«Allora, hai visto? Ti ho fatto la prefazione!»

«Ma la prefazione a che cosa?»

«Come “a che cosa”! Racconto un po’ com’è nata l’idea, i precedenti... Iliade, Divina Commedia, Decameron, Don Chisciotte, Moby Dick, I fratelli Karamazov, La piccola fiammiferaia, e chi più ne ha più ne metta...»

«Vuoi scherzare? E poi cosa c’entra La piccola fiammiferaia

«C’entra, c’entra! Vedrai che c’entra! E potrei nominartene anche altri. Nessuno osa più porsi di fronte al proprio tempo con questo sguardo!»

«Ma poi non è andata affatto così! Non è nato ancora un bel niente!»

«Lo so, lo so, ma che cosa importa! Ragione di più perché cominciamo davvero a darci dentro!»

«E poi tu cosa c’entri? Perché usi la prima persona plurale?»

«C’entro! In qualità di tuo editore...»

«Di mio editore? Ma se non mi hai mai pubblicato niente!»

«Appunto per questo e, direi, proprio e soprattutto per questo! Ma adesso basta. Dopo tutto quel blaterare che abbiamo fatto finora possiamo cominciare a darci finalmente da fare. Diamo voce a tutto ciò che finora non ha mai avuto voce. Ficchiamoci dentro l’illusione del movimento e quella dell’immobilità, scolliamo i piani, i tempi, gli spazi, facciamoli ruotare e incendiare, mettiamo in movimento le ruote che sono ferme da quasi un millennio, da quasi mezzo millennio, perlomeno... Avanti, fammi vedere quello che hai fatto finora!»

«Ma io non ho fatto niente!»

«Impossibile! Avrai pur buttato giù qualcosina, in tutto questo tempo!»

«Ma no, niente, te lo assicuro! Avevo avuto solo una mezza idea di raccontare una piccola cosa... Ma poi non l’ho fatto.»

«Ecco, lo vedi? Di che cosa si tratta?»

«Ma niente... è solo una stupidaggine, un sogno.»

«Avanti! Fammi sentire!»

Il risveglio

All’inizio non ero da nessuna parte, eppure c’ero.

Non sentivo niente, non avvertivo niente. Solo, di tanto in tanto, una sensazione pneumatica di movimento. «Ho capito, sono l’oceano!» mi sono detto. «E questi sono i miei movimenti ciechi, maree, flussi, correnti...»

Poi di nuovo più niente. Solo buio e silenzio. «Provo ad aprire gli occhi» ho pensato. Ma non capivo se avevo gli occhi o se era solo acqua densa nell’acqua densa, polpa d’acqua, progetto di membrana. «Ma allora mi trovo forse nell’elemento amniotico, sono ancora feccia virtuale, prenatale!» ho pensato per un istante. Sentivo passare onde e spazi, pianeti, masse di luce piena. Tutto incendiato e impastato, freddo. Di nuovo inghiottito. Precipitavo. Forse gridavo. Impossibile scaturire. L’uscita lontana, sempre più lontana. Ritornare nella tomba cieca e rovente, nuotarci dentro cigliati, irrealizzati! Impossibile andare, impossibile ritornare. Urlare e poi ancora urlare, nell’elemento molle che niente ricorda, niente sente. Ogni movimento impossibile, solo urlare e poi ancora urlare, senza che nessuno possa sentire, possa decifrare. Almeno potersi spegnere, poter ritornare... Urlare, urlare, si può solo urlare.

«Sto rivivendo l’orrore della nascita! Sto nascendo!» ho capito improvvisamente.

Provavo a gridare con la bocca appena inventata, precipitando di nuovo all’indietro. Verso dove, non so. Verso il fondo dove non c’è più fondo. Sbattevo da tutte le parti quella che mi pareva la testa. «Ho capito: forse sto facendo per l’ennesima volta quell’eterno, orribile sogno in cui non mi posso svegliare! E se non mi riesco a svegliare posso solo morire. Ma non riesco a svegliarmi e non riesco neppure a non svegliarmi. E non riesco a morire. Sto a lungo in questo regno orribile che c’è in mezzo. Ma è poi veramente un sogno? Dove mi sto dibattendo? Che si tratti solo dei meccanismi che presiedono al passaggio da una fase all’altra del sonno, o della veglia, che nel mio caso sono saltati? Smetto di respirare, devo riconquistare ogni volta nel sonno la possibilità di nascere ancora, respirare ancora. E cosa succede adesso? In quale spazio mi è possibile andare, in quale altro sogno, se c’è un sogno? Cosa succede quando sogno e veglia si estinguono e tu non sei più da nessuna parte e non puoi più neanche gettare indietro la testa e poi morire? Dov’è la porta per uscire? Dov’è quella per entrare? Ritornare indietro nella melma di spazio, nell’increato, nell’inconcepito. Poter morire all’indietro, all’incontrario, senza essere nati e neppure concepiti, uscire persino dal progetto, dal primo sguardo, dalla materia oceanica molle e scatenata e vischiosa...»

Sbattevo la testa, mi pareva, quella cosa agglutinata e felpata che dovrebbe esserci là dove di solito c’è la testa, sentivo irradiarsi da qualche parte una miriade di rette sghembe, in fuga... Poi, per una frazione d’istante, mi è parso di essermi portato una mano ai capelli, duri e sparati, come su un puntaspilli. «Ma allora sono sveglio!» ho capito improvvisamente. «E sono vivo!»

La mia mano palpava. Sotto le dita qualcosa che ricordava i lineamenti di un volto. Poi d’un tratto, di nuovo, più niente. Inghiottito. «Sarà finita dentro...» congetturavo. «Ma perché la bocca è così smisurata? Sembra un imbuto!» Qualcosa si muoveva al buio da qualche parte, da sotto, il cerchio della mia testa andava a sbattere contro gli altri cerchi. Mi assentavo. Svenivo e poi rinvenivo. «Ma dove sono? Chi sono?» Qualcosa mi saliva alla gola, soffocavo e ruotavo. «Ma sì, sono le vertigini!» mi passò per la mente. «Sto soffrendo di uno di quei miei soliti attacchi di vertigini che a volte mi prendono addirittura durante il sonno, tra la veglia e il sonno, vengo assalito da nausea e vomito, cado in uno stato di deliquio, di svenimento, devo cercare di girarmi su un fianco per vedere almeno la sagoma della finestra che c’è da una parte, quel leggero bagliore tra i listelli delle ante che si riesce a scorgere anche in piena notte. Però era un po’ di tempo che non mi succedeva di averne di così forti! Da quando scrivevo quell’altro libro... Come si intitolava? Mah... chi se ne ricorda! Qualcosa come Gli esordi, mi pare. E mi succedeva continuamente, quando giravo la testa sul cuscino, quando dormivo, quando stavo seduto e dovevo posare la penna e aggrapparmi con tutte e due le mani a quel tavolo rotondo, di legno, per non cadere a terra. Ma allora ho capito chi sono! Sono uno scrittore!»

Adesso cominciavo a sentire il mio cuore che batteva forte, felpato. La bocca era sempre là in alto, spalancata. «Ma sì, sono uno scrittore, e da molti anni mi sto preparando a un’opera nuova, la lascio crescere a poco a poco, da sola, di giorno e di notte. Quanti sogni, quanti pensieri, il tutto ormai fuori tempo, da un’altra parte, in un altro spazio, in un’altra dimensione, per nessuno, per niente, e finalmente sono sul punto di cominciare. Adesso mi sveglio del tutto, mi alzo, vado a bere un bicchiere d’acqua, prendo in mano la biro. Ma perché non mi posso alzare? Dove sono?»

Le mie braccia erano come tagliate in modo diverso, corte. L’imbuto della bocca vibrava, addormentava. «Ma perché non posso allargare le braccia?» provai ancora a pensare. «Dov’è il leggero bagliore della finestra? E la luce sul comodino? Perché non c’è neanche il pulsante che trovo sempre allungando alla cieca una mano dal letto? Perché non si accende? Che ore sono? E non ci sono neanche scarpe e calzini ai piedi del letto. Non c’è neanche il letto. Ah... adesso ricordo... L’altra notte, poco prima di coricarmi, sono uscito per un po’ a camminare e a guardare le luci, nelle strade. Cos’è successo a quel punto? Non ho visto niente, non ho capito niente. Forse sono stato investito da un’auto, all’improvviso, mentre attraversavo la strada e fantasticavo, forse in questo momento sono su qualche ambulanza che corre a sirene spiegate nelle strade deserte, in piena notte... Eppure non sento sirene, non si sente niente, e non c’è neanche luce, non un viso chinato con dolcezza sopra di me, e non c’è neanche quella cerata, non c’è aria, nessuno spazio per le mie braccia. Solo la bocca spalancata e scentrata. Ma perché vibra in quel modo? Oh, no! Credo di avere capito. Sto gridando! Sono sigillato qui dentro, imprigionato! Ma perché mi hanno sepolto, se sono vivo!»

«Vuoi scherzare?»

Il Gatto aveva gli occhi sbarrati, gesticolava, e intanto tentava di accendersi la sigaretta che scattava tra le sue labbra mentre parlava.

«Te l’avevo detto che era solo una fantasia, una sciocchezza...»

«Ma non si può più fare di questa roba! Oggi vanno di moda il comico, il demenziale, le supposte per bocca, le gocce anali, un po’ surreali! Il lettore a questo punto si è già addormentato da un pezzo, ha già cambiato canale, è già corso in un’agenzia turistica a prenotare un’escursione tra i cercopitechi bianchi della Groenlandia, un viaggio di nozze in Centroamerica a dorso d’armadillo. E poi questa storia del sepolto vivo... Ma non ne aveva già parlato quell’americano ubriaco?»

«Era solo l’inizio. Poi prendeva una strada del tutto diversa, se non mi avessi interrotto...»

«E poi non c’è dialogo! Se non c’è dialogo non ti legge nessuno!»

«Ma come fa a esserci dialogo in una situazione così?»

«Non importa. Devi trovare tu il modo di mettercelo. Sta tutta lì la bravura dello scrittore!»

La fiamma del suo accendino sbocciava in punti sempre diversi, non riusciva a intercettare la punta della sigaretta che sobbalzava.

«Hai capito?»

«Mah, non lo so...»

Lo sentii sospirare.

«D’accordo, d’accordo, andiamo avanti, sentiamo!»

Le voci

Il mio cuore aveva cominciato a pulsare ancora più forte. Sferragliava. Sentivo il calco del mio corpo contro lo spazio. Avevo le pareti addosso, le tastavo con le mani piene di sangue, illuminate, tanto più che mi pareva da qualche istante di sentire delle voci infinitamente attutite, in qualche punto lontanissimo sulla mia testa. «Forse la sepoltura è appena avvenuta e c’è ancora qualcuno che si è fermato a parlare sopra la tomba. O mi hanno calato nel buco ma non mi hanno ancora gettato sopra la terra, addirittura, c’è solo questo coperchio tra me e il mondo, se da qualche parte c’è il mondo...»

La mia bocca era sempre spalancata e bloccata, non capivo se da quella parte non scaturiva alcun suono o se stavo gridando così forte da insordire. «E forse, se riesco a farmi sentire, possono ancora tirarmi fuori di qui, posso ancora farmi sentire dai viventi, se ci sono ancora da qualche parte dei viventi...»

E mi pareva addirittura per qualche istante, o mi immaginavo, o sognavo, di essere già riuscito a farmi tirare fuori, e che qualcuno mi stava dicendo e quasi rimproverando:

«Però avrebbe dovuto darsi da fare di più per farsi sentire!»

«Eppure ho gridato, glielo assicuro!» rispondevo col poco fiato che ancora mi rimaneva.

«Adesso comunque si tranquillizzi, si ricomponga: non è il solo cui sarà successo! Trovi il modo di elaborare in fretta questa esperienza, che lei forse ha un po’ troppo drammatizzato, sinceramente, non le pare?»

«Ma voi non riuscite neanche lontanamente a immaginare cosa succede quando si è là sotto!»

«Si calmi, si calmi, ha ancora gli occhi fuori dalla testa! Non vede che ormai è tutto finito? E oltretutto si sa che alla fine i sepolti vivi riescono sempre a venire fuori...»

«Ma non è vero! Solo qualcuno ogni tanto, non si sa come, per sbaglio, per ostinazione, per caso, e chissà quanti ce ne sono ancora là sotto!»

Non capivo se avevo gli occhi sbarrati oppure chiusi. Sulla mia testa le voci erano cessate improvvisamente. Ma mi pareva adesso di sentire dei leggeri rumori che potevano anche essere passi. «Si staranno spostando sopra la ghiaia» mi sono detto, «per questo la mettono sempre nei cimiteri, perché da sotto possano sentirla di tanto in tanto cantare, e possano seguire così gli spostamenti dei cosiddetti vivi...» Poi di nuovo un leggero ronzare, più vicino, stavolta. Riprendeva, si interrompeva. Erano due tonalità del tutto diverse, come se due persone si fossero fermate a parlare sopra la fossa, mentre gli altri se ne erano forse già andati, avevano percorso i vialetti verso l’uscita, erano saliti sulle auto parcheggiate di fuori, nel piazzale, avevano messo già in moto, stavano già correndo nel groviglio di strade con gli occhi addormentati, ammesso che ci fossero stati degli altri e che quelle che mi pareva di sentire sulla mia testa fossero davvero voci e non il rumore del vento che passava nei vialetti deserti, e faceva rotolare sulla ghiaia qualche vaso di latta vuoto, i fiori arrugginiti che c’erano dentro, nell’ora in cui il cimitero era vuoto e deserto, chiuso al pubblico, ed era forse notte, solo i lumicini accesi davanti alle file dei forni, il custode intento a guardare una cassetta porno di fronte al piccolo televisore nella sua stanzetta a fianco dell’ingresso, in pigiama e con gli occhi abbassati, mezzo addormentato.

«Ma no, non è notte!» mi è parso d’un tratto, perché le due voci avevano ripreso dopo un lungo intervallo a parlare. «Forse non avevano neanche smesso» mi sono detto, «forse ero soltanto svenuto.» Le sentivo molto vicine, adesso, mi arrivavano persino brandelli di frasi, di parole. «Ma dove si sono messe, dove sono?» congetturavo. «Forse staranno fumando un’ultima sigaretta prima di allontanarsi, tenendola nascosta nel palmo della mano perché qui dentro non si potrebbe, un po’ girati di schiena, alzano ogni tanto la voce, li sento persino sospirare, di tanto in tanto, o è soltanto quel rumore che esce quando si espira il fumo con la testa un po’ arrovesciata, con quel gesto di togliersi un filo di tabacco che in realtà non è neanche rimasto appiccicato alle labbra perché adesso quasi tutte le sigarette hanno il filtro.»

«Mi creda, mi creda» sentivo che d’un tratto una delle due voci stava dicendo, «tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto, tutto è già stato fatto. Non si dà più possibilità d’invenzione, se mai c’è stata. Ormai si può solo sorvegliare il progetto, assemblare, combinare, contaminare, qualche reperto visivo qua e là, qualche polluzione, si entra, si pilucca, si assaggia un po’ qui e un po’ là, si consuma. Dove voleva arrivare questo qui? Cosa voleva fare?»

«Ma certo» diceva qualche istante dopo la voce dell’altro, più bassa, più stremata, «non si dà più possibilità di creazione, ormai lo si è capito da un pezzo, solo flussi tra flussi, nessi che trasportano nessi, studio della luce migliore, collocazione, fruizione. Più nessuno spazio per questo gettarsi a capofitto nel nulla, per tutto questo estremismo, questa infanzia. Gli è andata bene che è morto un momento prima di cominciare, potremmo anzi dire che questa è stata in realtà la sua opera, il suo gesto inventivo, il suo suggello: andare incontro alla sua increazione con passo leggero, di notte, per le strade. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito, nessuno sa chi sia stato a investirlo, nelle case erano tutti addormentati, forse camminava in mezzo alla strada e intanto fantasticava, forse l’altro guidava semiaddormentato nella città deserta, i semafori spenti, l’avrà centrato in pieno, o forse l’avrà falciato addirittura sul marciapiede, uscendo di strada per un colpo di sonno oppure intenzionalmente, chi può dire...»

Mi assopivo, forse svenivo. «Ecco allora cos’è successo!» mi dicevo improvvisamente. «Saranno rimaste sul tavolo quelle pile disordinate di fogli, di appunti scarabocchiati all’improvviso mentre camminavo per strada o mi svegliavo di soprassalto, di notte, e cercavo a tentoni la biro sul comodino, a luce spenta. Nessuno riuscirà a capirci qualcosa, a decifrarli, tanto meno a scorgerne le proiezioni, le incarnazioni...» Sulla mia testa era tornato il silenzio. O meglio si sentiva ancora quel rumore di ghiaia fatta cantare. Poi di nuovo una di quelle due voci, la prima. «Com’è vicina, come sembra vicina!» mi passava per la mente. «Sembra si sia seduto assieme a quell’altro sul bordo della fossa, se è ancora aperta, che si sia buttato tutto in avanti per farsi meglio sentire da me, col suo lungo collo...»

«Che grandiosa manovra a tenaglia è stata questa cosiddetta modernità!» sentivo che stava quasi gridando con voce stridula, acuta, come se si fosse liberato di colpo della lingua e dei denti. «Con le sue utopie prima positive e poi negative, tutte in un modo o nell’altro alleate con la necessità di azzerare ogni cosa, di orizzontalizzare ogni cosa... Ma adesso il ciclo si è chiuso. Che cosa voleva o poteva o credeva di fare mai questo qui?»

La mia bocca era sempre aperta e scentrata, non capivo se era per gridare o per respirare. Dovevo avere gli occhi sbarrati. «Oh, che orrore!» ho capito improvvisamente. «Che fetore! Perché non mi hanno almeno tappato con quelle compresse di garza che infilano dentro il retto? La mia schiena sarà già tutta allagata, là sotto, mi avrà già sporcato il collo, i capelli... e come si fa a respirare?» La voce sulla mia testa continuava a parlare. Mi assopivo e poi mi svegliavo, forse soffocavo, sentivo i capelli divincolarsi e subito dopo allentarsi in quella fanghiglia che scricchiolava, che cantava. «Cosa fare in una situazione come questa?» mi sorprendevo un istante dopo a pensare. «Sono qui, ed è successo, è successo proprio a me, il più limitato, il meno portato...»

«No, no, non ci siamo!» interruppe il Gatto di nuovo, esasperato. «Così non si va a parare da nessuna parte! Narrativamente, voglio dire, non so se capisci...»

«Sì e no!»

«Ci deve essere un colpo d’ala, a questo punto!»

«Un colpo d’ala? Là dentro? Là sotto? Ma non ce n’è neanche lo spazio!»

«Invece sì: un colpo d’ala! Qualcosa che riapra il gioco, il discorso... Ecco, per esempio, quel tipo là sotto di punto in bianco potrebbe dirsi: “Eppure, eppure... chi l’ha detto che un sepolto vivo debba per forza di cose strapparsi i capelli, disperarsi, esibirsi. Si tratta, a questo punto, stando così le cose, di prendere atto della situazione non solo a livello emotivo, sentimentale, fisiologico, biologico, ma anche teoricamente, in un certo senso, vorrei dire... Occorre darsi comunque un progetto!”.»

«Un progetto?»

«Sì, certo, un progetto! Voilà! Perché no? Hai capito adesso che cos’è un colpo d’ala?»

Si interruppe un istante, cominciò a scuotere forte la testa, a sospirare.

«No, no! Ci hai provato. Capisco. Ma non ci siamo!»

Alzai gli occhi di colpo, verso il Gatto che gesticolava e smaniava.

«No, no, niente da fare, così non va bene! E poi ci vorrebbe un po’ più di vita! Dovresti metterci dentro un po’ di fica!»

«Come! In questo contesto?»

«Ma certo, non c’è problema! Te l’ho detto e ridetto, oggi va il sesso prêt-à-porter, viaggi, telefonini, shopping, aerei, schiuma da bagno, bibite energetiche, telecomando... Il lettore si annoia se non scopano!»

«Ma com’è possibile, in una situazione così?»

«Che cosa importa! Cosa ci sta a fare, allora, lo scrittore?»

«Ma com’è possibile, tecnicamente?»

«Non è difficile trovare il modo! Perché c’è ancora un’idea arretrata del mondo di sotto, se proprio lo vuoi sapere. Siamo ancora alla fisica classica, siamo ancora ai campi, ai piani. Non c’è stato ancora attraversamento con le nuove proiezioni, i nuovi saperi. Anche là sotto non è più come una volta, cosa credi? Onde, movimenti di onde, sondaggi, probabilità. Anche là tutto attraversa tutto, comunicazione totale. Che cosa credi? Non sono mica tutti come te! La gente si attraversa, si incontra! Pensa un po’ quando piove, per esempio, e il terreno si infradicia e le fosse smottano l’una sull’altra, l’una dentro l’altra, chissà come se la spassano tutti quanti, là sotto! Ci saranno anche là segnali, consensi, performance! Devi riuscire a immaginare le tecniche di corteggiamento, gli approcci, le possibili pose, gli afrori... Ma lo sai che i peli continuano a crescere anche dopo che uno è morto, per molto? Chissà che vulve fioriscono sopra quegli ossi pubici! Aderenza totale, senza più depistanti mucose, senza più problemi di tenuta dell’erezione, con l’età. Chissà come ci danno dentro con quell’osso snodato che c’è all’interno del membro, dentro quegli sfinteri d’osso, in quelle rose d’osso! E, se poi qualcuno o qualcuna finisce all’incontrario nella fossa di un altro, sesso senza più labbra, senza più problemi di lingue piagate, di filetti sforzati, solo fuoriuscita di un po’ di midollo, la prima volta, per forza di cose, presumo, nell’orgasmo...»

Aveva gettato indietro improvvisamente entrambe le braccia, mi guardava.

«E poi tieni conto che l’attività sessuale fa bene anche per la stitichezza, l’artrosi. Non li leggi i consigli medici sui giornali? La raccomandano, anzi, per questo, dopo una certa età. Quindi, a maggior ragione, dopo...»

Si era arrestato di colpo, con le braccia irradiate.

«Basta, basta! Ho capito!» disse d’un tratto. «Sei bloccato! Sei in crisi!»

«Davvero?»

«Ma certo! Non è possibile che tu non sia in crisi.»

«Eppure a me non parrebbe...»

«Come fai a saperlo? Ci hai mai pensato?»

«No, non mi è mai passato per la testa, sinceramente, non ci ho mai pensato.»

«Lo vedi? Ma non è possibile che tu non sia in crisi. Sono tutti in crisi! Gli scrittori non possono che essere in crisi, in questa epoca! Non li leggi i libri, i giornali?»

«Mah... eppure a me non parrebbe di essere in crisi.»

«Be’, fa lo stesso. Sei in crisi ugualmente, tanto più perché non sai di esserlo. Ti è andata bene che hai incontrato me!»

Mi guardava con gli occhi sbarrati. Anche la sua bocca era rimasta aperta, un po’ deformata.

«Vieni con me!» si animò all’improvviso.

Mi aveva già preso per un braccio con entrambe le mani.

«Ma dove andiamo?»

«Ti porterò dalla Musa!»

La strada era sgombra. Il Gatto si era gettato in avanti così forte che quasi incespicava. Si sentiva il rumore del suo scarponcino che zoppicava sul marciapiede.

«Ti affiderò a lei. Ha fatto miracoli anche con altri. Ogni tanto le mando qualche scrittore, quando capisco che gira a vuoto, è bloccato. “Vedi se riesci a cavarne qualcosa!” le dico. Li vedo tornare poco dopo tutti rosati e pettinati. Mi consegnano dopo un po’ il loro bel compitino.»

«Ma sei sicuro che sia una musa?»

«Come no!»

«E dove sta? Cosa fa?»

«Mah... riceve a casa, evade appuntamenti anche altrove. Si sposta a piedi, col taxi, ovunque c’è da dare una mano, da ispirare. Non l’hai mai vista per strada? Jeans stracciati, raggiera di orecchini su ciascun lobo, l’alone del capezzolo scuro contro la trasparente maglietta attillata, quando ce l’ha...»

«Ma è una musa di cosa?»

«Oh... si dà da fare su informazione inguinale, ritmica, contorsioni. Ha anche un occhio per il discorsivo, il visivo. Tivù personalizzata, cassette. Tecniche del testo, seghe, pompini, bricolage, trasversalità... Cumulo di mansioni anche qui!»

Adesso il Gatto zoppicava un paio di passi più avanti. Mi faceva cenno di tanto in tanto di affrettarmi.

«E si chiama proprio così?» domandai.

«Sì, sì, è il suo nome d’arte!»

La luce era alta. Vedevo, da dietro, la forma della sua testa sfrenata, distinguevo sulla sua cima quella cicatrice profonda, quella rasoiata.

«Hai ancora quella cicatrice?» gli domandai sottovoce.

«Certo! Dove volevi che fosse andata?»

Si era arrestato improvvisamente, per aspettarmi e riprendermi sottobraccio.

«Ah...» lo sentii sospirare d’un tratto. «Eccoci qui, ancora, io e te, ancora insieme, dopo tanto tempo, di nuovo a battere le strade, a sconfinare!»

Camminava con la testa girata, sentivo la sua mano tremare attorno al mio braccio mentre zoppicava incantato.

«Guarda: c’è un fioraio all’angolo della strada!»

Si era staccato di nuovo dal mio braccio, aveva già raggiunto la macchia colorata del fioraio, stava già frugando dentro i vasi e tra le confezioni fasciate in quella carta stridente, di stagnola.

«Che cosa fai?»

«Prendo un fiore per te. Te lo metto all’occhiello. Non puoi andare da lei senza niente. Deve capire al primo sguardo chi è che le presento stavolta!»

«Ma no, per favore, non sono portato per queste cose! E poi non c’è neanche l’occhiello, mi pare...»

«Sì che c’è! È solo un po’ spappolato, in effetti l’avevo scambiato in un primo momento per una tasca...»

Ci stava già infilando dentro un grande fiore giallo, sguaiato.

«Ma che fiore è questo? Sembra che l’abbiano battuto col pestacarne!»

«È una dalia!»

Mi era venuto molto vicino, lavorava con entrambe le mani per sistemare il gambo dentro l’occhiello, la sua testa era arrossita improvvisamente, non si capiva se respirava e tremava oppure sogghignava.

«Non me la sento di portare in giro una ruota così! Forse è meglio che la tenga in mano, se proprio devo andare là con questa.»

«Vuoi scherzare? All’occhiello! All’occhiello! Che capisca immediatamente, senza ombra di dubbio, che tipo sei, di cosa sei capace! E lo stesso tutte le persone che incontreremo per strada... Che la voce si sparga. Che capiscano tutti che finalmente ci sei, che sei arrivato!»

Avevamo oltrepassato un grande parcheggio, passando di fronte al suo scivolo da cui saliva un alito d’aria infestato. Poi un altro incrocio più vasto, camminando fianco a fianco in silenzio, e qualcuno che ci incrociava si grattava improvvisamente la testa, sbadigliava.

«Cosa sta succedendo?» sussurrò il Gatto al mio fianco, pensieroso.

Si sentivano venire degli urli sfrenati, da un giardinetto sopraelevato, tagliato tra due grandi vie.

«È una donna che ha bisogno d’aiuto!» disse il Gatto guardandosi attorno, allarmato.

Adesso gli urli erano ancora più scatenati, stavamo entrando in una zona dove tutto risuonava e atterriva.

«Accidenti, la stanno violentando in quel giardinetto!»

«Ma no, è solo una donna che sta raccontando tranquillamente qualcosa alle amiche!»

«Stai scherzando?»

«No! Guarda, è quella là in mezzo, con i capelli corti e la bocca enorme... Non la vedi?»

Il Gatto si era fermato a guardare. Sui marciapiedi i passanti andavano con gli occhi sbarrati. Qualche automobilista metteva la testa fuori dal finestrino, sbalordito.

«Ma perché urla in quel modo?»

«Non lo so. Forse non si rende neanche conto di urlare. Sarà la sua normale tonalità di voce, forse vivrà con delle persone sorde e si sarà abituata a parlare così.»

Il Gatto continuava a guardare la donna, senza fiatare.

«È quella là? Sei sicuro?»

«Sì, sì.»

«Parla con voce talmente alta che, a guardarla, sembra che stia in silenzio... Ma tu come facevi a saperlo?»

«Passo di qui tutti i giorni.»

«E che cosa racconta?»

«Un po’ di tutto. Quello che succede nella sua casa, nella via, nel pianeta... In questi giorni, per esempio, parla spesso di neonati.»

«Di neonati? Ah, sì? E che cosa dice? Sentiamo!»

I neonati

Li gettano negli scarichi delle immondizie, nei contenitori per la raccolta del vetro, nei fossi, nelle rogge. Li buttano nei cessi, ci rovesciano sopra secchiate di acido, di varechina. Li fanno volare nelle discariche, li fanno mangiare dai cani, dai sorci... calano a frotte sulle loro carni ancora bagnate, si gettano tutti assieme nelle loro pancine aperte, corrono via col muso tutto imbrattato, i fili delle budella ancora fumanti tra i loro lunghi denti. Gli spaccano a bottigliate le testoline appena spuntate mentre partoriscono a gambe larghe sul cesso, li tirano fuori con le unghie dipinte, coi morsi, piegate in due sulla tazza. Li gettano fuori dalle finestre, dalle auto in corsa, di notte, si sentono scricchiolare anche stando a letto dentro le case, quando qualche macchina ci passa sopra, quella di quell’uomo che gira in piena notte nelle strade deserte, e investe tutto quello che incontra, sale sui marciapiedi, non gli sfugge niente...

«Accidenti! D’accordo, d’accordo, niente da dire, la materia prima non manca, la voce c’è! Ho capito il genere. Così va un po’ meglio. Che cosa ti dicevo? Lo vedi? Ma dov’è lo sviluppo? Che possibilità si dà di sviluppo in questo tipo di voce? Mah! Ne riparleremo, vedremo...»

La strada svoltava. Il Gatto aveva accelerato ancora di più il passo, andava con la sigaretta spenta al centro delle labbra, la vedevo vibrare continuamente mentre parlava, si sfuocava.

«Ma adesso siamo quasi arrivati. Sei pronto? Finalmente si comincia davvero! Lasciati guidare, lasciati ispirare. Non riesco neanche a valutare fino in fondo cosa potrà venir fuori a mettere in contatto voi due. Con gli altri lo posso calcolare anticipatamente, so fin dall’inizio quale sarà il risultato, è routine! Vedrai come cominceranno a girare i piani, gli spazi! Non avere paura, se ti sembrerà di non avere più niente davanti a te, tutto alle spalle, di esserti incamminato per strade diverse, esplose. Ecco, siamo arrivati!»

Si era gettato in una porticina aperta, e poi di fronte alla gabbiola di una portineria chiusa da tempo, sigillata, e poi su per una piccola scala, e poi su un pianerottolo che aveva sul pavimento un lucernario illuminato, bisognava passare coi piedi sulle sue borchie di vetro, senza guardare, senza respirare.

«Sei a posto con la biancheria?» bisbigliò il Gatto un istante prima di suonare a una porta, emozionato. «Ti sei cambiato prima di uscire o hai addosso le stesse mutande da molti mesi? Si scolleranno a fatica quando le togli per andare a dormire, depilazione totale, ti si staccherà d’un sol colpo tutta la messinscena genitale...»

Stava già suonando alla porta, senza staccare il dito dal campanello, e intanto mi guardava con gli occhi sbarrati, sorrideva.

Un istante dopo la porta si aprì.

Si affacciò una donna completamente nuda.

«Ah, sei tu!» disse vedendo il Gatto. «È appena andato via quello scrittore che mi hai mandato!»

«Ah, sì? Quale?»

«Quello della rinascita del sacro.»

«Ah, sì! Quello senza mento.»

Guardavo la donna. La sua faccia ancora in penombra luccicava. Ci sbalzavano sopra chiazze di seme maschile denso, vischioso, sulle labbra e sugli occhi, sulle ciglia.

Girò lo sguardo verso di me.

«E questo chi è?»

Fissava senza parole la dalia gialla appuntata all’occhiello della mia giacca.

«È uno scrittore che vuole rimettere in movimento la ruota!» disse il Gatto. «Per lui trattamento speciale. Non è come tutti gli altri che ti mando di tanto in tanto.»

La Musa aveva scambiato un’occhiata col Gatto. Era arrossita improvvisamente, mi guardava in silenzio, emozionata.

«Ah, sì? Allora vieni dentro! Era tanto che aspettavo uno così. Non ci speravo neanche più. Vieni, vieni!»

Aveva aperto maggiormente la porta, e allungato nello stesso tempo una mano per accarezzarmi la testa, mentre il Gatto si stava allontanando dopo aver fatto un rapido cenno di saluto col capo, quasi un piccolo inchino.

«Vieni, vieni! Oh, sì, finalmente! Mi sembrava di essere caduta in letargo, di fare il mio lavoro dormendo, da molti anni, da chissà quanti anni.»

La Musa

Mi guardai attorno un istante, nella stanza. La Musa mi aveva preso per mano, vedevo i suoi piedi nudi dalle unghie smaltate camminare sul pavimento, accanto alle mie scarpe.

«Andiamo nell’altra stanza, oppure addirittura in cucina, dove non faccio mai entrare nessuno. Dovrei dire fucina...» esclamò stringendomi ancora più forte la mano, e sollevandola contemporaneamente per guardarla in piena luce mentre era intrecciata alla sua. «Questa è la stanza dove ricevo, lo vedi anche tu: lettino per massaggi, lavabo... Solo carne da frizionare e poi da far spurgare. Ma con te sarà tutto diverso, vedrai. Ti ho riconosciuto subito, ho capito immediatamente chi eri quando ti ho visto di fronte alla mia porta con quella dalia gialla. Ti aprirò il mio cuore, ti svelerò i miei segreti, cose che non ho più svelato a nessuno da molto tempo, da troppo tempo, ti insegnerò a respirare molti respiri come se fossero un solo respiro, ti darò sapienza e coraggio, ti insegnerò a sostenere le emozioni più lunghe, e a continuare quando gli altri sarebbero già scoppiati da un pezzo.»

Eravamo già arrivati nel cucinino. La Musa mi aveva lasciato la mano. Stava di fronte a me, immobile e un po’ staccata, mi contemplava con il viso ancora luccicante di seme, e intanto sorrideva.

«Mettiti comodo su quella poltroncina pieghevole, sta’ tranquillo, respira, sei a casa tua, finalmente!»

Si era girata verso il secchiaio, aveva aperto il rubinetto e ci aveva tuffato sotto la faccia, di sbieco, per lavarsi. Sentivo i numerosi orecchini tintinnare mentre si passava e si ripassava l’acqua sul volto, sulle orecchie, con tutte e due le mani.

«Tu non hai idea di come mi sento in questo momento» disse mentre si asciugava passandosi uno strofinaccio sul volto, «di come mi batte il cuore... È una cosa alla quale io stessa mi ero disabituata. Finora solo una sfilza di quegli scrittorini pronta cassa, senza rischio, senza spavento, un tanto all’ora e via, me li manda quell’editore quando sono bloccati su qualche libro, oppure devono rifare qualche genere tornato di moda, o se la prendono un po’ troppo comoda, come quello del rilancio dei sentimenti, dell’autenticità. Bisogna arrivargli in casa come per sbaglio, girargli intorno facendo finta di niente, fargli vedere con una scusa o con l’altra le mutande, prenderglielo in mano simulando entusiasmo, poi in bocca...»

Si era girata verso di me, si era seduta ancora completamente nuda sulla sedia di fronte alla mia poltroncina, e intanto svitava il tappo di una boccetta di smalto che c’era sul tavolo a fianco.

«Tu non hai idea di quanto lavoro ci sia! Anche due o tre libri all’anno ciascuno, nonostante siano sempre in crisi. Telefonano all’editore. L’editore telefona a me. “Ho uno scrittore bloccato! Che cosa stai combinando? Datti da fare! Ci sono le rotative che vanno a vuoto, quelli dell’editing sono qui che si stanno girando i pollici, i risvolti sono già sulla mia scrivania, le recensioni future sono già pronte da un pezzo, è già stato fatto l’editing anche a quelle, anche alle recensioni del libro che scriverà dopo questo, quello che segnerà il rilancio dell’inautenticità...” Corro da una parte all’altra, quelli rovesciano fuori dalle mutande certe matasse flosce, sembra pastone mal lievitato e andato a male... Ah, scusa se mi rinfresco un po’ lo smalto delle unghie, ho un appuntamento, tra un po’!»

Aveva ripiegato completamente le gambe, di fronte a me, mettendo i due calcagni sul bordo della sedia, molto staccati, aveva cominciato a pennellarsi le unghie dei piedi pian piano, una a una.

«Mi arrivano qui certe volte addirittura col manoscritto. Li metto sul lettino per i massaggi, comincio a spalmarli, a frizionarli, sulla schiena, sui glutei, tra le cosce. “Oh, sì, sì, così va bene!” li sento dopo un po’ sospirare, con la testa girata di lato sul lettino. “Adesso comincio veramente a capire come devo sviluppare quel tale punto: tono sincopato, minore, profilo basso, riconoscibilità totale...” Li faccio girare dall’altra parte. Guardano quasi con le lacrime agli occhi, dal basso, le mie tette che dondolano sulle loro facce. Si bagnano prima ancora che abbia posato di nuovo le mani sui loro corpi. Devo cambiare continuamente il lenzuolino di sotto, la cerata. Se ne vanno alleggeriti, distesi, mi telefonano poco dopo, appena arrivati a casa. “Mia Musa, come sono contento! Adesso va tutto bene. Ho ripreso a lavorare di buona lena. Ho già scritto tre capitoli di getto, ho già impostato un paio di libri nuovi, quattro interviste televisive, il libro che si ricaverà da queste interviste...” Se lo fanno succhiare, mi vogliono annusare, ci ficcano dentro la faccia, respirano a pieni polmoni là dentro. “Ah, sì, adesso vedo finalmente più chiaro, è tutto chiaro!” continuano a blaterare con la bocca là dentro. “Garbata ipostasi, impegno civile, sentimento del tempo...” Ah, scusa, il telefonino!»

Se lo era accostato alla guancia, rispondeva sottovoce, continuando a guardarmi e intanto sorrideva.

«D’accordo, ma non fra due ore, un po’ più tardi, fra tre, fra due ore ho già un altro impegno. Sì, sì, mi ricordo, devo venire con quella gomma per cancellare, lei è quello delle nuove presenze frem, delle redenzioni... Ecco, lo vedi, è un continuo! Dentro e fuori. Certe volte non faccio neppure in tempo a star dietro a tutti di persona. Mando un paio di mie aiutanti molto settorializzate, a seconda del tipo di intervento che occorre. Io non sono una di quelle muse da quattro soldi, segaiole. Per quelli ci vuole poco, quattro scrollate e via, gambe aperte, tutta quella schiuma di carne fuori, un buon set di preservativi sempre a portata di mano, in valigetta, preservativi anatomici, borchiati, firmati, personalizzati, blindati, per il dito, se uno va su con quello, per la lingua, se uno lecca, per lingue a cucchiaio, a freccia, appuntite, biforcute...»

Aveva finito di smaltarsi le unghie, se le guardava e intanto sventolava le dita nell’aria tenendo sempre i calcagni sul bordo della sedia.

«Ecco, adesso finalmente ci conosciamo!» riprese a dire, interrompendosi di tanto in tanto per soffiarsi sopra le unghie. «Siamo entrati finalmente in contatto. Sono emozionata come non lo sono mai stata. Adesso dovrò anch’io reinventarmi completamente, con te, dare un taglio a tanti anni di lavoro fatto senza pensare, la testa vuota, gli occhi chiusi. Reinventare completamente il mio ruolo, la mia funzione, dovrò fare con te una cosa completamente diversa, che non ho mai fatto prima e che mi dovrò inventare anch’io giorno per giorno, cercare nuovi orizzonti, nuove strade. Sarò io stessa a chiamarti, a cercarti, se non ti vedrò per un po’, se ti verrà voglia di nasconderti troppo a lungo su altre strade. Io stessa potrò aprirmi ad altri progetti, ad altri sogni. Staremo insieme, io e te, questa casa d’ora in poi sarà la tua casa, quando vuoi, quando vorrai, nel modo che tu vorrai... Ecco, adesso sai tutto di me, questo è il mio lavoro, la mia vita, questa è la mia fucina. L’incontro è avvenuto, siete arrivati finalmente a destinazione, tu e il tuo fiore.»

Mi si era avvicinata moltissimo col volto, vedevo solo le dita della sua mano dalle unghie smaltate che mi stavano sfilando dolcemente la dalia dall’occhiello, prima di metterla in un vaso con un po’ d’acqua, lì vicino.

Il Gatto si grattava la testa, canticchiava.

«Oh, no, se è per quello niente da dire... Lo vedi che non mi ero sbagliato a mandarti dalla Musa! Si comincia a intravedere qualcosa, qualcosina, potenzialmente, volendo, si può dire... Io comunque sto attento, mi tengo pronto. Però bisognerebbe cominciare a tirar fuori un po’ i personaggi, far intravedere un po’ il plot, se no il lettore si scassa, gli viene in mente che si è dimenticato di passarsi il filo tra i denti prima di andare a letto, posa il libro sul comodino, si alza a piedi nudi, va al cesso, comincia a srotolare il filo e intanto tira fuori mezzo metro di lingua di fronte allo specchio, tutta bianca, porcellanata, se la guarda un po’ preoccupato, attacca la filodiffusione, va a mettere una cassetta nel videoregistratore, si butta sopra il divano, va a prendere nel frigo uno yogurt dietetico agli spinaci, ci mette dentro i fiocchi di merluzzo liofilizzati che ci sono dentro la capsula, e intanto ha fermato col blocca immagine quell’inquadratura dove lui le prende in mano la tetta e lei l’uccello... Che cos’è quella storia della gomma per cancellare, ad esempio, il lettore non l’ha mica capito! E queste due aiutanti molto settorializzate? Io avrei sviluppato un po’ questi due personaggi... Ma, insomma, tu ce l’hai in mente il plot?»

«Il plot?»

«Ma sì, il plot! Non sai neanche cos’è il plot? Accidenti, che lavoro mi aspetta! Ma scusa l’interruzione. Va’ pure avanti! Cosa stava dicendo la Musa?»

Primi personaggi

Ti ho accennato a quelle mie due aiutanti molto specializzate... D’accordo, allora a questo punto diamogli un nome. Una si chiama Ditalina, l’altra Pompina, così non ci sono dubbi. Non saprei dire da dove vengono. Non me l’hanno mai detto. Le mando per qualche caso mirato, le raggiungo a casa col cellulare, se hanno una casa, oppure mentre sono per strada e sono dirette verso qualche altro cliente, a qualsiasi ora del giorno e della notte, mi rispondono mentre sono già al lavoro, lo si capisce dal modo che hanno di parlare, soprattutto Pompina, ovviamente... Ha le labbra siliconate, il palato tatuato. Ditalina invece ha la fica rasata, un orecchino a una delle sue grandi labbra. Si mette a gambe aperte di fronte al cliente, quando la mando da qualche scrittore che ha un intervento in televisione di lì a un paio d’ore e non sa cosa dire, è bloccato. Si spalanca di più con le mani, seduta di fronte al cliente con le gambe piegate e divaricate, si tira fuori tutta quella schiuma di carne, con le dita, non la finisce più di sbocciare. Comincia a lavorare con la sua mano tutta snodata, non si riesce a capire come faccia a muoverla in quel modo, sembra disossata, sparisce là dentro per molto, e intanto continua a muoversi all’interno del taglio, si vede tutta quella schiuma pulsare, tira fuori dopo un po’ la mano dalle dita impastate, sembra che se la sia bendata. Il cliente si sposta irresistibilmente in avanti con la testa, come per tuffarsi con gli occhi chiusi nello squarcio. Niente più iconografie pubiche, peli, niente più diaframmi, come suol dirsi, culturali... solo quel taglio di carne che si spalanca e respira.

Anch’io un po’ di tempo fa ho operato rasata... Avevo registrato una serie di trasmissioni televisive per una di quelle piccole reti private che balenano di tanto in tanto di notte, e sembrano sempre un po’ saltate, desintonizzate o addirittura fantasticate. Si trattava di lanciare una nuova linea di trucco per fica. Mi sono piazzata a gambe aperte di fronte alla telecamera, inquadratura stretta, in picchiata, rasofica, ho cominciato a insaponarmi col primo di quei prodotti, uno stick emolliente a base vegetale, poi a depilarmi con un lungo rasoio da barbiere, e descrivevo intanto con voce calma e sicura i vari passaggi, come si doveva agire nei punti più delicati, nelle pieghe, all’interno del taglio, con le dita allargate, quell’ala d’acciaio tutta slanciata, e intanto mi cominciavo a passare un detergente spray per mandare via il sapone. Sono rimasta alla fine in primissimo piano, scotennata, dovevo passare adesso all’applicazione del trucco vero e proprio, erano già bene in vista, in sovrimpressione, i cosmetici allineati nella loro elegante trousse, su un mobiletto, i rossetti di nuovo tipo, le polveri, i fondotinta, i pennelli... Allora per me non c’erano in vista grandi cose, non si era ancora prodotta l’occasione di questo nostro incontro, mi abbandonavo alla moltiplicazione dell’immagine, del messaggio, facevo skimming a tutti i livelli, sparavo a caso, alla cieca, speravo che in questo modo, con tutte queste attività orizzontali, di routine, mi fosse destinata l’occasione di intercettare prima o poi, in qualche modo, per caso, qualcuno con cui poter riprendere il movimento... Non hai idea di quante lettere ricevo ancora per quella trasmissione, richieste di precisazioni, consigli, altre cose più inaspettate. Ecco, vedi, questa qui, per esempio, è un’esperta di comunicazione televisiva, interazioni, media. Tiene conferenze, partecipa a dibattiti, pubblica libri. Mi scrive continuamente. Senti, questa è la sua prima lettera, te ne leggo un pezzo...

«E chi è questa qui? Da dove salta fuori?»

«Ma sei stato tu a dire che ci volevano i personaggi, il plot...»

«Sì, sì, io dicevo il plot... costruire... Ma non per valanghe! Mi sembra già di sentirli: “Ah, non ci sono più gli scrittori di una volta! Quelli che facevano i loro bei pupazzetti di carta e ci appiccicavano sopra i baffi, le sopracciglia, il ciuffetto di peli della fica, del pistolino, li corazzavano di tutto punto coi loro bei vestitini, le cravatte a farfalla, le scollature, le giacchette attillate oppure stracciate... Ai nostri tempi sì!”.»

«Vuoi che mi fermi?»

«Ma no! Cosa dici! Che cosa ti ho mandato a fare allora dalla Musa? Forza, sentiamo un po’ questa lettera!»

L’Interfaccia

Cara Musa, mi sono piazzata a gambe larghe di fronte a lei che stava a sua volta a gambe larghe nel video, sola in casa, seduta sul pavimento, il televisore portatile anche quello per terra a poca distanza da me, faccia a faccia, si potrebbe anche dire... e intanto eseguivo gli stessi identici gesti che eseguiva lei, l’occorrente già preparato, lì accanto, tutta la casa in silenzio, solo un leggero rumore di televisori che veniva dagli appartamenti vicini. Ero già a buon punto della depilazione del pube, muovevo la lama lucente del rasoio a piccoli tocchi, con circospezione quando dovevo entrare bene in mezzo alle cosce o alla sommità del taglio, la facevo ruotare di centottanta gradi per pulire bene tutt’intorno, ad arco, guardavo con attenzione, e intanto osservavo anche la sua immagine speculare nella bocca del video. Mi domandavo, stando come lei con le gambe spalancate e molto sollevate, quasi seduta sull’osso sacro per arrivare ben dentro, se, quando e dove la depilazione del pube poteva considerarsi conclusa, visto che i peli continuano senza soluzione di continuità tra le natiche, fino all’anello dell’ano. E anche lei, mi pareva, si stava ponendo lo stesso problema teorico perché non pareva sapere bene dove fermarsi, mentre si teneva leggermente aperte le natiche con due dita dell’altra mano, quella che non maneggiava la lama del rasoio. Quando infine ho visto il suo sesso completamente nudo che tagliava in primissimo piano, verticalmente, tutto il video, ho capito all’improvviso che cos’è veramente l’immagine riflessa. «Ma certo!» mi sono detta. «La sua essenza è questa: una mucosa che inghiotte, deprogrammazione assoluta, deprivazione!» La camera zoomava ancora di più, per far notare il suo lavoro fin nei minimi particolari, si faceva inghiottire a sua volta perché l’immagine potesse inghiottire, mentre il video sbocciava, ma era come se sbocciasse dall’altra parte, all’incontrario. «Certo, certo» mi continuavo a dire, «l’essenza è questa, qualsiasi cosa si veda, volti, sorrisi, popoli, reperti storici, mondo minerale, animale, in formazione, in comunicazione, gemmazioni, rivoluzioni, costellazioni... è questa l’immagine assoluta, la tele-visione assoluta!»

Anch’io avevo terminato. Ora i due tagli nudi erano uno di fronte all’altro, scotennati. Lei aveva allargato per un istante le sue grandi labbra, con due dita, per fare osservare meglio il risultato perfetto della depilazione, il video si era aperto ancora di più, ingigantita al centro di esso aveva fatto capolino come una goccia di latte, cieca, e anche all’interno del mio taglio altrettanto aperto era specularmente apparsa un’identica goccia come di latte, cieca. «Ma allora, forse, qualcosa fuoriesce, può fuoriuscire!» mi sono sorpresa a fantasticare. Non ho fatto in tempo a sviluppare questa linea d’indagine perché lei aveva già afferrato un vaporoso batuffolo d’ovatta, l’aveva innaffiato con qualche goccia di un liquido infiammabile e profumato che aveva preso dalla trousse, l’aveva acceso con un piccolo accendino smaltato e se l’era passato in fiamme, fulmineamente, lungo il taglio, per strinarlo e lasciare tutto il pube perfettamente profumato e implume, mentre anche le mie mani compivano specularmente lo stesso gesto, e il fuoco aveva cancellato per un istante tutto il video...

«Accidenti, sei partito, mi pare, sei partito in quarta! E poi questa qui che è arrivata adesso... Come è stata chiamata? L’Interfaccia! Ma interfaccia tra chi?»

«A me lo chiedi?»

Il Gatto mi era venuto infinitamente vicino con gli occhi, non fiatava.

«E poi? Ti sei fermato da lei?»

«Da lei chi?»

«Ma dalla Musa, naturalmente!»

«Be’, sì.»

«E che cos’è successo? Sai, io lo devo sapere, in qualità di editore... Che cos’ha fatto?»

«Mi ha presentato altri personaggi.»

«Ah... capisco. Tutto qui?»

Il Gatto aveva girato la testa dall’altra parte. Si grattò la nuca con un unico dito, come da lontano.

«Altri personaggi... Capisco, capisco!» sogghignò.

Camminava con la testa girata e gli occhi socchiusi, non fiatava.

«Cosa faccio?» provai a domandare d’un tratto. «Vado avanti? Li lascio entrare?»

«Ma sì, sì, certo, per forza, si capisce!»

Il donatore di seme

C’è poi un donatore di seme che viene a trovarmi spesso. Oh, no, non credere che questo sia in contraddizione con la sua vocazione! Tutt’altro! Non viene da me per farsi alleggerire. Al contrario. Non ne ha mai versato una sola goccia fuori dall’apposito contenitore. Anzi, viene da me soltanto perché io glielo renda più copioso, più ricco, perché lo prepari con tutta me stessa all’atto donativo.

Arriva con la sua valigetta di metallo, venendo direttamente dal lavoro, poco prima di andare alla banca del seme per la raccolta. Posa la valigetta a fianco della porta, gli tolgo con premura il cappotto, se è inverno, oppure la giacca, la cravatta, mettendomi in punta di piedi per arrivarci perché è molto alto. Lo faccio sedere sul lettino, mentre gli tolgo anche la camicia, e intanto lo bacio lungo la linea delle spalle, del collo, gli slaccio le scarpe, gliele tolgo, gli vado dietro per baciargli la nuca appena rasata, che sa ancora di borotalco, se prima di venire da me è passato dal barbiere. Lui chiude gli occhi, respira. «Ah, dolce amica...» sussurra abbandonando la testa sul mio seno «mia svestitrice, mia Musa!» Finisco di spogliarlo, lo porto tenendolo per mano nella vasca da bagno, attraversiamo la casa tutti e due nudi, scorgo il colore delle nostre carni mentre passiamo di fronte agli specchi. Lo faccio entrare dentro la vasca, faccio scorrere l’acqua, lo comincio a lavare e a insaponare, mentre lui chiude gli occhi e arrovescia la testa nell’acqua, gli lavo anche i capelli, glieli risciacquo con la doccetta, anche il resto del corpo, facendolo mettere in piedi dentro la vasca, lo asciugo frizionandogli ben bene tutto il corpo.

«Accidenti!» gli dico. «Che torace! E che muscoli delle spalle, che schiena, che gambe perfette!»

Mi sorride, mi guarda. «Mi devo tenere sempre in esercizio» dice arrossendo, «faccio tutti i giorni un’ora di attrezzi, curo l’alimentazione...»

Lo continuo a frizionare per tutto il corpo. «Accidenti, che pezzo di carne!» non riesco a impedirmi di esclamare. «Lascia che te lo dica io, che me ne intendo!» Glielo prendo in mano, almeno ci provo. «Ti assicuro che se te lo vedessero in qualche posto che so io, in qualche set...» gli dico ancora.

«No, no, non toccarmi!» mi prega con gentilezza. Mi apro di fronte a lui, con le mani, seduta sul coperchio abbassato del water, mentre siede tranquillamente di fronte a me, su uno spigolo della vasca, e il cazzo gli si allunga e indurisce a tal punto che arriva fin quasi all’ingresso della mia fica aperta.

«Tu cosa pensi?» mi chiede. «Credi che sia già pronto?»

«Altroché se sei pronto!» gli dico prendendogli in mano le palle, e sono talmente grosse e gonfie che mi sembra di sentirle pulsare, come se dentro ci fossero due cuori. «Qui ce n’è per dar vita a popoli interi, nuove razze, nuove specie, nuove figurazioni, nuove generazioni!» esclamo stringendo un po’ il pugno.

«Allora va bene» mi dice. «Posso andare.»

Gli porto qualcosa da mettere sotto i denti, lo rifocillo. Lui comincia a mangiare con appetito stando in piedi, ancora nudo, mentre gli asciugo i capelli col fon. Lo aiuto a rivestirsi, a infilarsi la biancheria, poi i vestiti. Faccio fatica a infilargli le mutande e i calzoni perché ce l’ha ancora perfettamente duro ed eretto, e sempre così mi saluta dal vano della porta, prende la sua valigetta di metallo, discende le scale, cammina per le vie, sale in tram, riprende a camminare fino alla banca del seme, sale su per le scale, saluta gentilmente la signorina che sta al banco dell’accettazione, entra nello stanzino, con quella musica soffusa della filodiffusione, finalmente di fronte all’ampolla...

«Ma perché fai tutto questo?» gli ho provato a domandare una volta. «Vuoi lasciare una traccia?»

«Mah, non saprei...» mi ha risposto «vorrei lasciare una traccia che non lasci dietro di sé alcuna traccia.»

«Ma allora perché tieni un diario?» gli ho chiesto ancora.

«Lo so, è un controsenso!» ha ammesso immediatamente.

Il sacerdote

Ma non è ancora finita! Mi ha telefonato, per esempio, un sacerdote. Non ha chiesto neppure di incontrarmi. Mi ha raccontato cosa gli è successo da quando mi ha visto la prima volta, anche lui attraverso quella trasmissione di cui ti parlavo, tutto solo in canonica, per caso, una sera o una notte, la prima volta o durante una delle repliche. Non conosce neppure la mia faccia, ha visto solo la mia fica scuoiata, in primo piano, e il numero di telefono che correva di tanto in tanto sul fondo, se qualcuna o qualcuno voleva telefonarmi per avere suggerimenti di prima mano, consigli, sai com’è... Mi ha chiamato la prima volta mentre stavo per andare a letto, dopo una giornata particolarmente impegnativa, avevo preso da poco una pastiglia per dormire. Giravo nuda per casa, ero andata a lavarmi i piedi con la doccetta, seduta sul bordo della vasca, stavo già avvicinandomi al letto dalla coperta un po’ ripiegata. Lo faccio sempre, a volte anche solo pochi secondi prima di coricarmi, e poi faccio finta di avere qualcos’altro da fare prima di tornare di nuovo verso il letto, in modo che la ripiegatura sembri fatta da qualcun altro, e mi possa apparire come un gesto segreto di accoglienza. Mi ero appena infilata a letto, quando il telefono che c’è sul comodino ha cominciato a squillare. Sentivo già le palpebre un po’ pesanti, sono stata per un po’ indecisa se rispondere o meno. Poi ho tirato su la cornetta. All’inizio non ho capito chi ci fosse dall’altra parte. Parlava sottovoce e con tale emozione che non si distinguevano le parole. Ho cercato per qualche secondo, inutilmente, di capire.

«Mi scusi, non la capisco» gli ho detto, «lei chi è?»

C’è stato un breve silenzio.

«Sono un sacerdote» ha risposto infine.

«Non si preoccupi, stia tranquillo, non è la prima volta che mi succede! Vuole venire da me? Vuole fissare un appuntamento?»

«Oh, no! Che cos’ha capito?» si è affrettato a dire. «Volevo solo farle sapere che l’ho vista, un paio di giorni fa, all’improvviso, mentre passavo da un canale all’altro con il telecomando, in cerca di un notiziario della notte, per puro caso. All’inizio non credevo ai miei occhi, non capivo bene che cosa stavo vedendo. Il video si era come aperto di colpo, squarciato, al centro della mia povera stanza da sacerdote. Si era aperta improvvisamente una piaga.»

«Ma di che cosa sta parlando?» ho provato a chiedere. «Ah, sì, adesso ho capito: della mia fica!»

C’è stato un breve silenzio.

«Mi sono andato a mettere sull’inginocchiatoio che ho accanto al letto, dove recito le preghiere prima di coricarmi» ha continuato come se non mi avesse neanche sentita, «e intanto guardavo il televisore che c’è lì vicino, con la testa girata, in fiamme. “Oh, sì” mi dicevo, “lo stigma! Forse è così che avviene un’apparizione, ti lascia forse allo stesso modo svuotato, disgustato, anche quando Gesù si sarà aperto la piaga con le dita, in piena luce, in pieno giorno...” Non ho chiuso occhio tutta la notte. La sera successiva, dopo avere mangiato qualcosa da solo qui in canonica, mi sono messo il giaccone di nylon con la cerniera e sono uscito a piedi verso una di quelle edicole che restano aperte anche di notte, e hanno come un tunnel di cellophane sul davanti, bisogna entrarci a capo chino, come in un’abside bassa. C’erano diverse persone che gremivano quel piccolo spazio, di fronte a quelle riviste, molte delle quali erano state lasciate aperte qua e là, spalancate, sembravano tutti là dentro da moltissimo tempo, assenti, come se non riuscissero a decidersi nella scelta o cercassero sempre qualcos’altro. Ho scovato la rivista che stavo cercando, ho controllato che dentro ci fosse davvero quell’immagine, come avevo visto reclamizzato in sovrimpressione alla base del video, la sera prima. L’ho piegata e infilata in tasca. Sono tornato in canonica. Ho strappato via una sola immagine della serie, la più aperta, la più lacerata. Ho buttato via tutto il resto della rivista, cercando di nasconderla bene in fondo al sacchetto delle immondizie, avvolta in un altro e diverso giornale, perché non la trovassero nel bidone grande che c’è al pianterreno della canonica, quando viene a portarlo via quella suora magra e gentile, e poi quegli spazzini che passano tutti i giorni col camion. Ma non è per nascondermi, non è solo per quello, perlomeno. Io non sono uno di quei preti che hanno la canonica piena di certe riviste, nascoste nei posti più impensati, per non dire di peggio. Io non cerco uscite di sicurezza, non ho nostalgia del mondo, non sono uno di quelli che non resistono, che vogliono spogliarsi del loro stato...»

La pastiglia stava cominciando a fare il suo effetto, sbadigliavo di tanto in tanto, mi ero messa già su un fianco, una mano tra le ginocchia, come faccio sempre quando sto per addormentarmi, girata dalla parte del comodino per poter posare la cornetta del telefono prima di abbandonarmi al sonno. Quel sacerdote continuava a parlare.

«Mi sono messo in cerca di un nascondiglio sicuro, girando ormai in piena notte per la canonica, ma non ce n’era uno che andasse bene. Sono sceso giù in chiesa, entrando dalla porticina di lato, ho camminato là dentro per un po’, inginocchiandomi ogni volta che passavo di fronte all’altare, e sentivo il rumore dei miei passi felpati sul pavimento, perché ero già in ciabatte. Ho acceso le mezze luci. Basta poco per illuminare la mia chiesa, perché è piccola e bassa, costruita da poco, non sembra neanche una chiesa. Ma non riuscivo a trovare il posto neanche lì. D’un tratto, passando di nuovo accanto all’altare, mi sono fermato. “Ma certo” mi sono detto, “nel tabernacolo!” Ho aperto con la minuscola chiave, e si sentiva lo scatto della piccola serratura nella chiesa deserta. L’ho messa dentro, accanto alla pisside traboccante di ostie. Ho richiuso, sono risalito piano piano in canonica e sono andato finalmente a dormire. Ma... mi scusi, mi sta ancora ascoltando?»

«Sì, sì, ma mi deve scusare, ho preso qualcosa, non proprio una delle solite pastiglie, a essere sincera, non proprio una camomilla... mi sento un po’ stanca, sta facendo effetto...»

«Mi permette di chiamarla di tanto in tanto?» mi ha chiesto un istante dopo, emozionato.

«Sì, sì, faccia pure, io sono sempre a disposizione!»

«Le auguro una buona notte, una dolce notte, sorella...» ha detto con la voce incrinata. «Anch’io adesso sto per andare a dormire, dalla strada non salgono più rumori, anche le ultime macchine sono passate, i televisori sono ormai tutti spenti nelle case qui intorno, la chiesa è tutta buia, in silenzio, gli inginocchiatoi, i libretti della messa sugli inginocchiatoi, il confessionale, i pochi addobbi sopra l’altare... anche la sua piaga dorme nel tabernacolo buio, accanto alla pisside, consustanziale.»

«Oh, grazie, padre!» ho detto ancora con la voce già impastata dal sonno, gli occhi chiusi. «Ha bisogno di un po’ di riposo anche lei, alla fine della giornata! Ormai il letto è tiepido, la mia mano sta già dormendo tra le mie ginocchia. Buona notte, mio dolce amico, la Musa si sta addormentando...»

«Ma sei impazzito?»

«Perché?»

«Ti ho lasciato andare per un po’ a briglia sciolta, ti ho dato corda. Sì, sì, niente da dire, mi fischiano ancora le orecchie! Si vede che stai cominciando a lavorare con la Musa, che cominciamo pian piano a ingranare. Ma, a parte questo, cosa credi? Che si possa andare avanti per questa strada?»

«Perché?»

«Via, via! Tira via un po’ di quella roba così distruttiva! Non ti mettono mica nelle antologie, nelle enciclopedie! Due righe e via: scrittore dotato ma deragliato... Col cazzo che ti mettono nei dizionari degli autori!»

«Ma se mi hai appena detto...»

Guardavo il Gatto mentre teneva la bocca spalancata e intanto si faceva vento ostentatamente al suo interno, con la mano.

«Scusa se divento, per forza di cose, un po’ volgare» riprese, «lingua in presa diretta, d’altronde, come suol dirsi! Bisognerà mettersi alla pari anche in questo.»

Fece qualche passo senza parlare.

«Acqua, acqua! Mi hai preso troppo alla lettera!» sbottò all’improvviso. «E poi non c’è ancora articolazione, non c’è ancora racconto! Ma ti pare che da questa roba si possa ricavare un po’ di buona fiction, qualche serial televisivo in milletrecentoventi puntate, diretta col cellulare da un regista che nel frattempo sta dirigendo con un altro telefonino uno spot pubblicitario per un anticalcare? Devi essere un po’ più rottinculo con i colpi di scena! Altrimenti il lettore si stanca, te l’ho detto. Devi pensare che, mentre legge o leggiucchia queste pagine, sta ascoltando, disteso di traverso sul letto, musica in cuffia, e intanto giocherella con i peli della fica della moglie, della vicina, la quale nel frattempo sta guardando alla televisione un programma sulla sudorazione delle ascelle nella lirica provenzale, sponsorizzato da una marca di dentifricio per cani...»

«Sei stato tu a chiedermi di raccontare. Ho solo riferito!»

Il Gatto si fermò a guardarmi accigliato, e intanto sorrideva.

«Cosa fai? Ci stai provando?»

«Provando cosa?»

«Va là che hai capito!»

Un istante dopo mi prese con forza sottobraccio, mentre stavamo passando sopra una larga grata che oscillava.

«Vieni in casa editrice!» disse d’un tratto.

Non eravamo molto lontani, bastava andare per un po’ lungo la strada a un solo senso di marcia, dove le macchine venivano giù a ondate, e poi attraverso un paio di piazze in rapida successione, e costeggiare una strada dal marciapiede scollato per i lavori in corso, e poi una grande costruzione tutta fasciata.

«Ecco, siamo arrivati!»

«Ma cosa state facendo alla casa editrice?»

«Stiamo rifacendo i tetti, le facciate, ci rifacciamo, come suol dirsi, il trucco. Ci prepariamo in vista dell’evento.»

Si scorgeva la grande cerata stesa sopra i ponteggi palpitare, quando qualcuno dei muratori la rasentava di colpo con la spalla o la schiena, spostandosi dall’altra parte sui corridoi d’assi.

«Hai visto che fervore! E poi vienimi a dire che non siamo impegnati allo spasimo con te!»

Mi guardò con la testa inclinata, mentre imboccavamo la prima porta. E ancora, mentre salivamo uno di fronte all’altro con l’ascensore, non cessava di guardarmi con la testa un po’ spostata all’indietro, gli occhi stretti per via della luce.

«Cosa stai facendo?» gli chiesi.

«Ti guardo.»

La casa editrice era illuminata. Oltrepassammo il centralino, poi un lungo corridoio dal pavimento imbottito.

«Come sono contento che tu sia di nuovo qui!» disse il Gatto d’un tratto. «E anche lei. Gliel’ho annunciato ieri sera, ieri notte, per meglio dire, come distrattamente... “Oh, come sarei contenta di rivederlo!” ha esclamato.»

«Ma lei chi?»

«La Meringa!»

«E chi sarebbe questa Meringa?»

«La mia segretaria.»

«Non sapevo che si chiamasse Meringa!»

«Io la chiamo così!»

Eravamo già nel suo grande ufficio, con la luce accesa anche se era giorno perché le ante della finestra erano chiuse a causa dei ponteggi.

«Aspetta, la chiamo subito!» disse il Gatto mentre già componeva il numero dell’interno.

Rimase per un attimo in ascolto.

«Mi dicono che oggi non è venuta in ufficio. Che strano! Avrà le sue cose!» sogghignò. «Eppure ieri notte non mi pareva...»

Era venuto a mettersi in piedi di fronte a me. Nessuno dei due aveva pensato ancora di sedersi.

«“Mi metterò la gonna rossa, di vellutino” ha cominciato ad architettare, quando le ho parlato della tua visita in casa editrice, “la maglietta nera con quel piccolo ricamo alla scollatura, le ballerine, mi laverò i capelli e poi mi metterò il balsamo, un po’ di burrocacao sulle labbra screpolate a causa, diciamo, del vento...” Era tutta animata, era così arrossita che non le si vedevano quasi le lentiggini, mentre correva ad aprire le ante dell’armadio, accendeva il ferro da stiro, e toccava la sua piastra con le dita bagnate per vedere se era già caldo al punto giusto.»

Si scorgeva di tanto in tanto, attraverso i listelli delle ante, l’ombra di qualche muratore che camminava sopra i ponteggi, si sentivano i calcinacci grandinare lungo la parete esterna nascosta dalla cerata.

«Ah, sediamoci un po’!» disse il Gatto. «Uno di fronte all’altro. Cominciamo a guardarci davvero un po’ in faccia, da vicino!»

Si lasciò cadere sopra una poltroncina. Mi fece il gesto di fare altrettanto.

Guardavo la sua testa dai capelli rasati, la sua bocca dalle labbra sottili, i suoi zigomi larghi, che parevano fare tutt’uno con le lunghe frecce appuntite delle orecchie.

«Ti stai facendo crescere la barba?» mi chiese come sovrappensiero, dopo un po’.

«Ma ce l’ho sempre avuta!»

«Che strano, non me n’ero accorto!» sogghignò.

Si allentò il nodo della cravatta. Il taglio della sua bocca era tirato, sorrideva, ma intanto la sua mano tremava, mentre si accendeva la sigaretta dalla parte del filtro.

«Ti stai accendendo la sigaretta dalla parte del filtro!» lo avvisai.

Alzò le spalle con noncuranza, mentre si rimetteva la sigaretta in bocca dopo averla capovolta.

«Non c’è problema!» disse un istante dopo, parlando a labbra serrate dietro la fiamma dell’accendino. «Mi libero rapidamente del filtro, me lo fumo, così posso poi gustarmi la mia sigaretta senz’altri diaframmi, in santa pace. Non mi piace fumare col filtro!»

«Ma allora perché non compri direttamente sigarette senza filtro?»

«Non è la stessa cosa!»

Era rimasto in silenzio, sovrappensiero, mi guardava.

«Sono un po’ preoccupato per la Meringa» disse d’un tratto.

Era entrata una donna, dopo avere bussato, nella stanza. Gli aveva consegnato una lettera dattiloscritta e poi era uscita con passo felpato.

«Ancora con quella storia!» disse il Gatto, dopo avere scorso in pochi istanti la lunghissima lettera. «C’è una discussione con un autore per la scelta del corpo... A proposito, di quante pagine pensi di farlo, questo libro?»

«Mah, non saprei... Come faccio a saperlo?»

«Sta’ attento! Calcolalo bene, per tempo! Ci sono volumi di un certo numero di pagine che vengono sempre dati in corpo dieci, o addirittura nove, mentre, passata quella barriera, il libro viene, inspiegabilmente, dato in corpo più largo, persino in due volumi. Pensaci bene, non credi possa essere il caso di pubblicarlo in due parti, in due volumi separati, se ci sarà qualche passaggio che lo consenta, che lo richieda, oserei dire, addirittura, qualche cambiamento, qualche rovesciamento? La butto lì, chi può dire... Guarda che il suo primo rapporto il libro lo stabilisce con lo spazio! Lo dico contro il mio stesso interesse. Altrimenti finisci impacchettato, compresso! Nessuno pensa più a un autore che gli sia capitato di leggere in corpo nove, se appena appena ha passato i diciott’anni. Non lo so neanch’io perché certi autori si stampano sempre così, anche scrittori consolidati, del passato, che vendono sempre. Persino quando passano da una collana all’altra, da un editore all’altro, e il libro viene ritradotto di nuovo, ricomposto. Io stesso, che sono parte in causa, non te lo saprei dire. Neppure il rapporto volume-prezzo spiega il perché di certi automatismi. Tutto questo vale anche per autori contemporanei o addirittura viventi. Da leggere con la lente di ingrandimento. Stampati su pagine più sottili, trasparenti, per occupare meno posto nei magazzini. Si sta leggendo una pagina e si vede cosa c’è scritto in quella dopo, due pagine dopo, non si capisce mai se il protagonista sta scopando oppure se si sta lavando la testa con uno shampoo all’olio di granchio vitaminizzato. Mentre altri dello stesso numero strategico di pagine, dello stesso target e persino dello stesso continente, vengono stampati in volumi più grandi, a caratteri enormi, bisogna usare la lente di rimpicciolimento per riuscire a leggerli, bisogna ruotare su se stessi per scorgere i confini di ciascuna lettera. Non credere, non sono sciocchezze, bisognerà di tanto in tanto fornire particolareggiate istruzioni ai compositori, agli stampatori...»

Adesso il Gatto si era abbandonato di più sulla poltroncina, mentre parlava distesamente e intanto fumava.

«I libri devono essere stampati in caratteri molto leggibili, ma non esageratamente grandi, che sembra brodo allungato, bisogna girare continuamente le pagine, si forma un vortice d’aria attorno, le pagine come le pale di un ventilatore, ti fa male il braccio, anche gli occhi, le parole si vedono troppo, è come se non si vedessero affatto. Ma neppure troppo sbiadito, come se le pagine fossero finite in lavatrice durante il programma del lavaggio più lungo, quello di mutande e calzini portati per mesi, per anni, per millenni. Deve essere stampato su carta robusta, perché lo si possa portare in giro infilato in tasca, fischiettando. E la carta? E l’odore della carta? Fondamentale! Tutto il resto lo scelgano pure gli altri: che libri pubblicare, quali correnti culturali e spirituali suscitare, a chi affidare le promozioni, le prefazioni, i significati, i valori... quello se lo inventino pure i giornalisti, i presentatori. La scelta che avoco a me, quello che conta, quello che veramente conta, alla fine, quello che rimane, è l’odore della carta!»

Ora che la sua sigaretta era diventata molto corta, si spingeva in avanti con la testa, avvicinando le labbra alla cicca ogni volta che doveva aspirare.

«E il titolo?» disse d’un tratto. «Hai già pensato a un titolo?»

«Ma se non c’è ancora il libro!»

«Non importa! Devi pensarci subito, invece, devi farmi delle proposte, dobbiamo cominciare a parlarne!»

Si sentiva pestare forte col maglio, contro il muro esterno, pezzi interi di intonaco si staccavano e andavano a scoppiare sul marciapiede.

«E la Musa?» chiese ancora il Gatto venendo moltissimo in avanti per carpire un’ultima boccata dalla cicca.

«Che cosa?»

«Come va con la Musa? Ti sta, come suol dirsi, ispirando?»

«Altroché! Stavo andando proprio adesso da lei!»

Il Gatto si fregò ostentatamente le mani.

«Ah, bene, bene! Sentiamo!»

Nel giardino

Ti dicevo di Ditalina... Non credere che la sua giornata di lavoro sia finita con l’ultimo appuntamento, quando esce dalla sua ultima casa, camminando nelle mezze luci sul tappeto del corridoio d’ingresso, dopo essere scesa fumando una sigaretta nell’ascensore a specchi. Cammina nella città ormai deserta, sui suoi alti tacchi, va a sedersi sul gradino di qualche casa, di un sagrato, oppure direttamente sopra l’asfalto, per terra, getta le gambe dalle due parti, comincia a masturbarsi con la sua mano snodata e disossata, mentre un ultimo automobilista che sta rincasando le passa vicino con gli occhi sbarrati e intanto sbadiglia piano e si dice: «Sto dormendo, sto già sognando. Ma come si fa a sognare se prima non ci si addormenta? E come si fa ad addormentarsi se prima non si sbadiglia?». Si va a sedere sul cofano bombato di un’auto, su un guardrail appena installato e ancora luccicante. Si fa chiudere in un giardino pubblico recintato, nel tardo pomeriggio, quando non ha la sera impegnata. Non so se ti è mai successo. Non danno nessun annuncio prima di chiudere i cancelli, passa soltanto un uomo in bici, con una trombetta. Fa un piccolo giro svogliato guidando con una sola mano e intanto suona questa specie di trombetta afona che non è poi una trombetta, sembra un imbutino di pelle, un prepuzio. Non si sente niente. A me è successo una volta, ho rischiato di rimanere chiusa dentro per tutta la notte. Solo un po’ di tempo dopo mi sono accorta che non c’era più nessuno oltre a me, che i cancelli erano tutti chiusi. Sono andata verso la porta di una grande costruzione che dà sul giardino. Ho bussato forte. «Le è andata bene!» mi ha detto un uomo che è venuto ad aprire. «Fra cinque minuti avremmo chiuso tutti gli uffici, non rimaneva nessuno qua dentro, avrebbe dovuto passare tutta la notte prigioniera in questo giardino!» Mi ha accompagnato attraverso i corridoi, prima di farmi uscire dall’altro ingresso che dà sulla strada, e intanto gli ultimi impiegati che stavano lasciando gli uffici si fermavano a guardarmi senza fiatare. Si scorgevano le mie cosce attraverso gli squarci dei jeans stracciati, si sentiva solo il tintinnare dei miei orecchini a raggiera. «Ma lei chi è? Non l’abbiamo mai vista qui dentro!» ha trovato il coraggio di domandare qualcuno. «Sono la Musa!» gli ho risposto senza fermarmi.

Ecco... ti dicevo che Ditalina si fa chiudere per tutta la notte in questo giardino cintato. Lascia passare il suonatore di prepuzio, non si avvia come gli altri verso l’uscita. I cancelli vengono chiusi. Tutto il giardino è serrato in quella cancellata dalle altissime punte di metallo. Aspetta che scenda a poco a poco la notte. Si spalanca dietro le sbarre, seduta sullo schienale di una panchina per essere vista meglio da qualcuno che si trovi a passare per caso sul marciapiede rasente la cancellata, uno di quelli che vanno in giro da soli, di notte, e scorge là dietro, nella penombra rischiarata un po’ dal lampione che c’è lì vicino, il luccicare del suo orecchino su una delle grandi labbra della sua fica aperta, quando si comincia a masturbare dietro le sbarre con tutta la mano dentro. Si dilata sempre di più, si sente anche passando da fuori quel rumore d’acqua e di schiuma, sembra che stia facendo il bucato, quando la sua mano si muove a poco a poco più forte, si distende. Allungano il braccio attraverso le sbarre, per cercare di arrivare a toccarle la fica. Si buttano dentro fin dove la distanza tra le due sbarre lo consente, con la spalla, allungano il più possibile la mano per cercare di masturbarla a loro volta, con le dita, arrivano quasi a sfiorarle quella schiuma crestata ormai tutta fuori dalla sua sede. Ditalina si sposta un istante prima all’indietro, muovendo il culo sullo schienale, per non farsi toccare. Riprende a muovere la mano là dentro, tira fuori le dita, se le lecca pian piano, una per una, mentre sono ancora smaltate, le rituffa dentro, in quell’acqua bianca che trabocca, scola fuori lungo la linea del polso, la si sente urlare durante l’orgasmo, si butta indietro e in avanti con la schiena, la testa, apre e chiude la bocca, sembra che stia vomitando...

La notte

Pompina intanto allarga la bocca all’altro lato della cancellata, quando si fa chiudere dentro lo stesso giardino con Ditalina. Si inginocchia per terra, spalanca ancora di più tra due sbarre la sua grande bocca siliconata, si vede persino dalla strada il suo palato tatuato, quando qualche auto che passa lo centra per caso con gli abbaglianti. Qualcuno si comincia a fermare dall’altra parte delle sbarre, si tira giù la cerniera, si sbottona i calzoni, cominciano a muovere il culo, sembra che stiano scopando la cancellata, a vederli da dietro, nel passare. Se lo rimettono ancora gocciolante nei calzoni, quando hanno finito, e riprendono come se niente fosse a camminare. Qualcun altro si accosta per infilarlo a sua volta nella sua bocca sbocciata, si fa male contro le sbarre quando spinge forte per farlo arrivare più in fondo, e contemporaneamente Pompina si butta in avanti a ogni colpo, col volto, sembra sempre sul punto di aprirsi, di scoppiare, mentre quelli ci danno dentro ancora di più tenendosi con le mani alle sbarre. Si scaricano contro il suo palato tatuato, in fondo alla sua gola impastata, insanguinata. Si fermano a grappolo attorno alla sua auto dai finestrini abbassati, quando va in giro per le strade, di notte, e si ferma a qualche incrocio deserto, a bocca aperta, arriva dopo un po’ qualcuno di quelli che vanno sempre in giro di notte, in certi passaggi della notte... Sì, sì, ti sto guardando, vedo la tua espressione, capisco. Ma devi cominciare a prendere coscienza della notte, che non è quella che comunemente viene chiamata notte, ma quella che comincia sempre dopo, sempre un istante dopo, e che raramente trova qualcuno fermo al suo posto, a raccontare... Muovono il culo contro il finestrino dell’auto, si cominciano a sguinzagliare anche i vecchi, con quelle protesi di concezione nuova che fanno adesso, la siringa sempre a portata di mano, si iniettano quella roba dentro quei tubi flosci, si imbottiscono di quelle pasticche per fare rizzare i cazzi, si vedono improvvisamente i loro pezzi di carne gonfiarsi, sventolare, lei ne mangia anche due o tre alla volta, prende dentro anche tutto il sacco maculato e pelato delle palle, lo risucchia, lo tira, lo inghiotte, lo rigetta. Se ne vanno via ancora arrapati, battono le strade in cerca di qualcuna ancora in giro da buttare per terra, da stuprare. Anche Pompina ricomincia a spostarsi con l’auto, si vede solo la sua grande bocca riempire l’intero parabrezza, non si capisce se sta invitando oppure sbadiglia, o se è uno di quei grandi cartoni pubblicitari a fisarmonica che certe volte si vedono dietro i parabrezza delle auto in sosta, perché non si surriscaldi il cruscotto, in tutt’altro tempo, in tutt’altra luce, in pieno sole. Comincia a battere le strade anche quell’uomo che gira sempre di notte e investe tutto quello che incontra, non chiude mai gli occhi, non si riposa mai, non si ferma...

«Ah, andiamo bene! Come se non ti avessi detto niente!» esclamò il Gatto allargando le braccia.

Si passò una mano sui capelli rasati, li fece crepitare.

«E ancora con quell’investitore! Lo abbiamo già incontrato un paio di volte, se non sbaglio... Dove vuoi arrivare?»

«Mah... non lo so! Io non voglio arrivare da nessuna parte!»

«No, no, se è per quello, non è che non si capisca. Stai cominciando a presentare i personaggi, a disporli, prepari il terreno. Ma che modo è questo? Come si fa a cominciare così? E quella storia di Ditalina e Pompina...»

«Ma l’avevi detto tu che bisognava sviluppare questi due personaggi!»

«Sì, ma c’è modo e modo! Tu cominci da dove un altro avrebbe finito da un pezzo! Non si capisce che cosa hai in mente di fare...»

«Ma io non ho in mente proprio niente!»

«E poi dove sono le articolazioni, dove sono gli angoli? Tu li vedi? O sono tutti angoli? Ma angoli di trecentosessanta gradi, mi pare. Sì, sì, capisco, andare avanti così, per canti, per esplosioni...»

Il Gatto aveva aperto di colpo la bocca, non si capiva se stava masticando aria oppure respirava.

«Ma non credere di potermi far fuori così, in quattro e quattr’otto, in questo modo, o di potermi assegnare un semplice ruolo di reagente. Ho anch’io le mie carte! Ma adesso parliamo d’altro. Sì, sì, gli stupri, l’investitore... Come faccio a non essere preoccupato?»

«Ma preoccupato per chi?»

«Per la Meringa!»

Aveva abbassato la testa, si passava ancora le dita sui capelli rasati, li si sentiva di tanto in tanto crepitare.

«Perché? Che cos’è successo?»

«Non è venuta neanche oggi al lavoro.»

«Sarà a casa ammalata, avrà un po’ di influenza.»

«No, a casa non c’è. Ci sono già stato.»

«Si sarà dovuta assentare per qualche giorno.»

«Senza avvisare? Impossibile, non l’ha mai fatto! Ma è inutile star qui a parlare... Devo andare ancora a vedere a casa sua. Chissà se è tornata? Anzi, vieni anche tu. Dammi una mano. Se c’è qualcuno che dovrebbe cercarla, qui dentro, quello in fondo sei tu.»

«Perché?»

«Come! Me lo domandi? Non ti ricordi niente? Non hai capito niente?»

Mi aveva preso con forza sottobraccio, mi stava trascinando verso una stazione della metropolitana e poi giù per una scala mobile, e per i suoi lunghi, lucenti corridoi, fino a una vettura ferma e con le porte spalancate.

«Scusa, scusa, sono preoccupato, sono un po’ esasperato!» disse buttandosi a sedere al mio fianco sul sedile.

Il treno vibrava. Il Gatto aveva cominciato a sfogliare il giornale, non parlava.

«Allora, cosa ne dici?» domandò d’un tratto.

«Mah, cosa devo dire...»

Chiuse per un istante gli occhi, sospirò col naso.

Il treno stava rallentando in vista della stazione, si vedeva già dalle parti quella linea gialla che saliva e scendeva.

«Siamo arrivati» disse il Gatto. «Lei abita qui vicino. Si sente ogni tanto la sua casa vibrare, quando ci passano sotto i treni...»

Eravamo già usciti in superficie. Il Gatto si stava frugando dentro la tasca in cerca di una chiave.

«Ecco, la casa è questa!»

C’erano grandi vasi in un piccolo cortile dal fondo di cemento, ne uscivano delle piante dal tronco nodoso, tagliuzzato.

«Non avrei mai pensato che saremmo venuti, io e te, assieme, un giorno, in questa casa!» disse il Gatto d’un tratto, mentre salivamo un paio di rampe di scale deserte, silenziose.

Non c’era targhetta sulla porta. Il Gatto stava già facendo ruotare la chiave, aveva socchiuso gli occhi.

«Lo senti? La casa è vuota, non è ancora tornata. Si capisce già dal rumore...»

Mosse qualche passo all’interno.

«Eppure è come sempre così ordinata...» disse spostandosi attraverso la stanza. «Sembra uscita tranquillamente, come gli altri giorni, non ha lasciato traccia.»

Si accostò zoppicando all’armadio, spalancò le ante, ci tuffò dentro la testa, e intanto muoveva la mano in quella poltiglia snervata, profumata.

«È uscita con la gonna a quadretti...» considerava, spostando la successione di abiti che pendevano dalle grucce. «Ah, guarda qui! Ti ricordi? Questo l’ha messo l’ultima volta che sei venuto nella vecchia sede della casa editrice. “Pensi che vada bene?” mi aveva chiesto la sera prima, proprio qui, dove siamo adesso. “Pensi che possa piacergli?” “Guarda che potrei ingelosirmi!” le avevo detto. “Non fai così quando vengono in casa editrice gli altri scrittori, non li accompagni fino in strada quando poi se ne vanno, con le tue ciabattine basse, ricamate, anche quando c’è fuori la neve, non li prendi per mano quando cammini con loro lungo i corridoi, che vi si vede venire avanti allacciati, emozionati... Che cosa ti sta succedendo?” “Mah, non lo so. Niente. Che cosa vuoi che mi stia succedendo?” Ma subito dopo riprendeva a dire: “E chissà se gli piacerà la mia bocca, quando vado ad aprirgli la porta e la vede per prima cosa entrando in casa editrice, e la guarda, e mi guarda. E chissà se gli piacerò con tutte queste lentiggini...”.»

Sotto la casa doveva essere passato un treno della metropolitana, perché mi pareva di vedere di tanto in tanto sfuocarsi l’armadio aperto, e le cose un po’ volanti che c’erano dentro, e le linee tutte un po’ profumate del letto, della stanza.

«Che cosa fai? Stai cantando?» chiese il Gatto d’un tratto, perché me ne stavo lì a bocca aperta, non fiatavo.

Un istante dopo scoperchiò il cesto della biancheria da lavare, frugando a due mani nella poltiglia delle magliette e dei reggiseni, un po’ sudati e un po’ profumati. Scorgevo le matasse tutte un po’ agglutinate dei collant, tirati via con un unico gesto assieme alle mutande, di cui si indovinava il biancore leggermente segnato nel mezzo.

«Guarda, guarda!» diceva il Gatto aprendole di fronte ai miei occhi. «Dove trovare una traccia, un segno? E dove sarà adesso la Meringa, in questo momento, di notte, nell’ora in cui nelle strade si cominciano a sguinzagliare da tutte le parti stupranti e stuprate, e le ruote di quell’investitore cominciano improvvisamente a cantare? Mi sembra di vederlo... Si muove piano, scivola per le strade senza fare rumore, come a motore spento. Il muso della sua macchina è scuro e bombato, il paraurti tutto schizzato e incrostato. Dietro il parabrezza la sua testa è rilassata eppure puntata, mentre percorre le strade con gli occhi socchiusi, sembra addormentato. Si è svegliato da poco, è uscito in silenzio dalla sua casa, come ogni notte, dopo essersi lavato e rasato, ed essere disceso senza fare rumore lungo le scale deserte, addormentate. “Sto solo facendo i primi giri per scaldare il motore, non pensate...” si dice, immobile dietro il parabrezza, sbadigliando. “È ancora lunga la notte! Mi sono lavato i denti, mi sono pettinato, ho fatto colazione ascoltando alla radio quelle musiche trasmesse per chi, come me, lavora di notte, ho calzato le scarpe da guida a suola zigrinata, perché non scivolino sopra la pedaliera sul più bello, ho infilato i mezzi guanti, per tenere ben saldo il volante nei momenti d’impatto. È questa la notte! Il bene, il male, le distinzioni, le differenze tra chi mi si para davanti... Come avete detto? Non ho capito, sono un po’ duro d’orecchi. Voi non sapete cos’è la notte! State alla larga, se ci riuscite. Io vi falcio!”»

«Oh, sei qui, finalmente! Ti aspettavo.»

La Musa aveva alzato entrambe le braccia, nuda, nel vano della porta.

«Vieni da me! Vieni dentro! Ci lasciamo e ci ritroviamo. Ti ricordi dov’è la mia via, la mia casa, attraversi la città, di giorno e di notte, passi indenne per le sue strade, ti muovi leggero sul fango, come un trampoliere, entri, tra mille porte, proprio dentro la mia, sali su per le scale, passi coi piedi sopra quella griglia di vetro illuminata... A proposito, dovrò trovare prima o poi la forza di dirti che cosa c’è là sotto... Avanzi fino alla mia porticina che ti si apre all’istante, fino al mio corpo nudo e aperto e creativo e caldo. Vieni in bagno, mi stavo depilando le gambe.»

La seguii mentre camminava tenendomi per mano. Aveva ai piedi un paio di scarpe da ginnastica dalle stringhe un po’ sfilacciate.

«Siediti lì» mi disse indicandomi uno sgabello, «intanto stiamo vicini, parliamo. Me la sbrigo in fretta.»

Si era seduta sopra la tazza del water, teneva una gamba sollevata e tutta ripiegata, col calcagno contro il bordo del coperchio abbassato, l’altra allungata e distesa, a terra, aveva acceso un depilatore lì vicino.

«Mi ha telefonato poco fa l’editore» disse, alzando la voce perché il motorino del depilatore aveva già cominciato ad andare.

«Ah, sì? Come mai?»

«Abbiamo parlato un po’ di lavoro. Ha per le mani uno scrittore che vuole rilanciare il romanzo storico. Il libro è già pronto, se è per quello, si potrebbe già consegnare allo stampatore. Solo che l’autore è bloccato sulla scelta del periodo storico. È indeciso se ambientarlo nell’antica Cappadocia oppure nel Far West.»

«Ma come! Se il romanzo è già pronto!»

«Oh, per quello non c’è problema! Basta cambiare qualche copricapo, metterci qualche augh! Ecco, una è finita... Allungami, per favore, quella spugnetta!» disse passandosi una mano su una gamba. «Abbiamo parlato un po’ di affari, abbiamo fatto un po’ il punto della situazione, abbiamo riso un po’. Poi l’editore è diventato improvvisamente silenzioso. “Che cos’hai? Cosa c’è che non va?” gli ho chiesto. “È per quel nuovo scrittore che mi hai mandato? Ma guarda che quello, per me, è un’altra cosa, lo sai, è una cosa tra me e lui solamente, non sono disposta neppure a parlarne.” “Oh, no” ha sospirato, “non è quello! Lui bisogna lasciarlo andare, lo so. Verso dove ancora non si capisce. Diciamo solo così, per adesso... No, no, sono preoccupato per un’altra cosa!” “Che cosa? Che cosa?” gli ho chiesto. “Bisogna cavarti le parole di bocca!” “La Meringa è scomparsa!” si è lasciato andare alla fine.»

«È vero!» interruppi. «Non si sa dove sia! Siamo anche andati a vedere nella sua casa, abbiamo frugato nel suo armadio, nel cesto della biancheria...»

Il depilatore aveva ripreso ad andare, si sentiva il suo rumorino sfrenato, mentre la Musa se lo passava sull’interno perfettamente liscio di una coscia.

«“Ah, sì, quella tua segretaria...” gli ho detto. “La conosci?” mi ha chiesto stupito. “Non lo sapevo...”»

«La conosci anche tu?» domandai a mia volta alla Musa.

«Sì, non ci siamo mai viste di persona, ma ci siamo parlate. E, adesso te lo posso anche dire, è proprio di te che abbiamo parlato!»

«Di me? Ma come? E perché? Quando è successo?»

«È stata lei a telefonarmi. Si è presentata. Mi ha chiesto qualche ragguaglio su alcuni autori, per conto dell’editore, ha menato un po’ il can per l’aia. “Ma c’è poi un’altra ragione per cui l’ho chiamata...” mi ha confessato dopo un po’, all’improvviso, “una cosa di cui vorrei parlarle in modo del tutto personale, riservato e discreto, da donna a donna, se mi posso fidare...” “Non si preoccupi, mi dica pure” l’ho tranquillizzata, “non badi alle apparenze, io sono una di cui ci si può fidare. Sì, lo so, mi rendo conto di ciò che sono costretta a fare, di questi tempi, per cercare di tenere aperta la possibilità di passare comunque e a dispetto di tutto dall’altra parte, perché possano crearsi, forse, le condizioni, per svuotamento, per distrazione, per cortocircuito, per una fuga incalcolata e improvvisa di neutrini... E intanto andare avanti giorno dopo giorno così, gambe aperte, irrigazioni, pomate, un colpo qua e un colpo là, mi scusi la franchezza del linguaggio... Ma io non dimentico chi sono!” Mi ascoltava in silenzio. “Ecco” ha sospirato d’un tratto, “questo rende per me ancora più difficile dirle ciò che sto per dirle!” “Oh, non si preoccupi, mi dica pure” ho dovuto tranquillizzarla di nuovo, “sapesse cosa sento nel mio lavoro! Non si faccia problemi a parlare con me, sono abituata a tutto.” “Si tratta di uno scrittore...” ha detto alla fine. “Ah, bene, dovete mandarmi qualche altro scrittore bloccato? Di cosa si tratta? Mi dica.” “No, non è come lei pensa, stavolta, questo non è come gli altri, è un caso particolare, non so come dirle...” “Ah, ho capito! Ha esigenze particolari? Fa uso di protesi? È un oggettuale? Non si preoccupi, ho una certa esperienza anche di quello. Mi scusi ancora se mi esprimo in modo così professionale...” “No, no, non è questo!” mi ha interrotto. “Si tratta di uno scrittore che nessuno conosce, che non ha mai pubblicato niente, che nessuno vuole. L’editore lo sta attirando, si eclissa, sparisce, gli fa il vuoto attorno, lo sta saggiando, lo affronta. Sta andando avanti così da un pezzo. Lo fa venire in casa editrice e non si fa trovare, lo illude, lo inganna, ho persino paura che lo voglia spingere a un certo gesto... Io vedo tutto, so tutto, lo vado a ricevere alla porta, lo prendo per mano, lo accompagno, non so come fare ogni volta a trattenermi dal gettargli le braccia al collo.”»

Il depilatore continuava ad andare, la Musa se lo stava passando su un polpaccio che sembrava perfettamente liscio, facendo ruotare la gamba su se stessa.

«“Adesso ho capito!” ho esclamato. “È tutto chiaro: lei ne è innamorata!” Non ha detto più niente, per un po’. “Ma cosa posso fare per lei, a questo punto, non so, non capisco” le ho detto. “Sono confusa, non mi era mai successo di prendere un’iniziativa così, all’insaputa dell’editore...” ha ripreso a dire. “Le ho già detto che si tratta di una cosa del tutto personale, tra me e lei...” “Sì, sì, su questo lei può contare, gliel’ho già promesso. Ma mi faccia capire come posso aiutarla.” “L’editore vorrebbe mandare da lei questo scrittore!” ha detto alla fine, tutto d’un fiato. “Ah, forse adesso comincio a vederci chiaro! Ma perché vorrebbe mandarlo da me se non crede in lui, se lo illude, lo inganna? E poi, scusi la brutalità: chi si accolla le spese?” “Oh, non è così come sembra!” si è animata, “in realtà crede in lui come in nessun altro, conosce le sue possibilità, sa quanto vale. Eppure sembra volerlo annientare, non gli va bene niente, ma solo un istante dopo mi apre il suo cuore, mi confessa il suo disprezzo per tutti gli altri. È come se volesse irretirlo, entrargli dentro per pilotarlo, trasformarlo, plasmarlo, risucchiarlo. Ma per niente al mondo vorrebbe che diventasse qualcosa di diverso da ciò che è. È un combattimento, una guerra. È una storia lunga. Loro due si erano già conosciuti, in passato...” “Ma io cosa dovrei fare con lui, quale sarebbe il mio ruolo?” le ho chiesto. “Non lo sa neanche lui, oppure non me lo dice. È un caso talmente diverso... Ma non gli riferisca niente di quanto le ho detto, la prego, non accetti questo incarico nuovo se lui glielo propone, gli dica che non ha tempo, che è stanca, che non ha voglia di gettarsi in un’impresa così, che non era prevista, che non si capisce neanche che cosa si voglia da lei, in questo caso, che non ha più la mano per queste cose, da tempo, che ne ha perso addirittura il ricordo. Lo lasci a me, solo a me!” “La sua telefonata è crudele!” le ho detto. “Lei mi fa intravedere quello che aspetto da tempo e poi me lo toglie. Lei mi chiede molto.” Non capivo cosa stava facendo, se parlava troppo vicino alla cornetta oppure se la baciava.»

Lo sgabello su cui ero seduto oscillava un po’.

«Allora sapevi già qualcosa di me! Mi conoscevi già!» non riuscii a impedirmi di esclamare.

«Sì, ma non potevo farlo capire all’editore, quando ti ha portato per la prima volta da me. Però avrai visto la gioia con la quale ti ho accolto quando sei apparso all’improvviso con quella dalia all’occhiello! Come facevo a dirti che non ti volevo, che non ti accoglievo?»

«Ma adesso dove sarà sparita la Meringa? Cosa le sarà successo? E perché è scomparsa proprio in questo momento?»

La Musa aveva finito di passarsi il depilatore sulle gambe, lo aveva spento e posato sul bordo del lavandino, rovesciato.

«Senti» mi disse prendendomi una mano e passandosela più volte, per lungo, sulle gambe, «non sembra seta?»

Le pareti piastrellate del bagno registravano ogni minimo movimento dei corpi, della luce.

«Oh...» disse la Musa, alzandosi in piedi e venendo molto vicino, di fronte a me che stavo ancora seduto sullo sgabello, senza lasciarmi la mano. «Com’è bello stare così, io e te insieme, senza sottilizzare sul luogo in cui ci troviamo, nel solo luogo dove oggi è concesso a due come noi di incontrarci. Io tutta nuda e liscia e irradiante e offerta, tu a cazzo duro, lo sento bene, e proiettato e tranquillo e cieco. Come battono i nostri cuori! Le nostre mani intrecciate sembrano andare in pezzi. Cosa vogliono quelli? Il cortocircuito, la facile concatenazione di causa-effetto? Produzione-consumo? La caramella, il biscotto, la scopata? Tre o quattro colpi e via, si stampi! Imparino anche loro a respirare un respiro diverso, se ne sono capaci! Noi andiamo con altro passo e con altro tempo, per altre strade!»

Aveva allargato di fronte a me le braccia, la parete del bagno alle sue spalle palpitava.

«Eccomi qui!» disse passandosi una mano anche sotto le ascelle, per vedere se erano anche quelle perfettamente depilate. «Io sto sempre così. È inutile che mi rivesta tra un cliente e l’altro, per poi dovermi svestire e poi rivestire e poi ancora svestire. È questo che fanno gli altri? Che si vuole? Una storiella ben programmata, la gente che si sveste e poi si riveste, e poi ancora si sveste. Tempi scenici fissi, a cuccia, su la zampa, giù la zampa, biancheria intima, duplicazione, polluzione, liberazione. Perché mai dovrei ancora vestirmi, paludarmi? Mi muovo per questa casa come mi pare e piace, tocco gli oggetti, li sposto, profumo tutto ciò sopra cui mi siedo. Prendo in mano un dattiloscritto, di qualcuno di quelli che l’editore mi manda, lo leggiucchio, lo sfoglio mentre mi plasmo con l’altra mano un po’ di crema sopra le tette, sui fianchi, aspettando l’arrivo del suo autore. Li vedi, ce ne sono un po’ dappertutto di manoscritti, sul pavimento, su quella mensola bassa dove sono allineati saponi intimi, oli, quelle cose che servono a chi fa il mio mestiere. Anche quelli di chi viene per conto proprio, in silenzio, e nessuno l’ha mai mandato. Come quel donatore di seme di cui ti ho parlato. Guarda, quello per esempio è il suo diario! Me lo porta ogni tanto, lo lascia qui da me per una settimana, due settimane, me ne legge di tanto in tanto una parte, seduto sul coperchio del water, mentre lo sto preparando, e gli friziono le spalle, il torace, gli asciugo i piedi e le gambe, anche il cazzo che è già pronto ed eretto, mi ci chino sopra, glielo bacio sulla punta, se me lo consente...»

Diario del donatore di seme

Oh, no, non dovete pensare a un diario vero e proprio! Non ne sarei capace, non è il mio mestiere. Io sono un softwarista. Sono un donatore di seme e sono un softwarista.

Ma qualcosa devo pur dire di me. Vivo un po’ fuori mano, in un condominio isolato ai margini della città. Con una sorella (Grazia) e un padre (Pericle). La madre qui dentro non c’è.

La mia camera: lettino basso, tavolo di lavoro, doppio video, attacchi multipli, grovigli di fili, un angolo con gli attrezzi per body building. Vado a fare lì i miei esercizi, quando torno dal lavoro. Mi metto in tuta, oppure in calzoncini, se è estate. Ho cura del mio organismo. Ginnastica, alimentazione. Non solo per me, voi capite...

Pomeriggio. Sono appena tornato. Ma, prima ancora di entrare in casa, ho sentito che Grazia e Pericle stavano urlando. Li si sentiva fino in fondo alle scale. Mi è mancato il respiro. Succede spesso. Si azzannano, si fanno a pezzi. Sembra che la casa sia sul punto di andare in frantumi. Poi uno spaventoso silenzio. Non si può spiegare... Poco dopo vedo Pericle che gira per casa in cerca del cotone, dell’alcol, se lo passa su una mano ferita, su un avambraccio dove spicca il segno di un morso. Anche su una guancia, sul volto, certe volte. Busso alla stanza di Grazia, entro piano. È in piedi di fronte allo specchio. Si pettina e trema. Le faccio una carezza sui capelli. «Sorellina, perché fai così?» Certe volte si ferma col pettine in mano, di fronte allo specchio, ma senza pettinarsi. «Lo sai che per gli orientali i capelli erano il prolungamento del sangue?» mi dice. Restiamo tutti e due in silenzio, così, per un po’. Lei si limita a guardarsi i lunghi capelli rossi senza fare niente. «Mi crescono di più, se li guardo» dice di soprassalto.

Non parlano per giorni e giorni. A tavola, a ora di cena. Grazia sposta continuamente la sedia per allontanarsi da lui, mangia quasi fuori dal tavolo per l’orrore di doverlo anche solo sfiorare con un gomito, con una mano, mentre l’allunga per prendere il sale, un grissino. Sporca tutt’intorno di cibo, schizza il sugo, appoggia la forchetta sulla tovaglia, ci va sopra col gomito, con un braccio, dopo un po’. Pericle si morde le labbra, impallidisce. Certe volte urla, trema, l’affronta, balbetta, si fa male. Grazia corre a mangiare da sola nella sua stanza, si chiude dentro a chiave. Pericle si alza, cade per terra. L’accompagno nella sua stanza tenendolo per un braccio, lo faccio coricare sul letto, gli slaccio le scarpe, gliele tolgo, gli sbottono anche il colletto della camicia, gli allento la cravatta, gli tolgo qualche lungo capello rosso che ancora stringe nel pugno, strappato mentre mulinava le mani alla cieca, non vedeva. Gli chiudo le ante. «Cerca di riposarti, adesso» gli dico. «Ma perché è finita così?» si domanda. «Che cos’è successo?» «Non ci pensare, papà» lo tranquillizzo prima di uscire, «non serve a niente, non c’è niente da fare. Adesso chiudi gli occhi, riposa.»

Torno nella mia stanza, mi dedico per un po’ ai miei esercizi. Manubri, macchina isometrica, contrappesi. Per una mezz’ora nella casa si sente solo il rumore che fanno i miei attrezzi. Mi metto al tavolo, accendo, provo a smanettare un po’ sulla tavoletta digitizer. Sto lavorando al software di un videogame. Ha per tema la guerra tra le generazioni, tra i giovani e i vecchi, i genitori e i figli. Lo so che è argomento difficile, delicato... Il mio progetto è di dare agli appartenenti a ciascuno dei due gruppi una connotazione precisa, qualcosa come una maschera, un casco che contraddistingua immediatamente gli uni e gli altri, e di organizzarli in due grandi bande che si fronteggiano in un ambiente metropolitano. Scontri, agguati, una dotazione di armi leggere (il solito lanciarazzi o armi da taglio?). Ma potendo anche zoomare negli interni, appena uno scopre il cascomaschera di un appartenente alla banda rivale, magari mentre ne sta inseguendo un terzo in una strada, passando di fronte a una finestra. Carrellare dentro e continuare la battaglia anche in quel nuovo ambiente, mentre il gruppo è seduto a tavola a mangiare (con o senza casco d’appartenenza?), e allora di nuovo colpi, e posate che si trasformano in armi, qualcuno che fugge, inseguimenti, correndo lungo le scale, i corridoi, canalizzazioni anche all’interno della casa, lampi, esplosioni, quando qualcuno viene colpito (in un punto preciso al centro del cascomaschera, che si apre di colpo, appare per un istante prima di dissolversi la sagoma della faccia di un giovane – qualcosa come l’interno di una melagrana, direi – oppure di un vecchio – un intrico di rughe stilizzate, oppure, meglio, una ragnatela, mentre la macchina sgancia punti a tutto spiano).

Problemi da risolvere: come faccio muovere gli appartenenti a ciascuno dei due gruppi? Avrei pensato ai roller per i giovani e ai trampoli per i vecchi. In questo caso non c’è problema per gli esterni e le strade. Ma come si fa negli interni, quando si inseguono dentro le case, su per le scale e lungo i corridoi? Con i roller non ci sono molti problemi. Ma con i trampoli come si fa? Dovrei deformare continuamente gli spazi interni man mano che avanzano, perché li possano contenere. E quando vengono sorpresi? Con scatto rapido, stilizzato, d’immagine? O li faccio combattere solo in esterno? Ma io vorrei invece poterli seguire ovunque, nonostante questo complichi enormemente il mio lavoro, e poterli seguire tutti e ciascuno contemporaneamente.

Altro problema: i nomi da dare a ciascuna delle due bande. Nomi di colori (per esempio i rossi e i neri, o gli azzurri e i viola, dall’eventuale colore dei due cascomaschera), oppure sigle, o iniziali, o parole in lingue antiche, abbreviate? E poi: le due bande hanno un capo ciascuna? Direi di sì. Ma si capisce immediatamente che si tratta del capo – da qualche piccolo segno particolare e aggiuntivo sul cascomaschera, per esempio – oppure è in tutto e per tutto uguale agli altri e solo dopo essere stato colpito, nell’istante in cui il cascomaschera si apre come un guscio e si vede l’interno, si capisce che è il capo? Da che cosa? E che nomi hanno questi due capi? Devo trovargliene due. E naturalmente stabilire i punteggi. La squadra che ha il capo colpito perde la partita – come nel caso del re negli scacchi – oppure c’è un sistema cumulativo di punti per cui non è detto che chi ha il capo colpito non abbia totalizzato ugualmente dei punti? E il cumulo dei punteggi culmina – o può culminare – con una battaglia frontale dei due capi – uno di fronte all’altro e, un istante prima della battaglia, apertura automatica del cascomaschera in modo da vedere chi sono?

Insomma, i problemi da risolvere sono ancora molti. Domani andrò dalla Musa.

Sento piangere Grazia, nella sua stanza, da un po’. Non capisco se si è buttata sotto le coperte o se è di fronte allo specchio e si sta pettinando mentre piange.

Allora dove eravamo rimasti? Ah, sì, il cascomaschera dei due capi! Mi piacerebbe lasciar riposare per un po’ l’idea grezza, e cominciare a creare da subito qualche storyboard, e poi ritornare di nuovo alla storia, tagliare i due processi e vedere di farli interagire in modo diverso. Ma... di nuovo? Mi sembra che stia venendo un rumore dalla stanza di Pericle, in fondo. Deve essersi alzato, sta camminando lungo il corridoio reggendosi con le mani alle pareti. Si dirige verso la stanza di Grazia. Non avrà chiuso gli occhi da quando l’ho lasciato, sarà rimasto tutto il tempo a rimuginare, a soffrire. Non sarà più riuscito a contenersi, avrà dovuto alzarsi...

Non mi sono sbagliato. Ha fatto irruzione nella stanza di Grazia. Sento che sta urlando e tremando. Devo correre di là da loro, e separarli, calmarli, medicarli, e poi metterli a letto, rimboccare le loro coperte, accarezzarli. Difficile lavorare ancora, stanotte!

Sono di nuovo tutti e due a letto. Forse per questa volta è finita. Ah... liberarsi dalla prigione della riproduzione sessuata, da quest’inferno dei cicli, delle generazioni! mi dico mentre tutt’intorno è solo silenzio e dagli appartamenti vicini non viene il più piccolo rumore e anche gli alti palazzi che si vedono dall’altra parte del viale, da lontano, sono quasi tutti spenti, ma c’è sempre una piccola luce qua e là dietro una o due tapparelle, di qualcuno che ancora non si addormenta e magari si sta tormentando o si è svegliato di colpo e ha acceso la luce bassa del comodino e ricomincia in piena notte a soffrire, mentre in un’altra parte della città i miei gameti immersi in azoto liquido, dopo avere subito il processo di vitrificazione con la formazione di cristalli di ghiaccio amorfo, con il loro programma, il loro software perfettamente crioconservato a -80°C, sono in inerte attesa di venire scongelati e inseriti nel collo uterino di una sconosciuta, o di venire messi a contatto in vitro con gli oociti di un’altra donatrice altrettanto sconosciuta... Essere come quei misteriosi pesciolini del fango che nascono dalla pioggia... Ho letto poco fa sul giornale che gli individui adulti, con la periodica scomparsa dell’acqua, muoiono tutti, e che sull’ampia distesa del fondo torrentizio non rimane che fango tra i loro cadaveri essiccati. In qualche caso addirittura terra perfettamente asciutta. Eppure proprio lì, in quel posto inimmaginabile, in quella terra ormai priva d’acqua, sta seminata e in attesa la nuova generazione. L’acqua scrosciante delle nuove piogge farà schiudere le uova dove i piccoli sono già pronti e in attesa. Le prime pozzanghere saranno tutti asili infantili – l’articolo diceva esattamente così! – per gli argentei pesciolini, che cresceranno per pochi mesi senza sovrapposizione di generazioni, senza alcuna convivenza con i genitori, né con i loro figli.

«Buona quest’idea del videogame! Adesso gli scrittori ci danno dentro con questa storia, allegano al libro anche il cd-rom. Vedo che cominci a ingranare!»

Si interruppe.

«Però tutto il resto...»

«Che cosa?»

Il Gatto si era preso di colpo la testa tra le mani.

«E me lo chiedi?»

Si era allentato un po’ il nodo della cravatta, girando nello stesso tempo la testa da una parte.

«Sono stato zitto per un bel po’, non ho interrotto. Mi sono sorbito tutto in silenzio...»

«Cosa vuoi dire?»

«Ma come! Non hai sentito la storia di quella telefonata della Meringa alla Musa? Io non interrompevo, stavo tutto raccolto, eppure intanto pensavo, soffrivo. Che cosa credi? Sono in grado di sentirmi ferito anch’io, qualche volta! Nonostante tutto, non immaginavo che le cose fossero arrivate già a questo punto, tra voi.»

«Tra noi? Ma io non sapevo niente!»

Il Gatto scosse la testa più volte, chiuse gli occhi.

«E poi... hai qualche idea di come gestire questo colpo di scena?»

«Quale colpo di scena?»

«Ma la scoperta di questa telefonata della Meringa alla Musa!»

Si passò una mano sugli occhi, prima di ricominciare a parlare con la voce improvvisamente più bassa, quasi a sussurrare.

«E, per di più, tu non dici niente, non si capisce neppure se sei preoccupato per questa scomparsa. Il lettore non lo capisce, perlomeno. Non si è ancora capito se provi qualcosa per la Meringa, se sei in grado di provare qualcosa per qualcuno, in un modo o nell’altro, in qualche forma...»

«Oh, non credere, solo perché non lo do a vedere!»

Il Gatto aveva girato la testa di scatto, era apparso sulle sue labbra un sorrisino improvviso, esasperato.

«Bene, bene! Lo vedi? Adesso ci siamo! Adesso sì che possiamo cominciare a spiazzare e a spostare, a rovesciare, a mettere in movimento i vuoti, gli spazi, le strutture. Io non sapevo più come dirtelo, me ne stavo zitto, allibito, credevo non ti importasse niente di quello che sta succedendo, mentre andavi avanti per la tua strada, non sapevo come fermarti, come richiamarti. Ma non ti sei ancora accorto che qui dentro manca ancora qualcosa?»

«Non capisco... Che cosa?»

Aveva girato tutta la testa dalla mia parte, teneva gli occhi socchiusi e fumava, sorrideva.

«Manca la storia d’amore!» disse quasi gridando. «Non capisci che non c’è ancora la storia d’amore? Ci vuole, in un libro, a questo punto! Che cosa credi? Non parliamo poi in un capolavoro! Lo dico contro il mio stesso interesse, in questo caso, lo capisci anche tu...»

«Ma se prima dicevi che ci volevano le supposte per bocca, le gocce anali, bibite energetiche, telefonini, depilazione, telecomando!»

«Sì, sì, ma il lettore non è ancora contento, non è mai contento! Vuole anche quella, in sovrappiù. Se l’aspetta. Storia d’amore, storie d’amore, sentimenti, risate, combustione, gravitazione, in ambiente interscambiabile a caratterizzazione debole, reciproco schiacciamento di foruncoli, foto con l’autoscatto, qualche ricordo, mentre sbucciano una banana nana, guardando uno spot pubblicitario dove si vede uno che estaticamente cammina nel deserto con gli scarponi tutti slacciati, tutti eviscerati, gli occhiali dalle lenti di similpelle prendi tre paghi due... Ma lasciamo perdere, adesso. Lo sai cosa sta succedendo. Io ho cercato di nascondertelo un po’, finora, di attutire il colpo, ma la cosa sta diventando davvero grave, sono ancora più preoccupato. Ho dovuto denunciare la scomparsa della Meringa. È già venuto in casa editrice un ispettore.»

«Non lo sapevo... Un ispettore?»

«Che cosa ti prende? Adesso non ti preoccupare, sta’ calmo! Hanno già fatto un rapido controllo negli ospedali, negli obitori. Pare che non ci sia nessuna che corrisponda. D’altronde te lo dovevo pur dire, al punto in cui stanno le cose, tra di voi... Te l’avrei detto anche prima, ma tu andavi avanti a rotta di collo, non sapevo come fermarti.»

«Ma potevi farmi almeno capire! Che cosa ti ha detto questo ispettore? Ci sono indizi? Dimmi! Racconta!»

Il Gatto aveva abbassato la testa, pensieroso. Si era coperto per un istante la bocca con la mano.

«No, no, indizi purtroppo non ce ne sono. “Verrà lì un nostro ispettore” mi hanno detto, dopo che ho denunciato la sua scomparsa, “le farà un po’ di domande, procederà a un sopralluogo.” Infatti poche ore dopo è arrivato. Si è fatto annunciare in portineria. Gli sono andato incontro. Si stava intrattenendo con la centralinista, ma non credo per cose inerenti l’inchiesta, a occhio, perché lei si era alzata in piedi e sorrideva e arrossiva mentre l’ispettore le stava baciando galantemente la mano. “Ispettore Lanza!” si è presentato, quando mi ha visto arrivare. Mi ha dato la mano, ha sorriso.»

L’ispettore Lanza

Non credevo ai miei occhi! Era piccolo di statura, ricciolino, paffutello, rosato. Non avevo mai visto in un uomo una carnagione così rosata. Gli ho dato la mano.

«L’accompagno nel mio ufficio» gli ho detto.

«La ringrazio, ma prima vorrei dare un’occhiata alla casa editrice.»

Gli ho fatto fare un giro attraverso gli uffici. Si guardava attorno, si fermava a scambiare qualche battuta con i redattori e con i correttori, con i compositori, dava un’occhiata alle copertine.

«Ah, state facendo qualche excursus nella mitologia debole, vedo...» commentava «voci in presa diretta, statistica ragionata.»

«Vedo che lei si interessa di libri!» gli ho detto.

«Oh, se è per questo, non solo... Ma non so se posso dirmi davvero un intenditore» mi ha risposto.

Si fermava soprattutto a scambiare due parole con le donne, signorine, signore, all’ufficio stampa, lungo i corridoi. Si avvicinava molto alle sue interlocutrici, la sua voce diventava improvvisamente bassa, profonda, la sua carnagione si faceva per qualche istante più rosea, segno che arrossiva, baciava loro galantemente la mano prima di salutarle, a occhi chiusi, andavano via sbandate, emozionate. «Ma chi ci hanno mandato?» mi dicevo, accompagnandolo finalmente nel mio ufficio.

L’ho fatto sedere. Ha cominciato a farmi qualche domanda. Da quando non avevo più notizie della Meringa, che abitudini aveva, chi conosceva ecc... Ma intanto si guardava attorno, toccava con la mano qualche libro ancora in bozze che avevo sullo scrittoio, legato con un elastico.

«Ah, state preparando una collana di apocrifi contemporanei! Non lo sapevo...» non ha potuto impedirsi di commentare.

«Vedo che lei ci segue, se ne intende.»

«Oh, sì, quello sì, e non solo, non solo, se è per questo...»

Ha ripreso a interrogarmi sulla Meringa. Ma un istante dopo si è portato macchinalmente la mano sul fianco, dove doveva tenere la pistola. «Abbassi la testa! Stia giù!» ha fatto in tempo a gridarmi prima di balzare verso la finestra con la pistola in pugno.

«Ma cosa fa?» ho cercato di fermarlo. «Sono solo ombre che passano contro quella finestra, muratori, gente che si sposta sull’impalcatura che c’è contro la facciata della casa editrice, dietro quella cerata che avvolge tutto il palazzo, fino in fondo.»

È arrossito violentemente, è tornato a sedersi sulla sua poltroncina e, mentre accavallava una gamba, ho fatto in tempo a vedere che aveva suola e tacchi molto più spessi del normale, per sembrare più alto. Mi sono abbandonato sulla poltrona. «Andiamo bene!» mi sono detto.

«Non si deve preoccupare» si è sentito in dovere di rassicurarmi, «ho già fatto un giro di telefonate agli ospedali, sono già andato di persona negli obitori, con i dati che lei ci ha comunicato per telefono, l’età, le caratteristiche fisiche ecc. Mi sono fatto tirare fuori qualcuna dal frigorifero, quando l’età poteva in qualche modo avvicinarsi. Scivolavano fuori nude, stecchite, nei loro cassetti di metallo. Una, in particolare. Non aveva le braccia e le mani distese lungo i fianchi, ma raccolte sul petto, e sorrideva con dolcezza nel suo cassetto scorrevole. L’ho contemplata a lungo, mentre l’inserviente lì vicino non sapeva più cosa fare. “Come si chiama questa bella addormentata nel freezer?” gli ho chiesto. “E chi lo sa!” mi ha risposto. “Non sono ancora riusciti a scoprirlo. Noi l’abbiamo chiamata Marilyn!” Non riuscivo a staccare gli occhi dal suo volto. “No, no, non è questa!” gli ho detto. “Non è lei di sicuro. Chiuda pure.” Ma un istante prima che la spingesse di nuovo dentro, mi sono chinato su di lei, ho posato le labbra su una delle sue piccole mani surgelate...»

«Lei fa il baciamano anche alla morte?» gli ho chiesto.

Si è confuso.

«Io sono fatto così!» ha balbettato. «Mi innamoro continuamente, non posso farci niente.»

«Ah, bene, bene!» ho esclamato. «L’ho appena detto che c’è bisogno di storie d’amore, qui dentro!»

Ci siamo guardati in faccia. Mi ha sorriso con gli occhi sbarrati. Anch’io devo avergli sorriso allo stesso modo. Poi ha ripreso a farmi domande sulla Meringa. Le ombre dei muratori avevano ripreso a spostarsi dietro la cerata, venivano dei colpi forti di maglio, facevano tremare di tanto in tanto lo scrittoio. L’ispettore Lanza girava la testa da tutte le parti, si inquietava.

«Ma insomma...» mi ha chiesto d’un tratto «quando l’ha vista per l’ultima volta? In che occasione? Qui in casa editrice oppure da un’altra parte? Sa, io ho un certo fiuto per queste cose.»

Gli ho raccontato... adesso non sto qui a dirti i particolari, non mi sembra il caso... «Ma guardi che la cosa non è così semplice come potrebbe apparire a prima vista» gli ho detto. «Sì, sì, d’accordo, io e la Meringa... ma guardi che in lei si era fatto strada... l’ho saputo anch’io poco fa, si può dire, in un modo un po’ crudele, per giunta, del tutto inaspettato, improvviso... Non che non ne sapessi proprio niente, ma non pensavo in questa misura.»

«Ho capito!» mi ha interrotto. «C’è un’altra storia d’amore!»

«Sì, sì, se vuole dire così. Altroché! E chi più ne ha più ne metta!»

«Ma di chi si tratta? Si spieghi!»

«Mah... uno scrittore.»

«Di che tipo?»

«Di che tipo... lo sa solo lui di che tipo! Ma poi... scusi, tutto questo che cosa c’entra?»

«Oh, mi scusi se si è sovrapposta una certa mia curiosità che potrei persino spingermi a definire... professionale.»

Lo guardavo. Aveva abbassato gli occhi, ma nel far questo il suo sguardo era caduto sulla propria scarpa dal tacco così esageratamente alto, luccicante. Aveva messo di colpo anche l’altro piede a terra.

«Dove sta quest’altro scrittore?» mi ha domandato un istante dopo, confuso.

«Mah... dove sta? Lo sa solo lui dove sta... a casa sua, se ne ha ancora una, per strada, un po’ di qui e un po’ di là, dalla Musa...»

«Di che musa si tratta?»

«Ma quale musa vuole che sia! Di Musa ce n’è una sola!»

«Dovrò farmi dare qualche risposta anche da questa Musa, se il caso non si risolve in fretta, prima o poi.»

«Se ci riesce!»

«Ma lei non lo aveva capito, in qualche modo?» mi ha chiesto ancora.

«Che cosa?»

«Mah... che c’era del tenero tra la donna scomparsa e quello scrittore!»

«Come facevo a non capirlo, se lei si emozionava quando lui arrivava in casa editrice, si profumava, correva a riceverlo alla porta, lo portava in giro tenendolo per mano, andavano tutti e due lungo i corridoi, sbagliavano le porte, sembravano camminare sopra i biscotti. E lei non faceva che parlarmi di quello scrittore, anche quando stavamo assieme, di notte, voglio dire... ha telefonato persino alla Musa, ho appena saputo, ne sono ancora scosso.»

«Ho capito!» si è illuminato d’un tratto. «Un rapporto à trois!»

Mi sono passato una mano sul volto.

«Mah... se è per quello anche a quattro, se mettiamo in conto anche la Musa!»

Dalla facciata venivano colpi sempre più forti, cadenzati, si sentivano grandinare da tutte le parti calcinacci, segno che stavano facendo cadere tutti gli intonaci vecchi, per mettere a nudo le pietre vive, i mattoni.

«Che cosa sta succedendo, qui dentro?» ha esclamato l’ispettore alzandosi in piedi di scatto.

«Venga con me» gli ho detto prendendolo sottobraccio, «la porto nella casa della scomparsa. Immagino che dovrà fare un sopralluogo anche lì!»

Durante il viaggio nessuno parlava. Ero salito sull’auto dell’ispettore. Lui guidava. Ma, poco prima di arrivare a casa della Meringa, si è animato per un istante. «Che situazione insperata!» ha detto senza girarsi, emozionato. «Portare con la mia auto un editore... Proprio io, che faccio di mestiere l’ispettore ma che sono anche, che sogno anche, perlomeno, che mi illudo di essere anche... Non so se ha capito...»

Ma ormai eravamo arrivati. Siamo scesi, gli ho fatto ispezionare la casa. Girava attraverso le stanze, nel bagno, reggendo con una mano una piccola borsa che aveva preso dall’auto. Ho fatto vedere anche a lui l’armadio, la nube dei vestiti. È arrossito improvvisamente. Non ha saputo trattenersi dall’allungare le mani verso un paio di abiti leggeri appesi alle grucce, e di affondarvi la faccia aspirando rumorosamente il loro profumo. Ho improvvisato anche di fronte a lui quel numero della biancheria sporca, facendola scaturire a due mani dal cesto.

«Non so se c’è qualcosa che può interessarle, qui dentro» gli dicevo sciorinando davanti ai suoi occhi gonne leggere, camicette da lavare, reggiseni, quei famosi collant con le mutandine bianche appallottolate, un po’ segnate in mezzo, «se riesce a trovare qualche piccolo indizio, qualche traccia...»

«Oh, sì» ha detto allungando incontrollabilmente la mano, «queste qui me le prendo!»

Ha infilato il groppo di mutande e collant nella borsa, spingendole dentro a forza, con le dita. Era fermo di fronte a me, con gli occhi appannati. «Si calmi, si calmi!» gli ho detto. «Non dev’essere molto che lei fa l’ispettore, mi pare, dall’età, ma non solo da quello, se posso permettermi di osservare...»

«Be’, sì, in effetti sono ispettore da poco. Faccio questo mestiere, ma le mie aspirazioni sarebbero altre, non so se ha capito, lei che è editore...»

«Ma certo» mi sono arreso alla fine, «scommetto che scrive!»

Mi ha guardato con gli occhi velati.

«Accidenti! Come ha fatto a capirlo?»

Mi sono lasciato cadere su una seggiola bassa che c’è ai piedi del letto. Succede sempre così, non appena scoprono che sono un editore. Dovunque vada, in qualunque posto. Mi fermano per la strada, mi rifilano un dattiloscritto mentre sono fermo a un incrocio col finestrino dell’auto abbassato, buttandolo dentro da una macchina ferma di fianco, allo stesso incrocio. Sono già seduto sopra la tazza, in un cesso pubblico, quando l’inserviente bussa alla porta. «Dottore, ha dimenticato la carta!» dice gentilmente da fuori. Saltello a piedi uniti e coi calzoni abbassati fino alla porta, metto fuori la mano, prendo il segmento di carta ripiegato tre o quattro volte. Lo apro: c’è sopra l’epopea romanzata di un venditore porta a porta di fon per le orecchie, vergata in caratteri cuneiformi, l’equivalente a stampa di più di tremila pagine in corpo note, scritta in soli tre giorni e in stato di trance da un commercialista cleptomane, si assicura nella premessa, dopo avere subito l’amputazione di un papilloma al glande. Mi avvicinano mentre sono seduto su una panchina e mi sto scaccolando il naso dietro un giornale di critica letteraria. Qualche signora in scarpe da ginnastica di astrakan mi rifila la storia di una cartomante ninfomane affetta da piorrea. «È solo un saggio di quello che so fare» mi confida, «se ci vuole mettere il naso...» Quando passo vicino al ricovero per anziani mi viene sempre incontro festosamente un vecchietto malfermo sulle gambe, con una paresi masturbatoria alla mano destra. Cambio marciapiede, attraversa anche lui tutto un po’ tremarello, con un fascio di fogli arrotolati che gli spunta dalla tasca mezza sfondata della giacca... Scommetto che è un dattiloscritto!

Mi sono girato verso l’ispettore Lanza, che era rimasto in piedi al mio fianco, silenzioso. «Se posso farle vedere qualcuna delle mie piccole prove, di tanto in tanto, quando ho pronto qualcosa...» ha detto con un filo di voce, emozionato.

Ho allargato le braccia. «Cosa le devo dire... me le porti!»

«Oh, la ringrazio!» si è animato. «Vedrà che non la disturberò molte volte. Solo quando ho qualcosa che mi sembra adatto, di tanto in tanto, quando mi pare possa aprirsi per me un piccolo spazio, o che possa al contrario contribuire a crearlo, ad allargarlo, quando mi parrà che si senta il bisogno di spiazzare, di rovesciare, di innestare...»

«Ho capito» mi sono detto, «dovrò mandare anche questo qui dalla Musa!» Mi guardava con gli occhi un po’ imbambolati. «D’accordo, d’accordo, ma di che cosa si tratta?» gli ho domandato per farlo calmare, controvoglia.

«Mah... sono delle storie d’amore, favole per adulti, in un certo senso, si può dire...»

«Ah, bene, bene!» mi sono animato a mia volta, a questo punto. «Anzi, di bene in meglio! Se n’è accorto anche lei che mancano storie d’amore, qui dentro!» Mi sono alzato, gli ho stretto la mano. «Lei è dei nostri!» gli ho detto. «È imbarcato!»

Mi ha sorriso. Stava in piedi di fronte a me, emozionato, sembrava che dentro la testa gli si fosse acceso un bonus da un milione di punti...

«Allora, cosa ne dici? Non ti sembra che abbia un certo talento anch’io?»

«In che senso?»

Il Gatto girò la testa dall’altra parte, quasi di scatto, perché non potessi vederla. Non si capiva se si era incupito di colpo oppure sorrideva.

«Niente, niente, dicevo così per dire...»

La sua mano tremava, mentre si accendeva la sigaretta tutto chinato sulla fiamma.

«Ma adesso torniamo a noi... Non mi ha saputo dire niente, alla fine, quell’ispettore. Quante persone che escono di colpo così, senza lasciare traccia, che passano dall’altra parte, se c’è un’altra parte... “Ma che idea si è fatta?” gli ho chiesto. “Cosa pensa?” “Niente, niente” ha risposto, “io non penso assolutamente niente!” “Ci avrei giurato...” mi sono detto.»

Il Gatto cambiò di mano alla sigaretta, per potermi prendere sottobraccio.

«Ma dove sarà adesso la Meringa? Cosa le sarà successo?» si animò stringendomi per un istante più forte. «C’è qualcosa che possiamo fare noi due, per trovarla? Che cosa strana... nonostante tutto, io e te, ancora qui, insieme, sulle sue tracce. Ammesso che non sia lei a essere sulle nostre tracce, qualche volta mi lascio andare a sperare... Ma come fai a essere così tranquillo?»

«Oh, non credere! Non lo sono affatto!»

«Io qui con la mia camicia, la mia giacca, la mia cravatta. Tu... ma come diavolo sei vestito? Sembri un mendicante!»

«Be’, sai, ho perso l’abitudine di vestirmi. Non ho nessun impegno da molto tempo, non vedo nessuno, non ho un posto...»

Stava venendo verso di noi, sullo stesso marciapiede, un vecchietto con un fascio di fogli che gli spuntava dalla tasca sfondata della giacca. Avanzava tremando e quasi ballando sulle gambe. La sua mano destra, chiusa ad anello, vibrava ritmicamente di fronte alla bottoniera dei calzoni.

«Accidenti! È quel vecchietto con la paresi masturbatoria!» dissi al Gatto.

«Hai visto? Cosa ti dicevo? Non ti racconto balle! Svelto, svelto, tagliamo!»

Era ormai a poche decine di metri. Si era messo a ballare, nello sforzo di camminare più in fretta verso il Gatto. La sua mano andava sempre più forte, incontrollabilmente.

«Cazzo! Come ci dà dentro oggi!» sogghignò il Gatto trascinandomi dall’altra parte della strada. «Chissà cos’avrà visto di bello? Cosa ci sarà in arrivo, qui dentro?»

Le due matrici

Eccomi ancora qui, a gambe aperte di fronte al video anche quello a gambe aperte, fiamma contro fiamma. È durato un secondo. Poi l’immagine è ritornata. L’immagine. «Televisione: trascrizione a distanza di immagini in movimento. L’immagine da trasmettere è proiettata su uno schermo di materiale fotoelettrico diviso in piccole sezioni, ognuna delle quali in seguito al bombardamento elettronico fornisce corrente elettrica proporzionale all’intensità luminosa. I segnali elettrici contenenti le informazioni vengono trasmessi a distanza modulando i segnali a radiofrequenza. In ricezione il segnale viene estratto dalle oscillazioni a radiofrequenza e tradotto nuovamente in variazioni di intensità luminosa tramite il tubo a raggi catodici. La trascrizione si basa sul fenomeno di persistenza (0,1 S ca) delle immagini sulla retina. L’immagine viene quindi riprodotta sullo schermo televisivo scandita da un certo numero di righe parallele a una determinata frequenza, eccetera eccetera» Questa, si sa, la definizione. Ma nel caso del taglio di una vagina depilata, aperta, immobile, a lungo, a inquadratura fissa? Come una mucosa scatenata, cieca, che inghiotte. Di fronte all’immagine speculare di se stessa, per di più! La sua immagine, ora, inquadrata a lungo, la posso per giunta bloccare col fermo immagine, per molto, per sempre, persino, teoricamente, volendo, mentre lei nel frattempo è altrove, è diventata già un’altra cosa, è morta. Potrebbe essere ormai l’immagine di grado zero di una mucosa primordiale morta che continua a inghiottire. Cancellazione (o passaggio?). Potrebbe essere l’immagine ravvicinata al massimo di una persona già morta al momento della ripresa, sequestrata, scomparsa, segregata solo per questo, addirittura, volendo... per inghiottire fingendo di irradiare, per irradiare fingendo di inghiottire. Un’immagine...

«Che cosa cazzo è questa roba?»

«È una lettera di quell’Interfaccia che scrive alla Musa. Non ti ricordi?»

«Ah, sì, mi ricordo. Sta girando il coltello nella piaga, mi pare...»

... Un’immagine da trasmettere per sempre, solo questo, per sempre, a inquadratura fissa, progressivamente, su tutte le televisioni del mondo, su tutti i canali, inglobando a poco a poco tutte le altre trasmissioni, tutte le altre immagini, risucchiandole tutte, solo questa immagine, infine, per sempre, tutti a fissare alla fine solo quel taglio nella bolla del video, in tutto il pianeta, trasmessa nello spazio da tutti i ripetitori, i satelliti, le astronavi, su tutti gli altri pianeti, persino su quelli dove arriverà tra milioni e milioni di anni, solo quella e nient’altro, tutto in fuga verso quest’immagine concentrata, essenziale, tutti dentro quest’immagine terminale, potenziale, le altre immagini, tutto, cose, persone, tutte le loro immagini potenziali, tutto quanto là dentro, a capofitto. Per andare dove? Chi lo sa! Chi lo sa se c’è un dove. Chi lo sa se c’è un’altra parte, se non è questo l’unico modo di passare dall’altra parte, prima o poi... Tutti progressivamente imbozzolati, tutti risucchiati. Di fronte a un’immagine che è invisibile, in fondo. Perché esiste poi la matrice? La si può veramente vedere? Si possono veramente vedere i genitali? Nessuno in realtà è mai riuscito a vederli. Mi sorprendo a pensare questo, certe volte, anche mentre sono per strada e incontro qualche coppia avvinghiata dietro un angolo, in una macchina in sosta. «Be’, di questi due proprio non lo puoi dire...» obietto a me stessa. «Fra un po’ andranno a casa, o in qualche pensioncina, se non hanno una casa dove andare, o non ce la fanno neppure ad arrivarci, al punto in cui sono, si spoglieranno in fretta una di fronte all’altro coi genitali eccitati, si staranno già toccando in questo momento, se li staranno reciprocamente guardando dentro la nicchia dei loro corpi accostati...» Eppure no, neanche loro, mi dico. Credono di vederli ma in realtà non li vedono, non hanno più possibilità di vederli di quella che ha di vedere se stesso uno di quegli organismi elementari sottomarini, uno di quegli squarci primordiali pulsanti che vivono immobili, ciechi, nelle zone più profonde e più buie degli oceani... Neanche quando incontro qualche coppia sposata e addirittura coi figli accanto, neppure quando vedo qualcuno fermo su una macchina a contrattare con una donna seminuda ferma sul marciapiede, o qualche vecchia puttana dalle labbra pesantemente dipinte, seduta al tavolino di un bar. «Be’, questa poi è impossibile proprio... e neppure quell’altro che le siede vicino e sembra il suo vecchio pappa!» E invece no, no, neanche loro! Anzi loro meno ancora degli altri, in un certo senso. E lo stesso è per il coito. Nessuno ha mai conosciuto davvero l’esperienza del coito. Anche se sembrerebbe il contrario, e mai come adesso, in realtà nessuno, veramente e letteralmente nessuno, e mai come adesso, conosce, anche se non ci pensa, non lo sa, nessuno ha coito né coirà, e non si può dare perciò spiegazione al fatto che uomini sempre nuovi nascano, almeno così parrebbe dalle immagini che riflettono, siano nati e nasceranno in futuro.

Ho letto non molto tempo fa su un giornale la notizia di un coraggioso ragazzo che ha salvato una donna in una casa in fiamme. Incurante dell’incendio ormai molto esteso, scoppiato per cause ancora da precisare in piena notte, si è gettato sfondando la porta nella casa invasa dal fuoco. Nessuno però sa, mi sorprendo certe volte a fantasticare, che forse, poco prima di portarla fuori in braccio tra le fiamme e il fumo, trovandola sul letto con la vestaglia appallottolata e nuda dalla cintola in giù, in un momento di esaltazione il ragazzo si è incontrollabilmente e freneticamente accoppiato con la donna, lei consenziente, anch’essa in un momento di esaltazione, tra le fiamme... Ecco, forse loro due sì, mi lascio andare certe volte a pensare, forse loro due e loro soltanto, mentre le fiamme salivano da tutte le parti e avvolgevano tutto, forse sono i soli cui è stato concesso di conoscere l’esperienza del coito. Ma lo so che questa è solo una fantasia della mia mente, un sogno.

Mi avvicino di più al video, allargo ancora di più le mie cosce, mi spingo avanti fino a toccare con il mio taglio l’immagine riflessa del suo taglio altrettanto scuoiato. Non si capisce se è immagine immobile e viva o se è il reperto di qualcosa di terminato, di scomparso, di morto, come la luce che arriva dai pianeti collassati da tempo, perché solo il leggero sfarfallio dei punti elettrici sembra farla pulsare. Sento contro il mio taglio nudo il leggero tepore della bolla del video tutta squarciata, avverto lo sfrigolio delle sue radiazioni elettromagnetiche. Ogni donna, si sa, ha al centro del proprio corpo il segno della sua scomparsa, ogni immagine ha al proprio centro il segno della sua scomparsa. Rimane alla fine solo il taglio, il luogo della scomparsa (inghiottimento o autoinghiottimento?). Ma adesso cosa succede? Adesso che siamo l’una di fronte all’altra, l’una contro l’altra? Quale delle due è l’immagine? Quale delle due ne è l’immagine? Quale delle due inghiotte l’altra? Si inghiottono contemporaneamente l’un l’altra? E allora quale spazio si apre? Cosa si crea in mezzo? Forse una terza matrice tra le due matrici? E se in questo istante io fossi gravida, mi dico, al nono mese, e anche lei fosse gravida al nono mese, e fossero già iniziate per entrambe, l’una contro l’altra, specularmente, la dilatazione, le doglie. E lo squarcio si aprisse sempre di più, si allargasse fino a comprendere quasi tutto lo schermo, da una parte e dall’altra, e fossero già apparsi al centro i proiettili dei due piccoli crani puntati, da una parte e dall’altra, l’uno contro l’altro, e ciascuno dei due squarci li espellesse infine con tale forza al momento del parto che ognuno dei due finisse dall’altra parte, il suo fuori dal video, nel mio squarcio, il mio nel suo squarcio al centro della bolla del video completamente aperta... E allora, anche qui, chi inghiotte e chi espelle? O espelliamo tutte e due? O inghiottiamo tutte e due? Espelliamo tutte e due ciò che è inghiottito da ciò che è espulso? O tutte e due inghiottiamo ciò che è espulso da ciò che inghiotte? Parto, doppio parto o assenza di parto? Di immagine, di fecondazione... Ma perché poi parlo di queste cose con lei? Fecondazione... Forse perché ho un certo appuntamento, quest’oggi. Ho in mente qualcosa, gliene parlerò, prima o poi...

Stacco il mio taglio dal suo taglio. La sua immagine mi sembra sempre più immobile, fissa. Non si capisce, ancora, se è di una persona viva oppure morta, scomparsa, e che può esprimere solo così il punto e il luogo della sua scomparsa, oppure se l’ho bloccata io col fermo immagine. È rimasto un po’ di bagnaticcio, alla fine, sulla bolla del video. Non si capisce se è sgorgato dal mio taglio oppure dal suo, dall’altra parte.

«Hai sentito che roba?»

In piedi di fronte a me, con entrambe le braccia sollevate, la Musa si stava depilando le ascelle.

«Mi ha telefonato un certo ispettore Lanza, poco fa» disse d’un tratto, toccandosi con le dita l’interno di una delle ascelle, per controllare che fosse ben rasata.

«Ah, sì, quell’ispettore! Che cos’ha detto? Sa qualcosa?»

«Ha detto solo che doveva venirmi a fare qualche domanda. Era un po’ imbarazzato, si è scusato.»

Si sentiva solo il rumorino del piccolo rasoio elettrico che la Musa maneggiava assorta all’interno dell’altra ascella.

«Io non so cosa sta succedendo qui dentro» disse ancora, d’un tratto, «ma vedrai che alla fine... Però adesso non pensare più a niente, lasciati andare, fa’ giocare liberamente i piani, i tempi, gli spazi. Quando respiri il più profondo dei tuoi respiri sei solo al punto in cui puoi cominciare finalmente a trovare il tuo primo respiro. Ormai non c’è più niente da fare, abbiamo superato il punto di non ritorno, siamo partiti, siamo in viaggio, la nostra voce sale, si espande. Glielo dico certe volte anche all’editore, quando, dopo avere parlato di tutti gli altri, mi chiede: “E il mio autore? Che cosa ne dici, tu che te ne intendi? Come sta andando?”. “Sono la sua Musa, quella è una cosa tra me e lui, lo sai bene. Il nostro viaggio è diverso.” Non aspettarti piccole onde di schiuma, vivaci, di quelle che si formano a riva, noi siamo di quelli che navigano su onde oceaniche lunghe, quasi invisibili all’occhio, ma dove la minima variazione d’inclinazione del piano d’acqua sposta in avanti enormi masse liquide, dove la spinta è tale che si può accelerare solo rallentando, e rallentare soltanto accelerando... Ecco, ho finito, le mie ascelle sono lisce, perfette, profumate, i miei orifizi spandono odori. Credi a me, non c’è in questo momento, da nessuna parte, nessun’altra musa che stia così, nuda e lucente, di fronte al suo autore, in piedi, come una cavalla, in un cesso, mentre lui la tiene stretta, l’abbraccia, a cazzo duro, e le cinge il culo, le spalle, e poi l’incavo profumato e profondo delle reni, e lei lo tiene abbracciato a sua volta, e gli getta il volto tra il collo e la spalla, con la sua piccola orecchia profumata e tutta piena di anelli, e la sua bocca lo respira e lo bacia, a lungo, profondamente, come se non avesse neanche più gli occhi... Siamo usciti finalmente dal porto, stiamo cominciando a riaprire il gioco, il gioco grande!»

Canto dell’investitore

Fate presto voi a dire... Ma provate un po’ a immaginare di mettervi ogni volta la sveglia prima di coricarvi quando fuori c’è ancora luce, nel tardo pomeriggio, e tutti gli altri sono ancora in giro tranquillamente per le strade, nei negozi, e di svegliarvi poi in piena notte, quando dormono tutti nel vostro caseggiato e si sentono i rumori del sonno venire dagli appartamenti vicini. E di fare poi colazione da soli, di vestirvi con gli abiti adatti, e di scendere in silenzio le scale, ogni notte, a piedi o con l’ascensore, di fronte a quel suo grande specchio, e poi di sistemarvi nell’auto ancora fredda, posare le scarpe dalla soletta zigrinata sulla pedaliera, afferrare il volante con le dita che spuntano dai mezzi guanti, ogni notte, e di sentire il suono del motore che si accende di soprassalto nel garage silenzioso, prima di cominciare ad andare piano e quasi senza rumore, per le strade, e sbadigliare di tanto in tanto per il sonno. E di tenere ben fermo il volante quando vi si para di fronte il primo bersaglio, e sentite il colpo d’impatto contro il cofano, e vedete quella cosa che schizza contro il parabrezza, ogni notte, ogni notte, e di non girare il volante quando vi si para di fronte, se avete un po’ di fortuna, un bambino, per esempio, addirittura, qualcosa che si presenta come un bambino, perlomeno, e sentite il rumore delle sue ossicine spezzate quando le ruote ci passano sopra, e la sua testina si gira meccanicamente a guardarvi dal basso, dall’asfalto, e dovete fare la retromarcia per passarci sopra di nuovo quando capite che è ancora vivo, inseguendolo fino sui marciapiedi per finirlo, se riesce a trascinarsi in qualche modo sulle ossicine spezzate, come se al posto del paraurti aveste la gomma profumata di un autoscontro, mentre lacrime di stanchezza e di sonno vi stanno rigando le guance per uno sbadiglio. Non so cosa dirvi, io il mio dovere lo faccio, voi fate il vostro!

Premo più volte il pulsante dell’acqua. Aziono il tergicristallo per mandare via quella melma che schizza certe volte di colpo contro il parabrezza. «La visibilità deve essere sempre perfetta, c’è molta messe, stanotte!» mi dico scivolando verso le mie zone di caccia che cominciano a pullulare. Ecco qui le mie strade, è questa la mia città, la mia notte! Cominciano già ad aggirarsi qua e là stuprate e stupranti, si spostano sui roller saldati in un unico blocco inculato, insanguinato, muovono le gambe simmetricamente per non intralciarsi l’un l’altro nella corsa, come in un balletto. Ci vado dentro, li scremo, quando ne intercetto qualche gruppo che si muove a branco e mi passa davanti di colpo, filando, all’improvviso, mentre vado a prendere completa visione delle mie strade e delle figure che escono come me in piena notte, ogni notte, e che ormai conosco bene da tempo, una per una. Non ho neanche bisogno di fermarmi a fianco dei marciapiedi, e di acquattarmi tenendo il motore al minimo di giri, a fari spenti, prima di balzare improvvisamente in avanti per spezzare un po’ di ossa delle gambe, dal basso. Li centro senza neanche toccare il volante, mentre attraversano qualche strada più vasta, non devo neanche cambiare marcia, li vedo volare disarticolati nell’aria, sento scoppiare un istante dopo le loro teste sotto una delle mie ruote, quando torno per ripassarci sopra, si stampano indelebilmente sopra l’asfalto, colorate, tutte decorate. Mentre cominciano già a scendere in campo altri roller, sfrecciano da tutte le parti, si spostano a branco, si distinguono solo le macchie variopinte e filanti dei cascomaschera viola e azzurri, con quella sporgenza che presentano al centro, come un becco sfrenato, insanguinato, attraversano quasi volando gli incroci, vedo luccicare le loro armi sguainate. E si vedono anche venire avanti quegli altri sui loro trampoli alti, illuminati. Si scorgono in cima i loro cascomaschera neri e gialli che vengono avanti puntati. Anche questa notte la guerra comincia, ricomincia. Cambio lentamente la marcia, mi getto nel punto più profondo e più fitto, vedo volare da tutte le parti quelle cose squartate. Io non faccio mai differenze, non sto lì a guardare. Io fatturo! E questo ogni notte, ogni notte. Provate a pensare... non scendere a patti, non darsi altre illusioni, altre proiezioni.

Ecco, anche per questa notte il mio lavoro è finito, il bilancio è buono, mi pare. Torno a casa. Laverò come ogni volta il cofano dell’auto, i paraurti, mentre da alcune variazioni di luce si capisce che si prepara già ad albeggiare, oppure andrò a riposare per un paio d’ore, se sarò troppo stanco e se me lo sarò meritato. Laverò l’auto più tardi. Mi limiterò a metterla nel garage così com’è, ancora tutta incrostata. Scenderò magari più tardi, all’alba oppure nel pomeriggio, addirittura. Metterò la macchina fuori dal garage, srotolerò la canna dal chiodo, e le persone che passeranno mi faranno un cenno di saluto gentile vedendomi intento a lavare la mia macchina con la canna, a insaponarla, qualcuno della casa che conosco di vista, qualche coppia a braccetto. Magari mi avete visto anche voi, qualche volta, passando mentre ero intento a lavare l’auto, ci saremo scambiati dei sorrisi. La insapono un po’, prima, tolgo con l’acqua la schiuma dal parabrezza, sollevo uno per uno i tergicristalli tutti infangati, lavo il cofano, i paraurti, dove rimangono sempre quelle cose dure, incastrate, anche in quelle pieghe e in quei tagli e in quelle suture della carrozzeria dove è più difficile andare. Quando è davvero troppo sporca e ci vogliono pompe dal getto molto più forte per lavarla, la porto al garage. Gli inservienti che danno il primo colpo con la spugna e con l’acqua detersiva si guardano in faccia l’un l’altro, certe volte, quando vedono staccarsi sotto il getto potente quelle croste rapprese e quei pezzi d’osso, di carne, cespi di capelli, di peli, denti, cervici secche, infangate. «C’è qualche problema, ragazzi?» gli dico. «Occhio al lavoro! Sono stati giorni duri, di fango e di pioggia. Non è affar vostro sapere quali strade percorro!»

La guerra

D’accordo sui colori dei cascomaschera, allora! Mi sta bene il viola e azzurro per i giovani e il nero e giallo per i vecchi. Ma, in entrambi i casi, uno dei due colori deve essere dominante. Il nero per i vecchi e l’azzurro per i giovani. Colore dominante: largo. Altro colore: striscia. Solo nel caso dei capi di ciascuna squadra la striscia può essere ripetuta due volte (tratto di riconoscimento). I capi: più imprevedibili nei movimenti (studiare come) ma che, se colpiti, danno il massimo del punteggio (o addirittura si determina la fine della partita e la vincita dell’altra squadra – non ho ancora deciso).

Oppure: perché possa apparire il capo, l’altra squadra deve avere realizzato certe particolari condizioni di punteggio – successione di colpi andati a segno o simili. Oppure inaspettato, come un jolly?

Buona anche l’idea dei trampoli illuminati, per renderli visibili nelle battaglie notturne. Come se fossero fatti di plexiglas, fibra, e illuminati internamente. Riporterò l’idea sullo storyboard. Ma allora anche gli altri devono avere un elemento luminoso: le file delle rotelle, ad esempio.

Problema del cascomaschera: se gli appartenenti a ciascuna delle due bande possono venire inseguiti fin dentro le case (opzione preferita), come fanno, per esempio, a mangiare senza toglierselo? Con quella specie di protuberanza, di becco che hanno davanti? In questo caso potrebbero anche conficcarlo nel nemico abbattuto, in effetti (scatta in questo momento il punteggio, oppure quando l’altro viene colpito a distanza?). Per questo motivo il becco potrebbe rimanere insanguinato.

E non ho ancora risolto il problema dei nomi delle due bande. I “giovani” e i “vecchi” non mi piace. Neanche i nomi dei due colori. Devo trovare due nomi brevi e incisivi.

E poi, dove ho le idee abbastanza chiare, e ho disegnato già alcuni fotogrammi essenziali, posso già passare al betweening. E poi disegnare al computer gli ambienti e gli oggetti tridimensionali, pianificazione d’ambienti, creazione del layout.

C’è ancora molto lavoro. Ma qualche passo avanti l’ho fatto.

Anche oggi urla, colpi, capelli strappati, gocce di sangue sul pavimento. Sembra che tutto sia finito. Un secondo dopo, invece, uno dei due esce dalla sua stanza, o tutti e due assieme, Pericle e Grazia, camminano con gli occhi velati, le mani avanti pronte a scattare, a ferire. Si sentono gli urli fino in fondo alle scale, nel cortile, qualcuno si arresta là in basso e gira la testa verso l’alto a guardare. Cominciano a mulinare le unghie, mi sembra di vedere direttamente dentro i loro corpi gli organi interni soffrire, come in un calco di materiale trasparente. «Ma perché? Perché?» mi domando. «Perché tutto questo orrore, tutto questo dolore? Senza alcuna ragione, senza fine, senza scopo.»

Poco dopo ho visto uscire dell’acqua dalla porta del bagno. «Ci sarà il water tutto ingorgato» mi sono detto. «Grazia ci avrà gettato dentro ancora gli assorbenti, come l’altra volta, anche se l’ho pregata più volte di non farlo.» Sono entrato in bagno, mi sono tirato su una manica e ho ficcato tutto l’avambraccio nello scarico. Non mi ero sbagliato. Ho tirato fuori l’assorbente tutto gonfiato dall’acqua e insanguinato. Sono andato a buttarlo nel secchio dell’immondizia, in cucina. «Che cos’è successo, che cos’è successo?» mi ha chiesto Pericle con gli occhi sbarrati uscendo dalla sua stanza. «Ha buttato ancora gli assorbenti nel water? Adesso bisognerà chiamare di nuovo l’idraulico, fare spaccare tutto il pavimento anche questa volta, per liberare il tubo, bisognerà farci mettere una cerniera, a questo punto!»

«Ma no» gli ho detto per tranquillizzarlo, «non è niente, non è successo niente. Mi sono dimenticato di togliere il tappo del lavandino, è solo uscita un po’ d’acqua, tutto qui!» Non mi è stato neanche ad ascoltare, si è gettato nella stanza di Grazia, sono cominciati un secondo dopo gli urli e poi i colpi, di nuovo, ancora, ancora...

Ho lavato il pavimento, ho tolto le gocce di sangue, col detersivo e lo straccio. Sono andato a medicarli, prima uno e poi l’altra, nelle loro stanze. «Ma perché si gettano l’uno contro l’altra così!» ho continuato a domandarmi mentre passavo il batuffolo di cotone imbevuto d’alcol sulle loro mani, sulle tempie. «A testa nuda, senza niente che li protegga, senza cascomaschera!» Pericle mi guardava e taceva. «È una brutta ferita, stavolta» gli ho detto, «dovresti essere più prudente, più paziente.» Sono andato a medicare anche Grazia, mentre stava ferma di fronte allo specchio con il pettine in mano, e rideva e tremava. «Bisogna pulire bene, stavolta» le ho detto, «qui vicino all’orecchio, tra i capelli.» Si è allarmata.

«Che cos’hanno i capelli?»

«Ma no, non preoccuparti, non è successo niente ai capelli, è solo un po’ di sangue che è uscito vicino al sopracciglio, qui vicino. Va’ a dormire, adesso, stai ancora tremando, sarai sfinita, cerca di stare tranquilla, adesso, di dormire.»

«Ma perché mi succede questo? Perché è andata a finire così?»

«Non ti dare pensiero, non ti disperare, non serve, magari poi a poco a poco cambierà tutto, chi può dire... Adesso va’ a letto, ti rimbocco un po’ le coperte, ti spengo la luce, ti auguro una buona notte. Cerca di essere un po’ più serena, sorellina.»

Ha cominciato a pettinarsi in silenzio, con gli occhi socchiusi, di fronte allo specchio. «Mi sto pettinando il sangue» mi ha detto.

Adesso la casa è tranquilla, non so per quanto, perché è sempre possibile che da un momento all’altro ricominci di nuovo tutto. Sono nella mia stanza, lavorerò agli storyboard, poi farò un po’ di esercizi, una mezz’oretta, agli attrezzi, prima di coricarmi. Cara Musa, mia dolce amica, domani passerò da te, mi abbandonerò a occhi chiusi alle tue mani dipinte, ascolterò le tue parole e i tuoi baci mentre farai scorrere l’acqua sul mio corpo eretto, uscirò emozionato dalla tua casa, ripassando sopra quella griglia di vetro illuminata che c’è nel pianerottolo, salirò tranquillamente sugli autobus, e poi lentissimamente, senza fretta, lungo quelle rampe disarticolate di scale che conducono alla banca del seme, passerò di fronte a quella gabbiola di vetro dietro la quale siede quel giovane portiere orientale, poco più che un ragazzo, sempre intento a leggere fumetti, mi pare, salirò ancora una rampa, suonerò infine alla porta, vedrò prima di ogni altra quella signorina in camice bianco che c’è dietro il banco d’ingresso, dai capelli biondi, ricciuti, le fanno come un’aureola soffice attorno al volto, scambierò qualche parola con la dottoressa, prima di entrare da solo in quella stanza. Ascolterò per un po’ la musica soffusa della filodiffusione, poi comincerò piano piano a spogliarmi. Non mi limiterò a tirarmi giù la cerniera dei calzoni e a spostarmi di lato le mutande, come immagino facciano tanti altri che incontro certe volte mentre escono dallo stanzino – militari di leva, studenti a caccia di quattrini – dove sono rimasti soltanto pochi minuti, sfogliando il materiale che si trova là dentro, per ispirarsi, se occorre... Escono ancora rossi, con l’aria di chi ha appena fatto una rapina, o ha segnato con quattro schizzi il territorio. Passano a ritirare l’assegno alla cassa. Io non chiedo compenso, l’ho messo in chiaro fin dall’inizio. Ma adesso non voglio parlare male degli altri, chi può dire... Mi toglierò calzoni e mutande, mi spoglierò del tutto, rimarrò in piedi completamente nudo ed eretto, come appena uscito dalle tue mani, senza neanche pensare di dare un’occhiata a quel materiale, di introdurre cassette nel videoregistratore che c’è lì vicino, rimarrò in piedi in quello spazio ricavato da uno spazio più grande mediante pareti prefabbricate, sentirò per un po’ solo la musica della filodiffusione, la moquette contro la pianta dei miei piedi nudi. Ci sono delle riproduzioni di quadri, alle pareti. Mi domando, a volte, se può fare potenzialmente qualche differenza se nel momento di emettere il seme sto guardando quella madonna del Bellini oppure quell’Andy Warhol... Non piango, ma certe volte sento di avere gli occhi velati mentre allungo la mano verso uno dei contenitori sterili che ci sono sopra una mensola, del tutto identici a quelli per la raccolta delle urine, quello che in un’altra occasione è stato chiamato, forse un po’ troppo ampollosamente, «ampolla»... Andrò a scambiare qualche parola con la dottoressa, quando avrò finito, nel suo ufficio oppure, più informalmente, su una delle poltroncine della sala d’aspetto, oppure mentre sta in quello stanzino, quasi un disbrigatoio, dove ci sono i bidoni per la crioconservazione del seme.

«Ci farebbe piacere poter avere ancora tre o quattro donazioni da lei, se è d’accordo» mi ha detto l’ultima volta, «arrivare a una decina. La velocità dei suoi spermatozoi è ottima, sopporta bene il congelamento.»

È molto giovane, sembra poco più che una bambina. Certe volte le spuntano dal camice le scarpe da ginnastica e i jeans.

«Lo so che non me lo può dire, e non voglio affatto forzarla a farlo...» le ho detto allora «ma lei saprà di sicuro...»

«Non capisco, si spieghi meglio» mi ha incoraggiato.

«Volevo dire... lei saprà di sicuro se si stanno creando le condizioni, se ci sarà anche per lui un’occasione... sto parlando del mio seme, lei mi capisce... se crede che gli sarà riservato un destino, anche se non lo faccio per questo, non chiedo niente in cambio.»

«Ha ragione» mi ha detto, «non posso farle sapere niente di preciso, lei sa, è professionalmente vietato dare queste informazioni ai donatori, anche se, personalmente, lo vorrei. Ma le posso senz’altro comunicare che le sarà riservato un destino e un futuro, e che forse non è neppure tanto lontano quel giorno.»

Mi ha guardato e poi mi ha sorriso. Ha i denti davanti un po’ guasti, eppure il suo sorriso è talmente bello!

«Sì, sì, accidenti, ho capito! Questi qui vanno ormai avanti per conto loro. Come se non avessero più bisogno di niente e di nessuno. Si passano le battute l’un l’altro, le strutture... Però, però...»

«Però cosa?»

«Mah, si crede di poter andare avanti così, tagliando fuori qualcuno, anche un bel po’ di altre cose, si direbbe...»

«In che senso?»

«Questi personaggi dati così, come per gemmazione, per esplosione... E poi che faccia ha questo donatore qui, per esempio, che numero di mutande porta? E che faccia ha la commessa della merciaia dove va a comperare i suoi pedalini? Ha il naso all’insù o che le piscia in bocca? Guarda che il lettore queste cose le vuole sapere! Se no ti diranno che non ci sono i personaggi, quelli che sono abituati a identificare come personaggi.»

«Ma cosa ne so! È un diario che ha scritto lui, non lo dice!»

«Mah... dovresti saperlo. O perlomeno inventarlo.»

«Ma come si fa a scrivere un diario come dici tu?»

«Invece è così che si fa! Ho una faccia così e cosà, porto il numero tale di mutande, la commessa della merciaia dove vado a comperare i pedalini ha il naso che le piscia in bocca... E poi la marca del suo detergente liquido per l’uccello – fondamentale, in questo caso! –, del suo dentifricio a emulsione frenata, per le ascelle. Bisogna scriverle sì queste cose, così chi lo leggerà in futuro potrà pensare: “Ah, guarda qui! Usavano la tal marca di detergente liquido per l’uccello, facevano colazione con fiocchi di ravanelli soffiati, trasognati...”. E se ne faranno edizioni strenna sotto le feste, oppure nei centenari, ci metteranno a fianco della pagina scritta la fotografia della pubblicità televisiva del flacone, e quella del set dove si è girato lo spot del detergente, quella del regista, di sua moglie intenta a provarsi un reggipetto di forma e concezione nuova, pentagonale, durante una pausa della lavorazione. Lo si farà viaggiare via cavo, in Internet, lo si vedrà palpitare nelle bolle dei videoterminali di concezione nuova, inguinali, qua e là negli agglomerati, di notte, lungo gli stradoni sopraelevati, ricamati... “Accidenti, che libro!” diranno. “Questo sì che dà veramente l’idea di quell’epoca all’inizio di un nuovo millennio!” Ah... quante cose devi ancora imparare!»

Si scorgeva tutt’intorno una poltiglia d’auto che avanzava piano, evocata.

«E poi» continuò il Gatto, «a parte ogni altra considerazione sull’opportunità stilistica, costruttiva, di questi pezzi gettati dentro così, allo sbaraglio, mi pare... guarda che non si sa ancora niente della Meringa! La cosa sta diventando davvero grave, ho paura che sia successo qualcosa di tremendo.»

«Oh... no! E quell’ispettore? Ha scoperto qualcosa?»

«Vuoi scherzare? Che cosa vuoi che scopra quello lì! Non si capisce neppure cosa sta combinando. E cosa ci andrà a fare, adesso, per esempio, dalla Musa?»

L’ispettore Lanza va dalla Musa

«Oh, mi scusi... Mi ritiro un momento, signorina, per darle il tempo di rivestirsi.»

«Ma no, non si preoccupi, io sto sempre così, è il mio mestiere!»

La Musa stava immobile nel vano della porta. Si coglieva nell’aria l’eco del campanello che aveva cessato da pochi istanti di suonare.

«Cosa fa lì impalato, venga dentro!»

L’ispettore Lanza arrossì, abbassando gli occhi sulle cosce della Musa, che luccicavano un po’ a causa del seme che colava.

«Ah, sì, è appena andato via un tradizionale...» lei disse, intercettando il suo sguardo.

«Un tradizionale? Mi scusi, signorina, non capisco.»

«Ma sì, uno scrittore tradizionale, uno scrittore al galoppo, uno di quelli rubizzi. Recupero dei valori, i bei tempi andati, buona cucina, sapori genuini, la riapertura dei casini, la marchetta... Ma ho un altro appuntamento dopo di lei, venga dentro! Mi scusi se intanto mi preparo, mentre mi fa le domande. Sa, io ho i miei tempi, i miei ritmi.»

L’ispettore Lanza si scollò dalla ringhierina del pianerottolo. Fece un passo dentro la casa. La Musa aveva già richiuso la porta e, mentre lo precedeva camminando a piedi nudi verso il bagno, sentiva dietro di sé il rumore degli alti tacchi dell’ispettore contro il pavimento.

«Veda di non inciampare, con quei tacchetti!» disse senza voltarsi.

L’ispettore Lanza girò gli occhi per un istante nella stanza, oltrepassò il lettino per i massaggi, il lavabo.

«Venga pure!» stava dicendo la Musa, dal bagno.

L’ispettore mise dentro la testa, si ritrasse.

«Oh, posso attendere fuori, signorina, posso aspettare qui fuori che finisca!»

«Vuole scherzare! E quando mi fa allora le domande? Io ho un appuntamento dopo di lei, fra neanche un’ora. D’altronde lo sapeva già che mestiere faccio!»

«Sì, sì, questo sì! Mi sono anche documentato un po’, se è per questo, prima di venire da lei. Qualche scheda, anche altro materiale, sinceramente, ma solo per dovere professionale, mi creda, riviste, anche qualche cassetta, mi deve scusare...»

«E allora lo vede? Venga dentro, si sieda lì davanti a me, sul coperchio del water, che la possa vedere in faccia mentre le parlo.»

L’ispettore Lanza arrossì di nuovo, incontrollabilmente, mentre andava a sedersi di fronte alla Musa, che era già seduta a gambe larghe su uno spigolo opposto della vasca, i piedi sopra i suoi bordi, e aveva già staccato la doccetta dal suo gancio.

«Allora, mi dica, perché è venuto da me?»

L’ispettore Lanza si mosse un po’ sul coperchio, fece per accavallare una gamba, poi rimase con i piedi accostati, a terra.

«Mah... sto cercando di seguire le poche tracce che abbiamo, di connettere fili, possibilità, potenzialità...»

«Ho capito. Ma perché proprio io?»

«Ho saputo di una telefonata che ha fatto a lei la persona scomparsa. E anche del tema di questa telefonata. L’editore mi ha detto, mi ha fatto capire, che tra lui e la scomparsa c’era, sì, insomma...»

«Che scopavano!»

L’ispettore Lanza s’interruppe un istante, si confuse.

«Be’, sì, si può dire anche così... Ma che la persona scomparsa nutriva una crescente... sì, insomma... che si era innamorata di un’altra persona, uno scrittore, mi pare, che anche lei conosce...»

L’ispettore Lanza abbassò la testa, si passò una mano tra i capelli.

«Ma lo sa che ha dei bei riccioli biondi? Sono naturali?» chiese la Musa. «E quanti anni ha? Da quanto tempo è ispettore?»

«Da poco, da poco, questo è il mio primo caso.»

La Musa intanto aveva aperto la doccetta. Le sue cosce rigate luccicavano, anche il velo di corti peli era tutto bagnato e cremato.

«Allora, mi diceva, i fili, le tracce, le potenzialità... Ma perché proprio io?»

«Be’, sa, il suo ambiente, mi scusi, lei capisce...»

«Cosa vorrebbe dire?»

«No, no, non pensi male, non creda... non la sto incolpando di nulla! Ma sa, questo rapporto così particolare e stretto tra la casa editrice e lei potrebbe aver fatto venire in mente a qualcuno certe idee... non a lei, beninteso... a sua insaputa, naturalmente... a qualcuno del suo ambiente, voglio dire... Lei non sa quante persone vengono inghiottite, non riusciamo a trovarle più, oppure le rivediamo per caso molti anni dopo, magari riprese per un’ultima volta in un filmino, di quelli che hanno una circolazione ultraclandestina, segreta... la vediamo morire così sotto i nostri occhi, squarciata... urla, sangue, e poi certe altre cose, mi scusi, dappertutto... Dove è stata tenuta nascosta per tutti questi anni? Cosa avrà mai passato? Non ne sappiamo nulla... Oh, mi scusi ancora se tocco argomenti così tremendi con lei, non mi faccia dire... Ma dobbiamo prendere in considerazione tutte le possibilità. Lei è al centro di una rete sotterranea che va in molte direzioni, mi pare. Chissà se può darci qualche indizio, qualcuno che può avere saputo, che può avere pensato, nel suo ambiente, tra le sue conoscenze... perché mi sono fatto l’idea che lei ne conosca molte di situazioni, di persone che non tutti gli altri conoscono.»

«Oh, sì, questo sì, ci può giurare! Ne conosco di gente che va in giro di giorno e di notte, quando escono dalle loro case gli stupranti e le stuprate, e quegli altri che si affrontano spostandosi per le strade con i roller, i trampoli, e Ditalina dietro la cancellata di quel giardino pelato, quella schiuma di carne già tutta fuori, fosforescente...»

«Quale schiuma? Che carne?» domandò Lanza.

«Segno che se l’è spennellata con polvere di fosforo perché la si possa vedere da lontano anche al buio» continuò la Musa senza mostrare di averlo sentito.

«Polvere di fosforo?» balbettò ancora Lanza. «Io non capisco...»

«Si cominciano già a sentire quei rumori come di conati» continuò la Musa, «mentre affonda quella sua mano tutta disossata, e molti stanno già attaccati alla cancellata, buttano in avanti la testa per vedere, tra le sbarre, infilano tra l’una e l’altra le braccia, per cercare di arrivare a toccarla, le allungano con la mano qualsiasi cosa abbiano a tiro, un paio di occhiali, un orologio. Lei si ficca dentro anche quelli, li riconsegna tutti bagnati e impastati. Se li rimettono al polso senza neppure asciugarli, li inforcano di nuovo tutti glassati, tutti trasognati...»

«Gli orologi bagnati? Perché gli orologi sono bagnati? Di cosa sta parlando? Io davvero non riesco a capire...»

«Si sente gemere da qualche parte» continuò la Musa, «segno che anche Pompina è entrata in azione. Sta già succhiando con le sue grandi labbra siliconate, la sua gola tutta tatuata, imbandierata. Si buttano avanti in mezzo alle sbarre, coi calzoni abbassati, si scorgono le sue dita che escono ad afferrare i loro culi abbagliati, sbrodolati, per spingerselo dentro ancora più forte, sempre di più a ogni colpo, lungo la sua gola tutta istoriata. Si sentono le sue labbra siliconate lacerarsi di colpo, deflagrare, partono schizzi di sangue fin contro i parabrezza delle auto che passano lì vicino, in piena notte. Si getta sopra tutto quello che le capita a tiro, quando non ci sono in giro pezzi di carne da succhiare. Le tirano dentro le bottiglie, con forza, correndole a fianco con le macchine dai finestrini abbassati, se scambiano lo squarcio della sua bocca per il varco gommato di un contenitore per la raccolta del vetro. Le succhia mentre vanno in frantumi nella sua gola. Fende le strade con la sua bocca esplosa, spalanca la sua gola tatuata e insanguinata, mentre altre esplose cominciano già ad aggirarsi per le strade, e l’investitore comincia già a guardarsi attorno andando piano e come a motore spento, a sbadigliare.»

«Mi scusi, signorina, io proprio non capisco! Chi è questo investitore? E chi sono queste qui... come le ha chiamate? Ditalina, Pompina... E queste esplose?»

«Le esplose? Ma se ce ne sono sempre di più! Succhiano pezzi di carne fino a farsi scoppiare le labbra siliconate.»

«Come ha detto? Mi scusi, signorina...»

«Ma sì, si fanno caricare con tale forza che le loro labbra gonfie di silicone si squarciano in mezzo!»

«Pezzi di carne? Signorina Musa, mi scusi, non capisco.»

«Ma sì, sì, i cazzi!»

«Ah, capisco...»

«Rimangono alla fine con la poltiglia della bocca tutta fiorita, se ne vedono in giro sempre di più, di notte, ma anche sui set, me lo lasci dire, da quando le esplose sono sempre più richieste. Infilano il cazzo in quel cratere scoppiato...»

«Davvero? Succede tutto questo, di notte? Io non sapevo...»

«Oh, questo e altro! Ma che ispettore è, se non sa queste cose?»

«Accidenti! Bisognerà organizzare degli appostamenti, delle retate!»

La Musa si stava lavando con la doccetta dentro il taglio. Se lo aprì maggiormente, infilandoci dentro un dito per fare scorrere un po’ d’acqua anche all’interno.

«Perché arrossisce in quel modo? Si vede che è il suo primo caso!»

«Signorina Musa, mi scusi, mi ritiro un istante, se vuole, almeno in questo momento...»

«Per quale ragione? Oh, lei non sa cosa succede in giro, di giorno e di notte, non immagina quali parole raccolgo! Poco fa, per esempio, mi ha telefonato un sacerdote che si fa vivo di tanto in tanto.»

«Anche un sacerdote?»

«Sì, mi tiene al telefono per delle ore, mi fa partecipe della sua liturgia. “Cara Musa” mi dice, “oggi è Natale, oppure il Venerdì Santo, la Pasqua, Pentecoste... ho appena celebrato la messa solenne. La chiesa era abbastanza gremita, indossavo paramenti nuovi, mai messi prima. Ho aperto con la piccola chiave la porticina del tabernacolo, mi ci sono chinato sopra, ho allungato il mio lungo collo, ci sono quasi entrato dentro a gancio, con la testa, di fronte a quella piaga vivente, a quell’immagine consustanziale, pentecostale, tutto piegato per coprire l’imbocco del tabernacolo con le spalle ricoperte dei paramenti appena stirati e ancora profumati, mentre il canto del coro saliva di colpo nella chiesa. Tremavo, come si fa a non tremare? Faccia a faccia col lacerto della sua immagine asportata e dai lembi stracciati, adagiata accanto alla pisside traboccante di ostie appena consacrate.” È così che parla, quell’uomo... “Stavo appoggiato con i gomiti alle tovaglie dell’altare, spingevo la testa ancora un po’ più in avanti dentro il tabernacolo, anche per reggermi meglio in piedi perché capivo che le gambe mi stavano quasi cedendo per l’intensità della latrìa... Il mio tabernacolo è ancora in mezzo all’altare, per ragioni di spazio, non, come in molte altre chiese dopo la promulgazione delle nuove regole liturgiche, in qualche parte diversa e lontana della chiesa, in sagrestia, dall’altra parte della strada, addirittura, nell’officina che c’è al primo incrocio a sinistra, nel posteggio sotterraneo che c’è nella prima piazza. Non va più neanche il sacerdote a prendere la pisside, ma una suora mestruata, il primo che passa da quelle parti. Anche se non ho niente contro i miei fratelli e le mie sorelle. Attraversano tutta la chiesa, tra i banchi, bighellonano per la strada, si fermano a comperare le sigarette al bar, appoggiano la pisside sul banco, danno una spinta a un’auto ingolfata che non riesce a ripartire, se richiesti, con una mano sulla carrozzeria insudiciata, l’altra serrata con forza attorno allo stelo della pisside, volano fuori di colpo tutte le ostie, le raccolgono sull’asfalto, mentre in chiesa se ne stanno tutti con le bocche spalancate e sdentate, ad aspettare... Ecco, stavo con gli occhi sbarrati, come le dicevo, la testa quasi conficcata nel tabernacolo, contro l’immagine annunciante della sua concentricità rasoiata, intento al gesto apocalittico dell’adorazione...”»

L’ispettore Lanza si torse ancora una volta, più a lungo, sul coperchio del water.

«Ho capito: questa è una storia d’amore! Quel prete ha una sua immagine e l’ha nascosta nel tabernacolo! Dico bene? Ma di quale immagine si tratta? È una sua fotografia? L’immagine del suo volto, immagino, in primo piano, che lo guarda e sorride. Che cosa adora là dentro? Non capisco.»

«La mia fica!»

L’ispettore Lanza si alzò incontrollabilmente dal coperchio.

«Ma che sacerdote è? Dovrò andare a interrogare anche lui!»

«Ma no, cosa dice! Che cosa c’entra con la sua inchiesta? Stia seduto, stia calmo. Lei mi ha chiesto di raccontare e io l’ho fatto. È il mio mestiere... E poi non era venuto per quella donna scomparsa?»

«Oh, sì, mi scusi, me n’ero quasi dimenticato! Dove eravamo rimasti? Ah, sì, l’editore mi ha detto, mi ha fatto capire, che c’era un rapporto à trois, o un potenziale rapporto à trois, tra lei, questa donna e un certo scrittore, o addirittura a quattro, mi scusi, se ho bene interpretato una telefonata della scomparsa fatta a lei, signorina Musa, sempre a proposito di questo stesso scrittore...»

«Lei legge molte storie d’amore, mi pare di capire, ispettore.»

«Oh, sì, di tanto in tanto ne scrivo persino, se è per quello!»

«Ah, bene, bene, un altro scrittore!»

«A tempo perso, naturalmente, non creda... Ma l’editore mi ha detto che forse qui dentro ci sarà un po’ di spazio anche per me.»

«Ah, bene! Le ha detto questo?»

«Sì sì! “Mi faccia vedere qualche cosa, ogni tanto!” mi ha detto. “L’ha capito anche lei che c’è bisogno di storie d’amore, qui dentro!” Mentre eravamo in casa editrice e poi andavamo nell’appartamento della scomparsa. Mi parli di quella telefonata che le ha fatto, la prego...»

«Mah... mi è sembrata soltanto una donna innamorata.»

«Ecco, ecco, lo vede?»

«L’editore voleva mandare da me un certo scrittore, o a lei era parso che queste fossero le sue intenzioni, perlomeno... È una storia lunga, feroce. L’editore, quella donna e questo scrittore. Posso solo dire che anche quella telefonata è stata crudele. Io non dovrei andare tanto per il sottile. Ne metto in pista così tanti, di scrittori, che uno più uno meno...»

«Ne è innamorata anche lei, sia sincera!»

«Ispettore, lei legge molti romanzi rosa, gliel’ho già detto, vede anche molte telenovele, mi pare...»

«Ma allora mi spieghi perché non riesce quasi a parlare, perde il filo, si blocca, non appena si comincia a parlare di questa storia! Proprio lei... Signorina Musa, cos’è successo, cosa sta succedendo in questa storia? Perché questa donna è scomparsa? E proprio adesso? Provi a chiamare le cose con il loro nome, si sforzi: lei lo ama!»

«Ispettore, lei ha tanti bei riccioli biondi, è alla sua prima inchiesta, arrossisce, porta scarpe con tacchi decisamente più alti del normale, mi scusi se glielo faccio notare... ma vedo che molte cose sono chiuse ai suoi occhi. Questo mio mestiere, questo mio destino, i miei incontri, il mio incontro... Accidenti, va sempre a finire in mezzo alle dita dei piedi, questa roba!»

La Musa aveva accavallato una gamba, si stava togliendo il seme che le era colato tra le dita dei piedi, tenendole un po’ allargate per farci scorrere dentro l’acqua della doccetta.

«Dovrò andare a interrogare anche quello scrittore!» disse Lanza.

«Ci provi, se riesce a trovarlo!»

L’ispettore si alzò irresistibilmente, di nuovo, dal coperchio.

«Mi dica almeno questo: che cosa siete l’uno per l’altra?»

La Musa sollevò improvvisamente la testa.

«Io sono la sua puttana orientale, la sua musa, in noi è posto il centro di questa storia che si costruisce esplodendo. Io sono la sua incarnazione, la sua irradiazione, lui è il mio sangue e il mio fiore. Il nostro abbraccio è fecondo, apre nuovi confini, cancella gli orizzonti!»

L’ispettore Lanza si gettò in ginocchio sul pavimento, accanto alla vasca, le prese entrambe le mani tra le sue, per baciarle.

«Oh, signorina Musa, i suoi occhi sono lucenti, la sua bella testa trema, i suoi mille orecchini brillano, tintinnano! Che tempesta di emozioni provoca in me! Adesso capisco perché si chiama così!»

«Ma no, si calmi, si calmi, non prenda fuoco! Non è il caso, io sono solo una musa.»

«Basta, basta! Ferma tutto! Scusa se ti interrompo di nuovo, ma è successa una cosa grave. La Meringa...»

«Ma c’è l’ispettore Lanza dalla Musa! Sta cominciando proprio adesso a indagare.»

«Ma no! Tutto questo è ormai superato. Ci siamo!»

«Cosa vuoi dire? Che cos’è successo?»

Il Gatto fece una pausa, per accendersi una sigaretta tutto chinato sopra la fiamma, a occhi chiusi.

«L’hanno rapita!»

«Stai scherzando?»

Mi ero arrestato di colpo, contro il muro.

«Magari stessi scherzando! L’hanno rapita, la stanno tenendo in ostaggio chissà dove.»

«Ma chi? E per quale ragione? Che cosa vogliono in cambio?»

«Non capisci? Ragiona! Qual è il mio mestiere? Sono un editore!»

«Vogliono che tu gli pubblichi un libro?»

«Di più, di più! Vogliono che qualcuno lo scriva per loro, addirittura! Ma non vogliono un libro qualunque, vogliono un capolavoro!»

Sentivo il cuore pulsare, non capivo se stavo respirando oppure soffocando.

«E adesso cosa fai?»

«Cosa facciamo, vuoi dire.»

Il Gatto mi prese il braccio con entrambe le mani, e intanto camminava e fumava.

«Avrei pensato a te. Ci sei solo tu, in circolazione, che lo possa fare...»

Si girò a guardarmi, con la testa tutta snodata.

«Ma l’ispettore Lanza lo sa?» provai a dire. «È già informato?»

«Ma no, quello ormai va avanti per la sua strada, non lo vedi? E poi abbiamo prima di tutto noi la responsabilità di quanto può accadere qui dentro, mi pare, in questo caso... Ci siamo noi, e non altri, al centro di questa storia. Non fartene portare via di nuovo il bandolo, non credere a quelle baggianate della libertà costruttiva, del testo che si scrive da solo mentre il presunto autore se ne sta da tutt’altra parte a scrollarsi l’uccello succhiando una caramella di gelatina di pesce. Non lo dico solo egoisticamente, in questo caso... Inoltre, per dirla tutta, i rapitori chiedono espressamente che la polizia non venga informata.»

«Ma come fai a saperlo? È un’idea tua?»

«Un’idea mia? È arrivato un messaggio! Sta’ a sentire!»

Primo messaggio

Tratteniamo in un box di polistirolo espanso, in località segreta e custodita, la persona scomparsa che state cercando. Non è stata sottoposta ad alcuna violenza, non sono state praticate su di lei mutilazioni (noi, in genere, non sottraiamo, aggiungiamo).

Chi siamo? Difficile anche per noi definirci! Siamo un gruppo terroristico di tipo nuovo, si potrebbe dire, che ha in progetto un terrorismo interattivo di tipo nuovo. Non siamo più quelli delle bombe, gli artificieri. Non siamo più quelli della canna fumante, del guanto, della frattura. Noi ci poniamo al centro dei processi, noi non ci limitiamo a stare dentro la corrente, siamo la corrente. Le nostre possibilità sono potenzialmente infinite, lavoriamo sui campi mobili delle interazioni biologiche, sui cloni. Frughiamo nei residui secchi, fecondiamo, ibridiamo. Non abbiamo sigla, né nome, né progetto. Impossibile la localizzazione!

Che cosa chiediamo adesso, in questo caso? Non la pubblicazione di un qualche libro come merce di scambio, come è ormai di norma. Chiediamo, in cambio della restituzione dell’ostaggio, il formarsi di un testo del tutto diverso, epocale, che si espanda in modo indistinguibile da noi e faccia tutt’uno con il nostro avvento. Ci installiamo in modo interattivo al centro di tale testo, le nuove forme che questo verrà ad assumere saranno espressione e annuncio delle nostre forme e delle potenzialità delle nostre forme.

E adesso un po’ di istruzioni:

Nessuna informazione alla polizia! Se proprio deve, dia qualche informazione diversiva, false piste, per tenerli buoni. Tanto nessun aiuto può venire all’ostaggio da loro, tutto ormai passa da un’altra parte, da tutt’altra parte. Non ci sarà bisogno che lei si metta, arcaicamente, in collegamento con noi per dare soddisfazione del pagamento del riscatto. Lo vedremo noi, lo stabiliremo noi, passo dopo passo, dall’interno, se si stanno creando le condizioni per la restituzione dell’ostaggio.

È qui vicino, in questo momento. È tutta bendata, trema un po’, piange. Non sente? Solo voi potete fare qualche cosa per lei, a questo punto.

«Hai sentito che prosa? Altroché interazione! Qui siamo all’occupazione aliena! O forse ancora più in là, chi può dire... Forza, devi cominciare a buttar giù qualcosa! Devi darti da fare!»

«Ma...»

«No, no, niente ma! L’hai sentito anche tu come stanno le cose. Qui si vuole spostare continuamente il baricentro di tutto! Eppure non si dà altra possibilità, non c’è ormai altro campo di battaglia che questo, anche se non si può conoscere in anticipo quale sarà l’esito di tutto quanto. Eppure così, io e te uniti, si fa per dire... io e te al centro, e non altri, mi ostino a dire... in questa battaglia mai vista prima, portata avanti in forme e su piani mobili, in rotazione totale... Eppure è solo attraverso tutto questo che ci è offerta la possibilità di riuscire, tra le altre cose, a salvarla, come suol dirsi, a liberarla.»

«Ma quando ti è arrivato quel messaggio? In che modo?»

«Come vuoi che mi sia arrivato? Per posta! Tra le decine di lettere che trovo ogni mattina sul mio tavolo, di raccomandazione, di elogio, postulanti... La proposta di un nuovo convegno sul superamento della funzione iconografica del metatarso nella lirica minore alessandrina, uno scrittore che raccomanda un libro di profezia soft scritto dal proprio criceto ibridato con un asparago. Però adesso basta, devi darti da fare, è venuto davvero il momento di cominciare!»

«Ma...»

Il Gatto si slacciò il collo della camicia, si allentò la cravatta muovendo da una parte all’altra la testa, esasperato.

«Ti interessa rivedere la Meringa?»

«Oh, sì, certo!»

«Allora bisogna fare come dicono quelli, non c’è un’altra strada! Bisogna buttarci dentro, tuffarci, o meglio rituffarci mentre credevamo di esserci già tuffati. Ah, che bello... dei semi di zucca!»

Il Gatto si era fermato di colpo, per comperare dei semi di zucca a un angolo della strada.

«Cosa fai? Mangi dei semi di zucca proprio in questo momento?»

«Ma certo! Perché no? Proprio adesso! Aiuta a pensare.»

Si sentiva il rumore dei suoi denti che spaccavano i semi, di taglio, si vedevano un secondo dopo le sue dita che carpivano la minuscola ostia salata, mentre andavamo nel varco di una strada appena asfaltata.

«Forza, allora! Si parte! Ti avevo detto di cominciare a pensare a un titolo. L’hai fatto?»

Vedevo l’asfalto ancora molle sagomarsi sotto le ruote delle auto. Ci andavano sopra a copertoni allargati, sfigurati.

«Ho capito, ho capito. Non te ne è venuto in mente nessuno, o non ci hai neppure pensato, o non ti è parso che fosse arrivato il momento di cominciare a pensarci, addirittura! Allora vediamo... Cosa ne dici di Il capolavoro

«Il capolavoro

«Ma sì! Non dicono di non aspettare altro che quello? Allora tanto vale spiattellarglielo nel titolo stesso, così il gioco è fatto! Non devono star lì a spremersi quel po’ di cervello per capire di che libro si tratta.»

«Ma no... Chi se ne frega del capolavoro!»

«Tanto meglio! Funziona ancora di più! Lo scarto ironico, l’autoirrisione, come va di moda oggi. Esplicitarlo subito, in modo diretto, straziante, e ottenerne in cambio, male che vada, in forma rovesciata, comunque, poesia...»

«Ah sì? È così che vanno le cose adesso?»

«Ma certo!»

«Mah, non saprei...»

«Come hai detto? Mah, non saprei... Ah, sì, fantastico, è proprio da te questa risposta! Accidenti, non ci avevo pensato! Che titolo! Questo mi fa vedere tutta la cosa sotto un aspetto nuovo! Mah, non saprei... Buona idea! Ottima idea! Bene, bene, perbacco, meglio ancora!»

«Meglio ancora che cosa?»

Il Gatto gettò indietro la testa, per ridere con la bocca piena di semi di zucca salati, maciullati.

«Meglio ancora che cosa? Ah, sì, sì, anche questo è buono! Accidenti, che titolo!»

Riprese a ridere ancora più forte, con la bocca murata.

«Oppure lo si potrebbe intitolare La creazione» riprese dopo un po’. «Cosa ne dici? Anno zero. Come se niente fosse. Tutti lì col naso per aria a guardare. Tutti i dattiloscritti che implodono di colpo nei cassetti, nelle redazioni delle case editrici, i dischetti che miagolano nei driver. Proprio come dice la definizione: “Creazione – formazione di particelle dovuta a trasformazione di energia in materia”. Zac! Né più né meno. Eh, allora cosa ne dici?»

Le sue mascelle scricchiolavano per i semi di zucca, li buttava dentro interi per la fretta, li triturava e poi li risputava nel palmo della mano tutti sfigurati e impastati, dopo un po’.

«Oppure... Oh, senti questo: La fine del mondo. Ma certo, adesso ho capito! Apocalittico, la contrazione epocale. Contrazione, dilatazione, ancora contrazione, su tutti i piani, a tutti i livelli, tutto che di nuovo si mette a pulsare, a eruttare, si squarcia, respira, tutto che si oltrepassa, verso dove ancora non si sa, non si può dire, distruzione, cancellazione, e tutto questo dentro la distruzione, la cancellazione... “Ma no, no!” potresti dire con quella tua aria da serafino, con quella tua vocetta. “Pensavo solo a quel modo di dire... Non si dice è la fine del mondo per dire che una cosa è bella, è bellissima, è eccezionale, con quella forzatura generale che è di moda adesso?” Eh, allora cosa ne dici?»

«Ma cosa c’entra adesso questa storia del titolo?»

«Cosa credi? La gente compera un titolo, una copertina... A proposito, non ci siamo ancora posti il problema della copertina! Devo parlarne immediatamente ai grafici. Buttare là qualche istruzione. Anche per i grafici di altri paesi, di altri continenti, se deve venirne fuori un libro epocale, per i grafici futuri, immaginare addirittura come saranno fatti fra molti secoli, molti millenni, quando questo pianeta morirà, se saranno fatti grosso modo come immagina qualche paleontologo di cui si legge, l’homo nuovo creato in laboratorio, quindi anche i grafici, necessariamente, i grafici del libro digitale, molecolare, del libro incorporato, liofilizzato, uomini acquatici dai lunghi piedi pinnati adatti alla vita subacquea, o a forma di palla verdastra da cui spuntano zampe adatte ad aggrapparsi ai corrimano delle stazioni orbitanti e che dovranno vivere in assenza d’aria e di gravità... D’altronde c’è un sacco di gente che è già fatta così, nel mio ambiente... Oppure dai lunghi piedi da canguro e con le orecchie a sventola plastificate e con il codice a barre. Accidenti, un bel lavoro, non c’è che dire! Dobbiamo cominciare a pensarci!»

Ai grafici di copertina di questo libro

Che copertina ci mettereste a un libro così? È un po’ presto, risponderete, come si fa ancora a dire? E poi di che genere di libro si tratta? Non si capisce. Lo so, lo so, tutto questo lo so. Perciò mi sono deciso a cominciare a porre il problema con voi, grafici di copertina, che fate il lavoro più decisivo, in silenzio, di fronte ai video, in questi tempi di libri residuali e clonati. Facile per quegli altri, in passato, gli amanuensi chini sui loro tavoli di noce. I colori, i pennelli. Quattro svolazzi e via. Tutt’intorno silenzio, la nebbia sulle colline, non un suono, un clacson, un telefonino, non un’apparenza, un’esperienza di un’apparenza, di un’immagine duplicata, nessuna duplicazione perché tutto duplicazione, tutti ben chiusi dentro quel cerchio, tutto passaggio, nessuna sponda, nessuna illusione perché tutto illusione... Ah, non fatemi dire! Lo so, lo so, io vado fuori tema, trascendo... Oppure quegli altri, dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Facile anche per loro! Mi sembra di vederli mentre compongono come se niente fosse la copertina del Gulliver, per esempio, oppure delle Affinità elettive, più avanti, o di Guerra e pace, sempre le stesse dita sporche d’inchiostro, titolo, autore, lo stampatore riconoscibile solo dagli abiti di foggia leggermente diversa, nella stamperia, tra i garzoni, lo stesso odore di piombo, gli stessi alterchi, le stesse risa. Voi invece dovete operare per immagini comparate, il particolare di un panneggio rinascimentale per un testo sulla sessualità prenatale dei fenicotteri, la narice sgarzata di un doge veneziano in levitazione per un testo sulla depressione postclimaterica delle aringhe...

Ma adesso il problema che vi pongo è questo: che copertina fareste, oggi, per un capolavoro? Nessuna immagine, a imitazione di quelle antiche, un po’ retró? Non direi proprio, non è questo il discorso, nel nostro caso. Oppure la più bella, la più folgorante, lo squillo di tromba? Neanche parlarne! O forse la più brutta, a questo punto, una copertina decisamente «sbagliata»? Ma come sbagliarla, in questo caso? E come si fa a sbagliare una cosa nell’unico modo che ci permetterebbe di non sbagliare? Perché – scendendo nello specifico – non ci si può mettere la possibile immagine di uno o dell’altro dei figuri che si aggirano qui dentro, o di una coppia di questi, o di una folla di questi. Non si può indicare un’unità, ma non si può neanche indicare una molteplicità, non deve dare l’idea di ordine, perché mai ci fu libro meno ordinato, ma neanche di disordine, perché mai ci fu libro meno disordinato... Lo so, siamo solo all’inizio, metto le mani avanti, tanto più adesso che ci si impone una messa in atto improvvisa, inaspettata di tutti i dati iniziali del progetto. Adesso non vi sto qui a dire, non posso... Ma vedrete che il problema vi si porrà. Siete voi che mettete in movimento la ruota. Ah... certe volte vorrei essere uno di voi, anche se non vengo spesso a trovarvi, lo confesso, anche se queste istruzioni non vi serviranno poi a molto, mi rendo conto. Dopo che avete azzeccato una copertina, oppure mentre cercate una nuova linea per una collana, tutti chiusi in composizione con le vostre forbici lunghe, le vostre colle, quel bagliore che sale dai tavoli luminosi, fino a un po’ di tempo fa, oppure adesso davanti alla bolla luminosa dei vostri terminali, e siete in cerca di una copertina così indovinata che il lettore non debba accorgersi di avere tra le mani un libro dalle pagine completamente bianche dall’inizio alla fine. Vi sento ridere un po’, certe volte, mentre passo nel corridoio accanto al vostro ufficio. Viene anche una voce alta e leggera di ragazza, di tanto in tanto, quella nuova che porta sempre il body sopra il vestito. Come la chiamate? Bodyna, mi pare... Oppure quando qualcuno di voi si prende un po’ di ferie per rilassarsi dopo avere preparato una nuova linea di copertine per qualche nuova collana. Va via qualche giorno da solo, per riposarsi, o per preparare la rètina a nuove connessioni, per ricreare il tessuto della visione. Scende in qualche residence deserto oltre frontiera, fuori stagione, arrivando senza avere prenotato, inatteso, con lo zaino in spalla, colorato e fosforescente, di chi cammina di notte. Mostra alla signorina il suo documento. «Grafico di copertine...» lei riesce a decifrare leggendo, anche se la lingua è diversa. Alza gli occhi di colpo, lo guarda. È appena arrivata ad aprire l’ufficio della reception a cavallo di una grande motocicletta, ha dei bei fuseaux a fiori, attillati, i capelli corti, grande bocca dipinta. «Ma ci siete voi sulla copertina di questo dépliant del residence!» si accorge improvvisamente il grafico, prendendo del materiale pubblicitario da una girandola che c’è lì vicino. Lei non dice niente. Lo guarda. Sorride. Lo accompagna a vedere la stanza. Adesso sono uno di fronte all’altra nell’ascensore, di fronte alla loro immagine riflessa sul grande specchio a parete intera, salgono assieme alle loro immagini illuminate. Lei gli apre la porta, gli mostra il numero della stanza sulla grande placca del portachiave. Gli solleva le tapparelle premendo un pulsante, tutto il suo corpo è adesso controluce di fronte alla grande finestra, sullo sfondo del balconcino con le due seggiole di plastica bianche, incastrate l’una nell’altra e sovrapposte, lo sfondo degli altri residence tutti vuoti e deserti, da ogni lato. Gli viene vicino, gli sfiora gentilmente la mano, lo saluta. Ma dopo una mezz’ora ritorna. Bussa discretamente alla porta.

«Mi ero dimenticata di indicarle come si fa ad accendere il fornello elettrico, il calorifero elettrico...» gli dice nella sua lingua. C’è un grande specchio contro la porta d’ingresso. Si vedono dentro tutti e due a figura intera, appaiati, quasi appiccicati.

«Ah, sì, e io mi sono dimenticato di chiederle dove sono le lenzuola!» a lui viene in mente. «Come si dice lenzuola nella vostra lingua?»

«Ah, sì, sì, le lenzuola... Capisco!» lei si emoziona di colpo. Va a prenderle da un armadio, le dispiega nell’aria, sopra il letto, scompone tutta la stanza, le fa sventolare. Lui l’aiuta a ripiegarle sotto il sottile materasso, dall’altra parte del letto. Si ritrovano tutti e due dallo stesso lato, si stanno già sfiorando.

«Sono qui da solo» prova a dirle un istante dopo, mentre la tiene già tra le braccia, «sto cercando un’idea per una copertina diversa da tutte le altre...»

«Eccomi qui, l’hai trovata!» lei gli dice con la maglietta già tutta sfilata, e il busto e i fianchi già completamente scoperti. «Sono io la tua Copertina! Non lo vedi? Io sto dietro i vetri e contro gli specchi, sorrido, mi offro, la mia immagine si riflette contro le file delle vetrine, quando cammino, mi pongo contro gli sfondi, mi rifletto perché tutto in me si rifletta. Mi hai trovata e anch’io ti ho trovato, tra le mille persone che passano all’accettazione, e aspettano macchinalmente la fine delle operazioni, ricevuta, cauzione, non si accorgono neanche che ci sono io sulla copertina del dépliant del residence, anche se lo prendono distrattamente dalla girandola, prima di raggiungere, barcollando sotto il peso dei bagagli, le loro stanze...»

Lo va a trovare anche durante la notte, nel residence completamente deserto, mentre è già a letto, a occhi aperti nel buio. Si sente solo il vento fischiare contro le file delle finestre, dei balconi, si vedono dall’alto quelle piscine illuminate piene d’acqua fosforescente. Sente bussare di colpo. «Chi è?» prova a chiedere col cuore in gola andando verso la porta.

«Sono la Copertina!» lei sussurra dall’altra parte.

La fa entrare. Ha i capelli appena lavati, molto profumati.

«Ma è tutto vuoto, qui dentro! Siamo lontani dalla zona abitata. Solo grandi costruzioni a più piani tutte deserte contro cui fischia il vento, all’interno migliaia di stanze altrettanto deserte, spente, piene di oggetti che nessuno vede, muri, porte, lampade a stelo... Come sei arrivata qui?»

«Con la moto!» risponde, staccandosi per un istante dal suo abbraccio.

«Dove vai, adesso?»

«Io mi posso spogliare solo di fronte agli specchi!»

L’accarezza. La penetra mentre è ancora in piedi e già scontornata contro la porta a specchio, tenendola sollevata con entrambe le braccia, mentre anche lei lo allaccia con le braccia e le gambe. «Oh, Copertina...» sente che sta già gemendo dentro il suo corpo. Barcolla per un istante, fa un passo all’indietro, a piedi nudi sulla moquette, quanto basta per scorgere un fiotto di sperma ancora caldo colare giù lentamente dallo specchio. «Ma... che cos’è successo?» le sussurra con la testa ancora affondata nell’incavo profumato del suo collo.

«Perché ti stupisci? Te l’ho detto: sono una copertina, io non ho un dentro!»

Lo porta in giro attraverso il residence tutto buio e deserto, in piena notte, si staglia contro le barriere degli altri residence e degli altri condomini altrettanto deserti, tutt’intorno, si sovrappone agli sfondi delle piscine isolate, illuminate, incurante del vento freddo che fischia, e si ingolfa nei corridoi, nei garage, sembra sradicare l’intero casamento. Lo porta tenendolo per mano nel salottino spento che c’è a pianterreno, accende tutte le lampade, sfiorando con le dita quegli interruttori dalla lucina palpitante nel buio, nel passare, lo porta a vedere i garage vuoti, e poi i grandi sotterranei pieni di canne che corrono appaiate contro i muri e i soffitti, e poi su e giù per le scalette murate, d’emergenza. Ritornano su a pianterreno. Entrano nell’ascensore, per fare ritorno alla stanza. Il suo corpo nudo si arresta di fronte al suo grande specchio.

«Come faccio adesso, se sono già nuda, a spogliarmi?» gli sussurra.

Lui l’abbraccia irresistibilmente, di nuovo, nell’ascensore che continua a salire.

«Sono gli ultimi giorni in cui il residence è vuoto» gli dice con la bocca contro il suo collo, «è attesa una grande comitiva che ha già prenotato, si riempirà tutto come d’incanto, fra poco.»

«Ma questa zona è tutta deserta, isolata dal resto della località, non c’è nessuno!» lui prova a dire. «Cosa ci vengono a fare in questa stagione? Chi sono?»

Le porte dell’ascensore si sono aperte, ma continuano a stare abbracciati di fronte allo specchio, a occhi chiusi. Il vento entra freddo, di sbieco, nella cabina aperta.

«Eppure hai la pelle d’oca, rabbrividisci!» lui si accorge di colpo, mentre le accarezza l’incavo della schiena, con le dita. «Com’è possibile, se sei una copertina?»

Ma cosa vi sto raccontando? Cosa c’entra? Ne è venuta fuori una cosa del tutto diversa. Ma ormai è fatta! Ve lo dicevo che si trattava di una copertina diversa da tutte le altre, avevo messo le mani avanti. Ma adesso basta. Forza, cominciate a pensarci! Che queste istruzioni siano servite almeno a questo. Adesso lo sapete anche voi che cosa c’è in arrivo!

«Accidenti, cosa sono diventate queste istruzioni!» disse il Gatto sfregandosi l’una contro l’altra le palme, per mandare via i frammenti di semi di zucca rimasti appiccicati. «E cos’è questa storia del residence? Da dove salta fuori? È morta lì o ce la ritroveremo ancora tra i piedi? Che cos’hai in mente?»

«A me lo chiedi? Ma se ti sei inventato tutto tu!»

«Cosa fai? Me lo stai ciucciando?»

Mi guardava camminando con la testa girata, non si capiva se sospirava oppure sorrideva.

«Ma adesso devo proprio scappare!» disse d’un tratto. «Viene da me quell’ispettore... Come abbiamo detto che si chiama?»

«Lanza.»

«Ah, sì, Lanza! Ha un appuntamento tra poco, in casa editrice. Mi affretto. E il bello è che non gli posso dire niente di quanto sta succedendo qui dentro. Inventerò lì per lì qualche cosa, lo menerò un po’ per il naso. D’altronde non è un problema, per me!»

Mi fermai per un istante a guardarlo, mentre si sistemava il colletto della camicia e la cravatta.

«Ma non portavi gli occhiali?» gli chiesi.

Si fermò a sua volta a guardarmi. Mi sorrise.

«Altroché! Però adesso porto le lenti a contatto!»

L’ispettore Lanza va dal Gatto

«Oh, buongiorno!»

L’ispettore Lanza stava fermo e un po’ emozionato, nel vano della porta, mentre il Gatto andava verso di lui con la mano distesa, zoppicando.

«Da quanto tempo è qui? L’ho fatta aspettare?»

«No, no, solo pochi minuti. Stavo parlando con questa gentile signorina del centralino...»

«Ah, bene, bene! Lei non perde tempo! Ma adesso venga con me, nel mio ufficio.»

Fecero qualche passo lungo il corridoio felpato. Si sentiva appena il rumore dei tacchetti dell’ispettore, il colpo più cadenzato che dava il Gatto, col suo scarponcino.

«Chi è quella lì?» chiese l’ispettore Lanza irresistibilmente, d’un tratto, perché da una porta era uscita Bodyna che reggeva con due dita una prova di copertina.

«Lavora da poco con noi, la chiamano tutti Bodyna.»

«Non l’avevo vista la volta scorsa...»

«Le sarà sfuggita... Se vuole gliela presento.»

«Oh, sì, sì, certo, accidenti, mi piacerebbe!»

L’ispettore Lanza stava impalato di fronte a Bodyna, che gli aveva offerto la mano col palmo girato verso l’alto.

«Non me la baci, la prego, è tutta sporca d’inchiostro!» gli sorrise lei, vedendo che l’ispettore ci si stava già chinando sopra, a occhi chiusi.

«State lavorando già a quella copertina?» le chiese il Gatto.

«Be’, ci proviamo...»

«Scusi se mi intrometto» disse l’ispettore Lanza arrossendo, «ma di che libro si tratta?»

Bodyna strinse forte le labbra, incassò un po’ la testa nelle spalle, fece il gesto di grattarsi la nuca ricciuta con le dita dalle unghie smaltate.

«È una parola dire di che libro si tratta!»

Portava un body bianco, ricamato e attillato, su una calzamaglia nera, di cotone, le scarpe da ginnastica con le stringhe slacciate.

«Cosa fa lì impalato?» disse il Gatto prendendo l’ispettore Lanza per un braccio. «Non era venuto qui per tutt’altro?»

«Ha ragione, mi scusi, mi ero distratto!»

Ripresero a camminare lungo il corridoio felpato. L’ispettore Lanza stringeva la borsa, avanzava tenendola quasi avvinghiata, non fiatava.

«Cos’ha di tanto importante in quella borsa?» chiese il Gatto.

L’ispettore Lanza arrossì, si confuse.

«Oh, niente di speciale, mi creda...»

L’ufficio era aperto. Il Gatto fece sedere l’ispettore sulla poltrona, sprofondò a sua volta sulla poltrona di fronte.

«Avanti, mi dica! Ha qualcosa da comunicarmi? Avete scoperto qualcosa?»

L’ispettore Lanza si mosse due o tre volte sul busto.

«Ma... io veramente pensavo che forse lei avrebbe avuto qualcosa da dirmi!»

«Io? Non sono io l’ispettore, qui dentro!»

«Capisco, ma può sempre capitare che uno si ricordi improvvisamente qualcosa, qualche particolare che gli era sfuggito prima, che gli arrivi all’orecchio una voce...»

«Magari fosse ancora così, in queste cose!»

«Capisco. Ma bisogna impegnarci lo stesso, darci da fare, magari in modo diverso da come sono soliti fare quelli che svolgono il mio mestiere, in questa situazione del tutto diversa... Cercherò di fare anch’io la mia parte. Bisogna darci tutti quanti da fare, qui dentro, non le pare?»

«Oh, sì, questo è sicuro! Mi fa piacere che l’abbia capito anche lei. Io l’apprezzo.»

Il Gatto alzò gli occhi sull’ispettore, che era arrossito di nuovo, mentre si teneva ancora avvinghiato alla borsa, con il braccio.

«Ma che cos’ha in quella borsa? Qualcosa che riguarda la nostra storia?»

«Be’, no, sì, forse, in un certo senso...»

L’ispettore Lanza si era girato di colpo verso la finestra, perché ci era passata contro la sagoma di un uomo, ed era venuto contemporaneamente da quella parte il rumore di un rutto prolungato, osceno.

«Non si spaventi!» rise il Gatto. «Sono i muratori che lavorano alla facciata. Ce n’è uno che ha appunto la specialità dei rutti. Ne fa di così interminabili che riesce a dire ruttando anche diverse parole in fila, pronuncia dichiarazioni d’amore, canta canzoni alla mamma, all’innamorata. Non se ne deve stupire. Qui dentro entra ed esce chi vuole. Certe volte sono qui con qualche scrittore a discutere di una modifica a un testo e si sente che fuori dalla finestra, sull’impalcatura, un muratore sta raccontando all’altro le proprie predilezioni sessuali, quelle della propria moglie, della cassiera del suo supermercato, del rilegatore della sua enciclopedia a dispense in dieci volumi sulla storia del ditalino comperata all’edicola sotto casa... “Ma è stupendo!” esclama lo scrittore estasiato. “Mi permetta di collocare un registratore qui nel suo ufficio, vicino alla finestra, per qualche giorno. Mi basta far sbobinare il nastro dalla mia segretaria e ne posso far venire fuori un libro sapienziale intitolato Dialoghi di muratori addetti al restauro della facciata di una casa editrice!” Ma, mi scusi, lei dovrebbe essere qui per la Meringa, mi pare, non per altro... Come va la sua inchiesta? Che cos’ha combinato finora?»

«Ho incontrato la Musa.»

«Ah, è già andato anche lei dalla Musa? Accidenti, non ha neanche aspettato che ce la mandassi! E, mi dica, ne ha ricavato qualcosa, perlomeno?»

L’ispettore Lanza arrossì di nuovo, più a lungo, non si distingueva neanche più sul volto la macchia delle sue rosse labbra.

«Mi scusi, ma faccio un po’ di fatica a parlarne...»

Il Gatto lo fissò in silenzio per qualche istante, prima di alzarsi irresistibilmente dalla poltrona e di cominciare a zoppicare in lungo e in largo attraverso la stanza.

«Io sono nuovo di qui, è la mia prima inchiesta, gliel’ho già detto!» esclamò l’ispettore Lanza d’un tratto, con veemenza, «e tutto in questo caso è diverso, e niente di quanto mi è stato insegnato mi può servire, qui dentro, perché bisogna operare su piani completamente spostati, però vorrei poter fare anch’io la mia parte, mi creda, vorrei farmi onore!»

Il Gatto si fermò in mezzo alla stanza, in silenzio, per guardarlo.

«Lei non ha idea di cosa farei per aiutarla, se potessi farlo!» disse infine. «Sappia almeno che, se anche tutto quanto sta succedendo è così inaspettato e diverso, le posso dire che sento, che sentiamo, che lei non è senza potenzialità e senza destino, qui dentro, in questa storia, che lei si può considerare fin da ora dei nostri!»

L’ispettore Lanza abbassò la testa un istante, non si capiva se stava corrugando la fronte oppure sorridendo.

«Posso rivolgerle una domanda personale?» chiese dopo un po’ al Gatto, quasi sottovoce. «Perché lei manda tutti quegli scrittori dalla Musa?»

«Mah... forse, a essere del tutto sincero, perché non posso andarci io, direttamente, scopertamente, di persona, potrei divertirmi a dirle, per ora, non mi sono ancora conquistato il diritto di andarci di persona... Ma adesso torniamo a noi. Mi deve scusare, io parlo a vanvera, divago, lo so, ma lei ha sensibilità sufficiente per capire che cerco soltanto di non pensarci, di distrarmi, ma il mio pensiero è sempre là, mi creda, ispettore: dove sarà la Meringa in questo momento? Qual è il modo migliore di agire, in questi casi? Lei cosa ne pensa? Si pronunci!»

«Mah... è un caso del tutto diverso, non ci sono riferimenti, gliel’ho detto. E qual è davvero il ruolo dell’investigatore, in questo caso? Chi è che conduce il gioco, se c’è un gioco?»

«Lei è andato al cuore del problema, ispettore, lei almeno se l’è posto, comincia a porselo, mi pare, mentre sta seduto come se niente fosse di fronte a me con la sua borsa. Chissà che non possa dare un contributo autonomo, originale, qui dentro... Se la sente?»

L’ispettore Lanza si alzò inaspettatamente dalla poltrona, fece qualche passo attraverso la stanza.

«Oh, sì, vorrei fare anch’io la mia parte, qui dentro, gliel’ho detto, non mi tiro indietro! Ma volevo prima... mi sembrava di dover compiere prima qualche altra mossa, conoscere meglio il campo, decifrare un po’ meglio l’intero caso, interrogare ancora qualcun altro... quell’altro scrittore di cui mi ha parlato la Musa, ad esempio, prima di poter anche solo pensare di entrare, mi pare...»

«Sì, sì, capisco il suo scrupolo, torna a suo onore. Ma qui non si può più andare per il sottile, lo avrà capito, non c’è tempo. Bisogna darci dentro! Gliene do il permesso io, che sono l’editore. Che cosa vuole di più?»

«E poi c’è stata quella telefonata così sbilanciata della persona scomparsa alla Musa, e anche la Musa stessa, quando parla di quello scrittore, dovrebbe vedere come s’infiamma, si trasforma... Passano molte cose di lì, lo capisco! E d’altronde anche lei, quando ho accennato alla Musa, poco fa...»

«Ah... non le si può tenere nascosto niente! Non sembra, ma quante cose capisce lei! Oh, mi scusi, mi scusi, volevo dire... non fraintenda.»

L’ispettore Lanza tornò a sedersi di fronte al Gatto. Teneva ancora avvinghiata la borsa, continuava a tormentarne la fibbia, l’apriva e la richiudeva, poi di nuovo l’apriva, la richiudeva.

«A proposito...» disse il Gatto allargando entrambe le braccia, «a questo punto mi dovrà pur dire cosa c’è in quella borsa!»

«Ma no, niente, l’altra volta le avevo parlato... così ho pensato... Lei stesso mi aveva detto di non farmi scrupolo, di non tirarmi indietro... che c’era appunto bisogno di una storia d’amore, qui dentro. Tanto più adesso, mi pare...»

«Scommetto che mi ha portato appunto una di queste storie!»

L’ispettore Lanza socchiuse gli occhi, sorrise, più disteso.

«Come ha fatto a capirlo?»

Il Gatto gettò indietro la testa, per ridere e buttare fuori il fumo più in alto, nella stanza.

«Avanti allora, sentiamo! Di che storia si tratta?»

«Mah, è solo una piccola fantasia, una favola, quasi, come le avevo già detto...» sospirò l’ispettore Lanza, mentre tirava fuori dalla borsa una cartella sottile.

«Bene, bene, sentiamo. Mi affido a lei, ci dia dentro! Siamo nelle sue mani, a questo punto. Speriamo che a quelli là vada bene, che siano contenti... Anzi, non si faccia problemi, quando ha per le mani qualcosa, non c’è neanche bisogno che mi chieda il permesso, che la faccia lunga come stavolta. Qui dentro entra ed esce chi vuole, gliel’ho detto.»

L’ispettore prese in mano il sottile plico di fogli, si schiarì la voce.

«Soltanto una cosa, mi perdoni... Non pronunci, come suol dirsi, con espressione!» disse il Gatto mentre si lasciava andare con gli occhi leggermente sbarrati sullo schienale della poltrona.

L’ispettore abbassò la testa, si confuse.

«Ma no, non importa... Faccia un po’ come vuole! Forza, cominci pure!»

La ragazza con l’assorbente

«Scusi, ho capito bene il titolo? Assorbente proprio nel senso di quell’aggeggio che le donne si piazzano... Be’, lo sa anche lei dove!»

«Sì, sì, proprio quello!»

«Ah, andiamo bene...»

«Perché, lei che titolo mi consiglierebbe?»

«Be', non so... Per esempio La ragazza dai piedi soffici oppure La ragazza dalle orecchie tremule. Sono questi i titoli che piacciono per le storie d'amore... Però... be', sì, certo, accidenti! Niente male quel titolo! Ma lo sa che lei è proprio... Ed è davvero una storia d'amore?»

«Sì, sì, certo, altroché!»

«La ragazza con l'assorbente... Accidenti, adesso che ci penso, che razza di titolo! Che bel titolo! Gliel'avevo detto subito che era un gran titolo! La ragazza con l'assorbente... Forza, forza, sentiamo! Cosa aspetta? Chissà cosa c'è in arrivo! Come ha detto che era il titolo?»

La ragazza con l'assorbente

Al terzo piano di una nota agenzia pubblicitaria si stava svolgendo un briefing per il lancio di una nuova marca di assorbenti. Seduti attorno a un tavolo ovale: il direttore creativo, l'account, il copywriter e l'art director, lo psicologo e il giovane cliente.

Vagava nell'aria un leggero profumo di brioscine fresche e di cioccolata in tazza.

«Allora: budget e target group definiti» stava dicendo il direttore creativo, «relazioni dell'istituto visionate. Resta da valutare un'ultima volta il brief, sentire che cos'hanno da dire il copy e l'art, cominciare a ragionare sul casting. Forza, ragazzi, tocca a voi!»

Si girò verso il copy e l'art, che stavano parlottando tra loro con le teste accostate, lucide di gel.

L'art aveva la barba, il copy no.

«L'idea è di impostare una campagna di tipo nuovo, mai vista prima per un prodotto di questo tipo» cominciò il copy. «Non la solita fraschetta tutta azzimata e deodorata, coi libri sul braccio e la camicetta bianca che cammina sotto il solito colonnato, lo slippino, l'assorbente igienico che ruota su se stesso e si apre ai lati come una farfalla ecc... Penso invece a un excursus rapido e stuzzicante sugli antenati dei moderni assorbenti, dalla preistoria ai giorni nostri, a brevi gag, una per ogni spot. La gente va matta per queste cose. Tono didascalico, ma rilassato e leggero, immagini illustrative, disegni e, al termine di ogni spot, la nostra attrice in mutandina e assorbente...»

«Suggerisco il titolo: Storia generale dell'assorbenza» interruppe l'account.

Risata.

«Tutto così, attraverso i secoli, i millenni» continuò il copy, «proiezioni future, fino a un vero e proprio Paradiso dell'assorbenza, dove gli assorbenti maturano sugli alberi, come i fiori delle magnolie, e sono fatti di materiali mai visti, inaspettati, ed emettono segnali acustici, musicali, personalizzati, a seconda delle inclinazioni, dei gusti, Bach, Pergolesi, Pink Floyd, metal, a seconda delle età, delle predisposizioni, suonano sotto la mutandina quando è l'ora di cambiarli, mentre signorine e signore si spostano tra la folla, sulle metropolitane, sui roller, sorridendo.»

«Bene, bene! Ce l'ha qui questo testo?» chiese il direttore creativo, muovendosi sulla poltroncina rotante. «Abbiamo l'acquolina in bocca. Ci faccia sentire!»

«Ci sto lavorando, è quasi pronto. Per esempio... Come tamponavano il flusso durante il neolitico? Usavano assorbenti di pietra? potremmo domandarci per scherzo. E quelle egiziane tutte sedute in fila, di profilo, con la mano simmetricamente sollevata... che tipo di assorbente avevano sotto? Di papiro? Il pubblico lo vuole sapere! Chi le ha mai date queste informazioni al grande pubblico? E Monna Lisa, per esempio, che assorbente poteva avere tra le cosce? Eccetera eccetera. Ci aiuteremo iconograficamente, spot dopo spot, con alcune celebri immagini artistiche femminili di varie epoche, che l'art ha già preparato e che vi mostrerà tra un momento...»

Brusio in sala, mentre quest'ultimo stava preparando il lettore per la proiezione delle immagini.

«Lei cosa ne dice?» domandò l'account accostando la testa a quella del giovane cliente, che aveva ricevuto per la prima volta dal padre l'incarico di seguire una campagna pubblicitaria della ditta.

«Wow!» riuscì solo a dire il cliente.

Due signorine con delle cartelle trasparenti sul braccio si erano fermate incuriosite nel vano della porta aperta. Una aveva i capelli sciolti, l'altra no.

«Ecco...» cominciò l'art, passandosi la mano sui radi e lunghi capelli ingellati, incollati alla testa precocemente stempiata, «ho preparato già delle icone su cui lavorare, esemplificative dei vari periodi storici e tipi di donne. L'idea è di mostrare il tipo di assorbente che queste qui dovevano con ogni probabilità portare sotto i vestiti, immaginando che mentre stavano in posa di fronte all'artista fossero mestruate, lavorando sull'immagine con gli effetti speciali, come una radiografia tridimensionale e a colori. Sotto i vestiti, ma anche se l'immagine si presenta nuda. Mostrarle con l'assorbente soltanto, o le fasce, o le spugne, o le pezze tenute ferme con delle spille, quando le donne non portavano le mutande...»

«Non portavano le mutande?» bisbigliò il giovane cliente all'account, con l'acquolina in bocca. «Accidenti, quando glielo dirò a mio padre!»

Breve silenzio.

«Non si sente volare una mosca!» disse il direttore creativo. «Buon segno! E voi due, signorine, che cosa ne dite?»

La prima spalancò gli occhi, la seconda la bocca.

«Ecco» disse l'art quando vide che la prima immagine era già pronta nel lettore, «le donne egizie, la Venere di Milo, gli affreschi pompeiani... poi ho pensato a questo Masaccio, Eva, La cacciata dal paradiso terrestre, che potrebbe aprire il ciclo che si conclude poi col ritorno nel Paradiso dell'assorbenza. Ma è un'immagine forte...»

«No, no» interruppe lo psicologo, «non è il caso di associare il prodotto a un'immagine di dolore simile! Anche se potrebbe funzionare proprio per questo, essendoci il lieto fine. Poi cosa c'è?»

«Poi c'è questo Piero della Francesca. Ho scelto l'incontro tra Salomone e la regina di Saba. Però la regina è girata di fianco...»

«Quella stronza!» interloquì il copy.

«Sì, ma c'è quella bella figura in verde girata di schiena! Si potrebbe scegliere lei, mostrando l'estremità della pezza che spunta da dietro, sotto il vestito. Poi Botticelli... Qui andiamo a colpo sicuro! L'allegoria della primavera. Perfetto! Visibilità totale sotto i veli di quelle stangone col raffreddore che danzano. Potrebbe essere la brand image di tutta la campagna! Poi un bel Giorgione. La tempesta, naturalmente...»

«No, no!» disse lo psicologo. «Spaventerebbe le potenziali clienti! E poi quel bambino al seno!»

«Facciamo quel pezzo di ragazza della Venere, allora! Anche se c'è anche qui il problema di quella benedetta mano! Poi Raffaello, naturalmente... La Muta ha le mani proprio lì davanti. L'ha scampata bella! Idem per La Velata...»

«Accidenti!» interloquì ancora il copy. «Cosa le avremmo potuto mettere tra le cosce, a quella lì? Che potesse reggere il confronto con quella manica...»

«Signorine, al lavoro!» rise il direttore creativo, girandosi verso la porta.

Le due signorine sparirono ridacchiando. Una aveva un diamantino nella narice, l'altra no.

«E poi Leonardo» continuò l'art, passandosi la mano precocemente calva sul velo della barba regolata molto corta. «Ci vorrebbe Leonardo... Quale migliore brand image della Gioconda per questa campagna! Ma il ritratto è tagliato un po' troppo in alto, non serve a un cazzo!»

«Che fregatura!» esclamò l'account. «Proprio quella! Andava così bene... quelle mani conserte sulla sua bella patacca rossa!»

«No, no, il rosso non si deve vedere!» si animò lo psicologo. «La pezza deve essere sempre come appena messa, immacolata! Però è un fatto che l'immagine è tagliata troppo in alto. Cosa facciamo? La centriamo un po' più in basso? Ma poi... battono tutti sempre su questa Gioconda... ha un po' stufato!»

«La nostra brand image va a farsi fottere!» sghignazzò l'account. «Non era poi il genio che si dice, questo Leonardo!»

«Siamo a Rembrandt...» continuò l'art, mentre scorrevano le immagini nel lettore. «Il ritratto di Baartjen Martens...»

«Sì, mio nonno!» interloquì ancora l'account. «Quella lì è già in menopausa! Ha avuto da pochi secondi una scalmana, mentre posava per il ritratto...»

«Allora ci sarebbe la Betsabea...»

«Lasciamo stare» scosse la testa lo psicologo. «E poi ha già quella specie di fagotto...»

«La sposa ebrea

«No, no, a me quella lì sembra incinta! Non è incinta, per caso? E poi ha l'aria di una che si lava poco.»

«Via la puzzona! Via la puzzona!» gridarono gli altri.

«Lucrezia...»

«Questa qui si sta pugnalando, addirittura» scosse di nuovo la testa lo psicologo, «tanto è contenta di portare la nostra marca di assorbenti! No, no, niente da fare, Rembrandt non funziona!»

«Allora Vermeer...»

«Accidenti! Tutte queste donne di fianco!» si spazientì l'account.

«Potrebbe andare bene questa donna alla finestra...» propose l'art, fermando l'immagine sul lettore.

Lo psicologo scosse ancora la testa.

«Chi ci capisce qualcosa! E poi... che cosa ha visto dalla finestra, per fare quella faccia? E perché, proprio in quel momento, ha afferrato quella caraffa? No, no, genererebbe ansia!»

«Allora andiamo sul sicuro: Goya!» riprese l'art. «Il Parasole, per esempio. Oppure, meglio ancora, la Maja! Desnuda, naturalmente! Bella, senza veli, frontale! Col nostro assorbente tra le sue belle cosce. Il tipo interno, direi... semplicemente col filo di garza che le esce.»

Il giovane cliente si agitò sulla sedia. Era rosso in volto, sudava.

«Stia calmo!» gli mormorò l'account, piegandosi su di lui.

«E Velázquez... la Venere allo specchio. Assorbente interno, il filo che le esce da dietro, come la coda di una cometa. E poi Ingres... il ritratto di Madame Moitessier...»

«Mah... con tutto quel bianco, quei fiori!» interloquì il direttore creativo. «Allora, tanto che ci siamo, andiamo giù duri: il bagno turco. Ce l'ha qui?»

«Sì, sì, come no!» disse l'art mentre l'immagine si fermava nel lettore.

«Accidenti, che sfilata!» si emozionò il cliente. «Davanti! Di dietro!»

«E poi Manet, l'Olympia!» proseguì l'art. «Oppure quella ragazza in piedi contro lo specchio, al bar delle Folies-Bergères!»

«No, no, troppo triste quella stronzetta!» disse lo psicologo.

«Allora Holliday... L'Incontro di Dante con Beatrice. Perfetto! Tutte e tre frontali, Beatrice e le amiche. Tre begli assorbenti in primo piano. E Dante tutto pallido che si tiene con la mano alla spalletta dell'Arno, con la sua canappia... E poi Van Gogh, non può mancare... Quel nudo visto da dietro, di quella puttana con cui viveva. Assorbente interno...»

«Niente da fare, farebbe schifo!» tagliò corto lo psicologo.

«Allora La Musmé...»

«Non c'è male. Ma quel fiore proprio sopra... E poi quella faccia: no, no, niente da fare. Questi fiamminghi non funzionano!»

«Allora Madame Cézanne nella serra. Straordinario! Scusate, ma io ho un debole per questo ritratto! Un dipinto che, nell'arte moderna, vale quello della Gioconda nel Rinascimento! E poi Munch. Pubertà...»

«La ragazzina ha appena assistito alla sua prima emorragia. È angosciata perché non ha niente con cui fermarla...» interloquì il copy. «Vedete cosa succede a non avere sempre con voi il nostro assorbente!»

«E poi Seurat... mi ero dimenticato di Seurat» riprese l'art. «Lo Chahut, per esempio...»

«Accidenti! Tutte in fila con la gambetta levata!» si animò il cliente. «Ma sono di fianco, quelle stronze!»

«Potremmo farle girare con gli effetti speciali» suggerì il direttore creativo, «e sbattere in faccia agli spettatori un paio di begli assorbenti! Puntinisti anche quelli, naturalmente...»

«Assorbenti puntinisti?» considerò lo psicologo. «No, no, genererebbe insicurezza nelle potenziali clienti!»

«E siamo a Klimt!» continuò l'art. «La Danae, naturalmente... Brand image? Ci sono commenti?»

«Accidenti, straordinaria!» disse lo psicologo. «E poi associata a quella pioggia d'oro, se l'abbiniamo a qualche concorso a premi...»

«Con Modigliani c'è solo l'imbarazzo della scelta. Nudo con le mani giunte. Perfetto! Frontale, gambe divaricate, cosce possenti... quasi un sacrilegio coprirla con un assorbente esterno. Meglio interno, direi...»

«Mah... questa non ce la fanno passare!» brontolò il direttore creativo.

«Nudo coricato sul fianco sinistro. Assorbente interno, naturalmente, filo che esce da dietro, cometa...»

Il giovane cliente si mosse più volte, sulla schiena, si passava il fazzoletto sulla fronte sudata, non fiatava.

«Ha gli occhi fuori dalla testa! Si calmi» gli sussurrò l'account, «altrimenti non riuscirà a spiegare niente a suo padre quando tornerà al suo paesello, tra le sue valli...»

«E Matisse» stava dicendo l'art, che si portava di tanto in tanto una mano sui capelli ingellati. «Il nudo blu. Perfetto, già in posa! E poi Picasso...»

«Andrebbe bene La capra!» suggerì il copy. «La posa è perfetta!»

Qualcuno approfittò dell'ilarità generale per andare a prendere una cioccolata calda dalla macchinetta, qualcun altro per accendersi una sigaretta alla menta.

«E poi Giacometti, Caroline...»

«Ma quanti anni potrà avere quella seppia? Non si capisce. Non sarà in menopausa?» disse l'account.

«E tutto quel nero attorno alla testa...» continuò lo psicologo, «farebbe paura alle nostre clienti. Suggerisce l'idea che anche il flusso sia nero...»

«È vero, sembra proprio una seppia» si animò l'art, «è proprio come una seppia! Definisce il proprio spazio attorno a sé emettendo con la sua testa come una nuvola d'inchiostro. Io metterei questo dipinto dopo la Gioconda e dopo Madame Cézanne nella serra. In fondo è sempre lo stesso quadro, sempre la stessa idea. Però si capisce cos'è successo tra l'uno e l'altro, nel frattempo, al tempo, allo spazio... e anche alla testa che ci sta dentro...»

«Niente da fare! Cazzate! Non funziona!» esclamò lo psicologo. «Niente assorbenti neri, niente assorbenti per seppie!»

«Mettiamoci un Mondrian!» rise il copy.

«Un po' difficile piazzare un assorbente su uno di quei quadrati!» rise il direttore creativo.

«Be'... se si cerca bene, il posto dove metterlo lo si trova sempre!» rise l'account.

Le due ragazze avevano fatto di nuovo capolino nel vano della porta.

«E si potrebbe finire con Bacon» saltò su il copy. «Sangue sul pavimento, ovvero quello che vi succederà se non avrete a portata di mano il nostro assorbente!»

«Brand image! Brand image!» risero tutti. Meno l'art.

«Scusi se mi intrometto» interruppe il Gatto. «Lei è un'autentica rivelazione! Sono senza fiato! Un'agenzia pubblicitaria! Accidenti, che sviluppi intravedo! E questa Storia generale dell'assorbenza! Ma non avevamo parlato di una storia d'amore? Mi scusi... Dove sarebbe questa storia d'amore?»

L'ispettore Lanza arrossì di colpo.

«Un po' di pazienza, adesso arriva!»

«Ah, bene, bene! Non la interrompo più. Mi sto divertendo, glielo assicuro. Come un matto, si potrebbe persino dire...»

Qualche ora dopo, solo nel suo appartamentino della casa albergo dove viveva da pochi giorni, l'art stava sfogliando un pacco di fotografie di aspiranti testimonial della campagna: ragazze in biancheria intima, sotto le cui mutandine si indovinava il leggero rigonfio dell'assorbente.

Mise da parte quelle che gli sembravano migliori e le appese qua e là per la stanza con le puntine, su una grande bacheca di sughero, sulle cornici delle porte e sui mobili, per averle sotto gli occhi mentre girava per la stanza, inserì della musica per organo nel lettore cd e andò a spazzolarsi i denti nel bagno.

Accese le luci sulla specchiera, per guardarsi denti e gengive mentre si spazzolava con le labbra sbocciate. Un istante dopo, alzando gli occhi, scorse schizzi di sangue contro lo specchio.

«Come può essere successo?» si disse rimuovendoli con un segmento di carta igienica. «Eppure le gengive non sanguinano! E poi è schizzato con forza, mi sembra...»

Si rinnovò il gel, si lisciò la striscia di capelli lucenti, si lavò le mani ingellate sotto il rubinetto prima di ritornare nell'altra stanza.

Si lasciò cadere sulla poltroncina a ruote, girevole, ruotando su se stesso per guardare ancora una volta in un'unica carrellata le fotografie delle ragazze in mutandine e assorbente appese con le puntine tutt'intorno, mentre il suono dell'organo era salito ancora di più, faceva vibrare i vetri della finestra.

Ruotò ancora più volte. Poi guardò l'orologio, si alzò dalla poltroncina, andò a disinserire il cd, corse fuori di casa con una manica della giacca infilata e l'altra no, uscì in strada, percorse tutta la stretta via, fino a una strada più grande, a due corsie. Balzò sull'autobus, che si era fermato proprio in quel preciso momento, discese dopo poche fermate, attraversò un altro paio di strade larghe, parallele, imboccò una stradina punteggiata di cacche di cane (bisognava ballare il tip tap per schivarle!) fino al capannone dello studio.

C'era, davanti alla porta di metallo, una piccola ressa di aspiranti bambini che mangiavano merendine, di aspiranti signorine gelato e di aspiranti dopobarba.

«Ah, sei qui!» disse il copy vedendolo arrivare. «Sei in ritardo!»

Prese l'art a braccetto, lo portò fino al set, dove si stava svolgendo la scelta del casting.

Diverse ragazze che dovevano ancora sfilare si stavano aggiustando un'ultima volta l'assorbente sotto la mutandina.

«Come va?» chiese l'art.

«Mah... ne ho già viste una decina. Non saprei... nessuna che mi abbia colpito in modo particolare.»

Le ragazze ricominciarono a camminare una dopo l'altra sulla moquette della passerella, di fronte al copy e all'art che si erano stravaccati su due sedie a sdraio, dietro gli steli dei riflettori.

Qualcuna aveva la pelle d'oca, qualcun'altra no.

«Il problema è: volto nuovo o testimonial nota» continuò il copy. «Se non si trova nessuna che sfondi veramente, bisognerà optare per la seconda strada. Tu cosa dici?»

«Eppure, eppure...» si animò l'art, «un volto nuovo andrebbe meglio. Continuiamo a cercare.»

«Sì, sì, cerchiamo pure. Però lo vedi anche tu come stanno le cose...»

Qualcuna delle ragazze sorrideva al copy e all'art, nel passare, a qualcun'altra l'assorbente andava fuori posto dopo qualche passo, faceva la torre di Pisa sotto la mutandina.

Quando il set venne spento, il copy e l'art andarono a mangiare qualcosa in una tavola calda nepalese poco distante, ballando il tip tap per uscire dalla stradina, nella quale avevano cominciato per di più a sfrecciare zigzagando i pony express che rientravano dopo l'ultima consegna nella vicina sede, tutti fumati, con l'auricolare del walkman in un orecchio e il telefonino cellulare sull'altro.

«Ma, insomma, tu come la vorresti?» disse il copy d'un tratto, mentre erano seduti sui trespoli, dopo aver mangiato in silenzio contro la parete trasparente della vetrina che dava sulla strada.

Era già buio.

L'art fece una smorfia.

«Faccia larga, zigomi larghi, circassa» disse alzando improvvisamente la testa, «bianca e piena di sangue.»

Il copy spalancò gli occhi.

«Accidenti, hai le idee chiare!»

Mentre rincasava a piedi, da solo, sovrappensiero, ed era già nella stretta via che portava alla casa albergo, un verso femminile lacerante e improvviso, proveniente dalla costruzione senza finestre che stava fiancheggiando, fece arrestare l'art.

«Che diavolo sta succedendo là dentro?» si disse. «Stanno scannando qualcuna!»

Rimase immobile per qualche istante, senza respirare, tanto più che l'urlo si era alzato ancora di più, e si erano aggiunti altri rantoli orribili, cavernosi.

Tutta la via silenziosa e deserta rimbombava.

«Devo telefonare subito al 113!» riuscì a dirsi l'art, cercando dentro la tasca il cellulare, mentre da dietro il muro venivano rantoli sempre più profondi, terminali, come provenienti dall'interno di una caverna che ne amplificasse il volume. «Avvisare che qui dentro si sta consumando un delitto, una strage, sembrerebbe persino, dal numero crescente di voci...»

Qualche istante dopo si rese conto che quella era la parete esterna di un cinema porno che aveva il suo ingresso appena girato l'angolo, nel viale più grande.

«È vero» si disse, «c'è un cinema porno, qui dentro! Si starà svolgendo proprio in questo momento una scena molto affollata, un'orgia, con esseri umani, animali, vegetali, minerali... mentre tutti stanno a guardare, al buio, là dentro, a smanettare...»

Riprese a spostarsi verso la casa albergo, nella piccola via silenziosa e buia che rimbombava di rantoli amplificati e di respiri. Aprì il portoncino con la combinazione numerica, fece qualche passo nel piccolo androne, poi di fianco alla parete di vetro dell'ufficio della direzione spento e deserto. L'ascensore era già fermo a pianterreno. Salì fino al suo piano, si diresse verso la sua porta cercando il mazzo di chiavi nella tasca. Ma, un istante prima di aprire, si arrestò.

Il pomo della maniglia era sporco di sangue.

«Com'è possibile?» si disse senza fiatare.

Si guardò attorno macchinalmente, nel pianerottolo deserto e ormai con le mezze luci.

Prima di entrare, prese di tasca il fazzoletto e lo girò attorno al pomo, per pulirlo.

La mattina dopo, l'art uscì di casa in ritardo. Aveva dormito poco, si era addormentato soltanto verso l'alba e si era svegliato con fatica.

Si diresse verso l'ascensore, lo chiamò e, mentre lo aspettava, chiuse con la cerniera la borsa piena zeppa di fotografie, di studi e di esiti di pre-test.

Sentì che l'ascensore era arrivato. Le due mezze porte metalliche si aprirono con un soffio, scorrendo.

Quando si fu spalancato del tutto, l'art restò senza fiato.

Sul pavimento, al centro della cabina, di fronte allo specchio, c'era una straripante montagnola di assorbenti impregnati di sangue, in un secchio di plastica azzurra.

«Oh, cazzo!» si disse l'art.

Si guardò attorno, ma non c'era nessuno nel pianerottolo.

Rimase qualche secondo così, indeciso se entrare lo stesso nell'ascensore o se scendere a piedi. Guardò l'orologio. Accidenti, com'era tardi!

Fece un passo nell'ascensore, si mise in un angolo, schiacciò il pulsante e, mentre la cabina scendeva, gettava di tanto in tanto un'occhiata alla montagnola di assorbenti riflessa dal grande specchio a tutta parete, che pareva raddoppiare anche quel certo profumino che saliva distintamente da quella parte.

«Questa poi...» si disse mentre schizzava fuori dall'ascensore con il fazzoletto nuovo ancora stirato premuto contro il naso.

C'era una ragazza, immobile a pochi passi dalla porta, a pianterreno.

«Accidenti, cos'ho combinato!» si disperò quando lo vide. «Avevo messo dentro il secchio a pianterreno, per portarlo giù nel seminterrato, dove ci sono i bidoni delle immondizie, così non mi faccio vedere lungo la scala con quelle cose. Ma mi è bastato girarmi un momento perché lei chiamasse l'ascensore dal suo piano...»

Parlava concitatamente, si tormentava le mani.

«Stia tranquilla, non importa... Ma lei chi è?» provò a chiedere l'art.

«Sono la ragazza che fa le pulizie nelle stanze.»

L'art era rimasto impalato a guardarla.

Com'era bella!

«Che guaio, che guaio!» riprese a tormentarsi la ragazza, e si morsicava le labbra, impallidiva. «Non mi era mai successo, mi scusi, ma se può... se vuole essere così gentile con me, così delicato... Non dica niente in direzione, la prego. Se no quelli mi cacciano! Io sono santuaria...»

«Vuole dire saltuaria?»

«Sì, sì, quella roba lì. Sostituisco una mia cugina che adesso è malata, vivo nella sua cameretta qui a pianterreno. È quella lì, guardi...» disse girandosi per indicarla.

L'art continuava a guardarla con gli occhi un po' spalancati, non fiatava.

«Stia tranquilla, stia tranquilla!» provò a rassicurarla di nuovo. «Non dirò niente.»

La ragazza sorrise con le labbra ancora leggermente tirate. Portava un abito di lavoro a pois di due taglie più grandi, un paio di enormi, colorate ciabatte di peluche a forma di coccodrillo.

«Ma le conviene tirarlo fuori, adesso, quel secchio» scherzò l'art, «altrimenti qualcuno da qualche altro piano chiama di nuovo l'ascensore!...»

«Ah, sì, sì, che sbadata!» si allarmò la ragazza, gettandosi nell'ascensore per prendere il secchio.

Lo sollevò da terra, ed era così pieno che tutta la catasta traballava. Si diresse ansimando verso la scaletta che portava giù nel seminterrato.

«Mi scusi» scherzò ancora l'art, un istante prima di uscire, «ma in quante siete, là dentro? A giudicare dal contenuto del secchio...»

E indicò con un movimento degli occhi la porta della sua cameretta.

La ragazza lo guardò col suo viso largo e bianco, dagli occhi distanti, fermandosi per un attimo lungo le scale col secchio sollevato.

«Oh, no, ci sono solo io!»

La giornata era soffice, fresca. C'era un venticello che faceva avvertire la presenza dei lobi delle orecchie. L'art prese sovrappensiero l'autobus, scese a poca distanza dall'agenzia, attraversò la porta a vetri, si fermò a mangiare qualcosa al bar, attraversò sovrappensiero il saloncino con gli uffici a vista degli account, salì una rampa trasparente di scale, salutò, picchiettandola col dito medio, una testolina che stava chinata su un video luminoso, per dare gli ultimi ritocchi al logo di una nuova marca di pannoloni per adulti incontinenti, entrò nel suo ufficio, si andò a sedere senza dir niente alla sua scrivania, faccia a faccia con l'altra scrivania gemella del copy, che alzò gli occhi appena un istante, per guardarlo.

Li riabbassò di nuovo, continuò a scorrere un testo.

«Non hai dormito?» gli chiese qualche istante dopo, senza alzare gli occhi.

«Perché?»

«Hai un occhio più piccolo dell'altro.»

«Sì, in effetti ho dormito poco, questa notte.»

Silenzio.

«Hai sniffato?» chiese ancora il copy, dopo un po', sempre senza alzare gli occhi dal testo che stava scorrendo.

«Perché?»

«Hai della polverina bianca sul naso.»

L'art si passò macchinalmente una mano sulla punta del naso, due o tre volte.

«No, no, ho mangiato una brioscina, giù al bar!»

Ancora silenzio.

Veniva su dalla scala dai gradini trasparenti un suono di scarpette precocemente calve che salivano e scendevano tra i vari piani dell'agenzia.

«Ecco, ho finito!» disse il copy dopo aver terminato di scorrere il testo. «Vieni!»

Si alzò dalla poltroncina, prese sottobraccio l'art.

Lungo il corridoio, e poi sulle scale trasparenti, l'art camminava in silenzio, assente, a fianco del copy che continuava a parlare e a salutare.

«È pronto il tuo testo?» chiese l'account, quando entrarono nel suo ufficio.

«Quasi» disse il copy buttandosi a sedere su una delle poltroncine.

«Forza, datti da fare! Il cliente lo vuol vedere. Non sta più nella pelle. È la prima campagna che segue, è fuori di testa, è eccitato, suda, vuole conoscere le ragazze del casting, assistere alle sfilate delle selezioni.»

Alle spalle dell'account, su un mobile a ripiani e persino sparpagliati qua e là sulla sua scrivania c'erano fustini di detersivo delle ultime campagne, contenitori per bibite energetiche di concezione nuova, un formichiere di plastica rosa testimonial di una collana di romanzi sentimentali per signore della terza età.

«Avete visto i primi test del casting?» chiese l'account.

«Sì» disse il copy, che era intento a sfogliare una rivista di vendite per corrispondenza trovata su un tavolino.

«Non ci sono da fare salti di gioia!» continuò l'account. «Una ha il bacino troppo largo, l'altra ce l'ha troppo stretto, l'altra ancora non ce l'ha né troppo largo né troppo stretto e non si nota. A quella l'assorbente si vede troppo sotto la mutandina, a quell'altra troppo poco. E poi la ripresa da dietro... sembra che abbiano un mozzicone di coda! Io la toglierei dallo storyboard. E le facce! Non devono dare l'idea della sofferenza mestruale, si è raccomandato lo psicologo. Ma non devono neanche essere troppo asettiche. Non dico la classica faccia da marchese, con le occhiaie fin qui, ma neanche quelle faccine...»

«Vogliamo far usare gli assorbenti anche ai maschietti?» rise il copy.

«No, è ovvio» sghignazzò l'account. «Però, insomma, qualcosa deve arrivare anche ai maschietti. Bisogna coinvolgere in qualche modo anche loro nella scelta. Per quando lei gli dirà: "Oh, caro, guarda, ho finito gli assorbenti e mi sono venute le mie cosine! Corri per favore al supermercato a prendermi gli assorbenti. Non è il caso che io esca in questo momento, ho male alla pancia, alla testa, vomito, starnutisco, sii gentile! Non ti devi vergognare, non c'è niente di male!". Dobbiamo pensare a quando il servizievole maschietto vaga lungo la corsia degli igienici, al supermercato, e deve scegliere tra le tante marche di assorbenti esposte... e gli viene in mente proprio in quel momento quella campagna che ha visto distrattamente in tv, per quella complicità che si può creare tra i due, per cui lui sceglie di acquistare quella marca solo perché lei gli ha detto una certa frase, mentre scorrevano le immagini dello spot in televisione, oppure il contrario, se è lei a scegliere l'assorbente al supermercato ed è stato lui a bisbigliarle quella certa frase... Insomma, quelle degli effetti speciali stanno già lavorando sui dipinti. Ci daranno fra un paio di giorni le prime prove. L'idea è passata alla grande, nei pre-test. Il musicista è al lavoro. La voce dello speaker è ok, la scenografa sta già lavorando al Paradiso dell'assorbenza, siamo già quasi pronti per il pre production meeting. Insomma, ci manca solo la nostra bella faccia da marchese!»

«L'ho trovata!» esclamò improvvisamente l'art, che era stato in silenzio per tutto il tempo, assente.

«Che cosa gli è successo? È impazzito!» chiese l'account al copy, mentre l'art balzava fuori senza dire nient'altro dall'ufficio.

«Mah... che ne so!» rise il copy. «È arrivato in ritardo, con un occhio più piccolo dell'altro e della polverina bianca sulla punta del naso!»

Si guardarono un istante senza parlare, mentre l'art era nel frattempo già uscito dal saloncino e percorreva a lunghe falcate il corridoio, passando di fianco ai tavoli luminosi e poi alla ragazza del centralino. Corse in strada, saltò sull'autobus nel momento stesso in cui stava ripartendo, e il conducente teneva ancora le porte a soffietto spalancate per permettergli di salire. In piedi in fondo alla vettura, guardava le vie e i tetti delle macchine che si spostavano precocemente calve qua e là, mentre percorreva le stesse strade da poco percorse all'incontrario. Qualche clacson suonava, qualcun altro no.

Saltò giù alla sua fermata, percorse quasi correndo la piccola via che portava alla casa albergo, passando accanto alla fiancata del cinema porno, da cui proveniva in quel momento un devastante barrito (segno che il film che stavano proiettando era ambientato nella giungla), perché in quel locale le proiezioni cominciavano alle dieci e mezzo del mattino.

Si gettò nell'ingresso della casa albergo, passò davanti alla vetrinetta della direzione accesa nonostante ci fosse molta luce, senza salutare, si diresse verso la porticina che le aveva indicato poco tempo prima quella ragazza delle pulizie. Aveva ancora la mano sollevata nell'aria, indeciso se bussare discretamente o se premere il campanello, quando, abbassando gli occhi, si arrestò.

Usciva un filo di sangue da sotto la porta.

«Oh, no, accidenti!» si disse col cuore in gola. «Sono arrivato troppo tardi! L'hanno sgozzata!»

Eppure si sentiva canticchiare, da dentro.

«Sembra la sua voce...» si disse l'art, provando a bussare un paio di volte, con forza.

Un istante dopo la porta si aprì.

«Oh... è lei!» disse la ragazza affacciandosi a piedi nudi al pianerottolo, con l'auricolare del walkman in un orecchio.

«Avevo paura che le fosse successo qualcosa» disse l'art tirando un sospiro, «esce del sangue dalla sua porta!»

La ragazza sporse la testa, guardò il pavimento.

«Accidenti, che guaio! Ero tutta presa dalla musica, non me n'ero accorta!» si disperò. «Io non so perché devo avere un flusso così forte... Oh, guardi qui, anche lungo la gamba!»

C'era infatti un filo di sangue che le colava lungo la gamba, tra le dita dei piedi nudi, e continuava poi a scorrere lungo il pavimento tutto impiastricciato, oltre la fessura della porta.

«Presto, presto!» disse concitatamente l'art, senza staccare gli occhi dalla ragazza. «Si cambi, si metta qualcosa. Faccio un salto su da me a posare la borsa, sono qui fra cinque minuti, si faccia trovare pronta. È quasi ora di pranzo. C'è un bel localino, qui vicino. La invito. Le devo urgentemente parlare di una cosa...»

«È ancora arrabbiato per questa mattina?» si allarmò la ragazza.

«Ma no, cosa dice! Forza, non perda tempo, si prepari!» disse l'art mentre già era girato di schiena, e si dirigeva verso la rampa delle scale di servizio, per non perdere tempo ad aspettare l'ascensore.

Arrivò col fiatone di fronte alla sua porta, si gettò dentro, buttò la borsa sopra il divano, corse nel gabinetto, si guardò un istante allo specchio, prima di rinnovarsi rapidamente il gel sui capelli, si pettinò, si sciacquò le mani, preparò lo spazzolino per lavarsi i denti, se lo infilò in bocca e cominciò a spazzolarsi. Un istante dopo si mise a sputare furiosamente nel lavabo, perché nella concitazione aveva spremuto sullo spazzolino il tubetto del gel invece che quello del dentifricio.

Sparò le labbra, si guardò i denti tutti ingellati, si sciacquò, sputò ancora, prima di uscire di corsa dall'appartamento e di imboccare di nuovo le scale di servizio, e poi giù a pianterreno, dove la ragazza era già perfettamente pronta, fuseaux a fiorellini, bolerino e valigetta in mano.

«Vado bene?» domandò, trattenendo il respiro.

«Oh, sì, sì! Però, forse, mi scusi... forse è meglio se si cambia le scarpe» disse l'art, perché aveva ai piedi le stesse pantofolone di peluche a forma di coccodrillo della mattina.

La ragazza corse in casa a cambiarle, uscì un istante dopo con un paio di scarpette rosse col mezzo tacco e due grandi fiocchi in tessuto dello stesso colore sulla scollatura.

«Le uso solo nelle grandi occasioni» disse arrossendo, mentre erano già seduti uno di fronte all'altra nel localino, che avevano raggiunto camminando a braccetto, senza parlare, «sperando che non mi capiti quello che ha visto anche lei, poco fa, durante i primi giorni quando il flusso è più forte. Si riempiono in un batter d'occhio, se l'assorbente si inzuppa tutto e comincia a colare giù dalle gambe, si sente il plic ploc quando cammino, devo fermarmi ogni tanto a vuotarle, per strada, senza farmi vedere, nelle fontane. Devo mettere due assorbenti dentro le scarpe, al posto del plantare. Io non so perché devo avere un flusso così fuori dal normale! Devo sempre andare in giro con questa valigetta piena di assorbenti, mi sembra di spillare una botte quando me lo tolgo un momento per cambiarlo. Tutte le piastrelle innaffiate... Ma, mi scusi, parlo sempre io, sono una chiacchierona... Lei chi è, cosa fa?»

«Sono un creativo!» disse l'art senza staccare gli occhi dalla ragazza.

Rimasero a lungo senza parlare, mentre il cameriere prendeva le ordinazioni al tavolo vicino, ma si guardavano a tutto spiano, senza fiatare, e le loro ginocchia si toccavano di tanto in tanto perché il tavolo era piccolino, quadrato, di quelli che rifilano sempre alle coppie, e intanto piluccavano il pane nel cestino, raccoglievano le briciole cadute sulla tovaglia e se le portavano senza ragione alle labbra, o aprivano le buste dei filiformi grissini e li spezzavano tra i denti solo per sentire il cric crac nella testa.

«Oh, che bello! Come sono contento! Come sto bene!» balbettò l'art, guardando col cuore in gola la ragazza, che lo guardava a sua volta con gli occhi allargati e una briciola un po' ballerina sulle labbra.

Il cameriere si fermò accanto al loro quadratino.

«Cosa ordinano da bere? Un po' di vinello rosso?» propose.

«Perché no! Il vino fa sangue!» esclamò la ragazza.

Arrivarono, uno dopo l'altro, i piatti. Risotto, ossobuco con contorno di fagiolini stufati. L'art non staccava gli occhi dalla ragazza, che mangiava con grande appetito, senza parlare.

«Volete anche un po' di formaggio?» tornò a domandare il cameriere.

«Perché no!» esclamò la ragazza.

L'art continuava a guardarla mentre spalmava il formaggio su un boccone di pane, con il coltello, e poi se lo portava golosamente alle labbra.

«Un po' di dolce?» propose di nuovo il cameriere.

«Oh, sì, una bella meringa!» si animò ancora di più la ragazza.

Arrivò la meringa, in un piattino.

La ragazza la liberò del suo pizzo di carta, si portò alle labbra la nube di panna, la ridimensionò un po' prima di separare le due valve di chiara d'uovo montata a neve, e di mettersele in bocca una dopo l'altra, intere, chiudendo beatamente gli occhi mentre le masticava.

«Accidenti, mangia con appetito! È un piacere vederla!» le sorrise l'art, che si portava a sua volta il cibo alle labbra senza staccare gli occhi da lei.

«Devo mangiare molto per tenermi su!»

La sala era tutta gremita, si sentiva un brusio soffice, rumori molto intonati di stoviglie.

«Non ci sarebbe un altro po' di vinello?» disse la ragazza sollevando il bicchiere.

L'art glielo riempì piano piano, versò il rimanente nel suo.

«Fischia, che buono!» esclamò la ragazza, leccandosi le labbra.

L'art aveva allungato irresistibilmente la mano verso una delle mani della ragazza, gliela sfiorò con le dita rosate, vasodilatate.

«Mi scusi» provò a balbettarle ridendo, dopo un po', «ma ieri sera, quando sono tornato a casa, la maniglia della mia porta...»

«Accidenti, lo sapevo! Se n'è accorto!» si disperò la ragazza, prendendosi la fronte tra le mani.

«Ma no, ma no! Non si preoccupi, non si deve giustificare, non è niente di grave!»

Allungò di nuovo la mano verso quella di lei, che gliela prese.

«Volevo tornare nel suo appartamento perché mi era venuto il dubbio di averle macchiato lo specchio...»

«Ah, sì, è vero, anche lo specchio!»

La ragazza si batté rumorosamente una mano sulla fronte.

«Ha visto anche quello? Oh, accidenti! È successo di mattina, mentre le pulivo il lavabo... deve essere partito uno spruzzo contro lo specchio! Ho un flusso talmente forte, soprattutto all'inizio, gliel'ho detto... Verso sera mi è venuto il dubbio se avevo pulito lo specchio oppure no, prima di lasciare il suo appartamento. Così sono salita col passepartout, per controllare. Si vede che, qualche secondo prima di mettere la mano sul pomo della maniglia, mi ero toccata per essere sicura che l'assorbente fosse al suo posto, che non si fosse inclinato un po' da una parte e non tappasse bene. Mi sarà rimasta la mano un po' bagnata... Ma proprio in quel momento ho sentito che si stava fermando l'ascensore al piano. Sono scappata via perché non mi trovasse, dopo quello che era successo alla mattina nell'ascensore... Mi scusi se non mi spiego bene, ma non sono abituata a bere, sono un po' brilla!»

Il cameriere, che era venuto a chiedere se volevano il caffè, stava fermo con gli occhi sgranati ad ascoltare, non fiatava.

«Caffè?» riuscì infine a dire.

«Sì, con la panna!» si animò la ragazza.

Sorbivano il caffè guardandosi negli occhi mentre biascicavano con le labbra quella schiumetta. Il locale si stava a poco a poco svuotando, il cameriere stava già cominciando a tirare via dai tavoli le tovaglie piene di briciole e macchioline.

«Accidenti, che distratto!» si ricordò improvvisamente l'art. «Non le ho ancora detto la cosa più importante: le interesserebbe girare alcuni film pubblicitari per una nuova marca di assorbenti?»

«Sta dicendo sul serio?» farfugliò la ragazza.

«Altroché! Sono io l'art di questa campagna. Non esiste al mondo nessuna più indicata di lei!»

La ragazza rimase per alcuni istanti in silenzio.

«Mi scusi un momento, mi scappa, sono un po' emozionata» sussurrò.

Si alzò dalla sedia, prese la valigetta che aveva lasciato vicino a una gamba della sedia, e si diresse con questa verso la toilette.

L'art chiamò il cameriere, pagò il conto, si lasciò franare contro lo schienale, emozionato.

Quando la ragazza tornò era più pallida ma più distesa, sorrideva.

«Intanto che c'ero mi sono cambiata l'assorbente» spiegò sottovoce. «Me ne sono messi due anche nelle scarpe, per sicurezza...»

Traballava un po' sulle gambe, mentre camminavano abbracciati verso casa.

«Ho capito bene quello che ha detto prima?» domandò la ragazza con la voce leggermente impastata, dopo un po'. «Mi deve scusare, è successo tutto così in fretta... Sa, devo essere un po' brilla, non sono sicura di aver capito bene...»

«Ha capito benissimo!» le sussurrò l'art, con la bocca premuta contro la sua testolina.

Camminarono ancora senza parlare, fino all'ingresso della casa albergo. Passarono di fronte alla vetrina della direzione, vuota e con le luci spente perché era orario d'intervallo. Salirono i pochi gradini che portavano al pianerottolo del pianterreno, piano piano e sollevando con attenzione i piedi per non inciampare, fino alla porta della ragazza.

Si fermarono per qualche istante, senza fiatare.

La ragazza cominciò a frugare nella sua valigetta, in cerca delle chiavi.

«Vuole aspettare che abbia finito il ciclo» esclamò con la voce impastata, «oppure le va di spillarmi così come sono?»

«Verifica dell'impatto e pre-test favolosi, tv a circuito chiuso e specchio segreto da infarto!» stava dicendo l'account spaparanzato sulla sua poltroncina girevole. «Ero là dietro, ti assicuro che le donne sembravano ipnotizzate, gli uomini avevano gli occhi fuori dalla testa, la bava alla bocca, ppm andato alla grande, storyboard approvato per acclamazione, lo psicologo balbettava, i musicisti sembravano avere preso la scossa, allo speaker che gli avessero fatto una pera di nitroglicerina, il cliente è fuori di testa, è sempre là sul set, fa la corte alla testimonial, si presenta ogni giorno con dei mazzi di fiori. E anche tu... non per impicciarmi dei fatti tuoi, ma questa settimana hai raddoppiato la dose di gel, sembra che tu abbia svaligiato un deposito di marmellata, hai le orecchie che vibrano, sbadigli sempre. Che cavolo stai combinando?»

Seduto di fronte all'account, nel suo ufficio, l'art ascoltava sorridendo senza parlare, assente.

«Ehi, dico a te!» disse a voce più alta l'account, venendo avanti col busto. «Da' una rettificatina alla bocca, ti pende un po' da una parte! Già che ci sei registra meglio anche l'occhio da triglia. Capisco che sei l'eroe del momento, capisco che stanno girando proprio in questi giorni il Paradiso dell'assorbenza... A proposito, hanno finito? Non si capisce più niente!»

«No, no» si riscosse l'art, «finiscono oggi. Anzi, adesso devo correre anch'io sul set! C'è l'ultimo ciak, si festeggia.»

Si alzò di scatto, si stirò facendo contemporaneamente scrocchiare le dita di entrambe le mani, sbadigliò.

«Non stai dormendo molto, mi pare, in questi giorni...»

L'art sorrise. Venivano dalla rampa trasparente di scale rumori di passi e di brioscine che qualcuno sgranocchiava salendo o scendendo, quei rumorini che fanno le calze di nylon delle donne quando sfregano per un istante l'una sull'altra, e si stacca quella polverina sonora precocemente calva che fa socchiudere gli occhi, sbadigliare.

«Spero di non essere in ritardo!» si disse l'art aprendo col cuore in gola la porta seminterrata del set.

Mise la testa dentro. Non si sentiva volare una mosca. Nell'alone luminoso del Paradiso dell'assorbenza, la ragazza si stava muovendo in mutandine e assorbente tra una vegetazione di alberi di specie mai viste, realizzati dalla scenografa, da cui pendevano i fiori maturi degli assorbenti in boccio. Il regista stava immobile e a braccia spalancate sulla sua seggiola di metallo, gli elettricisti spostavano senza fiatare le luci dei riflettori sulla ragazza che camminava a piedi nudi su un tappeto di erbetta sintetica e fiorellini dipinti a mano, contro uno sfondo primordiale in trompe-l'œil. Si sentiva solo il rumore leggero della macchina, al centro di una ressa di persone emozionate e impalate che facevano anello attorno al set.

Primo piano finale, sorriso.

«Ultimo ciak finito!» esclamò il regista, saltando in piedi tra gli applausi della piccola folla.

I riflettori si spensero, si accesero le luci centrali che correvano contro il soffitto. Si sentivano già i rumori delle bottiglie di spumante che qualcuno stava stappando per il rinfresco.

Scoppiò un altro applauso.

«Brava, brava!» si sentiva gridare.

La ragazza era circondata da un gran numero di persone: regista, aiuto regista, operatori, elettricisti, inservienti.

«Signorina, signorina!» stava gridando il cliente, che cercava di farsi largo con un mazzo di fiori tra la folla degli ammiratori.

Qualcuno aveva offerto una coppa traboccante di schiuma alla ragazza, che era ancora a piedi nudi e in mutandine e assorbente al centro della ressa, e stava già allungando una mano verso il cabaret delle tartine. Qualcun altro le stava sussurrando qualcosa, chinato e con gli occhi socchiusi sulla sua testolina.

«Ah, finalmente! Mi gira la testa!» disse la ragazza scorgendo l'art, che era riuscito a farsi largo fino a lei.

Si ficcò una tartina in bocca, per poter prendere la mano che l'art le tendeva.

«Com'è andata?» riuscì a balbettare lui.

«È tutt'oggi che va avanti così!» rispose allegramente, quasi gridando per riuscire a farsi sentire. «Mi stanno tutti addosso. Ho ricevuto un sacco di proposte.»

«Proposte? Che tipo di proposte?»

«Mah... proposte per altri spot, anche per altre cose, non ho neanche capito bene...»

Era scoppiato di colpo un nuovo applauso, mentre il cerchio si allargava attorno alla ragazza ancora a piedi nudi e in mutandine e assorbente.

Il cliente era riuscito a farsi largo tra la folla, le stava consegnando il mazzo di fiori guardandola senza fiatare, paonazzo.

«Accidenti!» sussurrò la ragazza un istante dopo.

«Cosa c'è?» chiese l'art.

«Credo che mi siano arrivate... vado a tapparmi meglio!» gli sussurrò avvicinando la bocca al suo orecchio. «Sono spuntati al momento giusto, questi fiori!»

Si allontanò facendo piccoli cenni di saluto, mentre con l'altra mano teneva il mazzo di fiori contro l'inguine. Prese la valigetta, che era rimasta a fianco del set, si girò ancora un'ultima volta verso la piccola folla ferma attorno al tavolo del rinfresco, prima di raggiungere il suo camerino.

«Non mi ero sbagliata!» sussurrò all'orecchio dell'art, quando fu di ritorno. «È un fiume! Ne ho messi tre uno sopra l'altro, per sicurezza. Un paio dentro ogni scarpa... Per questo sembro più alta!»

Adesso era tutta vestita e profumata, continuava a tenere in una mano la valigetta, nell'altra il mazzo di fiori.

«Sei a piedi?» domandò sottovoce all'art, perché adesso si davano del tu.

«No, oggi sono venuto con la macchina.»

«Meno male!» sussurrò continuando a sorridere e a salutare.

Erano già molto vicini alla porta, ma qualcuno si staccava ancora di colpo dalla folla, arrivava in pochi passi fino alla ragazza, le mostrava un biglietto da visita, le faceva un ultimo complimento, un inchino.

L'art aprì, la ragazza si girò ancora una volta verso il set, agitò il mazzo di fiori in segno di saluto, sorrise con gli occhi leggermente sbarrati, mentre partiva un ultimo applauso dalla folla.

Si girò di nuovo, uscì dalla porta, camminando con le gambe un po' larghe.

«Via, via, a tutta birra!» esclamò pochi istanti dopo, tuffandosi nell'auto.

L'art accese il motore, ingranò la marcia, partì con stridore di ruote, zigzagando tra le cacche di cane precocemente calve, imboccò il vialone, attraversò un paio di isolati, senza fiatare. Scorgeva con la coda dell'occhio il profilo mestruato della ragazza, vicino a quello più variopinto del mazzo di fiori.

«Sono lavabili i sedili della tua macchina?» sentì che gli stava chiedendo, mentre guardava fisso verso il parabrezza.

«Sì, sì, credo di sì» rispose con un filo di voce per l'emozione.

La strada, dietro il parabrezza, sbocciava.

«Ti prego, fa' in fretta, fa' in fretta!» gemette la ragazza con gli occhi socchiusi.

«Sì, sì, vado come una scheggia, non vedo neanche la strada, non vedo l'ora!»

La macchina aveva già imboccato la stradina della casa albergo, stava sfrecciando a fianco del cinema porno e, anche se i finestrini erano tutti e due abbassati, venivano distintamente i rumori di molti martelli pneumatici scatenati, segno che la pellicola che stavano proiettando aveva come protagonisti degli operai che sventravano un marciapiede per ficcarci dentro i nuovi tubi più cicciottelli della metanizzazione.

Davanti alla casa albergo c'erano già molte altre auto lungo il marciapiede. L'art parcheggiò in doppia fila. Balzò fuori, mentre la ragazza balzava fuori dall'altra parte, tenendo sempre il mazzo di fiori contro il ventre.

Afferrò il braccio dell'art.

«Sono piena!» gli sussurrò con gli occhi sbarrati, camminando a piccoli passi irrigiditi verso la porta.

Passarono così a fianco della vetrina della direzione, salendo i pochi gradini fino alla porta della ragazza.

«Aspettami, sarò da te fra un momento!» provò a dire l'art, con la gola serrata per l'emozione.

«Mi tolgo io gli assorbenti o ci tieni a togliermeli tu?» gli domandò la ragazza.

«Oh, no, no, aspetta, non vedo l'ora» sussurrò l'art con la voce strozzata, «salgo un attimo da me, torno immediatamente!»

La ragazza cercava le chiavi nella sua valigetta e intanto gongolava.

«Ti dovrai mettere la muta da sub, quando mi spilli!»

L'art era già partito di corsa verso la rampa delle scale di servizio. Tornò indietro un secondo dopo, irresistibilmente, per baciarla.

«Non farmi aspettare» gemette la ragazza mentre si baciavano in bocca. «Fa' presto, fa' presto!»

L'art si staccò da lei, corse su per le scale, si gettò nel suo appartamento, poi in bagno, si lavò di fronte allo specchio i genitali e poi la faccia e la bocca, impiastricciata del rossetto della ragazza, si pettinò i capelli ingellati. Si cominciò a spazzolare i denti, ma un secondo dopo fece un salto all'indietro, cominciò a sputare furiosamente dentro il lavabo.

Fece sbocciare le labbra di fronte allo specchio. I denti e le gengive erano di colore arancione, perché nell'agitazione aveva spremuto sullo spazzolino la pomata per le emorroidi a base di olio di fegato di pescecane invece che il dentrificio.

«Oh, cazzo» si disse, «questa volta ho perso davvero la testa, mi sono innamorato!»

«Ah, finalmente! Però potevi fermarlo!» disse il Gatto prendendosi ostentatamente la testa tra le mani. «Hai sentito che roba?»

«Io? Ma c'eri tu assieme a lui!»

«Sì, sì, c'ero, ma non potevo interromperlo più di tanto! Ci ho provato una volta, l'hai visto anche tu! E poi quella scena della meringa... potevi risparmiarmi almeno quella!»

«Ma se sei stato tu a dire a quell'ispettore di farsi avanti col suo racconto! E poi sei stato tu a introdurre l'ispettore Lanza qui dentro. È roba tua!»

Il Gatto si girò a guardarmi con la testa inclinata, rovesciò gli occhi.

«Faccio finta di non avere sentito!»

Vagava nell'aria il suono di una canzonetta, proveniente da una di quelle grandi finestre aperte, improvvisate.

«Ah, senti, senti!» si animò il Gatto. «Saranno quei due che stanno cantando dopo avere scopato! Lui avrà ancora le labbra impiastricciate di quel certo rossetto... lei starà fumando tranquillamente una sigaretta a gambe larghe sul letto, e intanto zampilla...»

Aveva cominciato a zoppicare in modo diverso, cercando di seguire a sua volta il ritmo della musichetta col suo scarponcino.

«Tu comunque cosa ne dici?» mi chiese come sovrappensiero, dopo un po'.

«Di che cosa?»

«Ma di questa storia della ragazza con l'assorbente!»

Un secondo dopo mi strinse più forte il braccio, come per impedirmi di dare una risposta, ricominciò a parlare.

«Però che roba! Sono ancora qui senza fiato!» disse come tra sé. «Chi l'avrebbe mai detto che quel ricciolino tirasse fuori una roba così!»

Ai lati della strada, in due spazi pubblicitari disposti molto in alto, c'erano due giganteschi manifesti ancora freschi di colla che rappresentavano una ragazza in mutandine e assorbente.

«Oh, cazzo!» disse il Gatto, arrestandosi con gli occhi sbarrati. «Quella campagna pubblicitaria! È già stata lanciata! Però, quella ragazza, adesso che la vedo anch'io coi miei occhi...»

Riprendemmo a camminare, con la testa girata e un po' arrovesciata, per continuare a guardare i manifesti, mentre la musica della canzonetta si allontanava, aveva lasciato il passo al suono di più martelli pneumatici che alcuni operai manovravano sul marciapiede, crivellando la sua superficie segnata a colpi di gesso, di piccone.

«Accidenti, come ci danno dentro!» disse il Gatto, arrestandosi a poca distanza da uno degli operai, che vibrava conficcando l'attrezzo, si sfuocava.

Anche il marciapiede vibrava, si sfuocava.

«E poi questi getti di sangue... quasi dei geyser!» riprese. «E quest'agenzia pubblicitaria... Accidenti, che carta ci ha dato! Ci voleva proprio un'agenzia pubblicitaria, qui dentro, mi comincia a frullare per la testa. Noi siamo qui, camminiamo... Speriamo che a quelli là del messaggio vada bene, questa roba. Si accorgeranno che è stato introdotto un passo diverso, che si è allungato il passo?»

Spenzolandosi fuori da una delle finestre che davano sulla strada, un uomo stava passando febbrilmente delle scatole di cartone sigillate con nastro da imballaggio a un altro che stava a braccia levate su un camioncino parcheggiato sotto la casa. Lanciava ordini di fare presto, si girava verso l'interno della stanza per afferrare ancora delle seggiole, un comodino, una matassa di vestiti o una bracciata di scarpe, li passava e quasi li gettava sul camion, se l'altro non era abbastanza svelto ad afferrarli.

«Via, via, qui è già vuoto!» cominciò a gridare. «Accendi il motore, per guadagnare tempo, ingrana la marcia! Io salto fuori dalla finestra con l'ultima bracciata di lenzuola, non perdo tempo ad attraversare la casa, a correre giù dalle scale travolgendo le persone che incontro. Atterrerò a occhi chiusi sul camioncino pieno di materassi, di valigie e di bolle, mentre tu starai già sfrecciando verso la mia nuova casa vuota e deserta, le pareti appena imbiancate, le porte spalancate...»

«Ma cosa fa?» gli gridò il Gatto dall'altra parte della strada, emozionato. «Sta svaligiando un appartamento?»

«No, no, trasloco!» gli rispose l'uomo ridendo.

«Ma se l'ho vista traslocare due giorni fa! Non si ricorda? Io la conosco, stava a un piano sotto di me, nella mia casa!»

«Sì, sì!» gridò l'uomo mentre già stava mettendo una gamba fuori dal davanzale, con la bolla delle lenzuola tra le braccia. «E fra un paio di giorni può darsi che mi vedrà traslocare ancora, se le capiterà di passare dalla strada giusta, e fra altri due giorni ancora, e poi ancora e ancora... Io trasloco continuamente!»

«Ma perché?» gridò il Gatto.

«Perché sono un traslocatore!» fece in tempo a gridare l'uomo mentre già volava fuori ridendo dalla finestra, nella nube delle lenzuola, sul camion che si stava già muovendo sotto di lui, mentre era ancora nell'aria.

«Oh, sì, sì! Così si fa!» gli gridò dietro il Gatto, mentre il camioncino correva già a tutto gas zigzagando nelle strade gremite, e la testa del traslocatore spuntava dalla selva dei mobili e dei materassi ammucchiati, coi capelli tutti gettati indietro dalla corsa. «Io mi sento onorato di avere fatto la sua conoscenza e che lei abbia accettato di parlarmi. Faccia ancora irruzione qui dentro, quando vorrà, all'improvviso, senza chiedere permesso, senza bussare, saltando fuori da una finestra, mentre già stiamo salendo di tono, mentre tutto qui dentro si espande e si schianta e respira e si squarcia e deflagra e canta. Oh, cazzo, cosa sentono le mie orecchie. È quella donna che urla! Qui si sale ancora di tono, mentre già eravamo in fase di espansione, di esaltazione...»