Canto della donna che urla

Io non so perché la mia voce erompe così dal mio corpo. Me ne sto ferma, non muovo quasi la bocca, non ho idea di cosa succeda nel frattempo dentro il mio corpo, mentre emetto questi suoni vocali indistinguibili dalla respirazione che si ostinano tutti quanti a chiamare parole, come nel primo grido respiratorio nella catastrofe della nascita. Strappo l’ossigeno a brani al resto del nostro spazio imprigionato nell’atmosfera, con tutta la massa polmonare portata irresistibilmente al collasso. Il mio corpo si scuote per l’espansione dei polmoni e della cassa toracica e la contrazione dei muscoli intercostali, del diaframma, tutto il mio organismo elasticamente si espande, il mio busto si erge, la mia testa si arrovescia per innestarsi in altri spazi più grandi, le mie palpebre si abbassano un po’, socchiudo gli occhi, la pupilla sale un po’ verso l’alto, si scorge il filo delle bianche lunette delle cornee. Non vedo niente, non penso a niente, mi basta aprire liturgicamente le labbra in un punto qualsiasi dello spazio, tutto il sacco del mio corpo diventa cassa armonica di un altro spazio, anche l’altro spazio si scolla, diventa cassa armonica del mio corpo, sento il vento d’uscita delle parole vibrare tra le mie labbra immobili e aperte, non avverto quasi il suono che produce il turbine della respirazione fonetica che erompe dalla mia bocca. Percepisco la mia voce come se fosse un primordiale sussurro, colgo al suo interno il punto in cui ogni suono è silenzio. Il mio strumento non si armonizza con gli altri strumenti? Il diapason della mia voce stona e sfonda, qui dentro? Non si può domare? Non so cosa farci! Il mio canto è questo, il mio respiro è questo!

La strada vibrava, il braccio del Gatto tremava violentemente attorno al mio braccio, mentre riprendeva a camminare senza parlare.

Oltrepassammo qualche isolato così, scorgevo al mio fianco la sua testa che camminava puntata in avanti, in silenzio, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata.

Lo sentii sospirare di colpo.

«Accidenti!» aprì bocca di nuovo, dopo un po’. «Ero partito!»

Era arrossito improvvisamente, mi guardava.

«Sì, sì, non apro bocca, non dico niente: chi si azzarda! Mi rendo conto che il mio ruolo è un altro, il mio compito è un altro, qui dentro... Io devo solo stare a piè fermo, imperversare.»

Parlava a strattoni, come se facesse ancora fatica a respirare.

«Ma adesso torniamo a noi» disse corrugando la fronte, «qui le cose vanno avanti per conto loro, a getti, a soprassalti, lo vedi anche tu. Ha fatto finalmente irruzione questa storiella di pubblicità e d’amore. È arrivata persino quest’agenzia... Chissà che non sia destinata ad avere un ruolo crescente, qui dentro! Che fucina si è aperta! Sfondamenti, passaggi... E poi, cazzo, il canto di quella donna che urla! Sarà separata, non sarà articolata... Però che forza! E che fiato! La mia testa è fredda, non si emoziona, lavora. E intanto c’è chi ci tiene d’occhio, ci osserva, ci innerva, mentre stringe tra le sue grinfie la mia carne, la nostra carne, si può dire... Dove sarà adesso la Meringa? Forza, torniamo a noi! Dov’eravamo rimasti? Qui le cose vanno avanti a valanga, e noi non abbiamo neanche cominciato a buttare giù questo cazzo di capolavoro! Allora, dove eravamo rimasti? Ah, sì, il titolo! Non abbiamo ancora neanche uno straccio di titolo. Ci hai pensato a questo cazzo di titolo? Non ci hai pensato, scommetto. Non ti è neanche passato per la testa. Ah, andiamo bene! Allora, vediamo... Cosa ne dici di L’ultimo libro

Feci una smorfia.

«È scemo, lo so, lo capisco anch’io che è scemo, d’accordo, ma i titoli devono essere così! I libri sono lì esposti sugli scaffali della libreria, ci sono quelle cravattine colorate delle novità, passa un veterinario focomelico, lo vede e dice: “Oh, cazzo, L’ultimo libro! Che bello, me lo cucco subito!”. Oppure un ginecologo spastico... Eh, cosa ne dici? Ma certo che ci sono ginecologi spastici! Vuoi che non ce ne sia qualcuno, da qualche parte? Anzi, se è per quello sono quasi tutti spastici i ginecologi! Non hai mai visto quelle foto sulle riviste porno? Zac! Tutta la mano dentro, certe volte ci scappa anche il braccio, la spalla... Va bene, va bene, mi arrendo, è troppo scemo, lo ammetto! Allora perché non Il primo libro, così giriamo la stessa frittata dall’altra parte? No? È più scemo ancora? D’accordo. Oh, che bella voce che hai, è un incanto sentirti, sembri un usignuolo! Non si riesce proprio a farti smettere di parlare! Allora, più sinteticamente, Il primo e l’ultimo

«Perché non L’ultimo e il primo, già che ci sei?»

«Cosa fai? Prendi per il culo il tuo editore? Fai anche tu le battute, adesso, oltretutto! Non sei tu quello che deve dire le battute, qui dentro! E poi c’è il problema delle promozioni, delle istruzioni. Siamo ancora fermi a quelle per i grafici di copertina. E le signorine dell’ufficio stampa, e i commerciali? E i traduttori, e i cellophanatori, e i librai? Mi ci metto subito, il tempo stringe! Oh, cazzo, chissà se andrà bene a quelli là, questa roba?»

Alle signorine dell’ufficio stampa

È ancora presto, direte voi! Come si fa a parlare adesso di promozione? Il libro ancora non c’è, non esiste, non l’abbiamo letto, che informazioni possiamo dare ai redattori delle pagine culturali dei giornali, delle rubriche televisive, dei settimanali patinati di astrologia? E poi esisterà? Quando esisterà? Sì, sì, lo so, vi capisco, però questa volta dovete dimenticare tutto quello che avete imparato finora. Questo libro bisogna sentirlo venire dal basso, da lontano, come i pellerossa che appoggiavano l’orecchio a terra per sentire il lontano rumore dei cavalli lanciati al galoppo sulla prateria che impercettibilmente vibrava.

Io potrei farvi venire un giorno nel mio ufficio e rifilarvi in mano un oggetto a forma di libro, oppure delle bozze, dicendo: «Eccolo qui questo libro!». Non so neppure se mai potrò farlo, addirittura, perché non c’è ancora niente, non è stato buttato giù ancora un cazzo di niente, è in corso, per il momento, una lotta, una guerra, e non si sa mai come possono andare a finire le guerre. Eppure vi dico: lanciatevi in avanti anche voi! Fate anche voi la vostra parte, anche se non sapete ancora neppure qual è, come non la sa nessuno, in fondo, qui dentro. Cominciate a parlarne nelle vostre telefonate e nelle vostre e-mail, non parlate d’altro, in crescendo, anche se non avete nessuna idea di come è fatto, di come sarà fatto, se mai sarà fatto, e non sapete neanche che titolo ha, di che cosa parla, se parla poi di qualcosa, dite solo che, forse, è partito, che il viaggio, da qualche parte, silenziosamente, è iniziato. E se vi chiederanno: «Ma che cazzo di libro è? Si può almeno sapere quello? Se no come facciamo a parlarne nelle nostre rubriche sulle anticipazioni librarie? Diteci almeno se è un romanzo?», voi non dovrete fare altro che sghignazzare, vi potrete anche passare la lingua sulle labbra dipinte, se mentre telefonate sarete intente a mangiare un cornetto fatto venire su dal bar e ve ne sarà rimasto un frammento appiccicato al rossetto. Vi farò mettere una spalliera, pesi, anelli, una macchina isometrica. Nel vostro ufficio lo spazio non manca. È un po’ che ci penso... così vi potrete scaricare dopo qualche telefonata particolarmente pesante a qualche giornalista o a qualche scrittore. Ma potrete anche rispondere continuando a fare i vostri esercizi, inserendo il vivavoce, e le loro vocette si sentiranno amplificate nella stanza, mentre voi continuerete a sollevare come se niente fosse, perpendicolarmente, una gambetta, poi l’altra, appese alla lunga spalliera che copre l’intera parete, o sollevando il bacino mentre starete coricate per terra sul dorso, in scarpette da ginnastica e tuta attillata. «Ma di che libro si tratta?» chiederanno quasi gridando, sentendo le vostre voci ansimare per lo sforzo. «Non riconosco quasi la sua voce» dirà qualche giornalista scrittore imbrillantinato che continua a cercare te, non ricordo mai qual è il tuo nome... Però ricordo bene come sei: capelli ossigenati, mutandine di spugna. Ti chiamerò Tipabionda. «Non c’è Tipabionda?» si allarma, quando per caso non ti trova in casa editrice perché nel frattempo sei al palazzo del ghiaccio, in un’altra città, e stai seguendo una partita di hockey, indetta per beneficenza da un’associazione di sommelier affetti da masticazione invertita e nella quale gioca anche una nostra scrittrice pattinatrice che sta preparando un libro sull’estasi plenilunica delle melanzane. «In questo momento non c’è. Può dire a me!» gli risponde Tipabruna con gentilezza. «No, no, solo a lei, solo a lei! Se non sento almeno un paio di volte al giorno la voce di Tipabionda non riesco più a lavorare, mi ottundo, resto per ore e ore seduto senza fare niente, con un segmento di scotch su un sopracciglio. Non saprei dire neanch’io il perché. Volevo raccontarle quello che è successo nei giorni scorsi al convegno su L’hula hoop e il sacro, dove ho tenuto la relazione introduttiva. Tutto il nostro mondo è a rumore! Sono cose che dovrebbe sapere, dovrebbe tenerne conto per il suo lavoro di presa di contatto, di promozione, per seguire i movimenti interni che questo evento ha prodotto, gli spostamenti mentali, gli schieramenti culturali, i cambiamenti di fronte, le battaglie...» «Ma perché? Che cos’è successo?» gli chiede seraficamente Tipabruna. «Come! Non lo sa? È successo che durante una pausa del convegno, il primo giorno, i partecipanti hanno trovato un gattino tutto solo su uno dei balconi. La notizia si è sparsa immediatamente, è stato tutto un accarezzarlo, un vezzeggiarlo, se lo portavano nelle stanze, lo tenevano ostentatamente sulle ginocchia durante gli interventi. Le signore, in particolare, lo lisciavano, gli davano molti bacetti sul crapino. Anche i maschi, per non mostrarsi meno sensibili delle signore, facevano a gara nell’accarezzarlo sulle piccole orecchie trasparenti e a più strati, come la pasta sfoglia, nel grattugiargli il pancino, il pisellino. Giravano tazzine piene di latte, c’era tutto un viavai durante gli interventi, i momenti di sosta, tra una stanza e l’altra. Era diventato la mascotte del convegno. Senonché, sbaraccato tutto e ritornati a casa, mentre erano intenti a correggere le relazioni per la pubblicazione in volume degli atti, a rilasciare interviste ai giornali, alle riviste, sono cominciate ad apparire macchie, pruriti, crateri da tutte le parti, bollicine, sulle braccia, le gambe, tra i capelli, tra i peli... Insomma, per farla breve: nessuno si era accorto che il gattino aveva la tigna. Pieno come un uovo! Hanno cominciato a grattarsi furiosamente, tutti quanti. Sempre nuovi cerchi, nuovi crateri. Si telefonavano l’un l’altro allarmati. Anche il mio telefono squilla continuamente. Pettegolezzi, soffiate. “A te fa prurito? Fa acqua? Di che colore è? Lo tieni bendato? Sta’ attento a non scambiare gli asciugamani! G. F. ce ne ha già due o tre sulla pancia, ho saputo, mentre R. se l’è beccato sul glande, l’ha già spennellato con quella tintura viola, sembra che abbia appena sodomizzato Epidario, gran bevitore d’inchiostro.” “Chi sarebbe questo Epidario? Epidauro, vuole dire?” gli domando. “Mah, non so cosa dirle, lo chiamano tutti così! Perché? Chi sarebbe questo Epidauro?” “Oh, tante cose: un’antica città dell’Argolide, un celebre santuario dorico di Asclepio, un teatro e thòlos di Policleto il giovane, costruzione circolare forse riservata ai serpenti sacri...” Altri ce li hanno in posti ancora più imbarazzanti. “Ma lo sai che la S. T. ce l’ha sulla fica?” fanno a gara per annunciarmelo per primi. “Se l’è dovuta rasare, me l’ha detto P. che gliel’ha vista mentre preparavano assieme il videotape per il suo ultimo libro, quello sulle rispondenze mitologiche dello yo-yo...” Girano con quelle reticelle bianche per tenere fermi i garzini, bene in vista anche mentre sono ospiti di qualche trasmissione televisiva, sul ruolo del velopendulo nei moti ereticali della Nuova Caledonia, sul rilancio dell’apodosi nel fox-trot. “A te che pomata hanno dato?” si informano tra di loro per telefono. “Ma no, quella ha una molecola vecchia, sorpassata, usa invece quest’altra, ha una molecola più spiritata, più scannata, la usa anche M. che ce l’ha nell’ascella, deve tenere gli asciugamani separati dagli altri, per le squamature...”» «Ah, sì, ma davvero?» fa Tipabruna. «Sì, sì! E ancora non è finita! Adesso, per esempio...» Eccetera eccetera. «Cosa sento... Accidenti! Allora, appena arriva Tipabionda, le riferisco tutto, le raccomando di telefonarle immediatamente!» «Ma no, non importa, adesso mi trovo bene con lei. Non le dica un bel niente. Chi se ne frega di Tipabionda!»

Io non so come facevano una volta a promuovere i libri, com’erano fatti gli uffici stampa di una volta. Qualcuno ficcava in una bisaccia un manoscritto, oppure uno di quegli incunaboli, più avanti, appena impresso dallo stampatore. Partiva al galoppo, per giorni e giorni, si fermava lungo la strada, ogni tanto, per cagare, slacciava quella patta che avevano fra le gambe, coi cordini, ripartivano col culo sporco, si fermavano a mangiare in qualche locanda, qualche volta a scopare, in qualche stamberga, salendo su un letto sudicio e alto, come su una torre, dove aspettava una donna dalle grandi cosce pelose spalancate, sentivano cambiare molte volte il fondo sotto gli zoccoli del cavallo dalla schiena coperta di sudore e di schiuma, fino a una città lontana, turrita. Saltavano giù da cavallo, si massaggiavano le ossa della schiena, del culo, camminando per un po’ a gambe larghe lungo l’acciottolato di una piccola strada dove stagnava un odore forte di mangiare e di piscio, prima di entrare in una porta scura e borchiata, tra i muri di pietra, consegnavano un manoscritto a un uomo in calzamaglia, gel nei capelli. «Chi è che lo manda?» chiedeva l’uomo rigirandosi tra le mani il manoscritto. «Mah...» diceva quell’altro continuando a massaggiarsi il fondoschiena, «mi è passato di mente. Ha una gran canappia, porta sempre quel cappuccio rosso per nascondere la calvizie, anche nei ritratti...» «Oh, cazzo!» dice l’uomo. «Ma quello è Durante!»

Ecco, vedete, sono partito a rotta di collo per tutt’altra strada. Però così almeno adesso avete un’idea di che razza di libro si tratta. Passate domattina nel mio ufficio. Ve lo spiegherò in due parole. La facciamo fuori.

«Cosa ne diresti di Fondazione

«In che senso?»

«Come titolo!»

«Ma fondazione di cosa?»

«Chi se ne frega! Saranno gli altri a pensarci! Se viene fuori un libro così, qualcosa fonderà di sicuro!»

La strada continuava a vibrare.

«Ho trovato!» disse il Gatto di colpo, entusiasmato. «Tieniti forte: Genere

«Genere? Che tipo di genere?»

«Che cazzo ne so! Quello che vorranno! Quello che, di volta in volta, andrà bene a loro! Genere come genere a sé, genere come generazione di generi. Ma per il solo fatto di usare questa parola così, senza aggettivi... Non so se capisci! Oh, cazzo, allora sentiamo che titolo proponi tu, a questo punto! Tutti capaci di criticare quelli degli altri!»

Il Gatto si fermò all’improvviso.

«Accidenti, proprio adesso! Cosa sta succedendo? Mi ha preso davvero in parola, questo qui!»

Canto del traslocatore

Quanto tempo sarà passato da quando mi avete visto l’ultima volta balzare fuori da quella finestra esplosa, su quella catasta di mobili e di materassi già in movimento sotto il mio corpo che cadeva dall’alto, che volava? Pochi secondi? Pochi giorni? Mezz’ora? Chi si ricorda! Chi lo sa! Non è scritto, non si capisce. Eppure io sono già qui che sto traslocando di nuovo da un altro appartamento che si trova da tutt’altra parte di questa città grande e tutta piena di case da far deragliare e poi abbandonare un istante prima che vadano giù a precipizio da qualche parte, balzando fuori dalle loro finestre dopo averle svuotate, svaligiate, i muri scrostati, impallinati, perché strappo via non solo i mobili, i quadri, i lampadari, gli specchi, ma anche i telai delle finestre, i rubinetti, i chiodi a espansione che si sono gonfiati orgasmicamente all’interno dei muri, bisogna svellerli con quella loro pancina di gomma sformata, ingravidata, lasciano dappertutto quelle bocche intente da tutte le parti a sfiatare, a respirare. Corro attraverso le stanze, afferro una sedia con una mano, lacero il filo del lampadario con l’altra, rimanendo staccato per qualche istante da terra, strappo via le tendine, faccio volare fuori i cassetti, butto tutto fuori dalla finestra, sul camioncino, affacciandomi per un istante a braccia piene, e gridando all’autista intento a masticare un hamburger a sei piani comperato a un vicino fast food, pieno fino a scoppiare di carne tritata, formaggio, di salse che gli colano giù lungo il mento. Si sbrodola la tuta, le sue dita sono sempre impiastricciate di quella salsa, mentre le tende per afferrare al volo qualcosa che rovescio dall’alto. Mi giro di nuovo, corro a braccia distese per la stanza, per intercettare qualcuno di quegli oggetti che restano sempre a mezz’aria e si dimenticano, mi getto sotto i mobili, il letto, per dragare ogni cosa sul pelo del pavimento, una scarpa sfondata, un calzino in un batuffolo di polvere, strappo dal muro lo scolapiatti, in cucina, scrosto febbrilmente una pentola in cima a una catasta, nel secchiaio, se qualche secondo prima ho fatto finta di cucinarmi qualcosa, un pezzo di carne, una frittata, solo per avere il pretesto di falciare con il coltello ciò che è rimasto sul fondo della pentola, riempio il sacchetto delle immondizie con scatole lacerate, avanzi di pasti, pezzi di frutta sbucciata, massacrata, solo per poter sentire il canto che fanno mentre volano giù dallo scarico delle immondizie, quando attraversano grandinando, uno dopo l’altro, i pianerottoli, fino al bidone di plastica che attende a bocca aperta nel seminterrato. Rientro in casa, strappo via lo specchio del bagno, mi inginocchio sul pavimento per svellere la tazza del water, comincio a staccare uno per uno i caloriferi, lascio i muri e i pavimenti tutti sbrecciati, crivellati, mi sembra di sentirli da tutte le parti palpitare quando mi giro indietro un’ultima volta prima di balzare fuori dalla finestra. Trasloco di continuo, fulmineamente, quasi prima ancora di posizionarmi in un luogo, attraverso continuamente la città, inalberato sopra cataste di mobili, di tazze di water, di materassi un po’ sbudellati, mentre al suo posto di guida l’autista tiene il volante con una sola mano, con l’altra una bustina di plastica piena di salame affettato, comperata al più vicino supermercato, se l’accosta alla bocca per lacerarla coi denti, canta a bocca piena la canzonetta che stanno trasmettendo in quel momento alla radio che ha nel cruscotto, sfrecciando per le strade verso una nuova casa da cui traslocare. Di giorno e di notte, mentre negli appartamenti vicini la gente si siede tranquillamente a mangiare oppure si sta facendo un bidè dopo avere scopato, oppure dorme tutt’intorno, in tutte le scale, nelle case. Svuoto la nuova casa in punta di piedi, senza fare rumore, accosto l’orecchio a una parete un istante prima di lasciarla tutta rasata, allungo una mano verso la lampadina che pende ormai denudata dal soffitto, un istante prima di svitare anche quella e di infilarmela in tasca ancora rovente, sento per l’ultima volta quei rumori di polmoni che si riempiono e si svuotano d’aria, lentamente, nel sonno, mentre tutt’intorno ogni cosa continua incessantemente a ruotare, a pullulare, letti e bocche e genitali e costellazioni, nel silenzio, nel buio. Mi arresto certe volte lungo le scale, oppure nel pianerottolo, mentre vado a buttare nello scarico delle immondizie qualche sacchetto gonfio fino a scoppiare, se vedo venire avanti qualcuna in camicia da notte, nel buio, sorridente, tranquilla, a piedi nudi. «Non riesco a dormire» mi dice. «E lei cosa sta facendo a quest’ora? Sta svaligiando un appartamento?» «No, no, sto traslocando!» rispondo. «Accidenti, perché non l’ho incontrata prima?» si rammarica lei. «Ma non ci sarebbe stato il tempo!» rispondo. «Non ho neanche fatto in tempo a installarmi qui dentro che ho dovuto già traslocare. Ormai con lo stesso gesto con cui metto i mobili dentro una casa li strappo un secondo dopo dalle loro sedi, non ho ancora finito di piantare i chiodi e già li svello, li strappo via a mani nude, coi denti, accosto la bocca alla capocchia, come per baciarla.» Ci lasciamo andare l’uno nelle braccia dell’altra, all’improvviso. Sento sotto la vestaglia il suo corpo nudo e pulsante e caldo. «Accidenti» si mette a mormorare con la bocca contro il mio collo, «ci saremmo potuti sposare, io e lei!» La stringo tra le braccia, la bacio. «Ma quello possiamo sempre farlo lo stesso» le dico, «anche se i tempi sono per forza di cose un po’ più brevi. Ecco, adesso la prendo in braccio, come si fa con le spose, la porto dentro la mia casa svuotata, scorticata, soltanto un po’ più fulmineamente di quanto si fa generalmente in questi casi, mi deve scusare se bruciamo un po’ i tempi...» La sollevo da terra, tutto il suo corpo viene su leggero e caldo tra le mie braccia, mentre la porto dentro la mia casa squarciata, oltrepassata, intanto lei mi tiene abbracciato il collo e mi bacia e io affondo il rostro della mia faccia nella matassa profumata dei suoi capelli e la bacio sul collo, sugli occhi, e poi su quel taglio vivente della bocca. Oppure mentre sono già con una gamba fuori dalla finestra e l’altra dentro, e non so se tornare indietro o se restare, perché ho visto vicino alla porta una bracciata di ombrelli che avevo dimenticato di arraffare. Ci accoppiamo sul pianerottolo un po’ inclinato, contro i muri, dentro gli androni, abbraccio in un unico abbraccio il suo corpo e gli ombrelli. Ci rotoliamo in lungo e in largo abbracciati, perché non ci sono da nessuna parte gambe di tavoli, di sedie, solo quei muri sbocciati, eviscerati, lei con la vestaglia sollevata a corolla al di sopra dei fianchi, io coi calzoni calati a fisarmonica fino alle scarpe, sento il becco che si inventa nuovi spazi dentro il suo corpo, attraverso la pancia calda e poi su fino al cuore pulsante e poi alla gola che si apre e si chiude e respira e si espande e canta. Non facciamo neanche in tempo a gettarci tutti e due sulla schiena, con le braccia aperte e la lingua fuori, beata, deflagrata, lei con la cosa ancora aperta e pulsante, io col becco ancora gocciolante, sbocciato. «Accidenti, ce la spasseremmo bene, io e te!» le dico salutandola con un ultimo bacio. «Ma io sono un traslocatore e devo traslocare!» Mi butto fuori dalla finestra, senza avere neanche il tempo di rimettere il becco dentro i calzoni, con la scusa di saltare sul camioncino a motore acceso di fronte alla casa, e intanto grido «via, via!» all’autista che è intento a stuzzicarsi i denti dopo avere trangugiato un vasetto di sottaceti, pescati uno per uno con le dita tutte sporche di morchia. «Via, via!» gli grido un’altra volta, dall’alto, e scorgo con enorme emozione, nel buio, che il camioncino sotto di me si sta già cominciando a spostare, e allora grido ancora e ancora più forte, mentre tutt’intorno è buio e silenzio, nella strada, perché il camion possa allontanarsi prima ancora che io ci atterri sopra, ed è così infinitamente breve il segmento di tempo che riesce ancora in qualche modo a comprendere il termine del mio volo e l’inizio del suo che mi domando, mentre già mi allontano inalberato sulla catasta di mobili, sedie e sanitari strappati, nel vento della corsa: «Sono atterrato sul camion oppure mi sono spiaccicato sopra l’asfalto?».

«Oh, cazzo, che roba! Hai visto? Cominciano a fioccare da tutte le parti anche le storie d’amore! Cosa sta succedendo, qui dentro? Da dove viene questo vento così forte, a folate, non appena giriamo un angolo di certe strade, di colpo? Devo tenermi il cappello calcato sopra la testa, con la mano, anche se io non lo porto... Speriamo almeno che a quelli là vada bene, questa roba!»

Il Gatto si fermò all’improvviso.

«Accidenti, ci siamo!» disse stringendo più forte il mio braccio. «Non dovremo aspettare molto per saperlo!»

Secondo messaggio

Cosa volete sapere da noi, a questo punto? Se state andando bene? Alla grande? Se siamo soddisfatti? Volete il voto? State freschi! Forse non ci siamo capiti. Questo messaggio sarebbe stato esattamente lo stesso qualunque cosa ci aveste rifilato, in ogni modo. La cosa non ci riguarda. Non abbiamo un’idea di causa-effetto così arcaica. Fate conto che chi vi manda questo messaggio stia da tutt’altra parte e non veda niente, e non gli importi niente, non sia interessato a niente, si sia disinteressato del tutto della cosa. Ma, ugualmente, non possiamo aprire bocca che per incitarvi, spronarvi. Qualsiasi cosa aveste fatto o voleste fare in futuro noi avremmo voluto di più, ancora e sempre di più. Ma non vedete tutto quello che c’è ancora qui dentro da collegare, da far deflagrare? Non siamo ancora neppure all’inizio. Vi potremmo persino indicare questa cosa, quell’altra, quell’altra ancora. A voi certe cose saranno passate così... I nostri occhi non vedono niente, ma questo non impedisce che la nostra attenzione sia puntata sul donatore di seme, per esempio, e su quell’Interfaccia. Noi non vogliamo niente, non siamo mai soddisfatti, non siamo mai insoddisfatti. Noi facciamo esplodere i dettagli biologici, andiamo a raschiare dentro le tubature, apriamo i batuffoli gravidi di materia infettata, ci chiniamo sui loro potenziali bagliori con le nostre testoline lucenti, in emulsione, operiamo sulle scanalature, sulle grammature, ci tuffiamo nei materiali sporici, nei glutini, con le nostre pinzette miniaturizzate, telecomandate. Lecchi il retro di un francobollo e dai vita a una specie, a un popolo! Facciamo rivivere per clonazione, suscitiamo, svegliamo, semplicemente elaborando una crosticina caduta chissà quando da una congiuntiva infiammata durante la lettura di un giornale, di un libro, oppure una ciglia, con la sua gocciolina di materia lucente, alla radice, andiamo a ispezionare il nécessaire per la pulizia del viso appartenuto a questo o a quest’altro, presso una fondazione, esaminiamo attentamente un sacchetto delle immondizie, un lavandino ingorgato. State attenti, voi che credete di potervi impunemente grattare la testa durante la lettura di un libro, e far cadere tra le sue pagine una scaglia di forfora con un po’ di tessuto attaccato, e poi di girare pagina come se niente fosse mentre dieci righe prima, dal filamento di muco che si sta già seccando, qualcuno dopo di voi potrà suscitare di colpo il vostro fotocopiato. Noi possiamo potenzialmente accoppiare Geronimo con Emily Dickinson, rimettere in gioco il duplicato biologico di Francesco e di Chiara e farli poi addirittura incontrare tra di loro durante una gita in corriera con dimostrazione pubblicitaria nell’intervallo, senza che sappiano nulla l’uno dell’altra, chi sono stati, chi sono, oppure seduti l’uno di spalle all’altra in un fast food, oppure farli addirittura scopare, volendo, finalmente! dopo ben sette secoli, dopo che si sono incontrati rispondendo a un annuncio trovato su quei giornali specializzati per la ricerca dell’anima gemella, o in una chat line specializzata in partner per giochi a luci rosse, e poi mettere in contatto i loro essudati sessuali e ibridare il loro prodotto finale con un’arachide della Georgia.

Ma adesso cosa avete capito? State andando forte! Stiamo tirando un enorme respiro, è quasi un vento. Come avete detto? Vi aspettate che vi rilasciamo l’ostaggio, a questo punto? Meno che mai! Tutto il contrario! Lo scopo di questo messaggio è di comunicarvi questo: abbiamo appena ceduto l’ostaggio (narcotizzato) a un’organizzazione che opera nel porno estremo. Non sappiamo neanche noi dove sia a questo punto. In qualche scantinato abbagliato, dove scorre il sangue. I patti? Noi non rispettiamo i patti! La prova? Che non diamo nessuna prova! Non ci facciamo localizzare, non ci facciamo incastrare. Ci disinteresseremo d’ora in poi della cosa. Non ci sentirete più. Siamo già diventati altro. Siamo altrove.

«Cosa ti sta succedendo?» mi gridò il Gatto. «Ti sono venuti i piedi di piombo? Qui il gioco si fa tremendo, lo vedi!»

Si era bloccato sul marciapiede, balbettava.

«Il porno estremo? Forza, forza, devi correre a gambe levate dalla Musa! Lei è dentro fino al collo in quell’ambiente. Lei sola può darci una mano, far girare la voce, sapere, scandagliare. Per fortuna che abbiamo almeno questa carta! Ma lo sanno anche quelli là, sono dentro anche loro, qui dentro, fino al collo...»

Eppure mi teneva serrato un braccio con una mano uncinata, come per una contrazione nervosa.

E intanto mi guardava con gli occhi sbarrati, il buco della bocca sbocciato, come se sghignazzasse e nello stesso tempo cantasse.

Provai a schiodarmi dal marciapiede, feci qualche passo di corsa, e intanto avvertivo che il braccio del Gatto mi veniva dietro per qualche istante, si allungava, non si capiva se era per trattenermi oppure per lanciarmi.

Scavalcai il cavo di un alimentatore, che aveva cominciato a vibrare. Non si distingueva quasi la voce del Gatto che continuava a gridarmi qualcosa, da lontano, mentre correvo lungo la striscia del marciapiede transennato, e poi a fianco di un uomo che stava con la testa tuffata dentro una centralina squarciata, smatassava i suoi groppi di fili elettrici, li scollava e poi li riconnetteva, ne faceva volare via segmenti diversamente colorati tranciandoli con una piccola pinza, li intravedevo sparpagliati a corolla sul marciapiede, con i loro filetti di rame lucenti, ancora palpitanti.

Costeggiai un’edicola di vetro, imboccai di corsa le scale della metropolitana, poi quegli spazi più grandi, sotto terra, rasentando un uomo in stivali da cavallerizzo gettato con tutta la testa nella conchiglia vibrante del telefono, scavalcai le portelle, mi tuffai giù lungo un’altra scala, e sentivo appena che si stava spostando sotto i miei piedi mentre continuavo a correre sopra i suoi gradini di ferro segmentati. «Dove sarà la Meringa in questo momento?» mi chiedevo facendo irruzione col cuore in gola nel tunnel, e intanto molti stavano già facendo barriera in attesa del treno, contro quella linea gialla fosforescente che vibrava. «In qualche casa chissà dove, tra mille altre in questa città, in qualche appartamento chissà dove, in una camera chiusa a chiave, seduta sopra una seggiola, in silenzio, impietrita, forse riuscirà a sentire le voci che confabulano nella stanza vicina e contrattano il prezzo. Passata di mano in mano, imbavagliata, oppure, come hanno detto quelli, narcotizzata... camminerà al loro fianco sorridendo dinoccolata, come quando veniva ad accogliermi fino alla porta della casa editrice, oppure mi accompagnava giù per le scale con quelle sue ciabattine basse, ricamate, fino al portone esterno e poi giù nelle strade bianche di neve, porcellanate, stringendosi con la mano il golfino attorno alla gola, per il freddo... oppure l’avranno già trasportata inerte, in braccio, in qualche sottoscala attrezzato per le riprese, avranno già acceso uno dopo l’altro i riflettori...»

Mi gettai dentro la vettura, prima ancora che le portelle si fossero aperte del tutto, e che la folla dei passeggeri sgorgasse fuori da quella luce. Il treno si mosse di nuovo, vedevo quella striscia gialla che saliva e scendeva sempre più forte contro le pareti del tunnel, sventagliava. Stavo in piedi contro la sbarra, veniva da un finestrino mezzo abbassato un vento sfrenato, mentre il treno ricominciava già a rallentare, apparivano a strappi contro le pareti curvate i primi manifesti pubblicitari, come dei bagliori. Cominciavano già ad affacciarsi ai finestrini, a riempirli, gigantografie di bacini e di glutei femminili sfuocati. «Ah, è quella ragazza là, con l’assorbente!» mi resi conto d’un tratto mentre il treno riprendeva ad andare, e poi a fermarsi, a ripartire. «E io stavo di fronte a lei, che mi guardava con gli occhi resi più sfavillanti dal freddo, con quelle sue ciabattine basse, nella neve, e vedevo i contorni del suo corpo infreddolito e compatto contro il bagliore vibrante della neve... lo stesso che adesso starà forse attraversando narcotizzato un cortile interno, scenderà, sorretto da entrambe le parti, una scaletta, cadendo giù come un sacco, di tanto in tanto, inciampando. E poi qualcuno la solleverà dinoccolata tra le braccia, se l’aggiusterà meglio sugli avambracci pelosi, contro la pancia bombata che esplode un po’ fuori dalla giacca a vento con la cerniera abbassata, attraverserà così gli ultimi metri prima della porticina di ferro, sotto quelle successioni di gomiti e canne che corrono fasciati sotto i bassi soffitti degli scantinati, e un braccio le cadrà giù di lato, la punta delle dita le striscerà a terra per qualche metro, addormentata, contro il pavimento bagnato, e poi la porticina si aprirà con un calcio, suonando, altre mani staranno già sollevando più in alto il suo corpo spogliato, si vedrà pullulare dentro i fasci di luce quella polvere grassa, nello stanzone basso, in quella luce smerdata, imbalsamata, mentre accenderanno da tutte le parti i riflettori... Oh, ma non arriva mai questo treno!»

Sentivo il cuore pulsare, mentre mi gettavo fuori dalla vettura, e poi fendevo un gruppo di corpi che si stava ammassando per salire, e mi lanciavo su per la scala mobile che moltiplicava la velocità di salita della selva di teste nell’aria, nella luce, e poi nell’androne sotterraneo elettrizzato da tutte le parti dallo scricchiolio dei giornali spalancati dalle braccia dei viaggiatori e dal vento, poi su nella strada che un macchinario a unghie stava scortecciando del suo asfalto vecchio mentre un altro macchinario più grande e lucente d’unto, che stava venendo avanti da lontano, lasciava colare la glassatura nera e fumante dell’asfalto nuovo. Attraversai la strada, di corsa, posando i piedi sul suo fondo scuoiato, imboccai un’altra strada più grande, un’altra ancora, prima di gettarmi dentro un portone e poi salire col cuore in gola le scale, passare con i piedi su quel lucernario borchiato. «Cosa ci sarà là sotto?» mi dicevo. «Che sento sempre venire come un boato ascoltato da molto lontano, quando poso i piedi sulle sue borchie di vetro illuminate...»

Salii un’ultima rampa di scale, suonai senza quasi vedere alla porta della Musa.

«Oh, sei tu, finalmente! Ti aspettavo» esclamò venendomi ad aprire nuda alla porta. «Ma che cos’hai? Hai gli occhi fuori dalla testa, non respiri...»

«La Meringa...» riuscii a balbettare.

«Ah... lei! Cosa è successo ancora?»

«L’hanno ceduta a gente che opera nel porno estremo!»

La Musa mi guardò intensamente. Scorgevo appena la sua mano che reggeva un tubetto, un suo dito un po’ sfigurato da un bozzolo di pomata lucente.

«Vieni dentro!» disse prendendomi improvvisamente la mano. «Cosa fai lì fuori?»

C’era la luce accesa, nella casa, le ante delle finestre tutte chiuse nonostante fosse giorno. Sentivo appena il rumore dei suoi piedi nudi sul pavimento, mentre si dirigeva tenendomi per mano verso il lettino.

«Non ho ancora aperto, sono appena rientrata dal set...» mormorò coricandosi esausta. «Siediti vicino a me, aiutami a distendere questa pomata. E intanto parleremo di questa storia, vedremo assieme cosa si può fare, cosa posso tentare per aiutare te e questa Meringa. Non temere, non ti farò mancare il mio aiuto, costi quello che costi, fino in fondo. Vieni qui, siediti più vicino, allunga la mano...»

Si girò di schiena, trasferì il fiocco lucente della pomata dal suo polpastrello al mio.

«Forza, spalmalo bene! Mi brucia un po’.»

«Ma dove?»

«Dove vuoi spalmarla? Sul buco del culo! Vengo adesso dal set, te l’ho detto!» disse allargandosi le natiche con la mano.

Cominciai a spalmare.

«Com’è? Sanguina?» disse facendo ruotare la testa, per vedere. «Ti sembra lacerato?»

«No, no, non mi pare, non credo...»

La sentii sospirare.

«Accidenti, che trivella! Dovevi vedere. Me l’hanno martoriato» disse posando la guancia di lato, sul lettino. «Oh, sì, così, va già un po’ meglio, mi pare... Sì, sì, io conosco bene l’ambiente, questo è certo. Non mi tirerò indietro. Mi informerò, parlerò, attiverò i miei canali, scandaglieremo ogni piega, ogni anfratto, non ci fermeremo di fronte a niente, a nessuno, terremo gli occhi spalancati anche se la luce là dentro è accecante, ti riferirò ogni soffiata, ogni voce, ogni racconto, tutto quello che può servire a tirarla fuori da quell’inferno. Oh, sì, sì, così va davvero meglio! Spalmane un po’ anche dentro, prova ad andare dentro bene col dito, piano piano... Che cosa c’è? Che problema c’è? Non si era mai visto un autore spalmare della pomata lenitiva in gel nel buco del culo della sua musa? Bene, adesso si è visto!»

Chiuse gli occhi, con la guancia posata di lato, sul lettino. Giungevano dalla strada dei rumori attutiti.

«Oh, sì, sì, così va bene, cominciamo...» sospirò con la bocca socchiusa, come se si stesse addormentando di colpo. «Tanto dovevo prima o poi parlarti di queste cose, di quel posto... Hai idea di cosa succede là sotto, quando passi coi piedi sopra quel lucernario dalle borchie di vetro illuminate dal bagliore dei riflettori?»

«C’è un set là sotto?» domandai sbalordito.

«Hai indovinato, c’è un set, uno dei tanti che ci sono in giro dove uno nemmeno sospetterebbe... Sono appena venuta da lì, senza neanche perdere il tempo a rivestirmi, salendo nuda e coi piedi nudi le scale, toccandomi sotto con la mano per vedere se c’era del sangue, e intanto sbadigliavo... Oh, sì, sì, accidenti come sei bravo! Aspetta, adesso mi giro, spalmami un po’ di pomata anche nella fica, con un altro dito, magari... È un po’ martoriata anche lei. E intanto io ti racconto...»

Si era girata sulla schiena, aveva allargato le gambe, senza aprire gli occhi.

«Sì, sì, spalmala bene anche lì, vai dentro bene col dito, con dolcezza, per molto. Che cosa credi? C’è posto anche per la dolcezza dentro di me, e allora mi sembra di addormentarmi e quasi sogno... Ti dicevo di quel set che c’è qui sotto, a portata di mano... Chissà che non ci possa fornire qualche collegamento, qualche filo, che non ci faccia arrivare a capire dov’è andata a finire questa Meringa...? Affidati a me, so bene quali corde toccare, come farli cantare, non mi sfugge niente di quanto si muove là sotto, anche negli altri set mobili, prefabbricati, che si spostano attraverso la città, una parola qua e una là, mentre mangiamo un sandwich portato dal bar pochi minuti prima dell’inizio delle riprese, e quello che mi sta davanti ne approfitta con la mano libera per scaldarsi un po’ il pezzo di carne, con l’altra si porta il sandwich alla bocca e intanto mastica e parla e respira. Basta una mezza parola, un’allusione, per sapere se è arrivato qualcosa di nuovo nell’ambiente, anche se ci sono sempre più zone chiuse, impenetrabili, quasi, dove è difficile sapere cosa succede, bocche cucite, facce spaventate, ma qualche parola certe volte ci scappa, può darsi, mentre la macchina inquadra in primissimo piano il pistone che viaggia dentro il buco della fica o del culo, oppure i due cazzi assieme, e intanto stiamo fuori campo con le teste appaiate e ci si scambia qualche battuta sottovoce, tra noi, per far passare il tempo, persino mentre mi arriva la sparata in faccia e la testa del partner è fuori campo e la mia bocca si può chiudere e aprire con la scusa di ingoiare e gioire, se è un movie con il doppiaggio e c’è lì vicino, fuori campo, la doppiatrice che sfoglia una rivista di arredamento e intanto mugola e geme e sbadiglia, cercando di non urtare la parete prefabbricata con la mano mentre gira una pagina, perché non cada a terra, la camera sempre più addosso, la luce dei riflettori, i video, i computer, tutt’intorno, solo odore di merda, di piedi, di fiche e di prepuzi pisciati... Ma dovevo trovare prima o poi la forza di raccontarti cosa succede là sotto! Oh, sì, sì, ancora, adesso va meglio, non mi brucia già quasi più, passa bene le dita sopra quella piccola cresta, ancora, ancora... è stata succhiata, inghiottita, quasi masticata, l’hanno martellata, l’hanno tirata fuori e poi aperta e allargata, come una farfalla di carne contro i riflettori. Arrivo certe volte che non c’è ancora nessuno, nel seminterrato, solo una che fa le pulizie e intanto sbadiglia, passa con lo straccio il pavimento ancora tutto mitragliato dal giorno prima, si sente solo l’odore di quel disinfettante. Ce ne sono in giro in molti punti della città, gente che spunta più o meno alla stessa ora nei set, in certi appartamentini insonorizzati uguali a mille altri nei condomini, gente che arriva alla spicciolata, mette a posto un tramezzo, una parete prefabbricata che sta un po’ sbilenca. Qualcuno arriva sempre prima degli altri, lo trovi sempre sulla porta che aspetta, ha già acceso il riscaldamento, se è inverno, ha già il bozzo dei calzoni un po’ gonfio. Come quell’eiaculatore... Non la finisce mai di sparare, è un rubinetto! Si vedono volare nell’aria quelle stracce. La sua roba è rovente, scotta tutto quello che tocca, ustiona le mani che tengono in mano il cannone, quando ci cade una goccia sopra, anche la lingua, quando te la scarica in bocca. Lo fanno sparare contro i riflettori, contro l’obiettivo, per farlo schiumare, per far sì che si vedano dentro tutti quegli esserini sfrenati, sguinzagliati, sembra che stiano nevicando fiocchi di cervello quando colpisce le pale del ventilatore che c’è lì vicino, d’estate, e si gira tutti sudati, sbudellati, e intanto urla e geme e contorce la maschera rossa della faccia piena di sangue e grida da solo e si strangola e canta...»

Canto dell’eiaculatore

Eccomi qui, vi accolgo sulla porta di questo set. A me è stato dato il compito di introdurvi qui dentro. Faccio gli onori di casa. Mi presento: sono l’eiaculatore. Nessuno ha un getto così potente, nel giro dei set. Chiamano sempre me quando hanno bisogno della pisciata, della colata, la faccia che sta sotto, a bocca aperta, diventa bianca e lucente, sembra colpita dalla schiuma di un idrante antincendio, sembra porcellanata, la gola le si riempie, ne esce un rivolo dagli angoli della bocca, mentre il mio cazzo continua a sgorgare a fiotti. Per me è sempre come la prima volta, anche se devo sparare più volte in un giorno. Mi chiamano persino per una sola sparata, quando c’è bisogno di qualche rattoppo per una pellicola dove la sparata è fiacca. La inseriscono in un’altra pellicola anche se il pezzo di carne è diverso, i colori diversi, quando la proiettano in qualche sala buia e un po’ fuori mano, dove non si accendono mai le luci perché non si possano riconoscere i volti degli spettatori. Perdo quasi i sensi, ogni volta, come la prima volta, serro il cazzo con forza nella mano, lo stringo forte tra una scarica e l’altra per separare ed evidenziare ogni getto, tutto il cazzo respira, si espande, si squarcia, schizzano fuori getti bianchi e densi come cervella, dal foro del cazzo sbocciato. La mia faccia comincia incontrollabilmente a gonfiarsi, a deformarsi. Serro gli occhi, perché non mi schizzino dalla testa, sento le labbra venire in fuori a ventosa, si vede tutta la chiostra digrignata dei denti nel foro delle labbra scoppiate, i filetti delle gengive tutti tirati quando le labbra si rovesciano su se stesse contro il volto. Sento che il cervello comincia elettricamente a passare, a scaricare, lo vedo sgorgare in pisciate lunghe, roventi, quando devo tirare fuori il cazzo dalle fiche, dai culi, per farlo sparare in primo piano contro la luce accecante dei riflettori, e la donna spalanca la bocca ustionata, tira fuori la lingua incendiata, scorticata, lo posso rificcare subito dopo dentro altri buchi sbrecciati, insanguinati, e continuare a sparare là dentro fino a riempire i loro intestini bruciati, e poi tirarlo fuori di nuovo mentre continua a sparare e a scottare tutto quello che incontra, mani e lingue, capigliature, si sente odore di carni bruciate, nel set. La macchina viene vicino, sempre più vicino. Mi chiedono di ficcarlo di nuovo in un’altra fica dalle labbra siliconate e poi di sparare contro il suo palato spalancato e annerito, quasi carbonizzato, per sostituire qualche metro di pellicola venuta male di un altro movie, il solito pezzo di carne da cui non esce quasi niente nonostante venga fatto frullare tutto sfuocato, con la mano. Esce fuori alla fine solo qualche gocciolina quasi invisibile, bisognerebbe fornire agli spettatori una lente di ingrandimento da tenere davanti all’occhio con una mano, mentre con l’altra sono intenti a masturbarsi nella sala buia e semideserta, sotto terra. Le fiche sono tutte scuoiate e bruciate. Mi fanno sparare contro gli oggetti, li butto a terra, li sposto, si sentono i soprammobili andare in frantumi sul pavimento, passa attraverso i vestiti, li brucio. Intanto se ne sta spogliando un’altra ai bordi del set, si passa una mano sulla pianta dei piedi nudi prima di entrare nel cerchio di luce dei riflettori, si mette a posto i peli della fica, con la mano, oppure le sue labbra, se è rasata, si tocca un’ultima volta i capelli, si prepara. Me lo prende in bocca tutto insanguinato e smerdato, me lo pompa afferrandolo con tutte e due le mani ustionate, mentre un’altra mi aspetta già a culo pieno e, dall’altra parte dei riflettori, qualcuno mi incita ancora di più, venendo avanti con la camera tutta sparata, e intanto sento che sta già arrivando la Musa, da lontano, che sta già scendendo morbidamente le scale, a piedi nudi. Aspetto con emozione che sia finalmente di fronte a me, mentre sto già sparando un’altra volta in una fica tutta pisciata, se la spalma sopra i peli con le dita glassate, mentre esplode là sopra la sua maschera primordiale slabbrata, digrignata. Sento con emozione i passi della Musa che si sta già muovendo all’interno del set, si sta scaldando, si stira con le braccia levate, sento i suoi numerosi orecchini tintinnare. Poi fa un passo in avanti, improvvisamente, di colpo, nel cerchio di luce del riflettore, scavalca col suo passo felpato i corpi sul pavimento, in orgia, si mette nuda davanti a me, mi fronteggia, come se niente fosse, allarga le gambe, tranquillamente, sorride. Non pensate. Questo era solo per scaldarvi un po’. Che cosa credete? Il bello deve ancora venire!

«E poi cominciano ad arrivare le fiche siliconate, le esplose, i cazzi di cristallo. Si sente smaniare, si sente urlare. Non ti è mai successo, quando passi sopra quelle borchie di vetro luccicanti per venire da me, di sentir salire dal basso quel boato? Se ti fermi qualche secondo là sopra, e intanto tendi l’orecchio, cominci già a distinguere uno per uno quegli urli, quelle invocazioni, altri suoni inarticolati, e in mezzo certi versi rauchi e improvvisi, di animali?...»

«Di animali?»

«Be’, sì, certe volte vengono impiegati anche degli animali... Mentre stai fermo là sopra, rabbrividendo, e sotto di te, nella caverna del set, molti si arrestano per un istante con le teste girate, arrovesciate, nel groviglio dell’orgia, ammutoliti, vedendo dal basso le suole delle tue scarpe immobili su quelle placche di vetro del lucernario, controluce. Poi il boato improvvisamente riprende, qualcuno spegne di colpo i riflettori, perché si possano vedere quelle protesi di cristallo, oppure di plexiglas, di materiale espanso e internamente illuminato, mentre lavorano dentro le fiche, negli intestini, come in una radiografia. Si vedono mentre sono in azione all’interno dei corpi, nelle mucose, in mezzo alle feci, durante le orge, bagliori in movimento da tutte le parti, negli intestini pieni di merda, sembra di contemplare una notte stellata, assenti, in piena estate, quando passano da tutte le parti le stelle cadenti, le comete. Si sentono scoppiare quelle creste siliconate delle fiche, quando le martellano forte con quei cazzi fosforescenti, di cristallo. Li prendono a calci là dentro, perché si vedano deflagrare di colpo all’interno, come quando esplodono quelle stelle improvvise, qua e là, nel cosmo tutto nero e sessuato, nelle notti stellate, profumate. Estraggono le protesi luminose ancora intatte, le mettono di colpo contro le luci dei riflettori accesi improvvisamente, perché ci si possano vedere contro tracce di intestini e di feci, controluce... Oh, sì, sì, adesso va proprio bene, continua a spalmare dolcemente, dentro di me, quella cosa, infilaci pure un altro dito, anche tutta la mano, se vuoi. Ecco, mi allargo ancora di più, per te, solo per te, muovi la mano là dentro come se fossi a casa tua, tasta pure le sue pareti, tutt’intorno, a tentoni, come quando arrivi in una casa nuova e deserta, la tua casa, e non sai ancora dove sono gli interruttori della luce e vai in giro così palpando le pareti, con gli occhi chiusi, sorridendo da solo, prima di intercettare il primo interruttore e poi un altro, un altro ancora, e tutta la casa si illumina improvvisamente di fronte ai tuoi occhi, tutte quante le camere, una dopo l’altra, le pareti, i soffitti, e tutto appare e si accende e si presenta ai tuoi occhi e ti accoglie. Fai qualche passo attraverso le stanze, con le braccia allargate, come se danzassi, fino all’ultima dove ti aspetta nuda e lucente la tua Musa anche lei con le braccia allargate, e tu puoi prenderle al volo le braccia, le sue mani appena lavate, profumate, e ruotare così assieme a lei attraverso le stanze, come in una danza, e intanto ti chiedi: “Ma che casa è questa? Che mondo è questo? Dove sono finito? Dove sono entrato?”. “Sei arrivato a casa tua, finalmente!” ti sussurro all’orecchio, mentre ci spostiamo ruotando e come volando. “La casa che era pronta per te. L’ho preparata e l’ho accarezzata e l’ho profumata, muovendomi dentro con le braccia allargate, a piedi nudi. Ho preparato il tuo letto, il nostro letto, le mie ascelle sono rasate, profumate, le mie gambe smaltate, depilate. Il nostro respiro si allarga, la nostra voce sale. Sei tutto dentro di me, la tua Musa. Non curarti del resto, il resto è solo quello che vedono gli altri, è rumore di fondo, mixage!”»

La casa taceva. La Musa teneva braccia e gambe allargate, gli occhi chiusi.

«Oh, sì» disse, «adesso sento dentro di me la tua mano che allarga le mie pareti, mi accarezza. Accidenti, che bozzo ti è venuto in mezzo alle gambe! Fammi un po’ sentire... E poi le esplose prendono in bocca quei cazzi di cristallo smerdati, illuminati, li infilano nel cratere delle labbra scoppiate, mentre qualcuno lì vicino si sta masturbando con un piede prensile, oppure masturba così qualcuna a quattro zampe e con la fica tutta ustionata, lì vicino. Infila il piede prensile nella fica, mentre altre si masturbano tra di loro con i piedi prensili, o masturbano un pezzo di carne con tutti e due i piedi dalle piante pisciate, impolverate. Se lo ficcano nella fica l’un l’altra, se lo fanno ficcare nella fica da un altro, gliele graffiano dentro con quegli unghioni anneriti, mal tagliati, mentre tastano in cerca di quella poltiglia marcia, vivente, per i raschiamenti. Ci si deve tuffare dentro quel ginecologo spastico che cura tutte quelle fiche piagate, con quella lampadina accesa sopra la testa, come un minatore. Nel suo ambulatorio, oppure direttamente sui set, quando occorre, certe volte persino mentre stanno girando, quando c’è bisogno di fare una suturazione improvvisa, di bruciare, mentre la scena è in corso. La camera inquadra di colpo i suoi gesti sfrenati, dissociati, entra a far parte del movie anche lui. Ancora non lo conosci? Non te l’ho ancora presentato? Eppure ha un posto anche lui in questa storia. Sta’ a sentire!»

Canto del ginecologo spastico

Ci sono solo io ad avere il coraggio di affacciarmi con la mia lampada da minatore a queste vagine piagate, martirizzate, di attraversare certe porte o porticine dove nessun altro se la sente di entrare, negli scantinati, nei seminterrati, di giorno e di notte, in punti della città che nessuno conosce, di chinarmi su questa carne straziata, macellata, che non si sa neanche da dove viene, dove va, non si deve sapere, scompare senza lasciare traccia. Nessun altro si arrischia ad arrivare fin qui, nessuno dei miei colleghi, stanno nei loro studi ordinati, disinfettati, ricevono per appuntamento, il guanto di gomma, la signora, la vagina perfettamente lavata, profumata, già pronta e in sorridente attesa sul lettino a staffe. Non vogliono avere a che fare con questa feccia boccheggiante di vagine che pullulano fuori dal cerchio, nel calderone, marce, fibromizzate e ustionate, certe volte scuoiate, non vogliono grane, interrogatori, denunce. Ci sono solo io che arrivo fin qui, coi miei passi sghembi, con i miei gesti improvvisi e potenti, deragliati. Com’è successo la prima volta? Com’è cominciato? Semplicemente. Mi hanno chiamato. Mi hanno chiamato e sono andato.

Dormo poco. Mi sveglio presto, perché il giro è lungo. Stendo la mano per fermare la sveglia che suona, sul comodino, ma può darsi che il mio gesto finisca invece da un’altra parte, da tutt’altra parte, provo a mettere una gamba giù dal letto, ma certe volte la cosa non mi riesce al primo colpo, il mio piede va a fracassare la lampadina che c’è sul comodino, o finisce da un’altra parte, nell’aria, nello spazio. Mi alzo in piedi, raggiungo il gabinetto attraversando la casa con mosse sghembe, buttando da una parte una spalla e la testa, una gamba dall’altra. Provo a gettarmi un po’ d’acqua sul viso, per lavarmi, bagnando il pavimento tutt’intorno quando la mia testa non si riesce a trovare al termine di un gesto. Mi siedo sul water, certe volte mi passo il segmento ripiegato di carta igienica sporca sul volto invece che contro il culo, alla fine, se a metà del mio gesto tutto il mio corpo e il collo e la testa si sono contorti irresistibilmente sopra la tazza, e la mia mano che impugna la carta già sporca è salita verso l’alto di scatto invece che verso il basso. Mi guardo allo specchio, guardo la mia faccia tutta lordata che scatta da una parte e dall’altra, riesco appena a vederla tanto è vibrante e sfuocata. Mi lavo di nuovo. Mi tolgo a strappi il pigiama, quasi me lo straccio, comincio asimmetricamente a vestirmi, e molte volte devo ripetere il gesto perché le mani che reggono i calzoni sono andate a finire contro il volto, contro una spalla, invece che contro il piede sollevato nell’aria, che è andato magari a calciare a vuoto invece che dentro la bocca allargata dei calzoni. Infilo disarticolatamente le braccia nella camicia, cerco di non lacerarla ficcando le mani qua e là, con le dita unite, a freccia. Provo a mangiare qualcosa, gettando tutt’intorno schizzi di latte quando la mia mano solleva troppo di scatto la tazza, e la mia bocca viene portata dall’altra parte da un gesto improvviso di tutta la testa, dell’arco della spalla. Ascolto la segreteria telefonica per gli appuntamenti della giornata, cercando di stare in piedi lì vicino, vibrante. Afferro in qualche modo la borsa, anche la giacca, oppure qualcosa di più pesante, se è inverno. Muovo le mani nell’aria nel tentativo di intercettare la mia testa col varco del cappello, prima di uscire come a passo di danza dalla casa.

Il mio giro comincia. Sto fermo per qualche istante sul marciapiede, divincolandomi un po’ nell’aria in attesa del primo taxi in cui tentare di gettarmi zigzagando dentro, a capofitto, grido il primo indirizzo al taxista intento ad ascoltare alla radio le musiche del mattino. Vedo da dietro che cerca di localizzare la mia testa che si sposta a scatti nello specchietto retrovisore. Mi faccio scaricare di fronte a qualche capannone isolato, a qualche casamento. Qualcuno mi conduce senza parlare fino a una camera gremita di pagliericci, di brande, dove passano quelle schiere di prostitute bambine che arrivano di notte da altre città, da altre nazioni, da altri continenti. Da dove vengono queste carovane di carne? Dove vanno? Non lo so. Io non faccio domande. Non è affar mio tutto questo. Io mi limito a mettermi attorno alla testa, dopo due o tre tentativi falliti, quell’anello che sostiene la mia lampada da minatore, la mia corona. Mi chino sullo squarcio di una vagina infettata, su un pagliericcio pisciato, su altre straziate dai morsi di un animale, lacerate da genitali maschili non umani, infestate, necrotizzate. Perdite di muco, di orine, quando è stato lacerato lo sfintere che apre e chiude l’uretra. Mi chino a medicare vagine siliconate e scoppiate, cerco di illuminare per qualche istante con la mia lampada quella devastazione, mentre la mia testa che la regge si sposta a irresistibili scatti da una parte e dall’altra, così le mie mani intente ad allargarle con il divaricatore per guardarci dentro. Sembra, a vedermi da lontano, da dietro, che stia prendendo a pugni quegli uteri rotti e squarciati. Scorgo all’interno i segni delle ustioni, le unghiate di quelli che ci entrano dentro con le mani, coi piedi pieni di calli, unghiuti. Molte ormai le conosco, ci diamo del tu. «Ma che cosa è successo, qui dentro?» domando certe volte a qualcuna. «Perché è sempre così piagata?» «Ci vanno dentro con la mano piena di anelli, di rostri» mi risponde. Mi trovo di fronte certe volte anche qualcuna con la bocca straziata. «Ma io non curo le bocche!» provo a dirle. Spalanca di fronte a me le sue labbra siliconate e poi lacerate, cerco di tenere ferma la mia testa almeno per qualche istante, per vedere qualcosa dentro quella piaga tatuata, insanguinata. Prendo a pugni anche quella. Mi arrivano chiamate improvvise mentre sono già a letto e ho chiuso gli occhi e sto già magari spasticamente sognando, quando c’è da correre in qualche appartamento privo di mobili, in qualche scantinato, se ci sono dei pezzi di vetro o di latta da tirare fuori con le pinze dalla carne viva, cercando di tenere mani e braccia ferme almeno per qualche istante. «Ma qui è successo un disastro!» provo a dire. «Bisogna fare una vera operazione! Non so se ho gli strumenti adatti, se sono in grado di fare un intervento come questo.» «Non possiamo andare da nessun’altra parte, non abbiamo nessun altro oltre a te» mi dicono spalancando o tenendosi aperte le vagine, con le mani, di fronte alla luce zigzagante della mia lampada da minatore. Scompaiono e poi riappaiono da un’altra parte, scompaiono ancora. Le ritrovo un giorno in una di quelle pensioncine lungo i vialoni, in certi set clandestini, segreti, che nascono e scompaiono improvvisamente qua e là. Ne sorgono continuamente quando arriva qualche nuova ondata di carne, di vagine, qualcuna di cui nessuno sa niente, tutta bendata, queste bocche che si aprono e si chiudono da tutte le parti in questi grovigli informali, primordiali. Devo gettarmi a visitarle persino durante le riprese, quando c’è da tamponare un’emorragia, da dare qualche punto qua e là, muovendomi in mezzo al groviglio di corpi in orgia con i miei gesti incontrollati e radenti, perché là non si fermano neanche un istante, la mia mano che regge l’ago si slancia di colpo, va a rasentare la vagina ustionata, qualche pezzo di carne intento a eiaculare in qualche gola tatuata, mitragliata, mentre la camera continua a girare. Qualcuna con gli occhi socchiusi mi comincia macchinalmente a spogliare, narcotizzata, mentre sono intento a estrarre un incisivo da una vagina, da una lingua, a suturare una vena scoppiata, a rintracciare un chiodo vagante in una clitoride, un retto, una mucosa, espulso da una pistola sparachiodi. La luce si spegne di colpo, vedo apparire qua e là quei bagliori all’interno dei corpi. C’è odore di secrezioni, di deiezioni. Ma io sento all’improvviso una mano e poi una bocca passarmi sopra la fronte. «E tu chi sei?» provo a dire mentre il collo e la testa mi si slanciano da un’altra parte, nell’orgia. «Non mi riconosci? Sono la Musa.» Finisce di sfilarmi delicatamente i vestiti, mi accarezza. «Forza, vieni dentro di me!» mi sussurra. «Te lo sei meritato. Non preoccuparti di dove andrà a finire il tuo pezzo di carne, se punterai verso un posto e andrai invece veementemente a finire in un altro al termine del tuo gesto, o se mi verrà dentro la carne della schiena o del volto, quando il tuo gesto è trasportato come in una danza nel vento. Mi muoverò anch’io, spostandomi specularmente a te. Intercetterò ogni tuo gesto, sarò esattamente là, aperta, dove il tuo gesto incontrollabilmente culminerà. Intercetterò sghembamente i tuoi abbracci, la tua bocca, i tuoi baci.» Chiudo gli occhi. «Sì, sì, ti ho finalmente trovata!» le sussurro. «Sei tu la mia Musa, la mia spastica Musa!»

«Hai sentito? Ha parlato di una donna narcotizzata!»

«Sono molte quelle drogate, là dentro. Arrivano già fatte marce, oppure si fanno direttamente sul set, o in quei cessi improvvisati che ci sono là sotto, dove vanno a spalmarsi di vaselina il buco del culo, la fica, a sputare la chiara, a lavarsi i pezzi di carne tutti sporchi di merda, i cazzi di cristallo. Lo scarico è sempre ingorgato, bisogna buttare dentro continuamente degli acidi per sciogliere quei grumi che si formano dentro i tubi, quei pastoni di chiara e di peli e di merda e di dentifrici e pomate tutti agglutinati... Oh, sì, sì, senti? Tutta la mia fica pulsa attorno alla tua mano, al tuo polso, la mia pancia acquaticamente si apre, si chiude, ti prende, ti comprende. Sto cominciando a far girare la voce, a informarmi, quando sento parlare di qualche nuovo arrivo, di quelli coperti, più segreti, gente che non si sa chi sia, da dove venga. Mi bastano un paio di battute sussurrate prima delle riprese o addirittura durante le riprese, quando le nostre teste non sono inquadrate, una pacca sul culo a un tecnico delle luci, una palpata di cazzo cameratesca, frontale, a quello che porta la gabbia col formichiere, la sabbia, prima di un ciak...»

«Un formichiere? Per fare che cosa?»

«Prova un po’ a pensarci! Ecco, ecco... puoi chinarti a baciare, dove vuoi, fino in fondo, anche tu, puoi entrarci dentro fino in fondo con la lingua, le labbra, con le guance... Lo senti? Ho la gola chiusa eppure continuo ugualmente a parlare, a raccontare... Ti dicevo dei nuovi arrivi. La voce si sparge, ma ci sono mille e mille percorsi in questo ambiente, gente che passa di mano in mano, finisce in set sconosciuti e quasi blindati, dei quali si parla soltanto per allusioni, a mezza voce e guardandosi attorno con gli occhi sbarrati, per accertarsi che nessuno senta. Piccoli corpi che nessuno ha mai visto in faccia, completamente bendati, da cui spuntano solo genitali bambini e piccoli buchi del culo privi di peli, scuoiati, martoriati. Se li passano di mano in mano, sollevandoli sopra le teste, le braccia, del tutto inerti, dinoccolati, nella luce, non si capisce neanche se sono vivi o morti. Non esce un gemito, un suono, dalle loro bocche bendate, graffettate, mentre li lavorano contemporaneamente con due pezzi di carne, nessuno parla, non si sente volare una mosca sul set, prendono a calci là dentro una lampadina introdotta nel taglio squarciato, mentre schizzi di sangue vanno a finire sull’obiettivo della camera, sui volti e sui corpi degli altri, sui capelli, li lavorano al buio con due sbarre al neon contemporaneamente, dalla bocca e dal culo, cercando un varco tra le bende, nelle loro piccole labbra cucite, nel silenzio assoluto che regna nello scantinato accecato, sigillato, non un gemito, un suono, li portano via in braccio tutti aperti e sbocciati, verso dove non so. Qualcuno, da qualche parte, aprirà loro le bende tranciandole in un istante col bisturi, in qualche sala operatoria segreta, improvvisata, comincerà, vivi o morti che siano, ad aprirli ancora di più, a prelevare i loro piccoli organi per il mercato clandestino dei trapianti... Oh, no, non tremare, adesso, con la mano, siamo solo all’inizio. Non vuoi trovare quella Meringa? Allora devi avere il coraggio di scendere nei regni dove adesso probabilmente si trova. Non avere paura. Io sono al tuo fianco, ti guido, ti conduco. Ti faccio coraggio, ti riscaldo. Ce n’è una, per esempio, arrivata da poco, di età adulta, ho saputo. Nessuno sa chi sia né l’ha mai vista in faccia, è tutta avvolta in un grande foglio di carta stagnola aperta solo sulla fica e sul culo...»

«Ma allora forse è lei!»

«Chi lo sa! Nessuno le ha mai visto la faccia, se c’è ancora una faccia... Io perlomeno non sono ancora riuscita a far cantare qualcuno, nonostante ci sappia fare, lo vedi anche tu, in queste cose... Se la contendono da un set all’altro. Arriva tra le braccia di un uomo dalla testa rasata. Non dice niente, non parla, è laringectomizzato. Non si sa neanche per chi lavori, da dove venga, chi sia. Sta seduto per tutto il tempo delle riprese, a braccia incrociate, non fa un gesto, nemmeno quando lei viene lavorata più forte, e aperta da tutte le parti, con le mani, coi piedi, con i denti, e pezzi di carne coperti di pelo e di rostri, non umani. Si sente solo, nel silenzio assoluto, lo scricchiolare che fa la stagnola mentre se la passano tra le braccia l’un l’altro, tra le zampe, per segnarla, per scandagliarla. Resta per tutto il tempo inerte, in silenzio, sembra che non respiri. Solo quando il ciak è finito, e si spengono i riflettori e sembra che il set sia caduto in penombra nonostante le luci al neon siano ancora accese sotto il soffitto, lui si alza in silenzio dalla sua sedia, la va a prendere tutta scricchiolante tra le sue braccia muscolose scoperte, si avverte solo che le sta sussurrando qualcosa con quella strana vibrazione sonora che emettono i laringectomizzati, non si capisce che cosa, in che lingua, mentre è già girato di schiena e la porta fuori a passi lenti, solenni, dallo scantinato del set, non si sa verso dove... Oh, sì, sì, ecco, vedo che i tuoi calzoni stanno quasi scoppiando sul davanti, la cerniera non ce la fa più a stare dentro se stessa, è tutta scoperta e allargata, digrignata. Siamo in cammino per una strada che è solo nostra, siamo in viaggio. Te l’avevo detto. Stiamo respirando molti respiri come se fossero un solo respiro. Oh, ecco, sì, finalmente! Lascia che ti tiri giù la cerniera con le mie mani così profumate, tutte inanellate, che ti abbassi con un solo gesto infinitamente esperto mutande e calzoni, venendo avanti enormemente con la mano zoomata perché il pezzo di carne è così inalberato. Oh, sì, ecco, ecco, te lo posso finalmente tenere in mano, io la tua Musa. Ormai il porto da cui eravamo partiti è lontano, la costa è quasi svanita. Neanche aguzzando gli occhi riusciamo più a vederla, a immaginarla...»

«Acqua, acqua!» gridò il Gatto gettando in avanti le braccia. «Io non so cosa sta succedendo qui dentro! È come se questo libro di tanto in tanto si aprisse, si squarciasse. Devo stare qui, immobile, al mio posto, a piè fermo, ad aspettare che l’eruzione a poco a poco si plachi. Cerco di tenere la testa a posto, mentre tutto attorno a me va in esplosione. Devo introdurre iniezioni continue di solventi, di raffreddanti, per quel che si può, per quel che posso, perché lo stesso cratere non si squarci, fino a che la fase acuta dell’eruzione a poco a poco rallenti, finisca. La terra riprende a sussultare un po’ meno violentemente, tutt’intorno, almeno per qualche istante, almeno fino alla successiva esplosione, mentre intorno è tutto buio e rovente, si aprono sempre nuove bocche eruttive all’interno delle bocche che già stanno eruttando, l’aria tutt’intorno scotta, è incendiata, non si può respirare ma si può cantare. E poi la nostra Meringa... che fine ha fatto? Sei andato là dalla Musa per questo, per sapere. Non sei entrato ancora del tutto nella parte...»

«Ma si sta già muovendo... l’hai sentito!»

«E poi questa storia della guida, di nuovo... Sono io la tua guida! Mai, in nessun momento, nemmeno quando siamo presi alla gola, come adesso, per questa storia della Meringa... mai dobbiamo perdere il costume, il coraggio di guardarci, di fronteggiarci, anche mentre siamo travolti dal vento e le maniglie a cui ci siamo aggrappati sembrano staccarsi... E poi, a parte tutto questo, che cosa credi? A chi credi che si possano vendere i diritti di questa roba? Alla Walt Disney, per esempio? Ma come cazzo fanno a ricavare un cartone animato da questa merda? L’eiaculatore, per esempio... te lo vedi? Come potrebbero rappresentare quelle sparate? Il disegno animato è solo colore, non ha praticamente chiaroscuri. Ne verrebbero fuori dei lenzuoli che viaggiano attraverso lo schermo in dolby stereo, mentre il bambino in sala sgranocchia la patatina, la pallina di nitroglicerina... Comunque hai visto cosa c’è scritto sul giornale di oggi? Hanno tirato su con la rete un pesciolino mutante, in un lago del Brasile, mi pare, ha zampette ben sviluppate e respira all’aria... Cosa ne dici? Allora abbiamo qualche chance anche noi! Oh, cazzo, cosa fai lì impalato! Cosa aspetti? Va’ avanti!»

«Allora dove eravamo rimasti? Ah, sì, che stavo prendendoti in mano il pezzo di carne... Accidenti! Abbiamo lavorato bene, mi pare. Oh, sì, sì, continua così anche tu, e intanto puoi passare l’altra mano sotto il mio collo e contemporaneamente tirarmi su tutta la testa tintinnante e gli occhi e i capelli, fino alla tua bocca, mentre il pezzo di carne comincia a pulsare più forte nella mia mano piena di piccoli anelli, profumata. Devo stringerla e nello stesso tempo tenerla aperta, leggera, perché non me la mandi in pezzi. Oh, no, no, aspetta, siamo solo all’inizio. Ti toglierò lentamente i vestiti, ci alzeremo da questo lettino che uso solo con i clienti, ci sposteremo tutti e due a piedi nudi attraverso la casa, tenendoci per la mano, crescenti, ci laveremo l’un l’altra, ci profumeremo. Ti porterò alla fine dove non ho mai portato nessuno, nel letto dove solo io chiudo gli occhi, passeremo assieme dall’altra parte. E intanto ti continuerò a raccontare quello che ho visto, quello che ho scoperto. Sarò sempre al tuo fianco, ti farò da guida. Sprofonderemo assieme nei regni dove può essere discesa la tua Meringa. Sprofonderemo e intanto saliremo, sprofonderemo in alto! Ti dicevo di quella donna avvolta nella carta stagnola...»

«Che sia lei? Cosa credi?»

«Chi lo sa! Chi può dirlo! Non è la sola in quelle condizioni, là dentro, te l’ho già detto. Ma io la tengo d’occhio, la seguo, mi informo dei suoi spostamenti attraverso i set, cerco di captare ogni voce che la riguardi, ogni leggenda, scambiando qualche battuta mentre bevo un caffè alla macchinetta del set, con un tecnico delle luci, con un eiaculatore ancora con il suo pezzo di carne bagnato, mentre siamo tutti e due nudi perché dopo l’intervallo si riprende a girare, e c’è un forte odore di genitali e di merda nel locale, nonostante l’aspiratore continui rumorosamente ad andare, si vedono certe volte quei peli un po’ stopposi delle fiche o dei cazzi staccarsi dalla moquette del pavimento tutto sparato, e salire distintamente verso le griglie, nell’aria piena di pulviscolo e fumo, se ci si trova fuori dal cono di luce di uno dei riflettori. Salgono assieme a quelli anche altre scaglie che si sono seccate sul pavimento, secrezioni prosciugate, frammenti di sangue e di feci, quelle pellicine un po’ callose che si staccano certe volte dalle piante dei piedi degli eiaculatori, quando sono sotto sforzo e le puntano a terra per pestarlo ancora più forte in qualche culo sfondato, abbacinato. “Ma chi è quella? Si sa qualcosa di lei?” provo a domandare facendo finta di niente. “Bisognerebbe chiederlo a quel laringectomizzato!” mi rispondono girando gli occhi un istante su quell’uomo dal cranio rasato che non la perde di vista un istante, seduto con le braccia incrociate in qualche punto del set. Gli vado vicino, certe volte, continuando a spalmarmi un po’ di lubrificante prima di entrare in scena. Provo a dirgli qualcosa, ad attaccare discorso. Non sembra neanche sentirmi, continua a guardare fisso verso il bagliore della donna avvolta in carta stagnola assalita da tutte le parti nella luce dei riflettori. “Eppure ci sarà un modo di sapere qualcosa di quella donna!” mi dico. Cerco di avvicinarmi anche a lei, nelle orge, con la bocca, col volto, provo a indovinare il colore dei suoi capelli, la sua età, i suoi lineamenti, sotto quella luccicante superficie di carta stagnola che scricchiola nei movimenti, e non si può quasi guardare, non si vede niente. Non esce alcun suono dal bozzolo luccicante della sua testa. La muovono disarticolatamente, la mettono come vogliono, spostandola con le braccia, allargano appena un po’ la fessura che si apre in mezzo alle gambe nella copertura di carta stagnola, all’altezza della fica e del culo, qualcuno addirittura si lecca ostentatamente le labbra alla vista di quelle spaccature piagate, prima di trapanarla da dietro tenendola con tutte e due le braccia sudate, in silenzio. “Ma tu chi sei?” provo a sussurrarle senza che nessuno mi senta, andando molto vicina al bozzolo della sua testa con la mia bocca tutta bagnata, tutta mitragliata...»

Canto della donna avvolta nella carta stagnola

Non so chi sono. Non sono in grado di aprire bocca, di parlare. Non mi posso svegliare. Sento solo, ogni tanto, come nel dormiveglia, che qualcosa si sta muovendo in qualche punto molto profondo del mio corpo, come se avvenisse da un’altra parte, da tutt’altra parte, il suono di una parola pronunciata chissà da dove, da lontano, di qualche verso. Avverto di tanto in tanto che mi stanno sollevando attraverso lo spazio, mi stanno spostando da una parte all’altra. Sento solo, a poca distanza dalla testa, qualcosa come una voce che mi parla sommessamente. Non riesco a capire le parole, mi assento o mi addormento per qualche istante, o forse per molto, è come una vibrazione sonora che viene da molto vicino o da molto lontano, che addormenta. Percepisco per qualche istante che qualcuno sta trafficando attorno al mio corpo, mi sta alimentando, può darsi, oppure qualcos’altro, con un ago di fleboclisi, una sonda, mi sta lavando, mi sta pettinando, mi pare, se sono ancora viva in una forma o nell’altra, da qualche parte. Non vedo niente, sono come racchiusa dentro qualcosa che scricchiola da tutte le parti, che risuona. Sento solo, ogni tanto, che mi fa male leggermente la gola, se ho una gola, segno che mi stanno sollevando di colpo verso l’alto. Mi assento a lungo. Anche la luce addormenta. Avverto qualcosa come degli unghioni che mi tengono ferma da dietro, attorno ai fianchi, mentre si conficca dentro di me l’imbuto peloso di un muso da cui viene scagliato il filo rovente di qualcosa come una lingua spalmata di colla. Qualcuno o qualcosa mi solleva di nuovo nell’aria, rovesciata. Avverto socchiudendo un po’ gli occhi nel bozzolo scricchiolante in cui è rinchiusa la mia testa, nel dormiveglia, dei bagliori improvvisi, di tanto in tanto, come se uscissero a tratti dalla mia bocca gli ultimi fulgori di esplosioni luminose più grandi che stiano avvenendo in qualche punto profondo del mio corpo, come se qualcuno avesse conficcato là dentro delle forme luminose di vetro e poi le avesse fatte scoppiare senza pensare, senza respirare... Dove sono? Chi sono? A volte ho l’impressione che stiano lavando col getto di una canna gli ingressi del mio corpo straziati, mentre me ne sto abbandonata, disarticolata su un pavimento freddo e bagnato, di piastrelle, che qualcuno mi stia girando e rigirando su me stessa e mi metta accucciata sulle ginocchia per staccare bene qualcosa che potrebbero essere croste indurite di sangue e pezzi di vetro ancora conficcati dentro la carne, illuminati. Ma lo so che forse è soltanto un sogno che non so se nessuno sogna. E poi qualcuno o qualcosa mi solleva da terra, mi muove nell’aria, nello spazio, mentre sto inerte nelle sue braccia, se si tratta di braccia, e che usciamo maestosamente così, da dove non saprei dire, non vedo, non capisco se è il mio corpo a scricchiolare tra le sue braccia o se è quella sua vibrazione che a me certe volte, in assenza di voci, appare come una voce, un tentativo di voce, perlomeno. Anche se non capisco che cosa sia, cosa dica, anche se quasi non l’avverto, la sto ad ascoltare a lungo, mi pare, nel dormiveglia, mentre mi trasporta attraverso le prospettive della città, su qualche auto buia, lanciata, mi immagino certe volte, abbandonata su uno schienale oppure distesa sul sedile di dietro, coperta da un vecchio plaid, una pelliccia, anche quando mi sembra che mi alimenti, o che mi lavi staccando da me per un po’ di tempo quella cosa un po’ scricchiolante che sembra avvolgermi, o che mi assista durante i miei bisogni, persino, certe volte mi pare, mentre mi spalma qualcosa come un unguento che lenisce, sulle mie piaghe, se ho delle piaghe, e intanto quella specie di voce continua dolcemente, lentamente a vibrare, non saprei dire se l’ascolto davvero oppure mi addormento. Mi pare, oppure mi immagino, o sogno, che qualcuno mi stia parlando sommessamente, e che intanto stia tenendo tra le sue una delle mie mani, se ho delle mani, perché sento di tanto in tanto qualcosa scricchiolare, mentre quella vibrazione continua ad andare, e forse siamo seduti tutti e due di fronte a qualche finestra aperta, ed è notte, solo qualche luce accesa qua e là, nelle case, tutte quelle stelle sopra le teste, nello spazio, se c’è uno spazio, come se ci trovassimo in un posto del tutto diverso, in mezzo al mare, e tutt’intorno solo quell’ansimare d’acqua buia e tranquilla e senza memoria e calda, io seduta su qualcosa di grande, profumato, come una regina su un trono. Mi prende in grembo, mi tiene tra le sue braccia mentre la sua voce continua a vibrare, addormentare. Dove sono? Chi sono? Sono qualcosa da qualche parte? Chi ero prima? Perché nessuno vuole scendere fin qui dove sono, qui in fondo, se c’è ancora un posto dove sono, se ci sono? Perché nessuno mi viene a cercare, mi viene a liberare?

«È lei! Sono sicuro! Non può che essere lei!»

«È ancora presto per dirlo. Io comunque continuo a stare sulle sue tracce, non mollo la presa. “Ma chi c’è dentro quell’involucro di carta stagnola?” provo a buttare lì con qualcuno. “Da dove viene? Chi è?” Si guardano attorno un po’ spaventati. Nessuno sa, nessuno apre bocca, perlomeno. Ma io non mi fermo. Non temere. Ti aiuterò a scoprire dov’è finita, ti aiuterò a salvarla. Io posso entrare dove tu non potresti. Sarò qualcosa di più del tuo battistrada, sarà come se tu entrassi direttamente dentro il mio corpo, per guidarlo alla sua ricerca, per pilotarlo. Oh, sì... ancora così, senza fretta. Lo vedi, sono tutta aperta di fronte a te, sono offerta... Ti stavo dicendo... ieri notte, per esempio, mi sono avvicinata come se niente fosse a quel laringectomizzato, mentre la stava lavando con la canna nel cesso. La colpiva col getto negli spacchi tutti insanguinati e incrostati, mentre lei era coricata a gambe larghe sul pavimento. Staccava il sangue secco col getto, altre cose che non si riuscivano neanche a identificare, in quello squarcio che si apriva tra quelle due valve di stagnola lucente che le arrivano fino all’attaccatura delle cosce. Tutto lo stanzino del cesso luccicava. Il laringectomizzato staccava in silenzio le ultime croste di sangue dalle pieghe tumefatte della sua fica, silenzioso, assorto, non si capiva se la stava adorando o se era assente, mentre il sangue diluito dall’acqua e altre cose mai viste scolavano sul pavimento verso la rosa un po’ arrugginita dello scarico. Gli ho posato una delle mie mani inanellate sul collo. “Mi piaci!” ho provato a dirgli. “Sei forte, sei silenzioso e tranquillo. Io non ho mai avuto un uomo come te. Quasi quasi la invidio.” Intanto non staccavo gli occhi da lui. Continuava a lavorare in silenzio con la canna, come se non mi vedesse, non mi sentisse. “Chi è quella donna? È la tua padrona?” ho provato a domandargli di nuovo. Silenzio. Le piastrelle del cesso luccicavano un po’ per il riflesso della carta stagnola che avvolgeva quel corpo abbandonato, inerte, ci si rifletteva anche la carne nuda e rosata del mio corpo. Il laringectomizzato ha chiuso il rubinetto, avvolto piano piano la canna attorno a un chiodo, preso una pezzolina di spugna e cominciato ad asciugare la fica e il culo che spuntavano dalla stagnola, lentamente, per non farle male, con devozione. Poi si è chinato per prenderla tra le braccia. Scricchiolava, mentre veniva su, gambe e braccia le ricadevano inerti, anche il bozzolo luccicante della testa. È uscito a passi lenti dal cesso, poi dal set, senza salutare. Solo, mentre stava già salendo i primi gradini della scaletta che conduceva alla porticina di metallo del set, la sua voce ha cominciato improvvisamente a vibrare, segno che era chinato sopra di lei e le stava sussurrando qualcosa. A lei, solo a lei.

“Dove la starà portando?” mi chiedevo. “Come farà a trasportarla da un set all’altro senza dare nell’occhio?” Ci sono cose così segrete che sono precluse anche a me, persino a me, che sono la Musa... Poi qualcuno ha spento le luci, o le ha accese, non ricordo, è difficile capire la differenza, certe volte, mentre si sta a bocca piena e con gli occhi a pochi millimetri di distanza da qualche sfintere siliconato e sforzato, luminoso nel buio per via del fosforo, e si sente solo quell’odore di merda e di costellazioni. Però solo un paio di ore dopo, mentre stavo in mezzo a una catasta di carne e di pezzi di carne, una bocca è venuta di colpo vicino alla mia testa, ancora gocciolante di qualche cazzo o di qualche fica che aveva appena succhiato, di un’esplosa. “Ho visto che stavi parlando con quel laringectomizzato, nel cesso...” mi ha detto. “È vero!” le ho risposto, perché là in mezzo si può anche parlare, quando la camera non ti inquadra la faccia, ma certe volte persino mentre ti inquadra in primissimo piano la bocca intenta a inghiottire, basta pronunciare le parole tenendola esageratamente allargata e un po’ deformata. “Ero curiosa di sapere qualcosa di quella donna avvolta nella stagnola...” “Ah, quella fica!” ha detto con disprezzo, mentre un filo di chiara rigurgitava dal cratere della bocca scoppiata. “Non si parla che di lei, qui dentro, ormai da un po’!” “Ma da dove viene? Chi è?” ho provato a chiedere ancora. “È qui da poco” mi ha detto, “non si sa da dove viene, chi è, la imbottiscono di merda due volte al giorno, con la flebo, mi hanno detto che la trasportano in un contenitore, dentro un furgone, il più delle volte, quel laringectomizzato...” “Ma chi ti ha detto queste cose?” le ho chiesto ancora. “Una bambina. Quella che faceva quel numero con il cane... Sono state un paio di giorni assieme, loro due, nella stessa stanza.” “Ma adesso dov’è questa bambina?” “E chi lo sa! Se ne sarà occupato quel laringectomizzato!” “E quell’uomo chi è, a chi obbedisce?” ho provato a chiederle un’ultima volta, mentre qualcuno da qualche parte della catasta la stava già prendendo per i capelli per avvicinarla al suo pezzo di carne tutto sporco di merda, di intestini. “E chi lo sa!” mi ha detto di nuovo venendo ancora vicina col buco della bocca. “Non parla con nessuno, solo a lei, mentre la porta in braccio, con quella specie di voce che nessuno capisce, in un’altra lingua, persino, mi pare, come se non bastasse!” Un istante dopo hanno conficcato il pezzo di carne nello squarcio della sua bocca, un altro ancora, li estraevano e poi li riconficcavano e poi ancora li estraevano tutti lordati, come se li avessero tirati fuori da un vasetto di marmellata, mentre un altro ancora la stava già lavorando da dietro con una protesi di cristallo. Eppure qualcosa in mano l’abbiamo, altroché se l’abbiamo... Accidenti come pulsi tra le mie dita così inanellate! Qualche filo l’abbiamo. Il furgone, il contenitore, quella bambina che faceva il numero con il cane... me la ricordo. E quel laringectomizzato che parla o vibra in un’altra lingua. Ma quale lingua sarà se nessuno la capisce, qui in mezzo? Eppure ce ne sono di tutti i paesi e di tutte le razze, in giro per questi set, carni bianche, azzurrine, carni nere, bambine, pezzi di carne blu, viola, non si capisce se è il colore della pelle del cazzo oppure della merda che hanno appena dragato in qualche culo scoppiato, trasognato, e buchi pelosi di tutti i paesi, di tutti i continenti, come quelle aperture cieche che boccheggiano da ogni parte in fondo agli oceani, in quei calderoni spaziali, primordiali... Ecco, ecco, lo vedi, anche il tuo pezzo di carne è nelle mie mani gemmate, ci poso contro la ventosa dolce della mia bocca, te l’accarezzo con l’interno delle guance, col muso, con le orecchie rotonde piene di piccoli anelli tintinnanti, sto con il volto tuffato contro il tuo grembo, sento contro la sua carne il sacco tutto rugoso e peloso delle palle. E poi ancora a piedi nudi ci abbracceremo, e sentirò tra i nostri due corpi la presenza dura e rovente del tuo cazzo, contro il mio ventre elastico e nudo e offerto, e ti prenderò ancora più forte per mano e cammineremo così verso il cesso, e sentiremo le nostre dita intrecciate, una per una, vedremo l’ombra delle mie tette oscillare un po’ a ogni passo, anche del tuo pezzo di carne un po’ sfuocato che oscillerà eretto di fronte al tuo corpo, ai nostri corpi. Andremo, prima, a lavarci l’un l’altra nel cesso, in modo nuziale, tutti e due in piedi dentro la vasca. Oh, sì, ecco, sì! Si comincia!»

«Cazzo, cazzo, qui andiamo a cento!» gesticolò il Gatto. «Ma io dove sono finito? Devo gettarmi dentro a testa bassa per non essere ributtato fuori ogni volta! E il titolo? Non c’è ancora il titolo. E il lavoro di programmazione del lancio, le istruzioni? Non ci pensi? Finora abbiamo fatto soltanto i primi passi. Siamo ancora all’inizio, vista la velocità che ha preso la cosa! Sì, sì, lo so, la Meringa, la stiamo cercando, e per trovarla bisogna scendere nei regni dove probabilmente si trova. Ma... e tutto il resto? Te lo sei dimenticato? Cosa succede intorno? Sei nelle mani della Musa, sei partito... A cos’altro dovremo assistere ancora prima di rivedere la nostra Meringa?»

«Ma sei stato tu a mandarmi da lei!»

«Sì, sì, lo so! Ma che fine hanno fatto tutti gli altri? Quel donatore di seme, e l’Interfaccia, e quel videogioco e quel prete? Ti sei gettato a capofitto in questo buco nero. Devo arrancare, devo correrti dietro perché tu non ti perda, col mio scarponcino. Oh, a proposito, guarda: un negozio di scarpe là in fondo, neanche a farlo apposta! Avevo appunto bisogno di un paio di scarpe nuove!»

«Ma... le vai a comperare in negozio?»

«Certo, perché no! Cosa vorresti dire? Ah, per quel piede? Cosa importa! Ne compero un paio ma ne uso una sola. Faccio copiare il modello dell’altra dal mio calzolaio ortopedico. Sì, sì, il negozio mi sembra buono. Cazzo, guarda qui che vetrina! Scarpe da boscaiolo per la lettura in quota, scarpe di spugna per escursionisti estremi, con una cerniera lampo per ogni dito, scarpe a molla per il dessert, e poi scarpe a mandorla, con il fischietto, scarpe a trazione anteriore, per le capriole. E guarda quella! Non si capisce se è una scarpa da shopping oppure una dentiera. E quell’altra? È una forchetta oppure una pedula per cani? Che bello, che bello, è il negozio che fa per me! Ecco, adesso entreremo. Mi andrò a sedere su uno di quei pouf bassi, annaspando un po’ con le braccia nell’aria per l’emozione. Chiamerò una di quelle signorine che si spostano senza fare rumore su quella moquette di cachemire, la più garbata, la più profumata, le farò tirare fuori decine e decine di scatole da quelle cataste, tutte in pile sghembe sul pavimento, fino a formare quelle muraglie scassate, disossate, le aprirà una dopo l’altra, farà volare via dalle parti quelle trasparenti cartine, quelle mutandine, si inginocchierà tra le mie zampe allargate, metterò avanti in un primo momento, per scherzo, il mio piede tutto scoppiato, con lo scarponcino. La vedrò arrossire un istante vedendo di fronte a sé quell’affare. “Oh, no, non si preoccupi! Non è questo che mi deve infilare!” sarò svelto a rassicurarla mettendo avanti l’altro piede dalla scarpa già tutta slacciata, quello di rappresentanza. Comincerò a infilarlo in una scarpa, nell’altra, mentre la signorina mi masturberà un po’ il piede con quell’arnese... come si chiama? Il calzante. Indovinerò tra le sue gambette piegate e accucciate quella smorfia che si aprirà e chiuderà di tanto in tanto sotto la sua mutandina, sentirò il suono delle sue coscette che sfregheranno l’una contro l’altra nelle calze di nylon. “Oh, che bello, che bello!” le dirò emozionato. “Signorina, non ha mai pensato di fare la scrittrice? Dopo aver infilato tutti quei piedi dentro le scarpe... Sa, io sono un editore!” Balenerà ancora di più in mezzo alle sue coscette il rigonfio della fica sotto le mutandine stirate. “Oh, sì, sì!” le dirò. “E mi provi anche quelle col plantare alla clorofilla, alla camomilla, e anche quella là, anatomica, personalizzata, col serbatoio, a questo punto!” Franerò sempre più indietro col busto, su quel pouf, tirerò fuori mezzo metro di lingua mentre la commessa verrà sempre più vicino, più avanti, con le cosce, indovinerò le scintille che si accenderanno là in mezzo mentre le calze di nylon sfregheranno sempre più forte, le aprirà sempre più nello sforzo di provarmi una scarpa subito dopo l’altra, muovendomi il piede in avanti, mi sembrerà di conficcarlo e di riconficcarlo direttamente nella sua fica slacciata invece che nelle scarpe, e di tirarlo fuori gocciolante prima di riconficcarlo di nuovo. Uscirò alla fine dal negozio tenendo sottobraccio il paio di scarpe prescelto, zoppicando sul marciapiede, come se stessi barcollando e nello stesso tempo danzando, urterò qualcuno dei passanti, andando avanti così per qualche decina di metri, senza neppure ricordarmi di ritirare dentro la lingua, aprirò sbattendo un po’ le palpebre il coperchio della scatola, farò volare dalle parti quelle cartine, getterò nel primo cestino delle immondizie che incontro la scarpa che non mi serve, quella dell’altro piede, dello scarponcino, facendola volare a parabola di lato, oppure mentre l’avrò oltrepassato, il cestino, addirittura, lanciandola così alla cieca, alle mie spalle. Ce le lancerò dentro tutte e due, se mi gira, per andare a spasso con le mani libere di prenderti sottobraccio, di gesticolare e di imperversare. Allora hai visto? Che cosa ne dici? Hai capito? Ma adesso bisogna cominciare veramente a pensarci, a questo cazzo di libro! Il titolo, per esempio, non ce l’abbiamo ancora, e poi i traduttori... Cazzo, non abbiamo ancora pensato ai traduttori, ai cellophanatori. Insomma, non si può andare avanti così! Non mi lasci parlare!»

Ai traduttori

Ah... avessi avuto anch’io la fortuna di nascere traduttore! Me ne starei seduto sul mio pisellino, o sul mio pannolino, se mi fosse capitato di dover tradurre un libro di aforismi di Fred Astaire, oppure di Johnny Weissmuller mentre ho le mie cose. Invece di dover correre dietro a questo qui che nessuno ha ancora capito che cosa voglia, che cosa pensi, se sono io che sto cercando di prenderlo all’amo o se è lui che sta cercando di prendere all’amo me, o se c’è qualcun altro o qualcun’altra che sta cercando di prenderci all’amo tutti e due, o perlomeno ci prova. Ma questo a voi non interessa. Ogni cosa a suo tempo! Scusate, veniamo a noi. Dove siete? Chi siete? Alcuni di voi li ho in mente, li conosco di faccia, li vedo di tanto in tanto nelle fiere internazionali, chiacchieriamo un po’ al bar sorseggiando una bibita su quei tavolini a stelo, o in uno di quei ristoranti self-service, mentre ci spostiamo col cabaret tra la folla, oppure in toilette, se ci capita di trovarci per qualche minuto contro due conchiglie confinanti dell’orinatoio, fanno in tempo a consigliarmi un’opzione sul tal libro, il talaltro, mentre siamo intenti tutti e due a scrollare i nostri uccelli dai colori e dai piumaggi diversi. Vi spostate a sciami tra le fiumane di folla, negli stand, si scorgono da lontano i vostri capelli lisci, increspati, inanellati, imburrati, i vostri copricapi di altri paesi, di altri continenti. Conosco il vostro lavoro, perché do sempre un’occhiata qua e là quando arrivano sul mio scrittoio le vostre traduzioni. Eppure non saprei a chi di voi affidare una cosa come questa. Forse a qualcuno, o qualcuna, che non conosco, magari tagliato fuori, che neppure a tastare il polso agli esperti potrei rintracciare, che in questo momento se ne sta probabilmente seduto da qualche parte, per terra, con le gambe ripiegate, abbracciandosi le caviglie, e non pensa a niente, non cerca niente, aspetta soltanto, ma non sa che cosa. Vai a sapere in quale paese, in quale continente. E forse allora potrebbe sentire, potrebbe essere disposto a scoppiare, a germogliare. Le orecchie grandi e mosse dal vento, bianche o nere o arancioni o azzurre, tutt’intorno vuoto, silenzio, solo il vento, potrebbe percepire da lontano il suono di questo concerto per ariete e orchestra, di questa sinfonia per violino e tamburi, che cresce sempre più, si avvicina, e per buchi neri e strisciate di merda e deflagrazioni... La vecchia diatriba sulla traduzione? Se deve essere interlineare oppure di visione? Non ne ha mai sentito parlare, non gliene frega niente, gli è indifferente. O le è indifferente, se è una fica. Sta da qualche parte a Nairobi oppure a Lahore o a São Paulo, in giro per strada, oppure in barca, è appena uscito dal cesso, sta sorseggiando una di quelle cazzo di bibite che fanno da quelle parti, o è solo in casa, oppure sola, se è una fica, perché confesso che mi piacerebbe di più che fosse una fica. Ha appena finito di mangiare un piatto di fegatini di coccodrillo, oppure se ne sta a Francoforte, a New York o dove cazzo volete voi, perché non è detto che bisogna metterla giù per forza così esotica. Ma ha ugualmente appena finito di sgranocchiare dei fiocchi di fegato di armadillo, trovati in bustina nel supermarket che avrà sotto casa. «Oh, cazzo! Ma da dove arriverà mai questa cosa?» dirà dopo avere aperto la bolla del dattiloscritto, che il suo editore le avrà appena portato a dorso di tapiro, o viaggiando su una di quelle macchinine da golf tra i grattacieli. «Ma chi ne è l’autore? Tu lo conosci?» «No, no, non lo conosce nessuno» le dirà l’editore. «Non si sa chi sia, se ci sia!» «Chi sarà?» comincerà a fantasticare la traduttrice. «Chissà che faccia avrà? E come sarà la sua bocca, il suo cazzo?» «Niente, niente di niente, è venuto fuori così, non si sa niente» le dirà l’editore andandole più vicino su uno di quei divani letto di pelle di ippopotamo su cui stanno seduti, e prendendole con la mano la spalla nera e rotonda, satinata. «Non pensare, adesso, a quell’autore là, ammesso poi che ci sia, che non si tratti di quelle operazioni epocali, che non si venga a sapere poi, fra cento anni, fra duecento anni, che è stato scritto per scherzo da un pool di pornoattrici in vacanza premio sulla Grande Muraglia, da un gommista armeno con l’Alzheimer. Adesso ci sono qua io, il tuo editore. Per quanto ne sai, potrei essermelo inventato io questo libro, soltanto per stare seduto con te su questa pelle di giraffa, e prenderti con la mano per la sfera lucente della spalla, e guardarti da così vicino coi miei occhi sporgenti, e accostare al tuo collo i miei labbroni glassati, lievitati, con quel taglietto da cui spunta la freccetta ghiacciata della lingua, e passare la mia mano sulla paglia di ferro della tua fica mentre tu mi accarezzi a tua volta i capelli crespi e poi i peli altrettanto crespi del cazzo, delle palle. Io e te soli, qui dentro, prova un po’ a pensare. Non so se sono riuscito a farmi capire, se mi spiego. L’autore? tu dici. Quale autore? Li vedo che si spostano a fiumane nelle fiere internazionali, coi loro vestiti attillati, gli scarponi da roccia, i salvagente, contro qualche parete prefabbricata, ogni tanto, per le fotografie, qualcuno fa il giraffino con un giornalista televisivo, qualcun altro se ne sta in piedi, in disparte, poggiato sul bordo esterno delle scarpe. Passo attraverso le strade artificiali, le successioni di stand. Non ci sono fuochi, ma io vedo ugualmente il bagliore di piccoli e grandi incendi appiccati dappertutto, come quando si va con gli occhi socchiusi lungo i viali lontani delle città, delle bidonville, e ci sono dappertutto quelle torri di carne, dalle parti. Ah... gli autori! Che cosa te ne fai degli autori? Tu puoi trattare direttamente con me, col magnaccia!»

Ma adesso dove sono andato a parare? E da quando in qua avrei i capelli crespi, i labbroni?...

«Allora cosa ne dici? Ti sembra che il libro cominci a esserci?»

«Il libro? Quale libro?»

Il Gatto mi guardò con gli occhi sbarrati.

«Oh, cazzo! Adesso ti ci metti anche tu?»

«Io invece sono con te, sto con te, me la faccio con te, solo con te. Anche se non mi sfugge niente di quanto succede qui dentro, nel frattempo. Le mie orecchie crivellate di piccoli anelli sono aperte per te, solo per te. Mi tiro su da questo lettino, dove palpo e ungo e irrigo buchi del culo e succhio e masturbo ogni genere di pezzi di carne, inflorescenze... Stacco dalla sua cerata le spalle, le tette, e poi il culo, le anche, mi alzo in piedi, mi ergo. Ecco, adesso la mia fica e il tuo pezzo di carne sono uno di fronte all’altra, si sono guardati, si sono presentati. Sono in piedi di fronte a te, ci teniamo per mano, sento la punta rovente del tuo cazzo contro la mia pancia cigliata, profumata. Piano piano, crescenti. Continuiamo da dove eravamo rimasti, irresistibilmente. Vieni, adesso andremo a lavarci l’un l’altra nel cesso, in piedi, di fronte, nella vasca, staccherò, coglierò la spina del telefono, passando, con un piccolo gesto dei miei piedi dipinti, afferrando il filo con le mie dita prensili, perché nessuno ci possa trovare, ci possa disturbare. Non possa passare altro che noi, tra di noi. Vieni, vieni, e intanto ti racconterò quello che ho saputo di nuovo di quella donna avvolta nella carta stagnola, per un po’, mentre passerò le mie mani nude e bagnate sul tuo corpo, e tu le passerai sopra il mio, dentro il mio, perché ho continuato a darmi da fare, nel frattempo, ho cercato di sapere qualcosa di quella bambina che si dice l’abbia vista, ad esempio, e della quale nessuno sa niente, scomparsa anche lei chissà dove. Ma una fica che è passata una volta da quell’appartamento dove hanno abitato tutte e due per alcuni giorni ha detto di avere sentito la bambina parlare tranquillamente con lei...»

«Ha parlato con lei? Ma allora non è sempre narcotizzata! Può parlare!» dissi stringendo la mano tutta profumata e dipinta della Musa.

«No, parlava lei, la bambina, solo lei, e la donna, distesa su un letto lì accanto, stava immobile dentro il suo rivestimento di stagnola, non parlava, non scricchiolava, ma la bambina sembrava non farci caso, continuava a parlarle con la sua vocina compunta, mentre si preparava per quel suo numero con il cane. Si pettinava di fronte allo specchio, si fermava i capelli con una molletta a forma di margherita. Non voleva che uno solo dei suoi capelli fosse fuori posto. Si lisciava la vestina con le mani, di fronte allo specchio, si disperava se si accorgeva che non era perfettamente stirata in qualche punto. “Credi che si vedrà durante lo spettacolo?” chiedeva girandosi verso la donna avvolta nella carta stagnola, che stava immobile e in silenzio sul letto. “Quando mi dovrò tirare su la vestina con un colpo preciso delle mani, stando a quattro zampe sul pavimento, e il mio cane correrà verso di me tutto contento... E queste scarpette di vernice? Ti pare che si intonino bene con il colore dei miei capelli?” Continuava a parlare, non sembrava accorgersi che la donna avvolta nella stagnola non rispondeva, non faceva un gesto. “Oh, accidenti, il fermaglio della collana non chiude bene! Chissà che figura farò se si slaccia durante le riprese!” Si era sentito un suono di clacson, dalla strada. “Il taxi!” aveva esclamato la bambina. “È già qui, devo andare. Allora ciao! Fammi gli auguri!” aveva detto prima di correre fuori alla donna avvolta nella stagnola, che continuava a stare immobile e silenziosa, con un braccio gettato fuori dal letto, luccicante. Era entrato nella stanza, di colpo, quel laringectomizzato, la fica gli aveva consegnato la busta sigillata che era stata incaricata di portare, aveva fatto in tempo a vedere, mentre se ne andava, che conteneva soltanto un foglio con un indirizzo.»

«Ma chi l’avrà incaricata di consegnare quella busta?»

«Chi lo sa! Avremmo idea di chi muove i fili di questa storia! Ma quella fica non lo sapeva, mi ha detto. Che poi non è proprio una fica, perché gliel’hanno aperta in sala operatoria con una lama, è un transessuale... Anche la bambina scomparsa. Il cane la cerca certe notti, nei set, va ad annusare le altre fiche che ci sono in giro, i buchi di culo, e poi si mette a guaire, mentre partono da tutte le parti quelle sparate, quelle mitragliate, e qualcuna comincia già a raschiarsi la gola nel cesso, si lava i denti, scaracchia, ferma di fronte allo specchio con la bocca scoppiata, tira fuori la lingua ustionata... Oh, sì, metti i piedi dentro la vasca anche tu. Ecco, ti abbraccio, schiaccio le mie tette contro il tuo corpo, tu il tuo pezzo di carne contro la mia pancia affamata, addormentata... Qualcun altro si lava il pezzo di carne sporco di merda sul lavandino, se lo pulisce velocemente con una di quelle salviette di carta profumata, se ha fretta perché deve raggiungere un altro set e il taxi è già di fronte al caseggiato, ad aspettare, qualcun altro comincia a togliere dal pavimento quelle macchie di sangue e di merda, i vetri rotti, se le riprese sono ormai sul punto di finire, mette via i cazzi di cristallo smerdati, fracassati, e a spazzare via unghie rotte, peli, gusci d’uovo...»

«Gusci d’uovo? Come mai gusci d’uovo?»

«Be’, ci sono per terra anche gusci d’uovo, certe volte, alla fine... Comincia a spostare le pareti prefabbricate, le mettono da una parte chiudendole a fisarmonica, in attesa di nuove riprese, come dei paraventi, si mette sottobraccio i fondali, ramazza i tubetti di lubrificanti, di emetici, se c’è stato qualche problema durante le riprese, è notte fonda... Fuori, intanto, si cominciano sempre più a riempire le strade, di quelli che escono di notte e solo di notte, quando è proprio notte, e che corrono già a testa bassa e con le braccia allargate, schizzano fuori qua e là dai buchi delle case, con i loro roller ai piedi, i loro trampoli luminosi, le loro protesi appena lavate, le loro fiche rasate, inanellate, le loro bocche siliconate e scoppiate, le loro gole tatuate, insanguinate, e quell’investitore si sta già muovendo pian piano, a fari spenti, il paraurti davanti è già tutto infangato, i tergicristalli continuano ad andare contro il parabrezza, come se piovesse, ma non piove, e quel suonatore di prepuzio ha già fatto da un pezzo il suo giro in bicicletta, in quel giardino, suonando la sua trombetta afona che nessuno sente, quell’imbutino di pelle un po’ trasparente, qualche istante prima che i cancelli vengano chiusi e gli spazi lanciati e scollati, incontrollati... Ecco, adesso ci siamo tutti, ci espandiamo. Nella mia mano il tuo pezzo di carne cresce sempre di più. Noi siamo di quelli che possono solo espandersi mentre già si stanno espandendo, possiamo solo chiudere gli occhi, possiamo sconfinare.»

Canto del suonatore di prepuzio

Sono uscito da quel giardino, da molto tempo, dopo avere completato il mio giro sui vialetti di ghiaia con la mia vecchia bicicletta. Ho suonato due o tre volte la mia trombetta, che a qualcuno può sembrare un prepuzio, come sempre, anche se so che nessuno la sente. È molto vecchia, non ricordo neanche più come l’ho avuta. Dovrei cambiarla, lo so. Ma non mi decido a farlo. In realtà non è una trombetta vera e propria, non so neanche che cosa sia, eppure a me sembra che a soffiarci dentro emetta qualcosa che a qualcuno potrebbe anche sembrare un suono, quando giro con la mia bicicletta per la città, da un punto all’altro, da un giardino all’altro, nell’ora in cui bisogna chiudere tutti i cancelli perché scende il buio. Mi sposto continuando a suonare la mia trombetta, ma nessuno la sente, continuano a fare quello che stavano facendo mentre passo di fronte a loro con la bicicletta, neppure fanno caso al fatto che c’è questo piccolo imbuto di fronte alla mia bocca, credono che sia una particolare conformazione delle mie labbra. Mi lascio alle spalle un posto, entro in un altro quartiere, faccio il mio ingresso in un altro giardino che chiude mezz’ora dopo, fino a quell’ultimo che chiude più tardi di tutti gli altri. Suono due o tre volte anche lì, se c’è ancora qualche bambino che si ostina a giocare per terra, e non sente il mio suono, non lo sentono neanche le donne che sono con loro, sedute a poca distanza sulle panchine in penombra, eppure corrono lo stesso a prenderli e quasi ad arraffarli acciuffandoli per un braccio, li portano fuori in gran fretta e con gli occhi sbarrati al solo vedermi passare. Qualcun’altra fa finta di non vedermi, o sentirmi, come quelle due che restano chiuse dentro per tutta la notte, certe volte, e vanno contro le cancellate tutte aperte e fosforizzate. Esco anche da quell’ultimo spazio. Il mio lavoro è finito. Potrei tornarmene a casa per la via più breve. Invece seguo tutt’altre strade, che potrebbero sembrare le più lunghe, le più insensate. Potrei starmene zitto e tranquillo a pedalare con le mani in tasca e il bavero del giubbotto rialzato, se c’è umido e freddo, invece continuo non so perché e quasi macchinalmente a suonare questo prepuzio, mentre la sera scende sempre di più, e poi la notte, e vedo uscire qua e là le prime figure ancora con gli occhi sbarrati, dalle case, e poi spostarsi per le strade quei gruppi tutti saldati e inculati, sfrecciano sui loro roller dalle rotelle incrostate, con passo sincronizzato, e poi gli stupranti e le stuprate, sento qua e là rumori di vetri rotti, quando ci sono bottiglie che vanno in frantumi nei contenitori o dentro le bocche, nei corpi. Sono ancora qui, ci sono ancora tutti. Continuo a suonare, andando così per molto, di notte, per le strade, seguendo un percorso sfondato, e andando a riattraversare le stesse strade arrivando da un’altra parte, da tutt’altra parte, e continuando a suonare di tanto in tanto questo prepuzio reggendolo con la mia mano un po’ intirizzita, con i guanti, se è inverno, anche se nessuno mi sente. Eppure mi accorgo che qualcuno, certe volte, ogni tanto, quando mi vede passare suonando questo prepuzio da cui non esce alcun suono, si ferma improvvisamente e mi guarda atterrito, come se da questa trombetta sentisse uscire un rumore spaventoso e potente, come un tuono.

Canto di Ditalina

Ecco, quel suonatore di prepuzio se n’è già andato da un pezzo, con la sua bicicletta. Sono uscita anch’io dal giardino, questa notte. Mi sposto attraverso le strade, mi vado a sedere col culo nudo sopra l’asfalto, scosciata, mi spalanco con le mani le labbra della fica rasata, tiro fuori bene l’anello, e poi tutta quella schiuma di carne che ingigantisce, ci stendo sopra quella polvere di fosforo che adesso viene prodotta anche in gel, e se la spalmano sulle fiche, sui cazzi, sui buchi del culo, nei set, quando spengono tutte le luci e si vedono da ogni parte quei bagliori inculati. Allargo ancora di più le mie lunghe gambe rasate, fino ad arrivare ai bordi lontani della via, con i piedi dentro le scarpe dai tacchi lucenti, di cristallo, e quando arrivano quelle fiumane dei roller me le devono oltrepassare con un saltello, oppure con uno smisurato passo in avanti di quelle sbarre lucenti, se sono i trampolieri. Preparo lentamente la mano, mi scopro il polso, lo muovo disarticolatamente, due o tre volte, nell’aria, allargo e richiudo ancora due o tre volte la fica, provo gli strumenti, mentre dalle parti, sui marciapiedi, cominciano a sventolare quei pezzi di carne pompati, siringati, e si sentono già i versi volanti degli stuprati, apro e chiudo ancora due o tre volte le gambe, per rilassare i muscoli delle cosce, e anche quelli che ci sono all’interno, piano piano. Comincio a toccarmi la fica fosforescente con la punta delle dita dipinte, entro appena un po’ in quella schiuma vivente, comincio a penetrare di più con le dita, mentre il taglio progressivamente si allarga, metto dentro a poco a poco tutta la mano, la sento serrarsi attorno al polso come un bracciale pulsante, salato, profumato. Qualcuno si getta oltre i bordi del marciapiede, con la lingua di fuori, per vedere. Li tengo a distanza agitando due o tre volte nell’aria il tacco di cristallo di una delle mie scarpe, tagliente, di fronte alle loro facce gonfiate, insanguinate. Ci eravamo persi di vista? Vi eravate dimenticati di me? Eccomi, sono qui!

Sollevo le gambe nell’aria, mi rovescio di più su me stessa, vedo quella schiuma bagnata traboccare fuori dalla mia fica, attorno al polso, mentre la mia mano dalle dita un po’ disossate comincia a lavorare là dentro, si distende. La tiro fuori dal taglio, di tanto in tanto, se qualcuno, da lontano, mi lancia qualcosa di suo da buttare dentro, un mazzo di chiavi, un’autoradio, una stecca di sigarette che si stava portando sottobraccio fino a un istante prima, per le strade. Li ficco dentro e poi glieli rilancio tutti glassati. Oppure quando il cellulare comincia a suonare improvvisamente là dentro, se ci ho ficcato per caso anche quello, quando mi arriva una telefonata di lavoro dalla Musa oppure da qualcun altro, e mi vogliono d’urgenza su un set, in qualche appartamento. Me lo accosto all’orecchio ancora tutto sfuocato, continuando a muovere l’altra mano dentro la fica fosforizzata. Scorgo certe notti una macchina dal muso tutto bombato che si ferma in mezzo alla strada, con i fari puntati. Sta immobile per qualche istante, di fronte alla mia fica abbagliata, sbudellata. «Che sia quell’investitore?» mi passa per la mente scorgendo davanti a me il muso dell’auto tutto incrostato. Mi aspetto di sentire il rumore del motore che sale di colpo, mentre la macchina si lancia con stridore di ruote contro la mia fica squarciata al centro della strada, e mi fa volare in alto come un pupazzo sbocciato, disossato. La mia mano continua a rumare, mentre l’uomo al posto di guida lavora di freno e frizione. Invece qualche istante dopo la macchina riprende a muoversi lentamente, scorgo appena il volto del suo guidatore dietro il parabrezza, nel buio, mentre ingrana con la mano guantata la marcia e riprende tranquillamente ad andare imboccando una strada diversa, non si capisce se sbadiglia con gli occhi socchiusi oppure sorride. «Allora non era l’investitore!» mi dico chiudendo gli occhi un istante. «Lui non avrebbe esitato, non si sarebbe rassegnato!»

Ficco dentro la mia mano ancora di più, muovo le dita un po’ disossate in posti sempre più interni, più profondi, sento che tutt’intorno la mia fica comincia a pulsare, si vede quella schiuma che comincia a gonfiare da sola, a eruttare, anche la mia gola comincia a pulsare, sento scaturire quei versi nuziali, primordiali, mentre le due file di denti sbattono l’una contro l’altra sempre più forte nell’orgasmo, scorgo un filo di saliva o di muco colare fuori lucente dalla bocca, dal naso. Sprofondo la mia mano ancora di più, anche un pezzo di braccio, nell’utero e poi ancora più avanti, sento passare contro le dita certe cose filanti, come visceri, nastri, organismi primordiali cigliati, irrealizzati, estraggo dallo squarcio grumi vischiosi ancora in fusione, in ebollizione, oggetti finiti là dentro e dimenticati che non riesco neanche più a riconoscere tanto sono smangiati, trasformati, coperchietti di bibite, cavatappi, campanelli di bicicletta, resti di nastro adesivo per imballaggio, spine della luce sbozzate, insanguinate, montature di occhiali plasmate, già un po’ digerite, e poi ancora quegli sputi stellati, insanguinati, altri scaracchi improvvisati e sdentati, un po’ trasognati, conficco le unghie in qualcosa come un progetto di testina appena abbozzata, imbalsamata, l’afferro per qualcosa che non si capisce se sono capelli oppure quei ciuffi di crini che mettevano un tempo sugli elmi, sui cimieri, ormai anche quelli tutti digeriti e smangiati, la tiro fuori facendola volare e roteare nell’aria bagnata, tutta addormentata, scorgo la sua forma scoppiare sopra l’asfalto come una vescica piena d’acqua dormiente, sfavillante, e quegli schizzi levarsi da tutte le parti incendiati, si sente solo, nel silenzio, il fragore che fanno i roller che vengono avanti a ondate, dall’aria che passa tra le dita delle loro mani sparate, sguinzagliate, mentre la testa di quell’altra è già entrata in azione poco distante. La sua bocca è tutta scoppiata, insanguinata, eppure mi sembra sempre di sentirla cantare, scintillare.

Canto di Pompina

Mi vengono dentro con i roller ai piedi, volando, con la cerniera dei calzoni abbassata, il cazzo duro puntato, fosforizzato, prendono una rincorsa lunga, sfrenata, quando scorgono da lontano la mia gola tatuata. Li vedo venire avanti gettando disarticolatamente dalle parti le gambe, le braccia, colgo appena il luccicare di paragomiti e ginocchiere, della punta dei loro cazzi scoppiati, sbandierati, che vengono avanti volando sempre più ingigantiti verso le mie labbra scoppiate, ricamate. Vedo schizzi di sangue e frammenti di labbra volare via dalle parti, quando si conficcano nella mia gola, sfondando il mio muso schiacciato con quelle rose di peli bagnati, insanguinati. Lo estraggono dalla mia gola sbocciata, sbudellata, prima di ricominciare a volare, a imperversare, mentre vedo venire già avanti sulle loro lunghe, filiformi sbarre lucenti di cristallo quegli altri che danno loro la caccia, i trampolieri. Qualcuno di loro solleva nell’aria una gamba, rimanendo in bilico su un unico trampolo, mi conficca nella gola l’altro trampolo, più volte, lo tira fuori e lo riconficca di nuovo, lo sento andare in frantumi nella mia gola, scorgo appena il volto del trampoliere, là in alto, mentre contrae più volte la gamba, la raccoglie e l’allunga, come uno stantuffo, per far penetrare sempre più in fondo la punta del suo palo scoppiato. Rigurgito i suoi frammenti che mi sono rimasti conficcati dentro la gola, mentre quello si allontana zoppicando un po’ sul suo trampolo fracassato, me li tolgo con la mano dalla carne della gola tatuata, sento arrivare da poco lontano gli urli degli stupranti, delle stuprate, qualcuno degli stupranti fa in tempo a conficcare il suo pezzo di carne ancora bagnato, me lo ficcano nella gola piagata mentre è ancora sporco di merda, quegli inculatori, un istante prima di ricominciare a fuggire, a inseguire. Mi tirano dentro bottiglie appena scolate, fracassate, lanciate dai finestrini delle auto che passano con stridori di freni, vengono a conficcarsi dentro pezzi di carne in stato di avanzata necrosi, irrigiditi da protesi interne, da pasticche, iniezioni, li vedo scappare coi loro cazzi ancora inastati, ossificati, mentre colano dalla mia bocca le loro mitragliate marcite, suppurate. Mi abbasso di più con la testa, quasi a filo con l’asfalto lordato, sbudellato, perché un’auto sta venendo verso di me in retromarcia, spalanco ancora di più il cratere della mia bocca, per prendere dentro il mozzicone rovente del suo tubo di scappamento che ci si conficca dentro tutto annerito. Vedo, nonostante la bocca piena e gli occhi quasi proiettati fuori dalla pressione tremenda contro il volto dalla gola scoppiata, qualcosa di luccicante balenare poco lontano, in un punto un po’ sollevato dall’asfalto, riesco a distinguere l’immagine di un uomo tarchiato e dai capelli rasati che porta tra le braccia una forma allungata, abbandonata. Si crea un assoluto silenzio, all’improvviso. Non capisco che cosa sia, sembrerebbe un corpo femminile sigillato in qualcosa di luccicante e increspato, come carta stagnola, a vederlo con gli occhi schizzati, dal basso, dall’asfalto, mentre tutt’intorno il silenzio è radente, impressionante, non uno stridore di freni, non un verso che esca da una di quelle gole o di quelle fiche straziate, dappertutto, di colpo, cessano all’istante anche quei rumori di passi in corsa, dei roller, di quei trampoli tutti sbocciati, si arrestano tutti quanti là dove sono, si alzano in piedi, se erano a terra sfasciati, eviscerati, qualcuno si comincia già a fare da parte, si apre come un corridoio, poco per volta, pian piano, sull’asfalto, mentre l’uomo rasato viene avanti a passi silenziosi e solenni, col suo carico abbagliante tra le braccia, per lasciarli passare, sconfinare...

«È lei!»

«Ma no, no! Non è detto! È troppo presto! L’hai fatta entrare in scena in modo sbagliato. E troppo presto!» si disperò il Gatto. «Hai voluto fare di testa tua. Ormai non ti si tiene più, sei partito. Ma qui non abbiamo ancora un titolo, siamo in alto mare con le istruzioni. Devo correrti dietro così, zoppicando, perché tu non vada avanti troppo sbilanciato e sfasciato. E poi tutta questa merda che esplode, questa luce... Oh, sì, cazzo, ho trovato! Il titolo potrebbe essere Merda e luce, già che ci siamo, a questo punto! Eh? Che cosa ne dici? Che cos’hai? Cosa ti sta succedendo? Sei diventato bianco come un lenzuolo! Che cosa ho detto che non dovevo dire? Dove ho sbagliato? È un tuo titolo futuro che dovevo tenere coperto? Oh, cazzo, non mi venire meno proprio in questo passaggio! Va bene, va bene, come vuoi tu, questo titolo lo ritiro, per questa volta, sta’ tranquillo, che stia tranquilla anche quella là, in piedi nella vasca da bagno, che ti sta lavorando. D’accordo, d’accordo, allora cambiamo, che problema c’è, non ci vuole niente... Però andava bene, credi a me! Tientelo a mente per il futuro, quando non vorrai avere più niente a che fare con tutto quanto. Ma non fa niente, come non detto. Chi se ne frega! Allora, vediamo... Ah, ecco, ho trovato! Semplicità assoluta! Perfetto! L’uovo di Colombo, si potrebbe anche dire, o meglio l’uovo del Gatto, in questo caso... Eh, cosa ne dici?»

«Ma di che cosa?»

«Non te l’ho detto? Oh, cazzo, certe volte ormai mi succede, quando devo tenerti dietro di corsa, e il mio scarponcino deve fare un passo mentre sta facendo già un altro passo... Il titolo è questo: Il Gatto e il Matto

«Eh?»

«No, ma adesso non incazzarti! Potrebbe essere anche Il Matto e il Gatto, se preferisci, beninteso... Eh? Cosa ti succede? Cosa fai con la bocca? Stai succhiando qualcosa? Una di quelle caramelline che tiri fuori di tanto in tanto, tutte un po’ inchiccolate, dalle tasche? In mezzo alle briciole e alle monetine e ai fazzoletti un po’ mineralizzati. Mah... Non so più cosa dirti. Il mio compito è duro, qui dentro. Devo fare da spalla a chi mi fa da spalla. La mia nascita somiglia sempre più alla catastrofe luminosa dell’alba. Conviene, a questo punto, dichiararlo a gran voce, ai quattro venti: questo libro non ha ancora un titolo! Però va avanti! Va avanti verso il suo cominciamento, il suo inveramento, come un animale che combatte da solo, di notte, e non sa ogni volta dove conficcherà i denti, le unghie, mentre tutt’intorno, nel silenzio, nel buio, vanno i movimenti ciechi degli schizzi di sangue, delle costellazioni. Io ne sono, ne sarò l’editore. Anche se ho pagato un prezzo tremendo per questo. Eppure mi divincolo già in cerca, a mia volta, della Musa, se c’è, se ci sarà una musa anche per me. Ecco, le parole mi sono uscite per la prima volta di bocca, sono state finalmente pronunciate. Adesso riprendiamo il cammino, come se niente fosse, andiamo avanti. Che cosa avevamo detto? Ah, cazzo, i cellophanatori! Come si fa a pensare di fare un libro simile senza avere prima parlato con i cellophanatori?

Ai cellophanatori

Perché mi rivolgo a voi? mi direte. «Cosa c’entriamo noi? Cosa possiamo fare noi? Ci limitiamo a cellophanare libri di cui non sappiamo niente, di cui non ce ne frega niente, come viene viene, ogni tanto cambiamo il rullo della pellicola di cellophane trasparente, nelle tipografie, in quei bugigattoli delle case editrici, nei retro delle librerie, dei magazzini dei distributori. Nessuno ci ha mai detto niente, ci ha mai chiesto niente.»

Oh, no, vi sbagliate! Voi siete l’anello più importante della catena, il più decisivo. Io seguo il vostro lavoro, conosco il movimento che effettuate con la mano, col polso, facendo passare un libro dopo l’altro, in piedi, di fronte alla macchina, prestando attenzione che lo spigolo non sfori, soprattutto se si tratta di uno di quei libri rilegati dagli angoli appuntiti, perché poi non si laceri sempre più la cellophanatura, e tutto il libro non venga pian piano fuori, si scappelli, sul banco del libraio, nello scaffale dei best seller di un supermercato, quelli che mettono sempre appena entrati a destra, con lo sconto del venti per cento, e qualcuna va sempre a sbirciarli, a palpeggiarli, magari dopo avere soppesato con la mano un cabaret di fegato, al banco delle carni, e le è rimasta sulle dita dalle unghie smaltate un po’ di quell’acquetta che cola sempre fuori dalla confezione, preparata nel reparto macelleria dai vostri colleghi cellophanatori in grembiule bianco tutto ditato di sangue, oppure dopo avere palpeggiato un tubetto di maionese confezione paghi due prendi tre, e magari averlo assaggiato non vista, sbirciando a destra e a sinistra nel corridoio dopo averlo forato col retro del tappo furtivamente svitato, dandogli una tirata con le labbra dipinte, e averlo riposto vicino agli altri con le guance improvvisamente ingrassate, e passandosi poi le dita sulle labbra, fulmineamente, per sicurezza, nel caso fosse rimasta un po’ di maionese sopra il rossetto, mentre lì vicino sta magari passando come se niente fosse quell’eiaculatore intento a fare provviste nella pausa tra un set e l’altro, e ha il carrello pieno di confezioni di uova e scatolette e liquori, mentre altri cellophanatori stanno arrivando con i carrelli pieni di cabaret di cavolfiori di dimensioni abnormi sotto quella pellicina tirata, trasognata. Rimane sopra lo spigolo scappellato uno sbuffo di maionese, dopo che ha staccato le dita dalle labbra per palpeggiare un po’ il libro.

Vedete bene quant’è decisivo il vostro lavoro! Solo poco tempo fa, pochi anni fa (ma qualche volta capita ancora di vederli, di tanto in tanto), si trovavano sui banchi delle librerie quei libri dai bordi impolverati, in stato di avanzata putrefazione, quasi neri, si potevano distinguere una per una le fisionomie dei microrganismi che sguazzavano dentro la polvere, ingigantiti e sfrenati, si staccava dalle loro superfici come una specie di lebbra dentata, sguinzagliata. Oppure, anche adesso, capita ancora di vedere qualche libro cellophanato eppure sbrecciato. Si crea un punto o una bolla qua e là dove la cellophanatura si è aperta, è scoppiata, vicino al punto di sutura, a quella cucitura gommata, vaginata, si vede quella macchia di polvere nera, isolata, quando qualcuno magari compera il libro e poi lacera la cellophanatura penetrando col dito in quella lesione, mentre scende con la scala mobile in una stazione della metropolitana. Svolazzano certe volte quelle cellophanature annerite e tagliate, impolverate. Per forza che poi i libri invecchiano presto! Che ci sono in giro tutti questi libri datati, oltrepassati! La ragione è questa. Cosa credete?

Adesso capite perché mi rivolgo a voi per questo libro prima ancora che a molti altri, distributori, commerciali, bibliotecari, librai... Io non so ancora quando e come pubblicherò questo libro, se mai comincerà, se mai esisterà. Se in edizione rilegata oppure in brossura, con gli spigoli meno taglienti, meno perforanti. Ma se anche decidessi di farlo in edizione rilegata, ammesso sempre che il libro salti fuori, alla fine, si precisi, raggiunga lo stadio della sua formazione, della sua generazione, vi chiedo di usare un particolare riguardo, in questo caso. Passateci sopra una volta, due volte, se necessario, fate attenzione che non si formino dei piccoli squarci vicino a quelle zone sessuate, dove quelli che girano per le librerie, i supermercati, vanno sempre a ficcare il loro dito, monocromo o colorato, e forzano sempre di più l’apertura sbirciando verso il commesso per accertarsi che non stia guardando da quella parte, o l’obiettivo della telecamera di sorveglianza, in modo da riuscire a carpire qualche riga all’interno, dove si dice che lei si sta lavando le ascelle e lui le bretelle, per cercare di leggere il risvolto di copertina scritto da un omeopata dalle sopracciglia di spugna. Restano alla fine qua e là sopra i banchi quelle carcasse di libri dalla cellophanatura lacerata o tagliata. Oh, no, non lo sto dicendo perché se no nessuno mi acquista il libro, in questo caso. Non mi importa se nessuno si sente di comperarlo. Ha tutta la mia comprensione, d’altronde, in questo caso, se nessuno si accorgerà della sua esistenza, o se tutti si accorgeranno della sua esistenza ma nessuno mostrerà di notarla. Ci sono sempre certe cose che si vedono senza vederle, solo se non le vediamo le vediamo. No, no, non è questo il problema. A me interessa solo che arrivi intatto... non voglio dire alla meta perché non c’è una meta... che arrivi intatto dove ancora non so, passando indenne dai banchi delle librerie, dalle colonnine scontate dei supermercati, attraverso i flussi in resa dei distributori ai magazzini della casa editrice («Oh, cazzo, ma quante rese!» esclamerà il commerciale veden3dole ritornare, andando su e giù per il corridoio della casa editrice con la camicia aperta sul petto impellicciato) e poi attraverso la rivendita a prezzi dimezzati, i remainders, in mezzo alle cataste di libri d’arte con le riproduzioni dai colori sbagliati, spiritati, quella pala del Giorgione con quella fica che sta seduta là in mezzo, le sono venuti gli occhi color arancione, ha il foulard a pois viola su fondo marrone, l’assorbente tutto sfuocato, inamidato. E poi i capannoni del macero, tutti pieni di polveri e di matasse monumentali di striscioline di carta alte fino al soffitto, e poi sui camion caricati fino a scoppiare di quei gomitoli tutti scassati, verso i bagni acidi dissolventi, sbiancati dalle riciclature, e poi nuova carta stampata, sbrigliata, sciroppata... A me basta che una sola copia di questo eventuale libro futuro, ben conservata, perfettamente cellophanata, riesca a salvarsi da qualche parte, a passare indenne, e che poi arrivi, attraverso combinazioni e passaggi inesplicabili, nelle mani, anzi nelle pinzette di lettura sensorializzate di qualcuno o qualcuna, o qualchessente, o qualchente, nel cosiddetto futuro. Lo afferrerà per l’assunzione interattiva di tipo xj, azionerà i parametri di decifrazione possibili, galleggiando su altre e del tutto diverse interazioni mentali, fonemi, sospeso diagonalmente in un box di rigenerazione. «Oh, czz (così diranno, vibrazionalmente, in quel tempo, per dire cazzo)! Guarda qui cos’ho intercettato!» dirà assimilandolo in centrifuga lobotemporale. «Sembra l’esplosione di processi istologici di un pneuma alfabetico di tipo tre» si dirà scambiandolo per un manuale di cefalonautica paratattica del periodo cazzionico. «Non c’è che dire: ho fatto davvero un bel colpetto!»

Basta così. Non vi dico altro. Adesso sapete che cosa mi aspetto da voi!

Canto delle esplose

Noi invece non siamo cellophanate, non ci facciamo problemi di navigazioni stellate, sigillate. Siamo così aperte che non siamo neanche più aperte, siamo esplose. Quando apriamo le bocche scoppiate, e tiriamo fuori le nostre lingue squarciate, sbudellate (come se le stessimo srotolando per scherno dopo avere dato due o tre morsi a un hamburger). Quando apriamo la fica siliconata e scoppiata, in giro durante la notte, nelle strade, nei set, come se ci avessero sparato dentro una manciata di cervello appena strappato, ancora trasognato, lanciato da molto lontano con un tirasassi dalla tasca bagnata, con gli occhi chiusi nel vento, nella corsa. Ecco... si sentono già da tutte le parti le piaghe delle nostre aperture aprirsi a ventaglio, pullulare. Non più percorsi prevedibili, preordinati, della bocca, della fica, del retto. Le nostre strade sono crateri, bisogna aprirsi un varco al loro interno come in un magma insanguinato che non sa, non ricorda, si apre e si richiude continuamente su se stesso, non fa in tempo a cicatrizzarsi, a saldarsi che di nuovo vengono squarciate, di nuovo inaugurate. «Che cosa sono le strade?» ci domandiamo guardandoci attorno mentre siamo ferme e spalancate a un crocicchio oppure nei seminterrati adibiti a set, e c’è solo buio e silenzio, tutt’intorno, qualcuno o qualcuna dorme già per la stanchezza, con la bocca rovesciata e squarciata, un fiocco di carne che sboccia fuori dal culo smerdato, ancora insanguinato, tutt’intorno quella luce fosforizzata. «Come possono venire chiamate strade quelle che non si aprono per la prima volta e ogni volta come se fosse la prima volta?» Scorgiamo appena qualcuno che stacca il suo pezzo di carne impastato, imprecisato, prima di andarlo a conficcare in un’altra apertura tutta schiumata, si gettano dentro a occhi chiusi con le mani, la bocca, con la testa, la tirano fuori tutta insanguinata e ingellata. «Che cosa posso mai fare per voi?» ci chiede sbarrando gli occhi quel ginecologo spastico, quando spalanchiamo di fronte a lui i nostri squarci. Prova a centrarli con quella luce da minatore che ha al centro della testa, comincia a prenderli a pugni facendo scattare asimmetricamente le sue braccia snodate. «Non si distingue più niente!» lo sentiamo smaniare. «I genitali esterni, il condotto della vagina, dell’utero, non c’è più traccia di tessuto muscolare, di membrana, impossibile individuare qualcosa che possa far pensare al fornice, al muso di tinca, alle trombe uterine, non parliamo poi dell’uretra... Tutto quello che ho studiato, su cui mi sono preparato, tutte le vagine esplorate, sezionate, negli ospedali, negli obitori, spostandomi con i miei scatti impensati... Non c’è più niente di tutto questo di fronte ai miei occhi. Illumino con la mia lanterna da minatore un paesaggio bombardato e inventato, scorgo appena sul suo fondo il proiettile di un’altra testa mestruata, maciullata, se provo a guardare ancora più avanti tra uno scatto e l’altro della mia testa.» Sale nelle strade quel silenzio che c’è ancora più in alto, vanno nel suo vento quelle poltiglie innescate, battono tutt’intorno quei martelli schiumati, mentre socchiudiamo appena un po’ gli occhi nella penombra stellata, scorgiamo appena il bagliore di un pezzo di carne fosforescente, di cristallo, un bagliore ancora più silenzioso e più grande, certe volte, quando fa il suo ingresso quell’uomo tatuato, con quella donna accecante tra le sue forti braccia, si scorge solo il luccicare di quella carta stagnola che l’avvolge da tutte le parti, come se la stesse andando a deporre in un forno a microonde.

«Hai visto? Lo sapevo! È riapparsa!» sussurrò la Musa da infinitamente vicino, con la bocca contro il mio collo e poi contro il petto, e poi ancora più giù, contro il ventre.

Scorgevo l’ombra del suo corpo nudo che si abbassava facendo ruotare di lato le ginocchia piegate, contro lo smalto della vasca dal fondo allagato, emozionato.

«Vieni qui, vieni qui!» sussurrò dal basso. «Anche se sei già qui, sei ancora qui. Mentre ti prendo in bocca il pezzo di carne, e poi riprendo a salire verso i fianchi, le anche, poi di nuovo verso il culo, la bocca. Io non sento niente, non sento più niente, neanche certe voci che arrivano alle mie orecchie, che cercano di arrivare alle mie orecchie, di colpo, da dentro, da vicino. Sono con te, qui con te, sono io la tua Musa. Non penso ad altro, non ricordo altro, non esisto per nessun altro, sono conficcata anch’io a testa in giù in questo sfacelo nuziale. Il tuo cazzo è conficcato nella mia bocca gemmata, vellutata, mi apro di fronte a te come una bolla rosata, tutta mitragliata, mentre tu cresci a dismisura dentro di me. Eppure siamo ancora all’inizio, sempre e solo all’inizio. Noi cominciamo sempre più avanti, sempre un po’ più avanti, le nostre bandiere sventolano dove il vento non è ancora iniziato, non è stato ancora pensato, immaginato, mentre lavo tutto il tuo corpo con la mia bava, con l’acqua, con le mani, in piedi di fronte a te nella vasca, in questo cesso abbagliato, oltrepassato, e poi in ginocchio, accucciata, per lavarti e accarezzarti e baciarti, con le mani dalle unghie dipinte, con le labbra, e poi trascinarti giù sul fondo di questa vasca, e ancora abbracciarti e accarezzarti e baciarti, ti faccio crescere ancora, ti preparo ancora, noi non finiamo mai di cominciare, non cominciamo mai a finire, mentre anche tu mi abbracci e mi accarezzi e mi baci, rotolando in questo velo d’acqua stellata, addormentata, e mi lavi a mia volta, mi prepari, prima di portarmi tra le tue braccia nel nostro letto nuziale, passi le tue mani tutte sfigurate e bagnate sulle mie tette come appena sbocciate, e poi sulle anche, sulle cosce, sul culo, sulla mia fica tutta vellutata e sborrata, e io intanto ti vengo vicino con la mia bocca bagnata, addormentata, e mentre respiro e ti bacio chiudo gli occhi, gemo, sospiro, ti parlo, ti racconto, come deve fare una musa. Ecco, adesso anche quella donna avvolta nella carta stagnola è ricomparsa. Sono sulle sue tracce. E c’è un fatto nuovo: ho trovato quella bambina!»

«Quella che ha passato qualche giorno con lei in quell’appartamento?» le dissi gemendo. «Ma non era scomparsa?»

«Sì, era scomparsa. Ma era il nostro unico filo. Per questo non mi sono data per vinta. Ho fatto girare la voce, sui set. Vedevo di tanto in tanto quel cane che vagava annusando fiche e culi qua e là. Abbassava le orecchie, guaiva. Poi è scomparso anche quello. “Ma dov’è finito quel cane che faceva un numero con la bambina?” ho provato a domandare. Niente, nessuno sapeva niente. Qualcuno dice di averlo visto per qualche giorno girare vicino ai set, pisciava sopra la porta e poi spariva, frugava col muso nei bidoni delle immondizie. Poi più niente. Però una volta, mentre mi stavano scopando al buio, da dietro, con un pugno e un braccio fosforizzati, una ragazza nera fuori campo, venendomi vicino con le labbra tutte ancora sparate, mi ha detto: “Piacerebbe anche a me sapere dov’è finito quel cane... Quella bambina non si dà pace, lo cerca”. “Ma perché?” le ho chiesto. “Tu sai dov’è? La conosci?” “Be’, sì... l’hanno spostata da un’altra parte, adesso le fanno fare un numero ancora più forte... Hanno dovuto far perdere le sue tracce, per ragioni di sicurezza. Ma lei ha nostalgia del suo cane, lo cerca.” “Come fai a saperlo? Dov’è? Dove sta?” ho provato a dire, mentre quell’altro continuava ad andare col suo pugno lucente. “Sta con Principessa!”»

«Principessa? Chi è questa Principessa?» provai a domandare a mia volta, con la faccia contro la carne della mia Musa, a occhi chiusi.

«Oh, sì, continua a baciarmi qui, ad accarezzarmi, a palparmi. Lo vedi? Sono stata brava. Sono io la tua Musa. “Chi è questa Principessa?” le ho chiesto anch’io. “È una che conosco, che è venuta con me da lontano” ha cominciato a dire con la voce sfalsata, perché nel frattempo le avevano inquadrato la bocca intenta a simulare un orgasmo mentre una da dietro la stava inculando con un cazzo di cristallo smerdato. “E poi dove sta questa Principessa? Puoi portarmi da lei?” le ho chiesto ancora buttando avanti più che potevo la faccia. “Sì che posso” mi ha detto rovesciando gli occhi e tirando fuori mezzo metro di lingua, quasi contro il disco tutto sparato dell’obiettivo, “non dovrei, ma lo faccio. Finito qui ti accompagno, se vuoi.”»

«E ci sei andata?»

«Certo che sono andata! Il taxi scendeva senza rumore, di notte, per le strade... “Non accende il motore?” ho chiesto senza pensare al guidatore. “È già acceso” ha risposto. Eppure non se ne sentiva il rumore, come se seguisse strade fortemente inclinate e l’uomo andasse con la frizione schiacciata per risparmiare sul carburante. “E poi questa città si stende in pianura!” ha detto ancora, senza girarsi. La nera seduta al mio fianco si guardava macchinalmente in uno specchietto che aveva tirato fuori dalla borsetta, e intanto sbadigliava. Scorgevo dentro il piccolo specchio il bagliore dei suoi denti e della sua lingua molle e chiara e come fosforizzata, mentre si inabissavano dalle parti gli spezzoni dei palazzi ancora qua e là illuminati, e poi nuove strade più vaste, addormentate. Volavano ai lati, di tanto in tanto, scorci di volti impensati, impiastricciati, in corsa con la testa girata, arrovesciata. Poi solo insegne pubblicitarie sopra quelle torri salpate, segno che stavamo scendendo già lungo la periferia, e nessuno dentro l’auto parlava, lo specchietto al mio fianco aveva smesso di sbadigliare, la mano del taxista tremava un po’ sopra il volante impellicciato. “Ma qui intorno è tutto bagnato” mi sono accorta d’un tratto, tastando con la mano sopra il sedile, “è tutto insanguinato!” Il taxista taceva, respirava. “Che cos’è successo qui dentro?” gli ho chiesto. “Cosa vuole che sia successo?” ha risposto chiudendo per un istante gli occhi nello specchietto retrovisore. “Il nostro è un mestiere particolare: giriamo le spalle ai clienti! Non lo so bene cosa succede là dietro, devo tenere gli occhi bene aperti sulla strada. Ma certe volte sento dei colpi, dei sospiri. Qualcuna piange da sola, mi accorgo solo alla fine che ha la lingua quasi completamente staccata da un morso. Sento distintamente il rumore del sangue che sgorga, mentre la macchina continua ad andare senza fare rumore. Le raccolgo certe volte con le ossa spezzate, in abiti estivi mentre siamo in pieno inverno, tutte fradicie d’acqua, la faccia deformata dai pugni, massacrata. Battono contro i vetri del taxi con le mani dalle palme un po’ insanguinate, mentre passo... Che cosa credeva? Pensava di fare una passeggiata? Non li legge i giornali! Non lo sa che ora è? Ha qualche problema a continuare questo viaggio?” “No, no, stia tranquillo” ho risposto, “non mi spavento per così poco. Lei pensi a guidare!” Non ha detto più niente. La nera al mio fianco aveva posato la testa sulla mia spalla, mentre la macchina continuava silenziosamente ad andare, come se la strada di fronte a essa cedesse. “Ecco, siamo arrivati!” ha detto il taxista d’un tratto. Sono scesa, ho pagato. “Ma qui è tutto buio e deserto, non c’è niente!” ho detto guardandomi attorno, mentre il taxi era già ripartito. “Loro due stanno qui, ci siamo contro” ha detto la nera rovesciando improvvisamente la testa. Eravamo proprio contro un grande caseggiato isolato, così buio e vicino che quasi non si vedeva. I tacchi delle mie scarpe affondavano in qualcosa che non sembrava soltanto terra non asfaltata. Poi la nera ha suonato uno dei campanelli, andando con mano sicura alla griglia di un citofono dalla luce spenta, lì vicino, mentre con l’altra mano si toccava i jeans un po’ bagnati di sangue sul culo. Ha risposto, dopo un po’, una voce assonnata, rauca. “Un’altra nera...” mi sono detta, mentre ci inabissavamo già nel caseggiato dall’ingresso e dai corridoi bui e deserti, fino a una porta dallo spioncino scoppiato. “Che cos’è successo? Perché sei venuta a quest’ora?” si è allarmata la nera che è venuta ad aprire, barcollando sui piedi nudi, assonnata. Poi mi ha vista. “E quella chi è? Cosa vuole?” “Sta’ tranquilla” le ha detto l’altra nera, “è dei nostri. Vorrebbe solo parlare un po’ con quella bambina.” “Adesso dorme!” ha detto la nera, Principessa, spostandosi un po’ per farci entrare. Su uno dei due letti che c’erano nella stanza una bambina stava dormendo coricata su un fianco, in pigiama, sulle coperte, incurante della luce accesa. “Perché vuoi parlare con la bambina?” ha chiesto Principessa girandosi verso di me. Aveva su una guancia due segni della scarificazione rituale, paralleli, i piedi nudi sul pavimento, dalle unghie dipinte. “Vedo sempre quel suo cane, in giro, da solo...” le ho detto soltanto. Si è messa a sedere sul suo letto. Ci siamo sedute anche noi, mentre la bambina continuava a dormire con la faccia quasi completamente nascosta dai capelli. “Oh, sì” mi ha detto animandosi un po’, “anche lei pensa sempre al suo cane. Ne parla sempre. Lo cerca. Dove sarà finito? mi dice. Perché non posso più stare con lui, fare quel numero assieme a lui? Si sentirà solo. Io gli tenevo pulite le zampe, le unghie, le orecchie... perché adesso l’hanno spostata a roba ancora più forte, cose che non sono in circolazione nelle sale, circuiti esclusivi, da amatori...”»

La vasca sbalzava, scintillava.

«Oh, no! Che altro ancora le fanno fare?» provai a domandare con la bocca contro la Musa.

«Non te lo so dire. Ci sono cose che persino io ignoro. Ho provato a chiederlo a Principessa. Mi ha detto che non lo sapeva bene neppure lei. “Vanno dietro una tenda” ha detto abbassando leggermente la voce. “Ma cosa succede là dietro?” le ho chiesto ancora. È stata a lungo in silenzio. “Nessuno lo sa. Non si sente niente” ha detto dopo un po’, muovendo appena la sua grande bocca sbocciata, “va là dietro soltanto un operatore, gli mettono addosso un grembiule di plastica gialla. Certe volte portano di là anche un idrante. Ma c’è già qualcuno, o qualcosa, là dietro, che nessuno ha mai visto. Non si sente niente. Neanche la voce della bambina si sente. Non ha mai detto niente. Gliel’ho chiesto, una volta, mentre si preparava per andare a dormire, e si profumava dietro le piccole orecchie, di fronte allo specchio. Ha stretto le labbra, è impallidita. Spazzolami i capelli, Principessa! mi ha detto gettando un po’ indietro la testa. Certe volte va là dietro anche un uomo con lo stetoscopio, ho saputo, lo chiamano gridando con quel modo di gridare che hanno loro, sottovoce. La bambina esce dopo un po’ coperta solo da un accappatoio di spugna che tiene chiuso con tutte e due le mani. L’aiutano a camminare. Trema un po’, è intirizzita. Ha la testa fradicia, le labbra tirate, bianche. Mi prendo cura di lei, quando la riportano a casa con l’auto. Le faccio bere qualcosa di caldo. Le lavo la piccola fica insanguinata. Comincia a prendere un po’ di colore, ma continua a restare in silenzio, assente. Allora, com’è andata quest’oggi? È stata dura? provo a domandarle per cercare di farla parlare. Ma no, neanche tanto! mi dice continuando a guardare da un’altra parte, d’altronde deve pur esserci qualcuno che fa questo numero! Le spalmo un po’ di crema per la notte, sul viso, anche se la sua pelle non ne ha ancora bisogno, anche se non è notte. Così, tanto per avere la scusa di accarezzarla...” La bambina continuava a dormire, veniva dalla sua parte un piccolo respiro profondo, vellutato.»

La Musa mi baciava e intanto parlava, respirava.

«E quella donna avvolta nella carta stagnola?» provai a domandare.

«Ho aspettato un po’ a chiedere di lei, perché eravamo rimaste tutte e tre a guardare quella bambina che dormiva. Ma poi gliel’ho domandato. “Sì, è vero” mi ha risposto Principessa passandosi la mano dalle unghie dipinte sulla matassa crespa dei suoi capelli, “ha diviso per un po’ di giorni una stanza con lei. Ma quella donna dormiva sempre, mi ha detto. Le chiedeva ugualmente le cose, le parlava, andando vicino al suo letto, mentre quell’altra dormiva con una gamba buttata in fuori, argentata. Ti sembra che questo colore si intoni con quello della gonna? Ti sembra che questo trucco mi invecchi? Quell’altra continuava a dormire. Poi una notte, mi ha detto, l’ha sentita bisbigliare qualche parola, forse mentre sognava...” “Ah, sì? Cos’ha detto?” ho provato a chiedere a Principessa. “Non me l’ha voluto dire. Si è irrigidita. Aveva una voce... mi ha detto soltanto. Che voce? Che voce? E che cos’ha detto? Ha stretto le labbra, è impallidita. Ho dovuto accarezzarle un po’ il collo per farle riprendere un po’ di colore.” “Glielo posso provare a chiedere anch’io?” ho domandato a Principessa, trattenendo il respiro. “È molto stanca” ha risposto, “ha avuto una giornata tremenda. Sta riposando. Non azzardarti a svegliarla!”»

La Musa mi teneva tra le sue braccia, mi continuava a baciare, a far deflagrare.

«Ma chi è questa Principessa?» provai ancora a dire. «Da dove viene? Che cosa ci fa qui in mezzo?»

Canto di Principessa

Non lo so cosa ci faccio qui in mezzo. Vengo da un villaggio centroafricano e sono una bantu.

Qualcuno di voi mi avrà probabilmente visto, una volta o l’altra, mentre mi spostavo con la metropolitana, le mie grandi cosce strette nei fuseaux dai colori squillanti, i miei piedi neri stretti nelle scarpe da ginnastica scalcagnate, oppure in quelle coi tacchi, le palme più chiare, le unghie dipinte, oppure lungo uno dei viali dove andavo a battere fino a pochi mesi fa, con le altre puttane africane. Tutte in fila, con i soli stivali dagli alti tacchi vertiginosi sulle cosce nere e possenti, comperati a stock nelle svendite, in plastica lucida, che taglia la carne, in similpelle, qua e là rovinati, usati la sera prima da un’altra e non sempre della misura giusta, con le tette completamente fuori dal body, o con una di quelle minigonne che non arrivano quasi neanche alla fica, perché si possa indovinare anche da molto lontano quel ciuffo di paglia di ferro che abbiamo in mezzo alle gambe, le parrucche dai capelli stirati, il pappa nero e smilzo appoggiato al muro di uno di quei palazzi, col cappello storto, lo stesso che sarà venuto a prenderci alla stazione, quando arrivavo con le altre da una diversa città, a scompartimenti interi, e poco prima di arrivare a destinazione cominciavamo ostentatamente a truccarci, a mascherarci, passandoci l’un l’altra i rossetti fiammanti da spalmare sulle nostre grandi bocche sbocciate, esagerate, i fondotinta chiari, le creme, gli smalti, da spennellare sui nostri piedi dalle piante larghe di chi è abituato a camminare senza scarpe sopra la polvere secca, gli escrementi, dalle unghie più chiare, e che ci avrà intruppate in cima al binario, e poi portate in branco in qualcuno di quei capannoni industriali dismessi dove distribuiscono sgarbatamente i vestiti che ci servono per la notte, se non siamo già pronte, ed è tutto un buttarsi in avanti per scegliere quello che più piace, dal mucchio, e uno strapparselo di mano l’un l’altra, in mezzo alla sporcizia, agli afrori, gente che si cambia le mutande litigando o ridendo, togliendosi l’assorbente interno, che cerca di entrare nei body due misure più stretti, con la lingua fuori, facendosi aiutare da qualcun’altra, da dietro, incontrata o riconosciuta poco prima, per caso, proveniente dallo stesso villaggio o dal villaggio vicino, che parla quasi gridando lo stesso dialetto, mentre il pappa là in fondo guarda incazzato, anche quelli che si occupano dei biglietti del treno, dell’affitto del capannone, dei vestiti, delle parrucche, e delle percentuali per gli altri pappa degli altri paesi, nei diversi passaggi, bianchi e neri e di tutti i colori, dell’organizzazione che ci sposta dall’Africa fino a qui, con gli aerei, con i fuoristrada attraverso le piste delle savane, il deserto, con le navi, coi treni, e poi domani chissà dove, provvedono al ricambio di carne fresca, rimandano indietro quella troppo malata, fanno sparire i morti... e ce ne sono di serere e di fulbe e di haussa e di bororo e di yoruba e di ibo, e alcune sono quasi bambine, litigano tra di loro per un fermaglio, per un fondotinta, si riconoscono, fanno amicizia, come sempre succede ai ragazzi che vanno assieme alla guerra. E poi sopra i marciapiedi, di fronte a quelle auto che continuano lentamente a passare, il guidatore con la testa fuori, gli abbaglianti per vederci meglio mentre stiamo tutte in fila impalate e lucenti e infantili e altere, di fronte alle pensioncine delle circonvallazioni che lavorano solo per quello, tutta notte, in attesa che qualcuno ci porti là dentro, oppure sul sedile di dietro di un’auto, in qualche posto poco distante, per terra, senza lavarsi tra un cazzo e l’altro, vicino a qualche discarica, a fianco delle rogge, oppure direttamente sul posto, coricate sopra l’asfalto dei viali tra una macchina e l’altra, il culo tutto spellato e graffiato quando ci alziamo sborrate, mitragliate, oppure un po’ insanguinate, se ci hanno messo per terra a quattro zampe, le cosce nere e bagnate, e ce ne sono di scoppiate, drogate, le bocche spompinate e squarciate, sbudellate, culo e fiche schiumati, lacerati, quando tirano fuori il pezzo di carne tutto sporco di merda, senza neanche il preservativo. Noi siamo quelle che risalgono in lunga fila processionale dall’Africa nera, con le nostre grandi cosce sudate, immacolate, bollono nel calderone delle nostre fiche affamate quelle poltiglie di esserini dalle teste sfrenate, sguinzagliate, quando stiamo ferme sotto le stelle con gli occhi sbarrati, li sentiamo svegliarsi improvvisamente dentro le nostre pance quando un’auto rallenta un po’ più delle altre, e il guidatore mette fuori dal finestrino il bulbo della testa, come quelle colonie di scimmie urlatrici che si mettono a imperversare di colpo nelle foreste, in mezzo al fogliame profondo di una grande pianta, e si preparano tutte assieme alla cerimonia aggressiva della guerra. «Ah, perché non sei nera anche dentro?» mi ha detto una volta, dolcemente, uno dei clienti, aprendomi le cosce e la fica con le mani, mentre stavo seduta a culo nudo per terra, di fronte agli abbaglianti dell’auto parcheggiata in una zona di monta isolata, vicino a una discarica. «Ma proprio nera completamente, voglio dire, che non si veda niente, che non si capisca neanche se si sta guardando qualcosa oppure no, se si è ancora da qualche parte, se si esiste ancora in un corpo che abbia confini, come essere in una zona assolutamente buia del cosmo, e tutto attorno è solo vuoto e nero e silenzio, che respira. Principessa, io ci speravo...»

È così che sono stata chiamata per la prima volta Principessa.

Perché sono arrivata fin qui? Perché sono arrivate fin qui anche tutte le altre? Di colpo, da ogni parte del mio continente, come una fiumana? Perché volete saperlo? Non mi ricordo. C’era un fiume. E io ero dentro quel fiume.

Un giorno, nel mio villaggio, seduta davanti all’apertura della mia capanna di fango e di paglia, ho guardato per tutto un giorno un cane che camminava col corpo attraversato da parte a parte da una freccia. Non si capiva neppure se si era accorto di essere stato colpito. Camminava un po’ irrigidito, tranquillamente, nella polvere, con gli occhi neanche tanto sbarrati, un giro dopo l’altro, sempre più piano. I giorni passano. Basta girare gli occhi e non si vedono altro che cavallette seccate, scimmie con la testa mezza mangiata, serpi spaccate. Che cosa mi hanno detto per farmi venire fin qui? Se sono stata ingannata? Cos’è successo? Cos’è stato? Chi è stato? Che strade ho percorso? Che terre ho visto? Cosa ve ne frega! Voi non sapete cos’è la polvere! Io non ricordo i nomi dei luoghi, delle persone, eppure ne ho visti tanti. Sono passata di mano in mano. Ho viaggiato. Ho fatto il mio viaggio. Cosa pensavo? Cosa credevo? Di cosa mi illudevo? Cosa mi avevano detto? Cosa credevo di andare a fare? Cosa provo adesso a pensarci? Io il mio viaggio l’ho fatto, voi fate il vostro! Chissà cosa passa per la testa del pesce, un secondo prima di andare a finire nella bocca del siluro acquattato nel fango? Chi può dire? Forse è perfettamente tranquillo. Ma i pesci comunque non hanno voce, per fortuna, sono muti, altrimenti bisognerebbe tapparsi le orecchie per non sentire le urla che si leverebbero dalle superfici dei mari, degli oceani. Io mi ricordo dei fiumi, solo dei fiumi. Prima il Sanaga, poi il grande Niger. Poi ci sono stati altri viaggi. Qualcuno mi ha dato, per la prima volta in vita mia, un paio di scarpe chiuse. Mi ha detto che, d’ora in poi, dovevo abituarmi a portarle. «Delle scarpe!» gli ho detto. È stata l’unica volta che ho pianto, mentre imprigionavo con dolore i miei grandi piedi in quelle armature, e camminavo appoggiandomi ai muri, con gli occhi fuori dalla testa. Poi un altro viaggio. Le macchine. Le notti qua e là. Le città mai viste. In venti dentro la stessa stanza. Poi il mare, il viaggio di notte, il motoscafo. L’acqua era buia, mi arrivavano solo gli schizzi gelati sulla faccia. Quando si viaggia si spera sempre di arrivare. Qualunque viaggio si faccia, anche se non si conosce la meta. Il resto non si può raccontare. Quello che si capisce per strada. Io sono una che cammina diritta, che si eleva. Ho fatto amicizia con una fulbe: Aminah.

Camminavo, appoggiandomi ai muri, sulle mie scarpe sformate. Siamo arrivate in una città grande, poi in un’altra. Ci hanno portate lungo quei viali illuminati a giorno. Non ci vuole molto a capire. Quante eravamo! Mi sembrava di essere ancora in Africa!

Dove andremo a finire? vi domanderete. Perché di gatti, di colombi, di topi se ne vede ogni tanto qualcuno stecchito, mentre si cammina per strada. Invece di noi niente. Ci rimandano a casa quando siamo ammalate? Quando siamo morte? E chi credete che si accolli la spesa del viaggio? Mi ricordo una notte, dopo che ero scappata... «Vieni!» mi ha detto di colpo il domatore. Aveva in mano una vanga. Si era già tirato su la cerniera del giubbotto, gli brillavano gli occhi. Mi ha presa improvvisamente per un braccio, come si fa per un moto improvviso con la propria ragazza quando si sente di colpo che la si ama troppo e non ci si può controllare. Mi sono abbandonata anch’io a lui, con il cuore in gola, scendendo così le rampe delle scale, anche se avevo ancora la bocca che sanguinava... e con un braccio teneva me, con l’altro la vanga. «Prendi!» mi ha detto quando siamo arrivati sotto casa, prima di balzare sopra la sua grande motocicletta lucente. Sono salita dietro di lui, tenendo la vanga. È partito, volando. Dovevo tenere la vanga di taglio perché non me la strappasse di mano il vento della corsa. Non so se l’ha fatto apposta, ma siamo passati così lungo uno dei nostri grandi viali africani e tutte quelle che stavano a cosce nude, impalate, lungo i marciapiedi, vedendomi sfrecciare così abbracciata al domatore, e vedendo balenare nella mia mano lo scettro levato della vanga, mi guardavano gettando indietro in modo altero la testa, con un lampo di invidia e di orgoglio. Siamo andati ancora per molto così, io e il domatore, e quella lancia, sfrecciando lungo i viali pieni di fiche nere e di file di macchine abbagliate, tamponate. Poi lungo strade più buie e lontane, mentre si vedevano già sullo sfondo le barriere crivellate dei condomini già addormentati, fino a una zona che non avevo mai visto, deserta, di discariche. Siamo scesi tutti e due dalla moto, ma il suo fanale era rimasto acceso, illuminava il corpo nero di una ragazza nuda dalla cintola in giù, girata sopra la pancia, con la bocca contro la terra. Il domatore ha composto un numero sul suo cellulare, tenendolo abbassato contro la luce del fanale, con una sola mano. «Sì, è qui, l’ho trovata!» ha detto soltanto, prima di rimettere il telefonino alla cintura. Mi ha guardato. «Scava!» mi ha detto. Ho guardato la donna, mentre il domatore la girava pancia all’aria, col piede. «Ma è una bantu!» gli ho gridato, quando l’ho vista in faccia. Il domatore mi ha preso per un istante la vanga, l’ha calata di taglio tra le sue gambe, e una via di sangue si è allargata di colpo tra i suoi peli. «Non lo vedi che è marcia?» mi ha detto restituendomi la vanga. «Che cosa credi? Che possiamo pagare il viaggio di ritorno a quelle marce, a quelle morte? Li tirate fuori voi i quattrini per farlo? E i documenti? E tutto il resto? Che cosa ne sarebbe di voi? Scava!» Ho cominciato a scavare, nella terra molle che c’era attorno. Quando la buca è stata abbastanza profonda il domatore ci ha fatto rotolare dentro il corpo. Ho cominciato a coprirlo. Era finita dentro di pancia, per quanta terra gettassi restava sempre fuori la punta del suo culo lucido e nero, insanguinato. Poi è scomparso anche quello, anche la testa, ma all’ultimo momento il domatore si è ricordato di strapparle via la parrucca di capelli ossigenati e stirati. L’ha scossa un po’, per mandare via la terra. Quando la buca è stata completamente coperta, l’ha pestata un po’ con i piedi. Poi mi ha detto: «Mettiti giù, Principessa!». Mi ha scopata col suo cazzo tatuato, per terra, con convinzione, sulla fossa appena coperta, in silenzio. «Con te sto bene!» ha detto solo, alla fine, prima di saltare in sella alla moto. Sono salita dietro di lui, abbiamo rifatto la stessa strada di prima all’incontrario, ripassando davanti alla fila delle altre africane lungo i viali, e adesso la vanga che reggevo come una lancia aveva la punta un po’ insanguinata, coglievo quegli sguardi lucenti, trionfali, mentre sfrecciavo con la guancia contro la schiena del domatore, gli occhi chiusi... Il domatore? Volete sapere chi è questo domatore?

Canto del domatore

Quante ne vedo passare! Fiche che non si rassegnano e scappano, si fanno del male, nere, slave, chi più ne ha più ne metta. Sempre le stesse facce assetate, gli stessi occhi sbarrati, gli stessi corpi da mettere con le spalle a terra, da spezzare. Mi bastano pochi giorni, me le faccio portare qui nella piccola casa in affitto dove vivo, dove non faccio entrare nessun altro, materassi gettati per terra, lordati, schizzi di sangue e di muco contro il muro, quando le devo colpire e vanno a sbattere contro le pareti col volto, con i corpi, o devo scoparle per farmi meglio capire, con un rostro che mi applico al cazzo, odore di carne bruciata quando devo bucare le loro carni con le braci delle sigarette, col fuoco. Di escrementi, quando le devo lasciare nella loro merda, nude, legate, per qualche giorno, nei casi più ostinati. Me le portano fin davanti alla porta, me le spingono dentro tenendole per i polsi incrociati di dietro. Si guardano attorno atterrite, quando si trovano sole con me, girano gli occhi sulle pareti, le loro grandi bocche a ventosa sono spalancate per lo stupore. I globi dei loro occhi sono tutti sbocciati, bianchi. Le colpisco immediatamente, senza parlare, perché capiscano che sono sprofondate in un luogo di orrore dove nessuno le potrà rintracciare. Le faccio tacere colpendole più volte, con forza, sulla bocca, sento scoppiare sotto le nocche delle mie dita chiuse a pugno quelle loro labbra così esagerate. Devono capire che ogni loro parola, ogni verso, scatenano in me una reazione che neanche riescono a immaginare, devono rimanere mute, alla fine, impietrite, devono perdere l’uso della parola. Aprono e chiudono quelle loro grandi bocche e non ne esce più un suono, un singulto, le vedo boccheggiare di fronte a me come pesci. Provano a correre un po’ per la casa, all’inizio, per sfuggirmi. Le raggiungo ogni volta tranquillamente, senza accelerare il passo. Cercano persino di difendersi, all’inizio, di menarmi con quelle mani dalle unghie dipinte, le palme bianche, oppure a morsi, le più scatenate. Le sbatto due o tre volte contro il muro, col volto, rimangono alla fine sull’intonaco delle pareti le ombreggiature delle loro labbra gonfiate, come decalcomanie. Ce ne sono dappertutto contro i muri della mia casa, potrei indicare una per una a chi appartengono. Anche pezzi di denti, non li scopo neanche via, la mattina dopo, ce ne sono qua e là negli angoli, sotto i letti, oppure ciuffi di peli di fica, matasse di capelli, anche un pezzo d’orecchio nero, da qualche parte, tutto seccato, incartapecorito. Le monto da tergo tenendo le loro mani imprigionate dietro la schiena con una sola delle mie zampe, glielo ficco nel culo, spingendo forte perché le loro teste sbattano con forza contro il muro e lo lascino tutto affrescato, tutto insanguinato. Le sfregio sul volto, col coltello, oppure sopra le tette, tagliando da parte a parte il bottone del capezzolo. Prendo a calci le loro fiche, con gli scarponi, mentre le faccio stare coricate sul pavimento a cosce spalancate, ogni loro parola un calcio più forte, di punta, finché non rimangono catatoniche e mute, con gli occhi sbarrati. Gli vado sopra col pestacarne, tenendolo sospeso sopra le loro facce. Oppure faccio il gesto di calarlo con forza sulle loro fiche aperte, più volte, fino a fare una frittata del loro osso pubico e lasciarle tutte cremate, per il mio pezzo di carne già pronto, illustrato, inalberato. Il mio pezzo di carne... Devo dire due parole anche sul mio pezzo di carne, a questo punto. L’ho fatto tatuare a più riprese, in un’altra città, e ci sono voluti dei mesi, a poco a poco, io disteso sopra il lettino, quell’altro che lavorava con la lente di ingrandimento e lo specchio. Ci ho fatto tatuare sopra la mappa dell’intero pianeta, i continenti, gli stati, gli oceani con tutte quelle ragnatele di isole che si riescono a distinguere solo quando il pezzo di carne si gonfia davvero alla grande, e la pelle si tende a tal punto da mostrare particolari che erano sfuggiti anche a me, qualche isola più piccola delle altre, e lì vicino il microscopico disegno stilizzato di una nave antica, un veliero, per dare l’idea delle rotte marine, delle scoperte di nuove terre. E poi altri minuscoli disegni qua e là, in certi punti, qua Napoleone col suo stato maggiore, su un’altura, il congresso di Vienna, i pellerossa, il bassorilievo di quegli arcieri che si trova su un palazzo antico di un re, Assurbanipal, mi ha detto che si chiama quel tipo del tatuaggio, e quando il cazzo si tende ancora di più si vedono persino i segni dei loro lunghi capelli ricciuti, i muscoli delle braccia, le frecce, e poi anche altre minuscole immagini che indicano i tracciati delle guerre, delle rivoluzioni, tutto quello che è successo ce l’ho io qui, attorno al mio pezzo di carne. Qualcuna me lo guarda con gli occhi sbarrati, quando glielo faccio ingoiare con forza, osserva le figure che vengono fuori man mano che il cazzo si gonfia sempre più, ingigantisce. «Non avevo mai eseguito un lavoro così!» ha detto quell’uomo, alla fine, buttando via stremato gli aghi, la lente. Ma io nel frattempo avevo adocchiato un altro modello di tatuaggio, appeso al muro: le costellazioni nel cielo boreale, con i segni di tutte le stelle, quella polare, l’Orsa maggiore, Altair, il serpente, Cassiopea, la Corona boreale, le nebulose. «Mi può tatuare sopra anche quello?» gli ho chiesto. «Adesso come faccio? Me lo doveva dire prima!» ha risposto. «Oh, cazzo!» gli ho detto. «Perché non ho due pezzi di carne invece che uno solo?»

Quand’è che ho cominciato a fare questo lavoro? Com’è andata? Non mi ricordo più di preciso. Ma arrivano da tutti gli angoli della terra queste fiumane di fiche, le prelevano nelle città, nei villaggi, le fanno viaggiare sui motoscafi, sui treni, le piazzano in quelle pensioncine a una sola stella, le cominciano a preparare. Alcune lo sanno che cosa le aspetta. Altre no. Si sono fatte delle illusioni. Non ragionano più, quando capiscono dove sono finite. Magari si incontrano con qualcuna dello stesso villaggio, quando le mettono in strada. Si montano la testa l’un l’altra. La carne soffre, non c’è niente da fare. Io so come si fa a domarla. C’è bisogno anche di chi è portato a fare questo lavoro. Dopo stanno meglio, sono più tranquille. Vado a dare un’occhiata alle nuove partite appena arrivate, certe volte, quando scendono dai treni, o mentre si preparano nei capannoni, alla fonte. Capisco al primo sguardo chi di loro darà dei problemi. «Fate attenzione a quella!» li avviso. Certe volte vado a rimorchiarle nelle discoteche, senza dire chi sono, le invito a ballare, le faccio parlare in libertà mentre appoggiano la testa sulla mia spalla. Gli brillano gli occhi, si innamorano in un batter d’occhio se credono di aver trovato il loro salvatore. Faccio finta di impietosirmi alle loro storie, mentre ballano strette strette, e sento le loro labbra contro il mio collo, tutto il loro corpo che pulsa e respira contro il mio. Ognuna crede di avere in sé qualcosa che la salvi. Le sto ad ascoltare, le bacio continuando a ballare, scorgo in quella pioggerellina di luci colorate le chiazze delle altre che guardano dalle parti, con gli occhi lucenti. Le porto fuori tenendole per la vita. Si abbandonano con la testa sulla mia spalla, camminando male sopra le scarpe strette, con una spanna di tacchi, con le zeppe. Sento il loro cuore che pulsa forte. Mi guardano con le loro facce scarificate, innamorate. E molte sono drogate, impasticcate. Si lasciano andare. Le luci. I condomini lontani. Il vento delle auto. Mi baciano addirittura la mano prima di salire dietro di me sulla moto, prendendomela tra le loro mani nere, dipinte, irresistibilmente, oppure con quelle loro mani di slave bambine, dalle unghie un po’ rosicchiate. «Sta’ tranquilla» le dico. «Adesso è finita. Ti aiuto io, ti nascondo.» Si inginocchiano di fronte a me, mi abbracciano la vita con quelle loro zampe dipinte, lì dove siamo, in mezzo alla strada, alle pozzanghere. Cominciano a piangere con quei loro occhi bovini, senza controllarsi. Sento che mi baciano la spina dorsale, mentre mi tengono abbracciato da dietro e la moto ha già cominciato a volare, con quelle loro grandi labbra molli, a ventosa. «Ecco, siamo arrivati!» dico alla fine della corsa. «Ti terrò nascosta nella mia casa, finché quelli là non avranno perso le tue tracce. Poi vediamo che cosa fare, sarai tu a decidere, se rimanere in questo paese oppure se ritornare. Vedremo come fare per i quattrini che devi a quei bastardi.» Gli vedo luccicare gli occhi, le sento sospirare mentre mi seguono fino alla porta di casa, tenendomi sempre abbracciato come per paura che possa svanire. «Non credevo che tu ci fossi...» le sento balbettare per l’emozione, «non credevo che sarei riuscita a incontrare uno come te!» Non riescono neanche a parlare. Apro piano la porta. Le spingo dentro dolcemente, da dietro. Poi entro anch’io, in modo da vedere le loro facce bloccarsi quando scorgono le tracce di lordura sul pavimento, sui muri, o sentono i lamenti di altre legate, perché certe volte ne tratto anche due o tre assieme, quando il lavoro è molto, e mi devo spostare da una stanza all’altra per domarle. Certe volte si lasciano cadere per terra, senza forze. Gli piscio addosso... Oppure mi assalgono con le unghie dipinte, quando capiscono dove sono finite. Gli spacco un paio di costole a calci, a ginocchiate, tanto per cominciare. Poi viene il resto. Io ho sempre saputo cosa bisogna fare, in questi casi. Fin da quando ero piccolo, e vedevo le bestie soffrire... E qui c’è tutta questa carne da domare, da rassegnare, fiche che passano da un padrone all’altro, da un’organizzazione all’altra, fiche da ammorbidire, da far sparire, da istruire. Passano a fiumane da qui, tante volte non capisco neppure le loro parole, i loro versi. Gli faccio perdere l’uso della parola, tanto per cominciare, le massacro e poi le inculo col mio cazzo tatuato, mi devono lavare via il contenuto dei loro intestini con la bocca, la lingua, mentre il pezzo di carne si gonfia a tal punto che salta fuori qualche particolare che neppure io avevo mai visto, la vela di una di quelle tre caravelle, qualche esemplare della fauna di altri paesi, di altri continenti, li fissano con gli occhi sbarrati, riconoscendolo sulla pelle tirata come un tamburo del mio cazzo smerdato, se è un animale che vive nei loro paesi. Mi avvicino a certe fiche sporche, piene di croste, di marchese, di funghi. Gli devo insegnare a lavarsi, a disinfettarsi, cucio pazientemente le loro lacerazioni, se sono costretto a procurargliene, e intanto tengo serrata la ventosa delle loro labbra col pugno, fino a stritolargliele, perché non sopporto di sentirle gridare. Certe volte le lascio scappare e poi le riprendo, le guardo da dietro i vetri della finestra di questo caseggiato isolato, mentre scappano seminude e sporche di merda in mezzo alle pozzanghere, in questa zona di condomini lontani l’uno dall’altro e di discariche. Qui nessuno ha niente da ridire sul mio lavoro. Aspetto che siano abbastanza lontane, poi le raggiungo tranquillamente, con la moto, le afferro al volo per i capelli, mentre stanno correndo già verso la zona dell’autostrada, le faccio continuare a correre un po’ così, con la faccia schiacciata contro il serbatoio della moto, il culo nudo e smerdato, le gambe e i piedi piagati che cercano di continuare a fuggire. Le butto di traverso sopra il sedile, come sulla sella di un cavallo, e intanto gli sfondo un paio di costole con una gomitata improvvisa, calcolata, dall’alto, oppure le prendo al volo da dietro con una catena di bicicletta fatta mulinare nell’aria alle loro spalle mentre corrono all’impazzata. O aspetto addirittura che riescano a salire su un autobus, se ce la fanno a raggiungere la fermata. Le faccio aspettare al capolinea chiamando chi so io, col telefonino. Me le riportano dopo poche ore, atterrite. Chiudo gli occhi, sospiro, prima di chinarmi sopra di loro per rovinarle, di fronte agli occhi di qualcuna appena arrivata, ancora imbavagliata. Ma quando una esce finalmente da qui dentro, se esce, il problema è finalmente risolto una volta per tutte. Loro lo sanno, quegli altri, quando affidano una fica a me piuttosto che a qualcuno degli altri domatori che cominciano a spuntare qua e là come funghi, adesso che il lavoro è tanto. Li chiamo col telefonino, alla fine, dopo che le ho guardate negli occhi e ho capito che è tutto finito, che non soffrono più, che non faranno più soffrire nessuno. Quando escono da questa porta sono a posto, domate.

Eppure, non so perché, tra tutti quegli identici sguardi atterriti che mi passano continuamente davanti, mi pare di cogliere qualche volta uno sguardo diverso, che mi arriva come da qualche punto più lontano, tranquillo, che mi resta impresso. Come quello di Principessa. È passata anche lei di qui. A ragione o per sbaglio, non lo so, non l’ho mai capito. Lei non è una che scappa. L’hanno presa in un posto dove non doveva essere. Hanno creduto che stesse fuggendo. Invece non fuggiva. Lei non è una che scappa, l’ho detto, lei è una che, ogni tanto, deve camminare. Anche quando era qui. «Adesso esco» mi diceva tranquillamente, ogni tanto. La lasciavo uscire. La raggiungevo dopo un po’, scivolando con la motocicletta sullo sfondo dei condomini lontani, illuminati. «Salta su, Principessa!» le dicevo. Saliva senza problemi, non la colpivo. Lei è soltanto una che ogni tanto deve riprendere a camminare. Per il resto non l’ho mai sentita parlare, prima ancora che, all’inizio, mi dessi da fare a colpirla, a insanguinarla. Scopavo bene con lei, come con nessun’altra. Il mio pezzo di carne le faceva festa. Si riuscivano a vedere sopra la pelle anche quei piccoli segni sottili e appaiati delle onde, dei mari, degli oceani, certe grandi città costiere, stilizzate, irreali, tutte traforate. La tenevo inutilmente, stupidamente legata, all’inizio, a gambe aperte, mentre la bruciacchiavo oppure la scopavo. Non parlava, come se non avesse ancora imparato a parlare. Però mi guardava... Non lo so... d’altronde c’è questo lavoro da fare. C’è tutta questa povera carne da tutte le parti, che soffre, da domare. E io la domo.

Nuovo canto di Principessa

Sì, è vero, sono passata anch’io dalla casa del domatore, all’inizio. Mi trovavo ogni tanto dove non dovevo essere. Non lo facevo apposta. I miei piedi dovevano riprendere a camminare. E camminavo. Coi miei stivali attillati, di similpelle, il mio culo nero scoperto, lungo i viali pieni delle altre puttane africane, lungo i cavalcavia, sugli svincoli. Il body slacciato in mezzo alle gambe e tirato su fino all’altezza delle reni, le tette più fuori che dentro. Tutt’intorno quei condomini lontani, illuminati qua e là, quelle insegne colorate delle pubblicità, sui capannoni bui, deserti, in piena notte. Quante città ho visto! Quante luci! Certe volte, mentre camminavo sulle sopraelevate, dal finestrino di qualche macchina che mi superava suonando a distesa balzava fuori il bulbo di una testa con la lingua fuori, il collo a uncino per poter vedere per un istante dal davanti la mia fica nuda dalla paglia di ferro ingellata camminare. Mi venivano ad acciuffare coi fuoristrada, mi buttavano dentro prendendomi con una sola manata la parrucca e un orecchio, allungando un braccio dal posto di guida. Mi hanno portato da quel domatore. Mi pestava, all’inizio, mi pestava e intanto guidava. Io sbadigliavo. Lo vedevo come se muovesse le braccia sempre più in fretta, come se rimpicciolisse. Sentivo appena la brace della sua sigaretta sulla carne. Ci guardavamo negli occhi. Mi legava e poi muoveva le braccia, gesticolava. Tirava fuori il suo pezzo di carne. Si vedeva anche un piccolo elefante tatuato, sul mio continente, quando gli diventava duro di fronte alla mia fica legata, aperta. Prendevo dentro anche quello, tutto il resto, oceani, catene montuose, branchi di animali in corsa nelle savane, sul ghiaccio, quando la pelle si tirava ancora di più, gli prendevo con una mano le palle mentre mi montava, le sentivo pulsare tra le mie dita dalle unghie dipinte, quando cominciava a sparare. Un giorno mi ha gettata fuori dalla finestra. Stavo guardando le luci dei condomini lontani, appoggiata come se niente fosse al davanzale, e intanto sentivo che mi stava colando lungo una gamba il sangue da una ferita che mi aveva aperto improvvisamente con il coltello, all’interno di una coscia. «Vuoi vedere le luci?» mi ha detto venendomi vicino da dietro, e intanto mi accarezzava il culo nudo, rotondo, mi teneva in mano una tetta, mi baciava il collo. «Vuoi vedere tutte quelle case lontane, e quelle strade e quelle autostrade e tutte quelle macchine che vanno senza fare rumore da tutte le parti, con le luci accese, e anche quelle lucine degli aeroplani che passano sulle nostre teste e sembrano andare chissà dove nella notte, gente che si sposta attraverso il cielo del mondo, che sembra avere qualcuno che li attende da qualche parte, dove nel frattempo è un’ora diversa, una stagione diversa, porte che si chiudono, braccia che si riconoscono, mentre la Terra continua a girare dentro lo spazio, con tutti quei corpi che ci si spostano sopra, coi loro occhi e le loro bocche allargate, arrovesciate. Ecco, sì, guarda, così vedi meglio!» Mi ha gettata fuori dalla finestra, prendendomi con un unico gesto del braccio per tutte e due le gambe. Mi sentivo volare giù, verso il basso, finché ho capito che mi stava tenendo con forza per le cosce, mentre stavo spenzolata a testa in giù, nuda, fuori dalla finestra. Non diceva niente. Non dicevo niente. Io sono abituata a vedere le cose dall’alto, a testa in giù! Guardavo uno che stava parcheggiando la macchina a fianco del marciapiede, là in fondo, e poi la rete di strade, il luccicare delle lamiere che ci andavano sopra da tutte le parti. «Dov’è che ho già visto tutto questo?» mi domandavo tranquillamente. Eppure non sono mai stata a testa in giù fuori da una finestra di un piano alto, sul punto di precipitare. Poi ho sentito, ma dopo un bel po’ di tempo, che mi ha serrato più forte le cosce con le sue forti braccia, mi ha tirato su leggermente, col culo fin quasi all’altezza del davanzale. Doveva avere gettato in avanti la testa, perché avvertivo che mi stava leccando il sangue che mi usciva dalla ferita alla coscia, e poi il buco del culo, la fica, con gli occhi chiusi, la lingua ruvida e calda, come un gattino, come un agnellino. Mi ha tirato su del tutto, dopo un po’. Mi ha scopata sul pavimento, bene, con convinzione. Anch’io l’ho scopato bene. Ci siamo buttati uno vicino all’altro, di schiena, alla fine. Credevo che stesse allungando un braccio verso di me, per abbracciarmi. Invece un secondo dopo ha colpito il fiore della mia bocca con un pestacarne.

Me ne sono andata più volte dalla sua casa. Una volta ho preso addirittura il filobus, alla fermata vicino. Mi sono seduta su uno dei sedili davanti, nessuno si è accorto che avevo il culo nudo. Il domatore non è neanche uscito di casa. Ho visto per un istante, prima che il filobus partisse, la forma lontana della sua testa che mi stava guardando tranquillamente da una delle finestre di casa, da lontano, fumando. Mi sono girata dall’altra parte, perché il filobus aveva preso velocità. Nessuno aveva fatto caso, o non lo dava a vedere, al mio culo lucido e nudo contro la plastica del sedile. Guardavo la strada che volava via dalle parti, quando, pochi minuti dopo, ho visto la testa del domatore che correva in motocicletta a fianco del filobus, dall’altra parte del vetro. Fissava tranquillamente la strada, con la testa un po’ arrovesciata, i capelli gettati indietro dalla corsa. «Come ha fatto a raggiungermi così in fretta» mi sono detta, «se solo poco fa fumava ancora tranquillamente alla finestra? Sarà corso giù in strada come una furia, un secondo dopo, avrà inforcato la moto partendo con la ruota davanti tutta impennata, come fa quando parte di scatto, mi avrà raggiunta seguendo il percorso del filobus, guardando i suoi fili che corrono in alto...» Non girava neanche la testa per guardarmi, guardava solo la strada, tranquillo. Sono scesa alla prima fermata. Sono salita a culo nudo dietro di lui, sul sedile. Ma non mi ha portato subito a casa. Si è lanciato senza dire niente per uno stradone, e non capivo cosa gli stava passando per la testa, dove andava. Lo sentivo tremare un po’, nella corsa, stando contro di lui e tenendolo stretto con tutte e due le mie forti braccia. Abbiamo corso per molto, lo sentivo spensierato, tranquillo, mentre si gettava tutto inclinato nelle curve. Era notte. Solo quel vento sulle mie cosce nude, quelle luci qua e là, che restano accese chissà perché fino all’alba. D’un tratto si è fermato di fronte a una discoteca isolata, di quelle che restano aperte tutta notte. C’erano molte fiche che conoscevo, molti pappa. Ballavano tutti ubriachi, impasticcati. Il domatore mi ha dato il braccio. Ho fatto il mio ingresso così, a culo nudo, come se niente fosse. Abbiamo cominciato a ballare. Lui ogni tanto si impasticcava, mi impasticcava. Mi ha scopata un paio di volte, in piedi, col suo cazzo tatuato, contro un muro dove non arrivavano quei fasci di luce che piovevano da tutte le parti, dal soffitto. La musica mi rimbombava dentro la pancia, nella fica. Riprendevo a ballare con le cosce tutte rigate, i peli ingellati. Non si capiva se si rendevano conto che stavo ballando con la fica nuda e appena scopata, quegli altri che si divincolavano da tutte le parti, in quelle luci. Mi addormentavo di tanto in tanto, dalla stanchezza, con la testa abbandonata sulla sua spalla, la parrucca di sghimbescio, durante i balli più lenti, mentre lui mi teneva incollata tirandomi a sé con una mano nella fessura del mio culo nudo. Siamo usciti, ci siamo rimessi in strada. E mentre correvamo per quei viali bui e deserti, e poi lungo quei grandi raccordi autostradali, qualcuno in macchina dietro di noi diventava matto, suonava a distesa, accendeva gli abbaglianti, per vedere meglio il mio culo nudo un po’ sollevato sulla parte più alta della sella. Lo sollevavo ancora di più, perché si vedesse anche la fica bagnata che gocciolava, mentre la macchina sbandava di colpo alle nostre spalle, sull’asfalto, e lui tirava ancora più su di giri il motore, scompariva. Sentivo che stavo sorridendo senza volerlo, con la mia grande bocca, contro la sua schiena che rideva e tremava, mentre volavamo verso un bowling dalle insegne accese nonostante fosse già notte fonda, e nessuna macchina fosse parcheggiata davanti. «Ma è tardi, è tutto spento!» si è lamentato il padrone del locale, quando ci ha visti entrare, io a fica nuda, il domatore con la patta gonfia e la cerniera ancora slacciata. Ci spostavamo con gli occhi sbarrati, imbambolati. «Accendi una pista!» gli ha ordinato il domatore, prendendolo per un braccio. L’altro ha premuto un po’ di pulsanti, una pista si è illuminata di colpo, in mezzo alle altre, hanno cominciato a venire giù quei grandi birilli, nella luce. Abbiamo giocato un po’. Siamo usciti ondeggiando e ridendo. Ma, prima di salire sopra la moto, il domatore mi è venuto vicino di colpo. Mi ha fatto inginocchiare sopra l’asfalto, con una guancia a terra. Mi ha inculata piano piano, bene, in silenzio, tenendo appoggiata un’orecchia calda sulla mia schiena, come per sentire da vicino il muscolo del mio cuore che pulsava. Abbiamo ripreso ad andare. «È ancora lunga la notte, Principessa!» mi ha detto fermandosi dopo una corsa sfrenata vicino a un locale dalla saracinesca abbassata, in una zona che non avevo mai visto, neppure di notte, lungo i viali. Ha bussato un paio di volte. Pochi secondi dopo un uomo ha tirato su la saracinesca, dall’interno, senza dire niente. Siamo entrati. C’era un gruppo di persone sedute attorno a un tavolo, che giocava a carte. In mezzo a loro un pappa nero con le dita piene di anelli d’oro. Nessuno ha alzato gli occhi, neanche per un istante, per guardarci, neanche se venivo avanti con le cosce bagnate, la fica e il culo appena scopati. Ci hanno fatto posto attorno al tavolo, e mentre mi sedevo vicino al domatore che cominciava a chiedere carte, guardando macchinalmente verso il pavimento, ho visto un ghepardo accucciato ai piedi del pappa nero, legato al suo polso da una lunga catenella d’oro, che dormiva. Lo guardavo, ogni tanto, stavo attenta a non svegliarlo toccandolo con i piedi, se dormiva. Scorgevo appena le fessure dei suoi occhi chiusi dentro quella mascherina che ha sopra il muso, le macchie del suo mantello che si alzavano e si abbassavano tranquillamente mentre respirava. «Si sta bene con te, Principessa!» mi ha detto il domatore qualche ora dopo, mentre eravamo già ritornati nella sua casa, ed era l’alba. Avevo il culo gelato per l’ultima corsa. Si è buttato sul letto tenendomi un braccio attorno al collo, nell’altra mano teneva una bottiglia che aveva comperato prima di uscire dal locale. Credevo, da un suo gesto, che volesse aprirla per brindare. Invece un istante dopo me l’ha fracassata di colpo contro il volto.

Sono passata da un pappa all’altro, da un capannone all’altro, sono stata venduta più volte, prima di arrivare dove mi trovo adesso, nel porno estremo. Ne ho viste di rovinate e squarciate, sfigurate! Ogni tanto mi passa ancora a prendere il domatore, con la vanga. Mi soffiavo il naso continuamente, dopo quella notte. Il fazzoletto continuava a riempirsi di sangue e ossicini spezzati. Poi più niente. «Un osso in meno che mi possono rompere!» ho concluso. Ma l’ho solo pensato, perché io sono di quelle che ancora non hanno imparato a parlare. La mia amica fulbe, Aminah, è stata gettata fuori da un’auto in corsa e le hanno poi amputato una gamba. Ma non è stata abbattuta. L’hanno tenuta perché c’è a chi piace scopare con fiche senza una gamba. Qualcuno le vorrebbe amputare anche l’altra, tutte e due proprio a filo con la fica. Sono molto richieste anche sui set. Quanto a me faccio un numero anch’io, da un po’ di tempo. Entriamo in uno spazio isolato, in un seminterrato, dove nessun altro può entrare. C’è una specie di vasca, armata, di cemento. Vengono da quella parte dei rumori un po’ primordiali, anche degli altri suoni e dei versi che non si è abituati a sentire. Il cuore si ferma di colpo, quando si entra là dentro, anche gli inservienti che lavorano nell’altra parte del seminterrato, su un altro set, impallidiscono improvvisamente, stanno alla larga. Quando entro io l’hanno già tirato fuori dall’acqua e preparato, gli hanno già fasciato le zampe con strisce di cartone da imballaggio fissato con delle cinghie. Il suo lungo muso dentato è tutto legato con del filo di ferro. Vedo dal basso il bozzo dei suoi occhi rotanti, quando me lo mettono addosso e qualcuno posiziona quella sua specie di cazzo contro la mia fica, manovrandolo per la sua verde coda potente, come si fa con le grandi bestie durante la monta. Qualcuno gira gli occhi dall’altra parte, mentre la macchina continua per conto proprio ad andare, sento sulle mie tette e sulla mia pancia la sua carcassa di grande serpe fredda e bagnata, scatenata. Mi lascia dei segni su tutto il corpo, mentre cerca di abbracciarmi con le sue tozze zampe fasciate, e divincola sulla mia testa il suo lungo muso bagnato, imprigionato. Mi cola sopra la faccia la sua bava gelata, mentre sto a occhi chiusi e a gambe e braccia spalancate sotto la macchina fredda e lanciata del suo corpo. Sento irrompere nella mia fica qualcosa di gelato e sgraziato. Sale da quella parte un odore nauseante e improvviso. Non ho il coraggio di guardarmi in mezzo alle gambe quando è tutto finito, e quella bestia rettile è di nuovo nella sua vasca armata dall’acqua illuminata. «Che cosa posso fare io, a questo punto!» si dispera il ginecologo spastico quando apro di fronte a lui la mia fica sdoppiata. «Il maschio del coccodrillo ha un organo copulatore costituito da due emipeni, se uno dei due non è atrofizzato, come a volte succede. Non è difficile immaginare cosa succede alla carne della donna, se gliela mettono sotto!» Vedo dal basso quei due bozzi rotanti degli occhi, anche lui mi guarda, torcendo un po’ il suo lungo muso legato, capisco che ormai mi riconosce. Mi segue con gli occhi anche quando è ormai semiaffondato nella vasca, e spuntano solo quelli, dopo che hanno sollevato il suo corpo imbragato con un paranco per rimetterlo dentro, e qualcuno gli ha liberato le zampe, gli ha slegato il muso aiutandosi con una pinza. Cerca di uscire dalla vasca, certe volte, mentre sono ancora a gambe aperte sul pavimento, e non riesco a trovare la forza di alzarmi da terra, di guardare, mi insegue qualche volta attraverso il set, quando finalmente mi metto in piedi e mi sto infilando un paio di mutande sulla piaga della mia fica, del culo, si levano da tutte le parti certi urli atterriti, quando il rettile comincia ad andare più forte, scivolando sugli unghioni che spuntano dalle sue tozze zampe, scappano via da tutte le parti, altri accorrono ancora nudi, perché stavano girando da un’altra parte del set, col cazzo ancora smerdato, le fiche appena montate, suppurate, finché riescono a imbragarlo di nuovo, e a sollevarlo nell’aria mentre divincola la grande coda verde corazzata, le zampe. Mi osserva pensieroso in mezzo alle gambe, certe volte, mi sembra sempre più sbalordito di non vedermi mai deporre il suo grande uovo, col passare dei giorni. Guarda se lo vede spuntare, col muso leggermente girato, imprigionato. Mi sorprendo a guardarmi anch’io in mezzo alle gambe, di tanto in tanto, per vedere se comincia veramente a spuntare dalla piaga della mia fica, quando sono tornata nel monolocale che adesso divido con quella bambina, dove mi prendo cura di lei. Che numero fa? Non lo sa bene nessuno. Non si può dire. Io stessa non ne sono del tutto sicura. Ma temo di aver cominciato a capire... È lei, qui dentro, che porta il peso più grande! Ci sediamo, certe volte, una di fronte all’altra, in camicia da notte, con le gambe raccolte, sul letto. Una bantu e una bambina. Ci pettiniamo a vicenda. Le sue piccole labbra prendono a poco a poco un po’ di colore, smette un po’ di tremare, solo qualche brivido forte, improvviso, che l’assale di tanto in tanto, la fa sussultare. «Che capelli duri hai, Principessa!» mi dice cercando di farci passare le sue piccole dita. «Sembrano bruciati!» Corruga la fronte, muovendo il pettine con la sua piccola mano. «Be’, sì, in effetti una volta me li hanno bruciati!» le dico. «E non c’era l’idrante, lì vicino?» mi risponde seria, compunta. Teniamo la finestra aperta, alle volte, se il cielo è sereno si vede passare la pancia bassa di qualche aereo in volo di notte, illuminato, qualche stella. «Sai cosa penso?» mi dice improvvisamente la bambina. «Che cosa?» le dico continuando a pettinarle i capelli sopra le tempie. «Penso sempre alla voce di quella donna avvolta nella carta stagnola.» «Ah, sì, me l’hai detto, l’hai sentita parlare nel sonno, quella volta...» «Sì, e sai cosa credo?» «Che cosa?» «Che volesse dirmi qualcosa.» «E perché?» «Non l’ho mai detto a nessuno. Ma credo che lei sia la mia mamma.» La continuo a pettinare, trema un po’, sbadiglia. «Che cosa te lo fa pensare?» provo a dirle. «Per la voce? Ma mi hai detto che non l’hai mai vista né conosciuta!» «Sì, è vero, però ho sentito la sua voce, una volta.» «Ah, sì? Quando?» «È stato in sogno.» Restiamo tutte e due senza parlare, per un po’. «Anche lei faceva un numero» sento che dice ancora, lisciandosi la sottoveste che le ho appena stirata, «sono figlia d’arte!» «Questo non lo sapevo!» «Mi ha partorito sul set, mi hanno detto. E poi un cane si è mangiato la placenta, appena uscita... Quel film gira ancora, ho saputo. Ma non l’ho mai visto.» Vengono dalla finestra aperta i rumori delle macchine che corrono da tutte le parti, lontane, illuminate. «Che cosa sono questi due segni che hai sulla guancia?» mi chiede allungando la mano per toccarmi vicino alla bocca. «Sono scarificazioni rituali. Me le hanno fatte quando ero ancora bambina, la mia tribù...» «Tu hai una tribù?» mi domanda. «Sì, da qualche parte ce l’ho.» Non apre più bocca. «Io non ho una tribù» dice soltanto, dopo un po’. Mi metto a cantare una canzone che non cantavo da tempo, con la mia voce roca, da bantu. Il pettine le cade di mano. «Principessa, mi viene da piangere» sento che mi dice con un filo di voce, dopo un po’. «E allora piangi, Principessina» le dico prendendola tra le mie braccia, «tanto nessuno ci sente, ci può dire niente.» Riprendo a cantare, cullandola un po’ con le braccia. «Però come canti bene, Principessa!» sento che mi dice mentre gli occhi le si stanno chiudendo già per il sonno. Le bacio la piccola fronte, con le mie vaste labbra, mentre continuo a cantare. Oh, sì, io non ho ancora imparato a parlare. Però ho imparato a cantare.

«Oh, cazzo, ma qui ci vogliono i fazzoletti!»

Il Gatto mi guardava con gli occhi sbarrati.

«Sono senza parole!» esclamò. «Lascia che mi riprenda!»

Fece ancora qualche passo in silenzio. Si fermò di nuovo.

«Accidenti, ci avete dato dentro!»

Zoppicò ancora per qualche passo.

«D’altra parte non sto più qui a dirti manca questo, manca quest’altro... Per esempio: questa qui che è saltata fuori adesso, questa nera dalla fica ingellata... È venuta fuori di colpo, come un uragano. Però mancano un sacco di cose: quanti anni ha, che numero di scarpe porta, la taglia del reggiseno, delle mutande, quando le porta, in che stato sono i suoi denti, che fine hanno fatto papà e mammà, con chi scopa adesso...»

«Ma col coccodrillo! L’ha detto!»

«Sì, sì, sfotti! Intanto il lettore sarà lì con gli occhi fuori dalla testa! I critici ti diranno che non è un personaggio, se non ci ficchi dentro queste cose, te l’ho già detto. E poi anche la marca dello schiumogeno, quella del pestacarne. Ma non ci sto più a fare questa particina, qui dentro. Sto cominciando a passare dall’altra parte. La mia strada ormai è un’altra, la mia posta è un’altra... E intanto siamo ancora qui senza un titolo, cazzo! Te lo continuo a dire. E tu niente: Corri avanti. Con la testa puntata, imbambolato... La sparo grossa: cosa ne diresti di Canti del Duemila

Mi guardava senza fiatare.

«Perché storci la bocca?»

«Non sto storcendo la bocca!»

«Ah, cazzo, ho capito! È la sua posizione normale! Però non hai tutti i torti, adesso che mi ci fai pensare. Con te bisogna sempre tirare a indovinare. Canti del Duemila... Col cazzo! Così poi nel Tremila ci troviamo con un libro datato! Col cazzo che ci caschiamo! Allora, vediamo... Potremmo intitolarlo Titolo, a questo punto. Oppure Titoli. Oppure Il libro dei titoli. O meglio ancora Il romanzo dei titoli, così ci ficchiamo dentro la parola “romanzo” e tutti quanti sono tranquilli. Si mettono comodi, riprendono a giocherellare col telecomando, aspettando che scadano i cinque minuti per sciacquarsi via dalla testa il balsamo a base di cedro contro l’asma anale. “Ah, sì, cazzo, adesso ho capito: è un romanzo!” diranno togliendosi i peli superflui dalle orecchie. “Adesso sì che va bene. Mi pareva. È tutto chiaro!” Non più quell’impressione di una forma mai vista che erompe attraverso i suoi contrari sfondando, che spaventa. E poi che definizione dargli? Se un’amica ti chiede, vedendolo sul tuo comodino: “Che cos’è che stai leggendo di bello?”. Adesso potremo dirle: “Un romanzo”. “Ah, un romanzo!” cinguetterà lei tirando un sospiro di sollievo, togliendosi finalmente e senza timore lo slippino a incisione genitale per l’ascolto profondo dei cd. “Ah, sì, finalmente, adesso è tutto chiaro: è un romanzo!” “Sì, sì, è un romanzo, è un romanzo, non può essere nient’altro che un romanzo. Che forma sarebbe, altrimenti, dopo duemila anni? Tranquilli, è un romanzo!” D’altronde mica è facile trovargli una definizione diversa. Ci vogliono secoli interi, certe volte millenni, e poi viene fuori, per sbaglio, un nome buttato a caso. Ecco il nome nuovo, il genere nuovo! Che fino a un momento prima sguazzava ancora cigliato, irrealizzato. Noi stessi non siamo ancora stati capaci di trovargli un cazzo di titolo, ci pare, finora... Oh, no, via questo Romanzo dei titoli, non se ne parla, col cazzo che vogliamo buttare via questa chance! Basta, basta, mi è venuta fame! Guarda, c’è un grande self-service là in fondo, in quel sottoscala di piazza! Che cosa ne dici? Forza, andiamo! Da questa parte! Da quanto tempo non mangiamo più assieme, io e te! Da quando eravamo tutti e due attorno a quella tavolata gremita, in quel cazzo di seminario, e io certe volte ti guardavo e intanto esplodevo, non mi controllavo, guardavo intorno a me come con occhi di chi è venuto da un’altra parte, è disceso, oppure è salito, ma anche lì è solo, deve mettere tutto il mondo alla prova e lo aspetta una prova, e si tocca gli occhi ogni tanto, perché non è ancora abituato a vedere, in quella luce diversa, esterna, cose e persone, le loro voci, i rumori delle scodelle, per il momento, il luccicare delle posate che turbinano in ogni punto di quella tavolata, contro il nero profondo delle vesti. E io le guardavo e quasi non le vedevo, come da dentro un velo di lacrime in fiamme, che saliva. Non ti dico di più. Siamo ancora faccia a faccia, io e te. Che ne sarà di questo mutante, di noi due?»

Il Gatto e il Matto vanno al self-service

«Siamo quasi arrivati!» esclamò il Gatto infilandosi tra due delle tante auto parcheggiate a pettine ai lati di una via, così strette e ammassate che bisognava alzarsi in punta di piedi per passare, e contemporaneamente tenere la pancia in dentro, e schermarsi i genitali con una mano, perché non venissero asportati da uno specchietto retrovisore sguainato, insanguinato.

La saracinesca di qualche negozio calava di colpo, nella sera, le luci erano tutte sbocciate, bianche.

«Accidenti, ne vedremo delle belle, qui dentro!» disse il Gatto leggendo con emozione la lista dei cibi appesa all’esterno.

La porta a vetri sfiatava, si sentivano frusciare da tutte le parti quelle teste piumate, addormentate.

Poi il Gatto mi spinse dentro da dietro, con un braccio.

«Prendi il tuo cabaret da quella pila che c’è lì a fianco!» si animò. «Mettici sopra quella mutandina di carta che c’è in quell’altra pila. Prendi il pane con le mollette, oppure un paio di confezioni di quei filiformi grissini, lì c’è l’acqua minerale, la birra alla spina, oppure i vini, in quelle due botticelle che puoi spillare. Non dimenticarti di prendere le posate. Oh, cazzo, ci si muove appena in mezzo a tutta questa gente che gira tenendo in bilico sul cabaret piatti e bottiglie, come dei giocolieri. Che meraviglia! Si sente quasi il rumore dei succhi gastrici che stanno cominciando a entrare in azione sotto tutti quei jeans di armadillo firmati, sotto quei collant di nylon dalla cintura alta e portati senza mutande! Guarda, guarda... qui c’è ogni ben di Dio! Tortine allo yogurt, salsicce di struzzo con contorno di patatine sfuocate, tulipani borchiati, strapazzati. Te li consiglio. E non lasciarti scappare quelle orecchiette allo zabaione, lì a destra, dove c’è quella ragazza dai guanti di gomma trasparenti che le sta facendo saltare, e vengono tutte fuori a ogni suo movimento, quando solleva la padella dalla piastra e salgono orgasmicamente dal basso, sgranate. E non dimenticarti di mettere sopra il piatto, alla fine, una di quelle cupole di plastica impilate lì a fianco, perché non si disperda il calore... Oh, insomma, prendi quello che vuoi! Non sono certo il tipo che si intromette!»

Si era arrestato di colpo, perché la ragazza che manovrava nell’aria la padella aveva tirato fuori da sotto il banco un voluminoso dattiloscritto e l’aveva messo sul cabaret del Gatto, con la sua mano gommata, a vista.

«Ecco, lo vedi, mi ha riconosciuto!» fece in tempo a mormorare il Gatto con la testa girata.

«Come sono felice!» esclamò la ragazza. «Non ci posso credere! È proprio lei: l’editore! Ho visto la sua fotografia su quel rotocalco col gratta e vedi! Oh, stia attento a toccarlo! C’erano sopra quelle lampadine per cuocere l’arrosto. Scotta!»

Ci eravamo già messi in fila a una delle casse, posando i nostri cabaret sul binario.

«No, no, non fermiamoci qui a pianterreno!» disse il Gatto dopo avere oltrepassato la cassa. «Ci sono molte altre sale, qui sotto. Scendiamo. Mi sento sempre a mio agio quando posso discendere scale che portano sotto terra!»

Avevamo imboccato una grande scala a due rampe. Si vedevano, nelle pareti a specchio, i nostri due corpi che scendevano piano i gradini, reggendo con attenzione i cabaret, sui quali piatti e bicchieri e bottiglie tintinnavano e rischiavano di rovesciarsi a ogni passo.

«Cosa fai, tremi?» mi chiese il Gatto.

«No, sono i gradini.»

Eravamo in una sala grande, contenente altre sale poste su piani diversi. Il Gatto saliva e scendeva piccole rampe di gradini, si tuffava tra le file di tavolini e di tavoli grandi sparsi qua e là, nel suono della filodiffusione che veniva dal reticolo del soffitto.

«Ecco, lo vedi» mi spiegava girando la testa di colpo, «non è cosa da poco la scelta del posto migliore! Bisogna accertarsi che la lampada pendente sul piano del tavolo non sia né troppo forte né troppo debole, se no non si vede un cazzo di quel che si mangia, bisogna sparare a caso la forchetta nel piatto, oppure schermarsi gli occhi per la troppa luce che sale da questa melmina abbacinata. E poi che la posizione sia topograficamente azzeccata. Che non ci sia davanti la solita coppia che sta litigando e abbassa la voce e si spara calci nelle caviglie sotto il piano del tavolo, e uno dei due ogni tanto impallidisce di colpo per il male, oppure quelle signore con la pelliccia di calabrone firmata che mangiano un piatto di carote crude e un crème caramel, prima di andare a vedere un film sulla love story tra una traduttrice di libri in gaelico antico e uno scimpanzé. E che ci siano sul tavolo l’olio, l’aceto, le boccette del sale, del pepe, e che queste per giunta non abbiano i forellini otturati, o che in questo caso ci siano perlomeno lì vicino gli stuzzicadenti per disotturarli. E poi le sedie, le sedie! Ce ne sono di mille tipi, il mio culo se li ricorda uno per uno, torno a mangiare qui dentro soltanto per le sedie. Ce n’è un tipo, in particolare, che non ha le solite quattro gambe, ma un’unica serpentina d’acciaio, elastica, e la paglia di Vienna sul piano e sullo schienale. Mi siedo là sopra e impercettibilmente mi dondolo mentre mangio, ed è tutto così elastico, forte... E bisogna vedere tutto questo in un istante solo, a colpo d’occhio. Oh, cazzo, ma qui hanno cambiato tutte le sedie, non ci sono più quelle che piacciono a me! Cambiano l’arredamento una settimana sì e una no, il mio culo ha ancora la forma delle sedie precedenti e già gliene mettono sotto una diversa, deve diventare in quattro e quattr’otto più piatto o più tornito o più a spillo. Devo cambiare continuamente la marca delle mutande, la forma dei calzoni, anche la scarpa, lo scarponcino, perché se cambia la forma del gluteo anche la camminata cambia e le dita dei piedi si modificano completamente, si allungano, si accorciano, si ricoprono di peli oppure diventano glabre di colpo, anche le unghie cambiano forma, colore... Ah, bene, forse questo posto va bene!»

Fece scivolare il cabaret sul piccolo tavolo. Buttò il dattiloscritto su quello vicino, prima di sedersi pesantemente sulla sedia.

Provò a molleggiarla.

«Mah... niente male!» commentò scuotendo la testa. «Però mi aspettavo ben altre emozioni!»

Mi sedetti di fronte a lui, che aveva già scoperchiato il piatto, e conficcato la forchetta nelle orecchiette. Ma solo un istante dopo allungò irresistibilmente la mano per prendere il dattiloscritto. Lo piluccò per pochissimi istanti, avvicinando molto la testa.

«Sì, sì, ho già capito!» disse ributtandolo sul tavolino a fianco. «È la storia di una fighetta che se la fa col dj di un locale da ballo con piscina e scivolo doppio. E lui ha una zia che fa l’animatrice nei locali da ballo per la terza età, e sogna di aprire un’agenzia di vendita di articoli porno per corrispondenza. E invece il cugino della fighetta porta occhiali di similpelle firmati. E poi lei gli dice: “Okay, metti il tuo bel cazzetto nella mia insalatina!”. Oh, certo, certo! Accidenti, ci puoi giurare! Questo lo pubblico di sicuro, non me lo faccio scappare! Anzi, telefono subito al direttore editoriale... Scusa un momento.»

Tirò fuori di tasca il telefonino, cominciò a comporre il numero piano, e intanto masticava.

«Pronto? Bene, grazie! E tu? Senti, devi correre qui al self-service... Quando? Oggi stesso. Anzi, fra poco, immediatamente! Devi mettere sotto contratto una fighetta che lavora qui dentro. Quale? Mah... reparto primi, ha i guanti di gomma, una trecciolina che spunta dalla testa quasi rasata. Si mette il rossetto su un solo labbro... Sì, sì, ha scritto un libro che dobbiamo acchiappare al volo! L’ho appena esaminato con attenzione. È la storia di un inventore di preservativi per solo glande, al quale vogliono fottere l’idea e brevettare per primi, mentre lui nel frattempo sta cercando di battere il Guinness dei primati di nuoto con la sola lingua. Ma poi salta fuori una tipa con un orecchio di vetro che gli fa la soffiata e allora lui la sposa e la porta in viaggio di nozze in un villino a schiera in una località dell’Asia Minore, con garage, dove scopre che lei è del tutto sprovvista di genitali esterni... Hai sentito che roba! Oh, sì, subito, subito! Al volo! Sì, sì, certo, domattina voglio trovare il contratto firmato sul mio scrittoio!»

Spense il telefonino, restò come sovrappensiero per un po’. Mangiò ancora due o tre forchettate di orecchiette allo zabaione, masticando e inghiottendo sempre più lentamente, con aria smarrita.

«Cosa c’è? Che cosa ti sta succedendo?» provai a domandare.

Alzò verso di me un volto improvvisamente disfatto.

«Che cosa ci sto a fare qui in mezzo?» balbettò.

Rimasi senza fiatare. Guardavo solo le goccioline del vapore all’interno della cupola di plastica che aveva ricoperto il piatto di pasta, sul tavolo vicino.

«Voglio dire...» riprese con sforzo, «io salto qui dentro, di tanto in tanto, di colpo, sparo a raffica le mie battute, faccio il buffone, potrebbe sembrare, alleggerisco un po’ la tensione, quando diventa così intollerabile che siamo vicini al punto di rottura, o magari è già stato superato da un pezzo, si viaggia dall’altra parte, non ci sono più stelle, strumenti di volo, rette certe, non si sa più verso dove si sta franando, ci si sta innalzando... Ma io non sono una spalla, non mi sento una spalla. Lo dico qui, per la prima volta, scopertamente, quasi al cospetto della Musa...»

Tremava un po’, una delle sue spalle veniva avanti di tanto in tanto da sola, sussultava.

«... In questa zona dove tutto appare magmaticamente vicino al punto di fusione totale, eppure ci si cominciano già a divincolare dentro con forza nuove voci e forme, ciò che ancora non esiste, non è mai esistito, esce da sotto terra, si alza, chiede forma, avvenire, all’inizio di questo nuovo millennio, viene già avanti calpestando e sognando, non lo si può più arrestare. Non abbiamo osservato i divieti, abbiamo sfondato, siamo andati dentro di colpo, con la spalla. Abbiamo rimesso in moto scelleratamente la ruota. Sono solo, come sempre. Ma è per questo che sono qui.»

Aveva alzato la testa, mentre mi guardava e tremava.

«Quanto al resto, siamo ormai sulle tracce della Meringa, come se non bastasse. Lo capisco bene, lo sento, qualche filo ce l’abbiamo già in mano, anche se bisognerà scendere sempre più in questi abissi. La cosa non mi spaventa, per me non è certo un problema. Anche se è ancora là avvolta in quella carta stagnola, assente, narcotizzata, e la stanno caricando da tutte le parti. La mia donna, la nostra donna. Ma qualche cosa in mano l’abbiamo e sento, e capisco, stando all’interno di queste strutture in tensione, che riusciremo a scendere fino a lei, che riusciremo alla fine a trovarla, a liberarla. E ad aprire quell’involucro di carta stagnola, e a svegliarla. Non ricorderà niente di quanto le è successo, aprirà gli occhi come per la prima volta, li girerà attorno. Chi di noi due si troverà davanti per primo? Chi guarderà per primo, se ci vedrà entrambi chinati sopra il suo involucro, quando glielo cominceremo a lacerare pian piano, per non farle altro male, e cominceranno ad apparire i suoi capelli, e i suoi occhi appena svegliati, la sua bocca. Sarà lei, che è stata per tutto il tempo così assente, inesistente, eppure così violata, così attraversata, sarà lei a decidere tutto, qui dentro, a quel punto, a dare o meno un suggello a tutto quello che si sta preparando, si sta lacerando. Non dico altro. Me ne starò in silenzio, la vedrò uscire dalla sua capsula di stagnola, la testa e le spalle, poi il resto del corpo, esiterò a guardare in che condizione saranno i suoi seni, il suo ventre. Come quando si staccava da me, sul letto oppure sul pavimento, quando mi fermavo la notte nella sua casa, in cucina, sulle piastrelle del cesso, contro il muro, dopo averla inseguita attraverso le stanze, col mio scarponcino. Le prendevo i seni tra i denti, quasi li inghiottivo, la scopavo di traverso sul letto che si spostava a ogni colpo, mentre stava con le gambe tutte spalancate e piegate al ginocchio, come spezzate, le cercavo le labbra mentre sbatteva la testa da tutte le parti, rantolava, per baciarle, per morsicarle, si sentivano le chiostre dei nostri denti sbattere le une contro le altre, mentre continuavo a cercarle la bocca e intanto a caricarla. Oppure in casa editrice, quando mi passava vicino e mi veniva voglia di mettere le mani sul suo corpo. Me la piazzavo sulle ginocchia, tuffavo la mia testa dentro il suo collo, tiravo fuori le tette, gliele inghiottivo, quasi le deglutivo, rumavo con la mano sotto mutande e collant, fra le cosce, nel buco del culo, faceva appena in tempo a divincolarsi dalle mie braccia e ad andare a chiudere la porta del mio ufficio, con gli abiti sbrindellati, i collant abbassati al ginocchio, a passi corti, mettendo fuori la sola testa per avvertire che l’editore era occupato per un’oretta, era maledettamente occupato, che nessuno lo disturbasse, neanche se aveva un appuntamento con qualche scrittore, che lo facessero aspettare nella saletta con la filodiffusione, gli specchi, che gli mandassero Bodyna a fargli compagnia, se si annoiava dopo avere sfogliato per molto qualche rivista, ed essersi osservato la figura che faceva la patta dei suoi calzoni, in uno degli specchi, e anche le orecchie appena rasate, ancora imprecisate. Tornava da me con la bocca sbrecciata, masticata, i vestiti sforzati, dissestati, la vedevo venire avanti a piccoli passi, il bianco delle mutande appallottolate nei collant abbassati. Mi alzavo dalla poltrona, le andavo incontro, di schianto. Finivamo a terra. Ci rotolavamo per terra, senza neanche sentire il duro del pavimento sulle ossa. Bisognerebbe sempre rotolarsi per terra abbracciati prima di scopare, e intanto baciarsi gli occhi e le labbra e morsicarsi e lacerarsi, e intanto le facevo sbocciare le tette da sotto il reggipetto, perché rimanessero tutte schiacciate e allargate, e lei intanto mi abbassava i calzoni e si conficcava il cazzo duro dentro la bocca, le venivano le lacrime agli occhi quando glielo spingevo così in fondo alla gola che non riusciva più a respirare, a deglutire. La rovesciavo di schiena, le aprivo il culo e glielo mordevo, glielo inghiottivo, con il muso schiacciato contro il suo buco tenuto aperto. La cominciavo a scopare sul pavimento. Mi piace scopare sul pavimento. Chi se ne frega delle ossa di chi sta sotto! E intanto mi tenevo issato sopra di lei con le mani sulle sue ginocchia ripiegate e allargate, quasi disossate, per contemplarla dall’alto mentre rantolava e smaniava. E poi ancora girata di culo, spingendoglielo dentro con forza, con furore, proprio là dove caga. Mi tiravo su calzoni e mutande, così com’ero, con il becco ancora sporco di merda, quando non si poteva più fare aspettare quel tipo. Lo guardavo con gli occhi incendiati, quasi cancellati, mentre mi illustrava il piano dell’opera aprendo la borsa, le cartelle. Cercavo di rispondergli senza tirare fuori troppo la lingua perché non si vedesse che era sporca di merda... Oh, cazzo, ma perché ti sto raccontando tutto questo? Per farti venire l’acquolina in bocca? Per farti sgolosare per bene la Meringa? Per incitarti a cercarla? Ma cosa c’è, adesso? Cosa ti sta succedendo? Sei impallidito! Stai male? Che cosa c’è, che problema c’è?»

«No, no, niente.»

«Lo vedi? Sono capace anch’io di raccontare questa roba qui, cosa credi!»

Andava nell’aria quella musichetta attutita, tramortita.

«Oh, non credere... perché poco fa mi hai visto in un momento di sconforto, di disperazione» disse il Gatto quasi senza smettere di trangugiare, e gli sgorgava dagli angoli della bocca un filo d’acqua che debordava, nella concitazione. «Anzi, non mi sono mai sentito così sfrenato. Sono entrato, mi sono catapultato. Si stanno creando qui dentro tutte le condizioni... A proposito, la conosci la storia dell’ornithodiplostomum?»

«No, che roba è? Mai sentita!»

«Io invece me la sono letta e riletta un sacco di volte. Allora, senti qua, ho con me la pagina di giornale.»

Tirò fuori un foglio piegato più volte, lo aprì prima di ricominciare concitatamente a parlare.

«Allora... l’ornithodiplostomum, sotto forma di stadio larvale, detto cercaria, raggiunge un certo pesciolino e gli si ficca nel corpo. Una volta dentro, viaggiando viaggiando, raggiunge il suo cervello e vi si installa. Adesso viene il bello. Senti un po’, perché è proprio quando si trova in quest’organo che il parassita comincia ad avere un effetto determinante sul pesce, alterando in modo utile quei comportamenti che hanno un significato antipredatorio, come lo stringersi in gruppo compatto e il nuotare giù verso il fondo. I pimephales parassizzati – così si chiamano questi stronzetti! – si cominciano infatti a comportare in modo tale da aumentare sensibilmente le loro probabilità di finire ingollati da qualche anatra tuffatrice. Questo rappresenta una precisa strategia del parassita che ha l’assoluta necessità, per terminare il suo ciclo, di trasferirsi nel corpo di un uccello. Infatti solo allora l’ornithodiplostomum può raggiungere la maturità e dare il via alla generazione seguente. Dall’intestino dell’anatra infestata escono quindi, dopo un certo periodo di tempo, i nuovi parassiti, sotto forma di larvette cigliate e queste, nuotando nuotando, sanno trovare e poi invadere una chiocciola. Dal corpo del mollusco, dopo alcune metamorfosi, sbucheranno le cercarie. Quelle che, dopo avere trovato un pesce ed essergli penetrate all’interno, grazie alla loro capacità di comandarlo, saggiamente appostate nella cabina di guida del suo cervello, sbarcheranno nell’anatra, sede obbligata per il raggiungimento del loro stato adulto... Allora cosa ne dici? Hai sentito?»

«Mah, non so, cosa ti devo dire... Ti ascolto.»

Appallottolò il foglio di giornale, con rabbia, lo buttò in uno dei piatti, in mezzo agli avanzi. Girava per i tavoli una ragazza intenta a raccogliere i cabaret di chi aveva finito, con le mani nei guanti di gomma trasparenti, il grembiule macchiato sopra la pancia, eiaculato.

«Oh, cazzo, qui bisogna sbrigarsi!» si riscosse il Gatto. «Quella tipa lì ha puntato da un po’ di tempo i nostri cabaret. Ma prima, comunque vada, bisogna buttare là qualche istruzione ai librai. Qui si va avanti ormai a grandi passi. Mentre noi stiamo ancora qui a sparare le nostre cazzate il libro si va formando per conto suo da qualche parte, da tutt’altra parte, direbbe qualcuno, non si capisce dove, cresce su se stesso, ancora un po’ e ce lo troviamo davanti bell’e fatto, continua ad andare avanti squarciato, inalberato, trova da sé il suo passo, si dispiega, corre a conquistare e a violare tutti gli spazi, se li inventa se non ci sono. E noi non abbiamo ancora un cazzo di niente! Non c’è un titolo, non c’è un cazzo di scaletta, di trama da cominciare a far circolare tra i redattori delle pagine culturali dei giornali, tra i venditori, i librai, perché comincino a fare quattro conti, a pensare alle ordinazioni...

Ai librai

Non so fra quanto tempo, non so in che modo, non so con che cazzo di titolo, ma vi arriverà prima o poi in libreria, con le solite schede della nostra casa editrice, il preannuncio di un libro come non ne avete mai visto. Non so che storie ci scriveremo sopra per invogliarvi a ordinarne molte copie, per infinocchiarvi, non riesco a immaginare cosa cazzo vi balbetteranno i venditori. Ma, insomma, in un modo o nell’altro questo libro arriverà nei vostri negozi. Lo scaricheranno i distributori con il carrello, ne porterete pile intere su quei trabiccoli a ruote, fino al vostro magazzino, se ce l’avete, o nel retro, o impilati lungo una scala. Qualcuno comincerà a sbirciare la copertina – perché, a quel punto, immagino che avrà per forza una copertina –, qualcun altro comincerà a buttarci un’occhiata dentro, aprendolo a caso qua e là, la ragazza che inserisce quelle striscioline antifurto magnetizzate, ad esempio. Andrà a farlo vedere all’altra commessa, a un commesso con i capelli a cresta e l’orecchino, che fino a un secondo prima stava ascoltando musica in cuffia sul trespolo di una delle casse, se la libreria sarà di quelle che hanno anche un settore musicale. Sgraneranno le palle degli occhi, si guarderanno l’un l’altra facendo quelle smorfie che fanno sempre i commessi più giovani, più aggiornati, tipo aprire la bocca, tirare fuori la lingua e contemporaneamente girare gli occhi con la testa tutta inclinata, prendendosi nello stesso tempo in mano la patta dei jeans di pelle di fenicottero e scrollandosela due o tre volte, a singhiozzo, con tutta quella mercanzia che ci sta dentro. Non saprete bene dove piazzarlo, se appena entrati a destra, come una torre, oppure nell’angolo più nascosto, o nel blocco centrale, con la prima copia in alto scellophanata (ah, andiamo bene, ho visto che fine hanno fatto le mie istruzioni ai cellophanatori!), perché il cliente che gironzola svogliato qua e là possa buttarci un’occhiata e fare quei gesti che fanno sempre i clienti delle librerie più aggiornate, tipo girare tutta la testa di lato, facendo ruotare il collo con la bocca tirata, e intanto guardarsi attorno emettendo nello stesso tempo aria dalle narici e deglutendo, e contemporaneamente stuzzicandosi una narice oppure il lobo di un orecchio affetto da dermatite, oppure controllando macchinalmente che l’assorbente sia al posto giusto sotto i collant, se si tratta di una cliente. Qualcuno darà di gomito a qualcun altro, se non sarà entrato da solo in libreria, gli farà vedere il tal capoverso, indicandolo con il dito, osservandolo da vicino con la bocca tirata, mentre l’altro leggerà con gli occhi sbarrati e intanto si leccherà i baffi, le ascelle, le animelle. Non vi dovrete meravigliare se cominceranno ad arrivare in negozio clienti che non avete mai visto prima. Entreranno con gli occhi sbarrati, gireranno per i banchi affamati, incontrollati, qualcuna lascerà una scia di sangue e di sporco, sul pavimento, di quello che cola sempre tra le gambe sgorgando fuori da certe fiche scoppiate, trasognate, dovrete tirare lo spazzolone quando avranno lasciato il negozio, strizzando lo straccio a ogni passata. Qualcun’altra entrerà con la bocca siliconata e squarciata, si avvicinerà a uno dei commessi con la scusa di chiedergli il libro. «Oh, cazzo, è già terminato!» dirà il commesso constatando che la pila sarà già andata esaurita. «Devo andare a prendere altre copie giù in magazzino.» «Oh, sì, in magazzino!» si animerà la cliente. «L’accompagno anch’io giù in magazzino! Andiamo giù assieme, io e lei, lungo le scale e poi nel ventre del magazzino dove sono accatastate le pile dei libri, e io prenderò la sua mano tra le mie, e poi il braccio, e poi le appoggerò la mia piccola testa sulla spalla, e poi le solleverò il maglioncino e poi la camicia, e la maglietta, se è di quelli che ancora la porta, appoggerò finalmente le mie labbra scoppiate sul suo cazzo in crescita forte, già tutto scappellato, lo prenderò dentro tutto, anche i peli, le palle, me lo conficcherò in fondo alla piaga della mia gola tatuata, si sentirà quasi svenire quando avvertirà le contrazioni del vomito comunicarsi al suo pezzo di carne, dalla mia gola e dal mio esofago tutto ingozzato...» Scenderanno assieme con gli occhi fuori dalla testa, tenendosi con le mani allacciate, stritolate, cercheranno un posto dietro una pila di libri, per terra, lei gli abbasserà i calzoni, gli scoprirà il ventre, il costato, si farà uscire le tette dal reggipetto perché lui possa vederle e prenderle in mano e stritolarle e uncinarle mentre lei lo mangerà buttata contro il suo pezzo di carne, con gli occhi rovesciati all’indietro, ringhiando, rantolando. Lo lascerà col cazzo tutto sporco di sangue, quando infine staccherà la sua bocca, come se l’avesse appena scopata mestruata oppure sverginata. «Accidenti, che clienti attira in libreria questo libro!» troverà appena la forza di dire il commesso un istante prima di risalire. «Non so neanche come ti chiami!» «Mi chiamo Pompina!» dirà lei tirandosi dentro le tette, prima di risalire le scale e di andare verso l’uscita con la bocca bagnata, tutta sbudellata. «Il libro! Il libro! Ha dimenticato di prendere il libro!» le correrà dietro il commesso con i capelli a spazzola ancora più diritti e sparati. «Tanto lo so già cosa c’è in quel libro!» esclamerà lei uscendo di spalla dalla porta a vetri della libreria, incurante dell’antifurto che suonerà all’impazzata, se in magazzino le si sarà appiccicata qualcuna di quelle striscioline magnetizzate sparpagliate sul pavimento, mentre stava buttata per terra, con le ginocchia, la pancia, i gomiti, gli avambracci, e intanto se lo buttava contro la bocca tenendolo per lo spacco del culo con le mani dalle unghie dipinte, tutte smerdate, tutte ingioiellate.

Arriverà poco prima dell’orario di chiusura anche un sacerdote. Entrerà chinando leggermente la testa, per una sua abitudine liturgica, forse, perché le porte d’ingresso delle librerie non sono in genere così basse da sbatterci il capo. Si aggirerà tra i banchi, senza fiatare, si sentirà solo il rumore delle sue scarpe dalle suole pesanti. Prenderà in mano qualche libro, ogni tanto, girando gli occhi da tutte le parti come in cerca di qualcos’altro. Troverà finalmente il libro di cui stiamo parlando. Lo prenderà dalla pila, mentre la sua mano tremerà a tal punto da far cadere di schianto un’altra pila vicina. Si metterà a quattro zampe per terra per cercare di rimediare, mentre una delle commesse si sarà già gettata per terra a raccogliere i libri. «Lasci stare, reverendo. Faccio io, ci penso io, non importa.» Si alzerà in piedi, passandosi una mano sopra la veste impolverata all’altezza delle ginocchia, si avvicinerà alla cassa per pagare il libro, faticherà a trovare il portafoglio sotto la veste, a contare i soldi, tanto la sua mano e il suo braccio cominceranno a tremare. «Che cos’ha, reverendo? Ha bisogno d’aiuto? Sta male?» gli chiederà la ragazza della cassa, allarmata, incrociando i suoi occhi rossi e pieni di vene. «No, no, la ringrazio» risponderà il sacerdote in un soffio, «non è niente, signorina, adesso mi passa. Faccio uso di droghe.»

Tanti altri passeranno a cercare quel libro. Persone mai viste e che mai più rivedrete, che al massimo vi capiterà forse di incontrare, per caso, di notte, mentre andrete con l’ultima corsa della metropolitana, e nelle stazioni avranno già cominciato a chiudere le entrate, con quelle portelle a fisarmonica di plastica oppure di metallo, mentre uscirete di spalla dalla fessura dell’unica piccola porta lasciata aperta, e nei corridoi sotto terra qualche inserviente sarà già intento a passare col bidone delle immondizie e la scopa, controllando che non sia rimasto nessuno nelle gallerie, oppure fuggevolmente, su un camion carico di mobili e di masserizie, durante un trasloco, oppure nel buio di una sala di un cinema porno, e non dico in sala, ma direttamente sopra lo schermo... Una però di sicuro vi rimarrà impressa. Entrerà tranquillamente, in silenzio. Non si avvicinerà nemmeno ai libri. Rimarrà sulla porta, si limiterà a fare un cenno a uno dei commessi, che correrà a servirla. Tutto il suo atteggiamento sarà perfettamente tranquillo, i suoi movimenti del tutto normali, rilassati. Per questo nessuno in libreria crederà alle sue orecchie quando la donna aprirà bocca per pronunciare il titolo del libro. Alzeranno tutti la testa per guardarla, levandola da qualche libro che stavano piluccando, oppure dai video dei terminali dove stavano cercando un titolo, un autore, come investiti da un turbine di vento. Si guarderanno con gli occhi sbarrati, senza fiatare, persino una commessa del negozio che magari nel frattempo sarà seduta sul water del gabinetto interno, quello per il personale, e si sarà appena passata un segmento di carta igienica tra le gambe. Sentirà il cuore martellare più forte, non avrà neppure il coraggio di uscire a guardare che cosa si sarà abbattuto di schianto sulla libreria. Si sentiranno solo gli scaffali tremare, i libri cominceranno a volare nell’aria, a turbinare, mentre la donna starà tranquillamente in attesa che le portino il libro richiesto, ritta sulla porta...

«Ah, bene, la donna che urla!» interruppi il Gatto. «Così almeno finalmente sapremo che titolo avrà questo libro!»

«Magari! La tonalità della sua voce è così alta che nessuno riuscirà a percepire distintamente il suono delle parole, nel piccolo spazio chiuso della libreria. Resteranno tutti senza fiatare, senza capire se si tratterà di voce umana oppure di qualcos’altro, un crollo, un boato, in qualcuno dei palazzi vicini, non riusciranno a ricondurlo a dimensioni sonore decifrabili... Mah, cazzo! Ti ci metti anche tu a interrompere, adesso?»

«No, pensavo...»

«Sì, sì, fai il finto tonto! Intanto abbiamo piantato a metà strada il discorso con i librai! Non l’abbiamo neanche iniziato, addirittura. Il commesso, stavo dicendo, starà impalato di fronte alla donna che urla, senza riuscire a muovere un passo. “Mi scusi, signora, non ho capito. Come ha detto?” proverà a balbettare. La donna che urla ripeterà una seconda volta il titolo, ferma vicino all’ingresso, usando l’imbocco della libreria come una grande conchiglia primordiale, mentre il commesso appena spompinato da quell’altra si dovrà afferrare alle pile dei libri per non volare all’indietro. “Mi scusi, potrebbe scrivermi il titolo su questo foglietto, per favore...” proverà a balbettare porgendole un foglio e una biro, coi capelli sparati, quasi scardinati. La donna lo guarderà con gli occhi sbarrati. Aprirà la bocca in un urlo che a qualcuno sembrerà di decifrare nel seguente modo: “Scrivere? Io? Ma per chi mi prende?”. Mentre il commesso rimarrà di fronte a lei ballando un po’ sulle gambe. La donna si guarderà attorno per qualche istante, smarrita. Poi scriverà rapidamente qualcosa sul foglio, con la bocca leggermente tirata, con disprezzo. “Ah, sì, sì, certo, ho capito! Corro a prenderglielo subito!” trasalirà il commesso allontanandosi tra le pile dei libri. Gli altri clienti riprenderanno pian piano a vedere, a respirare. Poseranno il libro che stavano piluccando sopra la pila, si vedranno distintamente, di lato, le loro teste e i loro colli spostarsi tutti assieme in avanti, per deglutire. Usciranno un po’ tramortiti dalla libreria, passeranno il giorno come un po’ assenti, inesistenti, sposteranno gli oggetti a caso, si laveranno i piedi con il collutorio per le afte invece che col sapone neutro alla vaniglia, prima di andare a dormire col pigiama con la bottoniera sul culo invece che dalla parte del becco, oppure della fica ancora tutta glassata, se sono donne e si sono dimenticate di sciacquarsi via il balsamo per fica dopo essersela lavata con shampoo all’olio di jojoba, e di asciugarsela col piccolo fon da viaggio, per fica. I commessi rimetteranno a posto come nel dormiveglia le pile dei libri crollate, diroccate, spostando le mani a caso qua e là, mentre farà il suo ingresso nel negozio – prova a indovinare chi – l’Interfaccia!»

«L’Interfaccia?»

«Sì, sì, proprio lei! Te la ricordi? Era in ombra, da un po’ di tempo. Qualcuno poteva persino pensare che ce la fossimo dimenticata, che ce l’avessimo messa dentro alla cieca, all’inizio, e poi non sapessimo più che farcene. Col cazzo che ce la siamo dimenticata! Anzi, è lei quella che più di ogni altro darà futuro, darà proiezione a questa storia! Allora, dicevo... entrerà col suo grande ventre nella strettoia antifurto dell’ingresso...»

«Perché col suo grande ventre?»

«Ma perché sarà piena, mio caro, a quel punto, al nono mese!»

«È incinta? Ma davvero? L’Interfaccia è incinta? E com’è successo?»

«Com’è successo? Come sta succedendo, vuoi dire! Perché in questo stesso preciso momento, mentre noi siamo qui a blaterare, e intanto quella ragazza che porta via i cabaret ci ronza intorno in cerchi sempre più stretti, con le sue manine in quei trasparenti guanti di gomma... chissà se se li toglierà prima di fare una sega al suo ganzo, dietro la portella delle cucine? Ma stavamo parlando dell’Interfaccia... È uscita di casa da poco, dopo essersi fatta la doccia, e poi frizionata e profumata, ed essersi messa la biancheria pulita, e avere scelto accuratamente gli orecchini, gli anelli, frugando nella sua ciotola ricolma di piccole cose tintinnanti, col dito dall’unghia smaltata, si è appena premuta due o tre volte macchinalmente le labbra per distendere meglio il rossetto. È uscita di casa, ha chiuso a chiave la porta, ma come se lasciasse dietro di sé una casa incendiata, oltrepassata. È scesa a piedi lungo le scale, facendo risonare i gradini con le sue scarpe dagli alti tacchi, è uscita nella strada gremita, sbattendo un po’ gli occhi per la luce. Ha camminato a lungo così, scorgendo di fronte a sé l’ombra delle sue lunghe ciglia a ogni battito delle palpebre, prima di chiamare un taxi. È salita sul sedile di dietro, passandosi una mano sul culo prima di sedersi, perché la gonna non facesse le grinze e, mentre la macchina si sposta nelle vie gremite della città, ecco che si sorprende per un istante a pensare: “Adesso sono una cosa. Fra un po’ sarò un’altra cosa. Il mio utero si sposta come una mina vagante, qui in mezzo!”. È scesa facendo scivolare il bacino di lato, sul sedile, perché si era seduta al centro. Ha pagato la corsa e, quando il taxi è ripartito senza fare rumore, alle sue spalle, ha alzato gli occhi verso le finestre della banca del seme, prima di muovere i primi passi sui gradini della scala d’ingresso... Ecco, vedi, ti sto raccontando quello che ha fatto finora e siamo arrivati al punto in cui i tempi di questo racconto coincidono con quelli di ciò che sta succedendo qui dentro. Come si fa in questi casi? Si fa che si alzano le spalle e si tira dritto, si passa dall’altra parte! Accidenti, stavolta si sta dirigendo proprio qui, quella stronzetta, coi suoi guantini tutti eiaculati... Ecco, in questo momento l’Interfaccia è già pronta sopra il lettino. Sopra di lei la dottoressa sta preparando l’occorrente per l’inseminazione. Ha già scongelato, a temperatura ambiente, due paillette di liquido seminale, tirandole fuori con la pinzetta dal bidone fumante pieno di azoto liquido. Porta, come sempre, i jeans sotto il camice bianco, da cui spuntano un paio di scarponcini da roccia. L’Interfaccia è tranquilla. La dottoressa le parla di tanto in tanto. “Come mai ha scelto questa forma di inseminazione?” le chiede la dottoressa. “Una donna come lei...” “Sono sola” le risponde sorridendo tranquillamente dal basso l’Interfaccia. “Ma perché?” le chiede ancora la dottoressa. “Basta pensieri! Voglio rompermi! Voglio andare in pezzi!” La dottoressa arrossisce, sorride, scoprendo per un istante i suoi denti un po’ guasti sul suo viso infantile. Intanto maneggia la speciale siringa, facendo ruotare le sue mani piccole e magre, i suoi polsi sottili. “Ecco... apra bene le gambe” le sorride avvicinando al suo corpo la siringa. “Sta per fare irruzione qualcosa di incalcolato, qui dentro. Da questo istante sta cominciando per tutti noi il tempo dell’attesa.”»

Il tempo dell’attesa

Cara Musa, nessuno mi ha detto niente, io non so niente. La dottoressa mi ha sorriso come sempre prima di salutarmi, mi ha stretto solo un po’ più forte la mano con quella sua mano infantile, mi è parso, mentre mi guardava con gli occhi animati, come non fa in genere con gli altri donatori di seme. La ragazza dell’accettazione mi ha salutato come le altre volte, anche se mi è sembrato che i suoi occhi mi seguissero più intensamente, mentre uscivo girato di schiena. Non una parola, un accenno, eppure da mille piccoli segni capisco, percepisco che qualcosa di enorme sta succedendo, è successo. Quello che né la dottoressa né nessun altro poteva comunicarmi me lo si è fatto capire in altro modo. Sono qui, come sempre, nella mia storia, intento a portare avanti il mio lavoro su quel videogame, in un momento di tregua della guerra che sta crescendo sempre più in questa casa, da quando ci siamo sentiti l’ultima volta, indosso il pigiama, il mio letto è pronto, appaio confinato nell’angolo più lontano, più buio, la mia figura sembra la più imprecisata, la più allontanata. Eppure sento che sta crescendo il mio ruolo generativo qui dentro, la mia figura si è aperta, è esplosa, il mio punto d’inizio ha toccato improvvisamente il suo punto d’inizio. Scatta in questo magma un progetto di stirpe nuova. Io sto tranquillo, consumo come sempre i miei pasti, mi vesto con cura, sbadiglio. Ma so che è cominciato anche per me il tempo dell’attesa.

In questo momento Grazia sta dormendo nella sua stanza. Per questa notte è finita. Le ho medicato le labbra, ma la sua bocca ha sporcato ugualmente il cuscino, la ripiegatura del lenzuolo, la sua vestaglia. Anche Pericle sta dormendo profondamente nella sua stanza. Le nocche delle sue mani sono ferite, ha una piaga sopra una guancia, è ustionato, dove Grazia gli ha gettato addosso del cibo rovente. Sono successe cose orrende, qui dentro, ultimamente. I muri sono sporchi di sangue qua e là, devo dargli di tanto in tanto una mano di bianco per cancellare i segni della loro guerra. Non so che motivazioni dare, cosa inventare, quando viene il medico in casa a drenare qualche piaga che ha suppurato, a cucire qualche taglio più profondo degli altri. Trovo nel secchiaio, sul piano della doccia e nel lavandino, le tracce fresche della loro guerra. Non mi chino a guardare di cosa si tratta. Socchiudo gli occhi, mentre l'acqua si sta convogliando nello scarico, aiuto i pezzi più grossi a staccarsi, con la mano, se c'è bisogno, senza star lì a guardare, senza giudicare. Certe volte, quando è notte fonda, sento piangere qualcuno di loro, a distesa, non capisco mai se sono svegli o se stanno dormendo o addirittura sognando. Li rivedo di mattina con l'aria tirata. A qualcuno trema un labbro, la guancia, oppure uno degli occhi, mentre fissa l'altro intento a prepararsi la colazione. Vedo sbocciare un sorriso spaventoso e improvviso sulle labbra di Grazia, segno che sta fantasticando di gettare la faccia di Pericle contro la fiamma del fornello, mentre l'altro intercetta il sorriso anche se è girato di schiena. Lo vedo tremare per tutto il corpo, un istante prima di voltarsi e di gettarsi su Grazia colpendola più volte sul volto, strappandole manciate di capelli, mentre lei gli conficca una forchetta, di sbieco, nella tempia. Pericle va in giro per tutto il giorno con la forchetta attaccata, come se niente fosse. La vedo oscillare sulla sua tempia a ogni morso, mentre fa colazione. Si veste, si pettina, si lava i denti, gira per casa. Si ferma ogni tanto di fronte agli specchi, per guardarsi. Devo convincerlo pazientemente a farsi togliere la forchetta da me, a farsi medicare la tempia, mentre Grazia trema e piange nella sua stanza... Ma adesso tutto tace, è tutto sotto controllo, tranquillo. La casa dorme. Anche dagli altri appartamenti non viene il più lieve rumore, è tutto fermo. Le tubature degli scarichi asciutte, il rumore dei corpi che vanno in disfacimento nel sonno, tutte le cose, i pensieri, i microrganismi che soffrono dentro la polvere, lo spazio, le carcasse vuote e rotanti di pianeti, di stirpi. Certe volte ci penso. La mia dedizione, la mia purezza... Oh, che cosa ho fatto, che cosa ho fatto!

Sono abbastanza avanti col mio lavoro. La situazione è questa: ormai i due gruppi combattono senza quartiere, interagiscono in modo devastante tra loro e con l'ambiente esterno metropolitano notturno, si spostano sui loro trampoli e sui loro roller fosforescenti tra figure in solid modeling, gli ambienti interni ed esterni sono definiti con cura, in ray tracing, sto studiando l'inserimento di cloni naturali. Tutti i problemi delle dinamiche e del movimento sono stati risolti. Carrellate, deformazione di movimenti ascensionali e di spazi, contemporaneità germinali di azione. Ho inserito anche altri personaggi: Ditalina, Pompina, il traslocatore, quel sacerdote, le svere... Chi sono le svere? Lo vedrete! Colori dei cascomaschera, becco o rostro che si allunga davanti, per lo più insanguinato, dopo che si è conficcato nel corpo del nemico al termine di un combattimento. Tutto ormai definito. Non ho ancora risolto il problema del combattimento finale tra i due capi, se deve avvenire in seguito ad accumulo di punteggi oppure a jolly. Ma c'è tempo prima che questo avvenga, mi pare. Troverò la forma, la nuova forma, prima di allora.

Faccio scorrere sul video il lavoro già fatto, rivedo alcuni passaggi, saggio tutte le possibili potenzialità del menu, ridefinisco meglio un gesto, un particolare, come un pittore che operi direttamente con la luce. Ecco, in questo momento stanno passando in modo devastante attraverso una grande via illuminata, e si vedono da tutte le parti per terra carcasse di corpi annientati, fiamme, mentre sfrecciamo a nostra volta come dentro le maschere delle loro teste puntate, sguinzagliate...

Canto dei roller e dei trampolieri

E vogliamo andare non solo nelle strade, dentro le case, passare attraverso la feccia di stupranti e stuprati, di esplose, ma entrare anche in quei set porno che ci sono qua e là sotto terra, continuare a combattere anche là dentro tra la melma dei corpi, le luci sfondate, dissanguate, e poi sfrecciare dall'altra parte, col becco del cascomaschera tutto smerdato. E vogliamo anche veder sfrecciare il camion del traslocatore, qui in mezzo, per afferrarci a quello con la mano e fare un pezzo di strada come volando, sui nostri roller, mentre noialtri in cima alle torri dei nostri trampoli fosforescenti sbadigliamo dall'alto aumentando solo di poco i nostri lunghi passi nei nostri lentissimi eppure sfrenati inseguimenti, andando in mezzo a quei blocchi di corpi inculati, insanguinati. E ci vogliamo dentro anche l'immagine pubblicitaria di quella ragazza con l'assorbente, e le altre, di quelle creature che nascono per caso qua e là in piena notte, e nessuno le vede, se ne accorge. Come le svere. Chi sono le svere? Sono creature femminili prive di naso, con gli occhi e la bocca collocati a una vicinanza estrema sul volto, perché i manifesti pubblicitari su cui per la prima volta sono apparse erano a due sezioni e non c'era abbastanza spazio sui cartelloni, così gli attacchini hanno dovuto sovrapporre un po' le due parti, cancellando la parte centrale del volto. Adesso si spostano assieme alle altre creature che incontriamo qui in mezzo, di notte, si sono fatte siliconare a loro volta le labbra, succhiano cazzi con quelle loro grandi bocche scoppiate, quasi a filo con gli occhi.

Forza, prepara nuovi storyboard, dacci dentro col betweening! E ci vogliamo anche quella donna che urla, e l'investitore. E vogliamo passare anche dalla banca del seme, da quella chiesa dove c'è quel prete drogato, entrandoci dentro mentre non c'è nessun altro oltre a lui, è tutto buio e deserto, come in una cisterna... Oh, cazzo! Che sia un clone? Ma, se è un clone, un clone di chi?

Canto del sacerdote

Sono ancora qui. Sto rimettendo a posto i banchi sconvolti dal loro passaggio, rovesciati, perché si sono dati battaglia anche qui dentro entrando con quei loro trampoli fosforescenti, per pochi istanti, prima di sfrecciare fuori di nuovo. È rimasta per terra un po' di quella brodaglia colata dal rostro di uno di quei cascomaschera, perché uno di loro è stato annientato e poi squarciato a colpi di becco, tra un fragore di punti. Sto passando lo straccio sul pavimento, spostandomi per la chiesa con il secchio fumante e lo spazzolone, anche se non è improprio il sangue, qui dentro. Vado a controllare che non sia schizzato niente sui gradini dell'altare, sulle tovaglie, muovendomi nella chiesa deserta, in penombra, in quest'ora buia e spostata, addormentata. Passo a dare un'occhiata anche nel piccolo battistero che c'è appena entrati, controllo che non abbiano intorbidato l'acqua che c'è nella vasca di pietra, per terra. È assolutamente immobile, trasparente, quando entro qui dentro, in questo silenzioso stanzino, sento a tal punto la Sua presenza che mi manca il fiato. Salgo a controllare il tabernacolo. È una fortuna che sia ancora sopra l'altare, nella mia chiesa. Come farei altrimenti a piegarmi e quasi a entrarci dentro con la testa e le braccia, durante la messa, quando mi abbasso per consacrare e tutti nella chiesa stanno a capo chino, in silenzio. Il mio corpo trema, piegato in due come un ramo che si sta per spezzare. Contemplo con le lacrime agli occhi il lacerto di quella cristica apertura scuoiata su quel ritaglio di giornale che tengo nel tabernacolo, mentre con le mani e parte degli avambracci là dentro comincio a preparare la dose. La sciolgo con l'acqua distillata che tengo nella sua piccola vescica di plastica, vicino a un mezzo limone, la scaldo sul cucchiaio con la fiammella di un accendino, di quelli che vendono per le strade i marocchini, cercando di non lambire la pisside piena traboccante di particole consacrate, aspiro con la siringa, mi stringo il laccio emostatico, tirandomi un po' su i paramenti sul braccio. C'è un piccolo bazar di cosette, dentro il mio tabernacolo, eppure per ognuna ho trovato il suo posto. Sparo in vena, lascio cadere rapidamente la siringa insanguinata, là dentro, prima che arrivi la botta che mi lascia instupidito e incapace di ogni più piccola azione, per qualche istante, per qualche minuto, quando va bene. Oppure più a lungo, se mi hanno rifilato della roba tagliata male. Barcollo sull'altare come qualsiasi tossico in overdose. Sulla mia faccia deve di sicuro stamparsi un'espressione sballata, mentre mi sposto a piccolissimi passi, ingobbito, scorgo appena i contorni delle mie mani che cercano di afferrare la pisside, sento appena quelle voci che salgono di colpo dal resto della chiesa, dal coro, se è messa cantata. Perché lo faccio? Perché non ve l'ho detto prima? Com'è cominciata? Lasciamo stare... Certe volte, quando sono così sull'altare, e non riesco a muovere un passo, e sento tutt'intorno quelle voci ancora più emozionate, perché scambiano quanto mi sta succedendo per l'intensità della mia adorazione, e sento scoppiare in fondo a me stesso la mia evidenza turrita, mentre vado per stati limbici, precedenti la caduta, la colpa, eppure in una fusione pentecostale, consustanziale, passano nelle gelatine della mia mente immagini di mondi increati, prelustrali. «Oh, Signore» prego con le lacrime agli occhi, «fa' di me una forma increata, una cosa non esistente. Ma non come cosa che sia esistita e che poi abbia cessato la sua esistenza, anche se non dovessi essere più niente, ricordare più niente, fa' di me cosa inesistente da sempre, per sempre, che possa stare tutto dentro l'abbraccio del mio non essere, tutto dentro il tuo abbraccio, dove niente può esistere perché possa esistere, come in uno spazio buio e cieco e profondo e senza messinscena di stelle.» Capisco che non riesco a frenare le lacrime, sto con gli occhi sbarrati, ingobbito nei miei paramenti, come una grossa scimmia paralizzata di colpo dalla grazia. Sento salire ancora di più il canto emozionato delle donne, mentre non riesco più a muovere un passo per lo sballo. Il labbro inferiore mi pende, perdo la bava, mi inclino ancora di più, sembra che mi stia addormentando di sbieco nello spazio. Non so quanto tempo passa, se passa, prima che riesca ad afferrare la pisside traboccante di ostie e a barcollare verso i fedeli in attesa con le bocche già spalancate e le lingue fuori, sollevando a fatica un passo dopo l'altro come se i miei piedi fossero conficcati in una colata di metallo, se un secolo o solamente pochi istanti, ma immagino in questa frazione di tempo, o di non tempo, mentre me ne sto da qualche parte, da qualche altra parte, in sogno, in visione, di trovarmi in spazi così cancellati che non riesco neanche a capire, al momento, che mi trovo in alta montagna, in mezzo a cime così innevate che non si vede niente. Anche il cielo è bianco. Sento solo il rumore di forme che mi sfrecciano ogni tanto dalle parti, così veloci che non riesco neanche a distinguere di cosa si tratta, non riesco a cogliere neanche il colore filante degli sci, mentre sto con gli occhi incantati, abbacinati, perché porto lenti per difendermi dal riverbero del sole sulla neve. E non si vedono case, se ci sono case, o perlomeno rifugi, tanto tutto è coperto e annullato dalla neve. Sento solo, dalle parti, quel rumore degli sci che volano sulla neve pressata, trasognata. Poi qualcuno si arresta vicino a me, all'improvviso. Vedo di colpo materializzarsi la sua figura e il suo volto che sta cominciando a parlarmi dietro la nuvola del fiato. «Padre, in questo preciso momento lei è attesa da Sua Santità» mi annuncia, «nei suoi appartamenti privati.» Mi guardo attorno. «Qui? In questo posto?» balbetto. «Oh, sì» dice l'uomo, «adesso si trova qui il Vaticano!» «Davvero? Ma dov'è? Non lo vedo» gli dico, «non si vede niente.» «È là, su quella montagna» mi indica sollevando la racchetta con la sua mano guantata, «è caduta molta neve, stanotte, non lo si distingue quasi.» Lo guardo meglio. Solo allora mi accorgo che indossa una tuta da sci colorata, gli scarponi, e che ha uno zucchetto da cardinale alla sommità del casco. «Venga, padre» mi dice, «l'accompagno...» Oppure che il Vaticano è stato trasferito in un posto diverso ancora, a Los Angeles, per esempio, e che dentro ci siede il nuovo papa, Elvis I. Mi manda a convocare, in un momento di questi, mentre sto così fulminato sopra l'altare. «Allora ha saputo!» mi dico salendo le scale. Non mi rendo neanche conto se ho fatto in tempo a togliermi i paramenti. Mi aspetta sulla porta dei suoi appartamenti privati. Mi getto in ginocchio. Gli bacio la mano. «Santità» provo a dirgli, «non sapevo che fosse stata trasferita qui la sede di Pietro! Quando è successo?» Mi fa entrare, sorride, come se non mi vedesse. Gli parlo a lungo, confusamente, con le lacrime agli occhi, come sto facendo anche adesso. Non credo che mi senta, perché nel frattempo ascolta musica in cuffia. Ogni tanto si alza, ancheggia un po', gli scende maggiormente sugli occhi un grande ciuffo imbrillantinato. Ma prima di congedarmi mi dice solo, con quel suo accento: «Okay, va' avanti così! Vai bene così! Sei okay!». Allunga un braccio, mi fa quel gesto col pollice in su, mentre qualcuno mi porta fuori come in deliquio dalle stanze, e poi attraverso altre sale e altri cortili e altre scale, come adesso che sto cercando di barcollare giù da questi gradini e non so neanche che cosa vi sono andato dicendo fin dall'inizio, durante questo sballo un po' più tremendo degli altri, mentre avanzo tutto inclinato con la pisside in mano, sollevando una dopo l'altra le scarpe come da una colla vivente, non so perché, non so come, non so verso dove, eppure verso zone che percepisco ancora più vibranti e più interne, verso il cuore stesso della cerimonia di questa esplosione, mentre il canto sale nuziale, prenatale, con la mia sbalordita proposta di comunione, di consacrazione...

«Eccoci, noi siamo qui, siamo ancora qui! Abbiamo aspettato qui. Non abbiamo indietreggiato, non abbiamo tremato. Siamo stati qui, sempre qui, nel frattempo. Abbiamo fatto crescere oltre noi stessi la nostra tensione, siamo stati pazienti, potenti, conseguenti. Ecco, adesso siamo qui, uno di fronte all'altra così, nudi e lucenti, e io mi sono tutta lavata, depilata e poi profumata, a poco a poco, lentamente, fin dall'inizio, fin dal primo momento che ti ho visto, senza fretta, mentre tutt'intorno ai nostri corpi sessuati questa storia esplodeva, germinava. Io sono la tua puttana serbata, la tua gemma creata. Ma adesso il momento è arrivato. Il telefono è stato staccato, la casa del nostro incontro è completamente isolata, oltrepassata. Stiamo uscendo con un passo di sbieco dalla grande conchiglia lucente della vasca, i nostri corpi sono lavati, i nostri genitali sono arrapati, addormentati. Ho già accolto il tuo pezzo di carne nella mia bocca muschiata, sei entrato nella mia fica con la tua mano ispirata, consacrata. Ecco, ti metto le braccia al collo, mi faccio sollevare nell'aria da te, mentre sto tutta nuda e raccolta contro il tuo petto, gli occhi chiusi, la bocca contro il tuo collo, contro la tua bocca, mi stai già portando verso il mio letto nuziale, dove nessun altro si è mai coricato oltre a te.»

Il pavimento sbalzava. Sentivo i piedi nudi scricchiolare, cantare, mentre portavo tra le mie braccia il carico profumato e vivente della Musa.

La posai piano sul letto, mentre mi continuava a tenere abbracciato, mi baciava.

«Ecco, vieni qui, io mi apro di fronte a te, come non ho mai fatto con nessun altro, apro di fronte a te la mia fica salata, perché tu possa ancora chinarti sopra il suo ingresso con la bocca, col volto, e intanto faccio un giro con tutto il corpo, sul letto, per prenderti in bocca ancora una volta il cazzo tutto puntato, e poi baciarti e poi respirarti il sacco delle palle tutto sollevato e indurito, mineralizzato. Ecco, adesso sì, noi cominciamo soltanto adesso, quando tutti gli altri avrebbero già finito da un pezzo, a lungo, molte volte, senza stancarci, per tutta la notte, ci attaccheremo e ci staccheremo e di nuovo ci attaccheremo, non capirai neanche dove finirà la mia fica e dove comincerà il tuo pezzo di carne e neanch'io capirò dove finirà la mia fica e dove comincerà il tuo pezzo di carne, e io starò dopo ogni volta tra le tue braccia con tutta la mia carne goduta, le cosce aperte, colanti. E ci baceremo e ci morsicheremo e ci respireremo, sempre più allagata dopo ogni volta, sempre più trasognata. E poi ancora, sempre più assenti dopo ogni volta, sempre più lucenti. E intanto, tra una scopata e l'altra, stiamo abbracciati e sussurriamo e parliamo, oltrepassiamo. Ma adesso chiudo la bocca, mi spalanco ancora di più di fronte al tuo cazzo puntato, sono tutta abbracciata e affamata, addormentata, mentre sento che stai già entrando dentro di me con violenza...»

«Ma questo libro è la storia di una scopata! Adesso ho capito!»

Mi girai verso il Gatto.

«No, no, niente da dire, per questo, lo so anch'io che tutti i libri, a guardar bene, non sono nient'altro che la storia di una scopata. E non è neanche che voglia mettermi in mezzo a voi, proprio adesso, sul più bello, cosa vai a pensare... Ti ho portato io dalla Musa! Però mi sembra, mi sembrava, che qualcosa stesse cambiando, fosse cambiato, qui dentro, di avere raggiunto una posizione che mi desse l'autorità di poter dire la mia anche in questo momento, persino in questo momento, di poter fare arrivare la mia voce fino al cospetto della Musa anche adesso, proprio adesso... Volevo dirti che io continuerò a bussare e a gridare. Solo questo.»

«No, resta dentro di me, sta' tranquillo, non riusciranno a staccarci. Ci sentiamo pulsare l'uno dentro l'altra, anche i nostri cuori, mentre sto tutta molle nelle tue braccia, tutta goduta, con le tette schiacciate contro il tuo corpo che ancora trema di tanto in tanto per l'intensità dell'orgasmo. E anch'io tremo. Anche il tuo cazzo ancora gonfio nella mia pancia. Per quanto tempo abbiamo aspettato, ci siamo preparati! Per quanto tempo l'hai trattenuta, mi hai inondata! Che cos'è successo, mentre eravamo così fuori da noi stessi? Qualcuno ha suonato? Qualcuno ha parlato, ha disturbato? Non ho capito, non ho sentito. Noi andiamo avanti. Non staccarti, fammi stare abbracciata, stiamo ancora l'uno nell'altra, e intanto la tua cosa rovente continua a sgorgare dentro la mia pancia, mentre ti tengo la bocca contro una tempia, contro gli occhi, e ti sussurro qualcosa, ti racconto, ti ispiro, prima che tu entri di nuovo dentro la mia fica, la mia bocca, il mio culo, a capofitto, e che io spalanchi di fronte a te la mia fenditura schiumata, la mia gola sessuata, la bocca del retto. Ma adesso stiamo così per un po', stiamo qui, uno nella bocca dell'altra, come due scimmie ispirate, profumate. Non pensiamo più a niente, non ci ricordiamo più niente, neppure di quella donna avvolta nella carta stagnola che starà dormendo da qualche parte sotto narcosi, in attesa che qualcuno la raggiunga, la salvi, chissà dove, chissà in che modo, estraendo il suo corpo violato da quell'involucro luccicante. Del tutto indifesa eppure potente, la più potente. No, no, non è vero, non mi sono dimenticata di lei, non ho dimenticato la mia promessa. Non ho smesso mai di cercarla, da quando ci siamo messi in testa che ci sia la Meringa, là dentro. Sono sprofondata in certi luoghi che neppure io avrei mai creduto esistessero. Ho disceso una dopo l'altra le scale. Tu non hai idea di quante scale ci siano, che scendono in basso, nelle case. Ho ficcato il naso, e anche qualcos'altro, in certi set dove non ero mai andata. Qualcuno mi ha detto di averla vista per qualche istante senza la sua copertura di stagnola, mentre la lavavano nuda con la canna, sul pavimento di un cesso, in uno studio foderato con materiali ignifughi, perché là usano il fuoco... "Davvero? Che faccia aveva?" gli ho domandato con ansia. Ha scosso la testa. "Nessuna faccia" ha risposto. Mi sono mancate le gambe. "Nessuna faccia?" ho provato a incalzarlo, "gliel'hanno bruciata?" Ha alzato le spalle. "Ma no, non mi pare" ha detto con noncuranza, "è solo che aveva tutta quella schiuma bianca, antincendio, sulla faccia, sui capelli e anche sul corpo, dentro la fica, e le facevano scorrere sopra l'acqua con forza per mandarla via. Non si vedeva niente. Poi l'hanno richiusa in quel suo involucro di stagnola. Quel laringectomizzato l'ha presa tra le braccia, si è allontanato." Sono riuscita a parlare con quella bambina, per alcuni istanti. "Ma i capelli... le avrai almeno intravisto i capelli" ho provato a dirle, "vivendo assieme a lei nella stessa stanza, per qualche giorno... Quel laringectomizzato l'avrà lavata, l'avrà pettinata!" La bambina mi guardava fisso, ma come se non mi vedesse. "Be', una volta ho provato a spostarle un po' quella carta stagnola, sulla testa, per vedere di che colore aveva i capelli" ha sospirato alla fine. "Ah, sì? Ecco, lo vedi! E come sono?" "In quel momento aveva la testa tutta avvolta in una garza. Non li ho visti." L'ho tenuta un po' per gli ossicini delle braccia, mentre lei continuava a fissarmi. "È bella quella molletta che hai nei capelli!" mi ha detto alla fine, perché in quel momento portavo una spillina con la capocchia di madreperla tra i capelli, anche se li tengo corti. "Ti piace? Te la regalo" le ho detto mettendola tra i suoi capelli. Non mi ha ringraziata, non mi ha sorriso, però ho capito che un po' contenta lo era dato che ha abbassato gli occhi e poi se n'è andata. Sono rimasta impalata, per un po'. Poi qualcuno mi ha fatto spostare, perché stavano lavando il pavimento che era sporco di sangue, dal momento che c'erano state da poco le riprese con quella ragazza che prima faceva pubblicità per una marca di assorbenti, mi pare...»

Girai la bocca verso la Musa, che aveva adesso la testa sulla mia spalla.

«Quella ragazza? È finita anche lei nell'industria porno?»

«Be', sì... Anzi, è molto richiesta, ho saputo, per via dell'abbondanza del suo flusso. Girano le scene così, mentre è mestruata, si vede il getto del sangue che schizza fuori a fontana tra le sue gambe, a ogni colpo di cazzo... Oh, ma forse ho parlato troppo, sto parlando troppo. Sento che anche il tuo pezzo di carne ha voglia di aprire di nuovo il mio corpo, da quale parte non so, dove vuoi tu, è sempre lo stesso corpo che aspetta di essere visitato, di essere inondato. Ecco, sì, adesso mi giro, mi metto a quattro zampe di fronte a te, in modo che tu abbia davanti agli occhi e così vicini l'una all'altro la mia fica e il buco del culo. Vedi tu, scegli tu, puoi prenderli anche tutti e due, se lo vuoi, uno dopo l'altro, passando da un buco all'altro, mentre nell'aria si spanderà il nostro odore muschiato. Sì, sì, la notte è lunga, siamo solo all'inizio. E poi ti racconterò altre cose che ho visto, che ho saputo. Di un tizio di un'agenzia pubblicitaria che sta cercando per mare e per terra quella ragazza dell'assorbente, ad esempio... Oh, sì, sì, basta, adesso taccio. Chiudo la bocca. Anzi la apro, la spalanco. Adesso sentirai venire da me solo rumori nuziali, prenatali...»

«Un momento. Mi scusi. Questa storia, mi pare, spetterebbe a me!»

«Oh, cazzo, e chi è questo qui?» chiese il Gatto.

«Sarei Lanza, quell'ispettore...»

«Ah, sì, Lanza! Ma adesso si mette a interrompere persino lei?»

L'ispettore Lanza arrossì.

«Come... non si ricorda? Mi aveva detto lei, in casa editrice, che c'era posto anche per me, che potevo entrare quando volevo, qui dentro, senza domandare permesso, mentre parlavamo nel suo ufficio di quella sua segretaria scomparsa. L'avevo portata io quella storia della ragazza con l'assorbente!»

«Oh, sì, cazzo, d'accordo! Si capisce, mi ricordo sì di averglielo detto! Ma non vorrei che poi quello là dica, si metta in testa, che l'ho tirata fuori io sul più bello, ancora una volta mentre loro due ci stanno dando dentro a scopare. Insomma, lei mi capisce! Per mettermi in mostra di fronte alla Musa, per mettermi in mezzo, per sostituirmi a lui, addirittura, che può dire... È un bel problema! È la prima volta che qui dentro succede una cosa così. E poi anche questa ragazza con l'assorbente che è saltata fuori di nuovo da un'altra parte. No, no, non sto dicendo a lei. Lo so, lei non c'entra... Ma poi, forse, alla fine, adesso che mi ci fa pensare... Sì, sì, certo! Basta con quella storia! Non è più come al tempo di quei personaggi che si presentavano all'autore con il cappello in mano. Macché! Avanzano pretese, adesso, sono sempre scontenti di dove stanno, pretendono sempre cambiamenti, sviluppi, non stanno più al loro posto, si permettono di cambiare di testa loro le situazioni, senza chiedere niente a nessuno, minacciano continuamente di uscire dalla loro storia e di passare a un'altra storia, a un altro autore, addirittura. Alzano continuamente il prezzo. Libero mercato anche qui! Ma vorrei dirle... Insomma, non so se il suo passo sia ancora adatto, nel posto dove ci troviamo adesso, in questo ambiente, dove non bisogna arrossire, non bisogna tremare. Non sono posti per scarpette coi tacchi, baciamani. Non so se si rende conto...»

L'ispettore Lanza arrossì di nuovo, senza abbassare gli occhi.

«Sì, sì, capisco cosa vuol dire, me ne rendo conto, ma vedrà che, anche con il mio passo, non mi fermerò di fronte a niente e a nessuno, non chiuderò gli occhi. Oh... non creda, non giudichi dalle apparenze. Io non perdo mai di vista lo scopo della mia presenza qui dentro!»

«Va bene, va bene. Che cazzo le devo dire. Sentiamo!»