; ϰοινῶς, in comune, insieme; ϰοινότης, comunanza, partecipazione, assenza di distinzione, uso in comune; ϰοινόω, metto in comune, unisco, congiungo, metto insieme; ϰοινόωμα, unione o relazione intima, giuntura; ϰοινωνέω, mi unisco, mi associo; ϰοινωνία, relazioni, unione, commercio, società; ϰοίνωσις, mescolanza, unione, contaminazione. Il termine ethnos (popolo) e l’etimo latino communitas – utilizzato da Victor Turner (1972) in una accezione anti-strutturale – sono probabilmente meno adatti a esprimere l’idea del «mettere insieme», del costruire una rete di relazioni attraverso il noutu.
2 Mentre per le descrizioni del noutu gli informatori hanno utilizzato quasi sempre il tempo presente, per il nóbu i racconti erano al passato.
3 Anche nella lingua dei Lugbara il termine «cognato» (òtú-pi, òtíi) rimanda ai vocaboli sopra introdotti (Crazzolara 1960: 332).
4 I Balese sono un gruppo di lingua sudanese insediati nell’Ituri.
5 I coltivatori Lese e i cacciatori-raccoglitori Efe vivono in stretta correlazione nella foresta dell’Ituri. Fra Lese ed Efe si instaurano rapporti di scambi commerciali per i quali ogni Lese ha un partner efe e più in generale ogni villaggio lese mantiene relazioni con un determinato gruppo efe (Grinker 1990, 1994).
6 In considerazione del fatto che tutti i termini rintracciati finora orbitano intorno all’idea dell’estensione e della tessitura di specifiche reti di relazioni potrebbe risultare interessante il significato del termine àtu nella lingua mamvu tradotto da Anton Vorbichler (1971: 60) con verschlingen (intrecciarsi, legarsi, annodarsi, intorcigliarsi).
7 Una certa correlazione fra l’iniziazione della popolazione del circondario Kaliai e i patti di sangue emerge anche dal confronto delle argomentazioni di Andrew Lattas (1989) (esplicitamente ricondotte ad alcuni spunti dell’antropologia femminista) con la rivisitazione della fratellanza di sangue zande compiuta da Louise White (1994). In entrambi i lavori si sottolinea come nelle due istituzioni (iniziazione e scambio di sangue) ci sia un tentativo di creare o perdurare la natura asimmetrica delle relazioni sociali di genere. Sarebbero gli uomini a escogitare meccanismi rituali per garantirsi il potere e il controllo sulle donne.