L’art
Da quando la ragazza con l’assorbente era scomparsa dalla casa albergo, l’art stava male un giorno sì e uno sì, era sempre via con la testa e aveva persino sbagliato la brand image di un’importante campagna per un bagnoschiuma omeopatico per la terza età.
«Perché non mi ha detto niente? Dove sarà finita?» si domandava continuamente, anche quando era in agenzia, di fronte al copy, e parlava distrattamente con l’account executive che si muoveva di continuo sulla sua poltrona girevole perché soffriva anche lui di emorroidi, mentre ingurgitava al self-service un’insalata di germogli di soia con maionese, mentre ascoltava musica in cuffia seduto sulla tazza del water o pedalando sulla cyclette.
All’amministrazione della casa albergo non sapevano niente. La cugina, che aveva sostituito nei lavori di pulizia, non si era fatta viva, non erano più riusciti a rintracciarla. Era arrivata al posto suo una thailandese così piccola di statura che aveva problemi a tenere staccati dal pavimento i due secchi d’acqua fumante per la pulizia, quando si doveva spostare nei corridoi o sulle scale. Lo salutava con un piccolo inchino, incrociandolo nel pianerottolo o di fronte alla porta dell’ascensore. «Che cazzo ti sta succedendo?» gli aveva detto un giorno il direttore creativo, intercettandolo sulla scala di vetro che portava al primo piano, all’improvviso. «Ci stai passando solo rifritture, scarti. L’image per la campagna di quella bibita energetica era buona per una marca di naftalina. La testimonial per quella marca di assorbenti... quella sì che era buona!» L’art aveva abbassato la testa, dopo aver ascoltato senza parlare, aveva ripreso a salire verso il suo ufficio, dove anche il copy, di fronte a lui dietro l’altra scrivania gemella, in plexiglas trasparente, scuoteva di tanto in tanto la testa, passandosi elettricamente le dita sul velo di barba scolpita col regolabarba a pila, nell’ufficio. «Che cazzo di campagna posso buttare giù per un’image come questa!» era sbottato d’un tratto. «Non si capisce se è per una marca di mutandine che alzano e separano i glutei oppure per un termometro per cani!» L’art lo guardava senza parlare. Si scorgevano, nei cassetti delle scrivanie trasparenti e gemelle, i plichi delle campagne precedenti, dentro le loro cartelle, ritagli colorati, colla in stick, forbici coi manici anatomici, filo interdentale, pennarelli e tubetti spremuti. «Che cazzo ti sta succedendo!» aveva domandato a sua volta. «A me puoi dirlo, siamo come una sola persona, io e te.» «È per via di quella ragazza con l’assorbente...» aveva mormorato alla fine l’art, senza guardarlo. «Ah, sì?» si era animato il copy. «Che cazzo è successo? Non te la dà più? La dà a qualcun altro?» L’art era rimasto a lungo in silenzio. «È sparita!» aveva sospirato alla fine. «Sparita? Che cosa vuoi dire?» «Sparita!» «Però, sì, cazzo, adesso che mi ci fai pensare, è un po’ di tempo che non la vedo! Oh, cazzo... sparita?» L’art si era messo a giocare con un foglio di carta millimetrata. Il copy aveva alzato gli occhi su di lui, dopo un po’. «Che cosa hai fatto ai capelli?» disse d’un tratto. «Non ti sei messo il gel? È la prima volta che ti dimentichi il gel, da quando ti conosco... Cazzo, sembri un facchino!»
Un giorno, mentre andavano verso il self-service vicino al set dove stavano scegliendo il testimonial per una campagna su una pomata antiacne, e c’era metà della piccola strada gremita da un gran numero di aspiranti con i volti tutti un po’ butterati, il copy prese sottobraccio l’art. Sospirava.
«Oh, cazzo!» disse soltanto.
Poi più niente. Neppure mentre giravano coi cabaret tra la ressa degli impiegati in uscita pasto, coi ventagli dei cartellini dei ticket tra le dita.
«Non hai preso un cazzo!» osservò ancora il copy, dopo un po’, mentre erano già seduti uno di fronte all’altro su un tavolo, vedendo che l’art aveva sul cabaret solo una fetta di torta allo yogurt e una bustina di quei grissini sottili come capelli.
«Non ho molta fame» disse l’art scuotendo la testa.
Il copy sospirò ancora più a lungo.
«Oh, cazzo!» disse ancora. «Non so come cominciare...»
L’art si era messo a sbocconcellare la torta, senza alzare gli occhi.
Si era andata a sedere a poca distanza una ragazza con i capelli rasati che, a giudicare dallo stato delle sue guance, era una dei tanti in attesa del provino per quello spot sull’acne, e con ottime probabilità di venire scelta.
Il copy sospirò ancora, per la terza volta.
«Tu sai che noi due siamo come una persona sola» cominciò addentando una fettina di fesa di tacchino precocemente calva.
L’art continuava a sbocconcellare la sua fetta di torta, pareva non sentire.
«Lavoriamo assieme, siamo affiatati» continuò il copy, «certe volte ci vengono le stesse idee nello stesso momento, quando siamo in gran forma. Ci guardiamo in faccia, mentre siamo seduti uno di fronte all’altro alle nostre scrivanie trasparenti, e certe volte a me viene in mente l’immagine e a te il testo, addirittura, all’incontrario. Io ti vado a prendere il caffè alla macchinetta, se sei tutto preso dal lavoro e capisco che ne hai bisogno. Certe volte ci vai tu per me. Se posso aiutarti, se posso darti una mano... Su di me puoi contare, lo sai. Anche per quella ragazza con l’assorbente... E poi lo vedo come stai adesso, lo capisco che ci vogliono attenzioni tutte particolari, ci vuole tatto, nello stato in cui sei. Che non ti si possono sparare certe notizie di colpo. Oh, cazzo, com’è difficile... Insomma, l’ho vista!»
L’art alzò per un istante gli occhi dalla sua fetta di torta.
«L’hai vista? Chi hai visto?»
Il copy ansimava.
«Lei!»
«Lei chi?»
«Ma quella ragazza con l’assorbente!»
«Oh, cazzo!»
Il copy si portò avanti istintivamente col corpo, perché l’art era impallidito di colpo, non fiatava.
«L’hai vista? Quando l’hai vista?» balbettò l’art.
«Ieri sera.»
«E dove? Dove?»
«Al cinema.»
«Ah, sì, al cinema!» si animò l’art. «Lo so, lo so, a lei piace il cinema! Ci andavamo spesso, si faceva sempre portare al cinema. Ci mettevamo nelle ultime file, vicino alla toilette, se doveva correre là per cambiarsi il plico degli assorbenti. Metteva la testa sulla mia spalla, mi prendeva la mano, anche qualcos’altro... Ma che cinema era?»
«Un cinema porno.»
L’art rimase in silenzio. Gli doveva essere andato di traverso un boccone di torta perché un istante dopo cominciò a tossire con forza.
«Un cinema porno?» domandò, togliendo col tovagliolo di carta le briciole di torta che erano volate tutt’intorno, sul piano del tavolo. «Vuoi scherzare?»
«Ma no, ti assicuro!»
L’art rimase ancora senza parlare.
«Be’... be’...» balbettò qualche istante dopo. «Sarà andata là per curiosità, per farsi qualche risata, tanto per vedere una volta di che roba si tratta. Non c’è niente di male, succede. E con chi era? Era da sola?»
«Be’, proprio sola no!»
«È normale, si sarà portata dietro la sorella, un amico, per non andare in un posto come quello da sola...»
Il copy si passò la mano sul velo di barba, si schiarì la voce.
«Forse non hai capito» provò a dire.
«In che senso?»
Il copy dondolò un po’ la testa, si passò una mano lungo la schiena.
«Non era tra gli spettatori. Era... sullo schermo.»
L’art corrugò la fronte.
«Sullo schermo. Be’, l’avrai vista per un momento mentre prendeva posto! Succede che gli spettatori entrino da uno degli ingressi che ci sono più avanti e che debbano passare contro lo schermo illuminato dal raggio che esce dalla cabina di proiezione, mentre la pellicola sta girando, tra i mormorii di protesta della gente in sala. Sembrano far parte a loro volta del film, sembrano delle maschere... Certe volte succede. Non ti è mai successo?»
Il copy serrò forte i denti, corrugò a sua volta la fronte.
«Be’, no, in questo caso lei era proprio dall’altra parte, con gli altri, sullo schermo!»
L’art stava immobile al proprio posto, con gli occhi molto allargati, anche la bocca.
«Sullo schermo? Proprio sullo schermo, vuoi dire? E cosa ci faceva sullo schermo?»
«Cosa vuoi che ci facesse? Non hai mai visto quei film?»
«Oh... no!» disse l’art.
Stava con la bocca molto allargata, eppure non respirava.
«Sta’ calmo, sta’ calmo!» provò a dire il copy.
La ragazza con l’acne stava tutta inclinata da una parte, col busto, per sentire.
Mangiarono ancora per un po’ in assoluto silenzio, l’art e il copy. Ma non è che fosse un mangiare vero e proprio. L’art stava con uno di quei grissini sottili come capelli perennemente infilato in bocca e mai morsicato, il copy masticava da molti minuti sempre lo stesso boccone di crème caramel, guardando di tanto in tanto quella ragazza con l’acne seduta a poca distanza.
«Signorina» le disse d’un tratto, «lei è qui per quel provino sull’acne?»
«Perché, non si vede?»
«Oh, sì, sì, be’... certo... volevo dire... mi scusi...»
La ragazza sorrise, gonfiando un po’ le tette con un lungo respiro.
«Però, che bell’acne!» provò a dire ancora il copy arrossendo.
«È qualcosa di più di una bell’acne!» disse ancora lei, sorridendo. «È un principio di lebbra!»
«Ah, sì? Accidenti, che bello! Un fiore d’acne! Volevo dire... Le do il mio biglietto da visita. Sa, io sono il copywriter di questa campagna... Ci vediamo dopo sul set. Chieda di me. Un fiore d’acne! Accidenti! Mi ha fatto venire un’idea per lo slogan!»
Si girò verso l’art. Lo guardava di sottecchi di tanto in tanto, continuando a masticare lo stesso boccone di crème caramel ormai allo stato oceanico, mentre l’altro era sempre immobile come una statua col filiforme grissino ancora intatto tra i denti.
Poi sentì che il grissino si era spezzato di colpo tra le labbra dell’art, per un tremito improvviso e incontrollato dei denti.
«In che sala lo danno, quel film?» domandò l’art con un filo di voce.
«Oh, non ne dovrai fare molta di strada! È in quella sala che c’è a pochi passi dalla tua casa albergo!»
La sera stessa, dopo avere mangiato qualcosa a casa in stato di semiassenza, l’art si recò al cinema porno.
La stradina era buia, deserta. Passò a fianco della caverna della sala, da cui venivano quella sera degli spaventosi muggiti. Entrò con il cuore in gola. La donna che stava alla cassa gli diede il biglietto senza guardarlo. Il bigliettaio non c’era. Discese una rampa di scale. Veniva un ansimare sempre più cavernoso, dalla parte della sala. Sotto il tendaggio d’ingresso alcuni uomini si stavano masturbando nella penombra. L’art abbassò la testa, passò sotto le traiettorie dei getti, come sotto un corridoio di spade.
Cercò un posto. Tirò giù con la mano il piano ribaltabile della sedia di legno tutta tagliata. Rimase seduto con gli occhi chiusi per un po’, mentre sentiva che il cuore gli pulsava sempre più forte. Si sentiva urlare.
Alzò gli occhi verso lo schermo. Non fu certo di avere visto bene, all’inizio. C’era un primo piano a inquadratura così ravvicinata che non si riusciva a capire. Ma da quel po’ che si poteva distinguere dei contorni in movimento, capì che si trattava, insomma... di qualcuno che stava stantuffando a tutto spiano nella cosa di una donna fortemente mestruata.
Abbassò ancora gli occhi. Coglieva appena, sopra di lui, il bagliore dello schermo che si riempiva sempre più di rosso. Poi l’inquadratura, improvvisamente, cambiò. L’art la vide in volto, di colpo, per qualche istante, sorridente, tranquilla, mentre l’altro glielo metteva in bocca ancora tutto un po’ sanguinello.
«Che cosa mi sta succedendo? Non capisco» si disse l’art.
Qualcuno stava russando da qualche parte della sala. Capiva, dal tremito ininterrotto del suo schienale e anche da un cic cic che veniva da un po’ di tempo alle sue spalle, che qualcun altro si stava masturbando in silenzio nella fila di dietro, nella sala semideserta.
Avrebbe voluto girarsi e mollargli uno schiaffo. «Forse è meglio che esca a prendere una boccata d’aria» pensò invece l’art, «prima che mi capiti qualcosa di grosso!»
«Accidenti!» interruppe il Gatto. «Lei ci porta sempre da tutt’altra parte, almeno così sembrerebbe, all’apparenza. Ma io, come dire... chiudo gli occhi, mi lascio andare, quando lei muove il suo racconto col suo passo leggero... E ancora con questa agenzia! Quale spazio si è aperto, si è riaperto per me in questo mondo. Si è spalancata una porticina, si è sfondata, irrompe da quella parte una luce caramellata, da soffice fornace, sento venire da là dietro delle vocine, si scorgono delle braccine cremate, mi stanno chiamando, mi chiameranno, spostano i vortici della luce, come una marmellata, mentre vado con gli occhi bruciati in questo mondo che non è il mio, nel quale sono stato sbalzato, condannato... Solo questo. Adesso ritorno come se niente fosse al mio posto, chiudo di nuovo il becco, anche gli occhi, mi espando.»
L’account lo guardava con le labbra tirate.
«Sei in forma?» gli chiese.
«Mah, non saprei...» disse l’art.
Erano seduti uno di fronte all’altro. L’account si muoveva un po’ sulla sedia di pelle, per via delle emorroidi, e siccome anche l’art aveva lo stesso problema si muoveva anche lui sulla sua poltrona, cercando di farlo asimmetricamente perché l’altro non pensasse che lo stava prendendo in giro facendogli il verso.
«C’è una cosa grossa in arrivo! Una cosa enorme! Uno sballo!» disse ancora l’account. «Una cosa come non se ne sono mai viste, qui dentro. Ci stiamo preparando a fare un salto mai visto prima. Nessuna agenzia pubblicitaria si era mai trovata di fronte una cosa così!»
L’art lo guardava senza capire.
«Solo questo, per il momento!» disse ancora l’account «Solo questo! Ti dirò meglio più avanti, quando la cosa sarà entrata in una fase più operativa. Solo questo!»
L’art fece per alzarsi.
«Che cos’hai? Non ti sei svegliato bene? Vai a prendere un bel caffè! Ti voglio in forma! Sei in forma?»
«Be’... non c’è male.»
Girò attraverso l’agenzia, per un po’, a caso, qua e là, portandosi di tanto in tanto alle labbra il bicchierino di plastica del caffè, prima di entrare nel suo ufficio, dove il copy stava tutto piegato sulla sua scrivania trasparente e tracciava grandi lettere in stampatello su un foglio graduato, con un pennarello.
Tirò fuori mezzo metro di lingua, quando lo vide entrare.
«Sono fuori di testa!» lo investì.
«Perché? Che cos’è successo?»
«Quella ragazza con l’acne...»
Si alzò in piedi, mentre l’art si lasciava invece cadere sulla sua poltroncina.
«L’ho rivista, più tardi, dopo il self-service» continuò, «le sono stato vicino durante il provino. Siamo stati in giro qua e là. L’ho portata a cena. Me la sono fatta!»
L’art stava immobile e un po’ imbambolato, non parlava.
«Ah, sì?» disse alzando la testa, fuori tempo.
«Sì, sì... la cenetta col brindisi, a spasso, un po’ brilli, il braccio sulla sua spalla, la mano che dà una tastatina alla tetta, di tanto in tanto, da sotto, il picchio già in orbita, i calzoni tutti lievitati davanti, un po’ stretti dietro, la sua testa sulla mia spalla. “Guarda, c’è un albergo là in fondo! Cosa ne dici?” “Sarà meglio, se no le mie mutandine prendono fuoco!” L’albergatore con un occhio aperto e uno chiuso, l’ascensore che trema, la stanza. “Vai prima tu o prima io?” In bagno, naturalmente. Viene fuori tutta nuda, coi piedi nudi. Oh, cazzo, dovevi vederla! Sono fuori di testa. Per tutta la notte. Sette scopate e due inculate!»
Smise di parlare di colpo, ma tremava.
L’art aveva cominciato a mettere in ordine alcune cartelle, distrattamente. Il tempo passava. Il copy lo sbirciava di tanto in tanto, in silenzio.
«Allora, sei andato? L’hai vista?» sospirò d’un tratto.
«Sì!» rispose l’art, atono.
Continuava a spostare macchinalmente le sue cartelle.
Ci fu un nuovo silenzio.
«Però non devi fermarti alle apparenze!» si animò l’art d’un tratto. «Io lo so com’è lei, la conosco! Lei è ingenua, le avranno fatto credere chissà cosa, l’avranno abbindolata, ci sarà cascata. Non avrà capito bene cosa stava facendo. Lei è troppo buona, non riesce a dire di no, la conosco!»
Il copy abbassò la testa, aggrottò la fronte. Adesso era lui a mettere macchinalmente a posto le cartelle, sul piano della sua scrivania trasparente.
«Allora, cosa ne dici di quella idea per la campagna sulla marca di filo interdentale per cani?» cercò di cambiare discorso.
Ma l’art teneva la testa abbassata, non sentiva.
«Devo riuscire a rintracciarla!» esclamò all’improvviso. «Avrà bisogno di me! Devo riuscire ad arrivare fino a lei, a liberarla!»
Si era alzato in piedi, di scatto, incontrollabilmente. La sua testa tutta ingellata scintillava.
«Ma come fai?» provò a dire il copy. «Non la rintracci più in quell’ambiente!»
«Invece la troverò, arriverò fino a lei, la libererò... Sì, lo so, le hanno messo un nome d’arte su quella locandina. Ho guardato. Ma io andrò a parlare con quella donna che sta alla cassa. Attraverso di lei forse risalirò al nome del distributore di quella pellicola. Da questo forse a qualcuno di quei... registi, se avrò un po’ di fortuna. E poi l’altro nome che c’è sulla locandina, quello del coprotagonista, diciamo, quello sembra vero! E allora forse lo potrò contattare, gli potrò parlare. Forse mi potrà dire qualcosa di lei, dove si trova... E poi ho in mente altre cose. È tutta la notte che ci penso. E anche lei in questo momento mi starà pensando, ne sono sicuro, mi starà chiamando!»
Il pomeriggio stesso andò a parlare con la cassiera del cinema. Si avvicinò alla cassa. Lei, credendo che volesse entrare nella sala senza essere riconosciuto, come gli altri, aveva già staccato un biglietto senza alzare gli occhi.
L’art si schiarì la voce.
La donna si girò di malavoglia a guardarlo, perché in quel momento stava seguendo una telenovela su un minuscolo televisore portatile che teneva sotto il piano della cassa, di fianco.
«Vorrei solo un’informazione...» cominciò a dire l’art. «Io devo liberare la mia ragazza!»
La donna ascoltava con gli occhi sbarrati, la sua testa si muoveva un po’ su se stessa, indecisa se girarsi verso il portatile o verso l’art, che stava continuando a parlare.
«Oh, ma che bella storia!» esclamò la donna alla fine, emozionata. «Ma certo che l’aiuto, se posso! Vuole il nome del distributore, del regista, per arrivare a quel tipo che si trombava la sua ragazza nel film? Ma non c’è bisogno! Mi scusi, aspetti un momento...»
Tirò fuori da un piano che c’era sotto la cassa una pesante guida del telefono.
«Come ha detto che si chiamava quello stantuffo?» chiese all’art.
Questi corse verso la locandina per controllare, glielo disse.
La donna cominciò a sfogliare la guida, bagnandosi di tanto in tanto la punta di un dito.
«Ah... eccolo qui!» disse d’un tratto. «Si scriva il numero!»
L’art trascrisse febbrilmente il numero su un biglietto del metrò che aveva in tasca, prima di uscire quasi di corsa dal locale.
«Passi qui dentro, ogni tanto!» gli gridò dietro la donna, dalla cassa. «Mi tenga informata su come va avanti questa bella storia!»
Corse in strada, raggiunse la più vicina cabina del telefono e cominciò a comporre il numero, rimettendo un paio di volte la cornetta sulla forcella e ripetendolo perché le sue dita tremavano così forte che sbagliavano i tasti.
«Sì, sì, è casa sua» rispose scatarrando una voce. «Ma adesso è al lavoro!»
L’art si confuse.
«Al lavoro? Vuol dire che, in questo momento, lui sta... be’, sì, insomma, lei mi ha capito... Oh, no!»
La voce all’altro capo del filo continuava a tossire, a scatarrare.
«Le do l’indirizzo.»
All’art tremavano un po’ le gambe, mentre scarabocchiava l’indirizzo sullo stesso biglietto del metrò, dall’altra parte.
«Come sarebbe a dire “di fronte al numero 6”?» provò a domandare.
«Perché il distributore è proprio di fronte a quel numero!»
«Il distributore? Quale distributore?»
«Ma il distributore di benzina, si capisce!» disse l’altro alzando la voce. «Lui lavora lì!»
Diede un altro colpo di tosse più forte. L’art capì che stava sputando con forza in un fazzoletto.
Riagganciò. Corse verso un autobus che ripartiva in quello stesso momento, lì vicino. Salì proprio mentre le sue portelle si stavano richiudendo. Discese qualche fermata dopo. Si infilò in una stazione della metropolitana. Corse giù per le scale mobili in movimento. Saltò su una vettura gremita, a porte aperte. Discese. Raggiunse camminando col cuore in gola il chiosco di un piccolo distributore. C’era un uomo in maniche di camicia di fronte a una delle due colonnine. La pancia gli si rovesciava un po’ sulla cintura. Lo guardava.
«Ah... è già qui!» disse all’art.
«Mi aspettava?»
L’uomo toccò macchinalmente il telefonino che aveva alla cintura.
«Mi hanno avvisato da casa che c’è un tizio che mi sta cercando. Cosa vuole?»
«Ma io credevo che lei facesse un altro mestiere! L’ho vista ieri sera, in quel film. Non credevo, non mi aspettavo...»
«Ho il mio lavoro. Lo faccio a tempo perso, quando hanno bisogno di questo!» rise l’uomo, prendendosi con la mano sporca d’olio la patta un po’ rigonfia dei jeans.
L’art girò la testa ingellata da una parte, guardò per qualche istante il fiume delle auto che continuava a passare.
«Perché? C’è qualcosa che non va? Ha qualche problema?» disse l’uomo a denti stretti, mentre seguiva con gli occhi la parabola di un’auto che si stava andando a fermare di fronte a una delle due colonnine del distributore.
«No, no! Nessun problema! Che cos’ha capito?» balbettò l’art.
«Mi scusi» disse l’uomo avviandosi verso la macchina.
Chiese la chiavetta all’automobilista, svitò il tappo, lo appoggiò sopra il tetto dell’auto, staccò la pistola dell’erogatore, la ficcò nel serbatoio e, mentre la benzina erompeva con forza, si vedeva il tubo di gomma contorcersi e srotolarsi. L’uomo continuava a guardare l’art al di sopra del tetto dell’auto.
L’art invece guardava solo quel fumino che scaturiva dalla pistola dell’erogatore e la porzione di strada che si sfuocava come un miraggio.
«Non ho ancora capito che cosa vuole» disse l’uomo tornando, qualche istante dopo.
«Sto cercando quella ragazza...»
Gli pareva che quella porzione di strada fosse rimasta ancora sfuocata, nonostante la pistola fosse stata rimessa da qualche istante nella colonnina e l’auto fosse già ripartita.
«Quale ragazza?» chiese l’uomo.
«La ragazza che c’era nel film...»
«Quale film? Ne giro tanti!»
«Ma... quella ragazza che ha un flusso un po’ più... un po’ più...»
«Ah, quella fica mestruata!»
L’art arrossì, guardò ancora verso la strada che tremava un po’, si sfuocava.
«Devo sapere dov’è! Devo riuscire a trovarla!» si animò.
L’uomo allargò le braccia.
«E io cosa ne so! Casca male! Non so neanche come
si chiama. Me l’hanno messa sotto e ci ho dato dentro. Tutto qui.»
Poi l’uomo andò a servire un altro cliente. La strada si continuava a sfuocare, ma adesso in un modo leggermente diverso, senza piombo.
«Però... forse, se vuole sapere qualcosa, posso metterla in contatto con l’eiaculatore. Lui ha fatto molti movie con lei, se l’è fatta un sacco di volte, da tutte le parti, mi ha detto.»
«Diversi movie? In così poco tempo? Com’è possibile? Chi è questo eiaculatore?» balbettò l’art.
«Be’, è quello che ci dà dentro più di tutti!» rise l’uomo prendendosi in mano ancora una volta la patta rigonfia dei jeans.
«E dov’è questo eiaculatore? Dove posso trovarlo? Sul set?»
«Fa il furbetto? Vuole godersi lo spettacolo gratis, dal vivo? Non se ne parla! Là non può entrare nessuno, oltre a noi.»
«Ma no! Cosa dice...»
«Posso darle l’indirizzo del locale dove va a mangiare qualcosa tra un ciak e l’altro. Se lo scriva... Se ci va subito, può darsi che lo trovi. È l’ora giusta. Non è lontano da qui.»
«Ma come faccio a capire che è lui?» disse l’art, mentre cercava di scarabocchiare anche questo indirizzo sul biglietto che aveva in tasca.
«Non può sbagliare. Gli guardi la mano destra: ha il palmo bruciato! E poi porta un orecchino a forma di cazzo, di corallo. Gli dica che lo manda lo Stantuffo. È il mio nome d’arte...»
L’art rimase ancora un po’ in piedi di fronte all’uomo, in silenzio, impalato.
Anche l’uomo lo guardava, respirava.
«Però non mi sembrava che avesse una panza così grossa, in quel film!» disse d’un tratto l’art.
Lo Stantuffo gettò indietro la testa.
«La tengo in dentro, quando lavoro!» disse ghignando. «Mi va tutta a finire dentro il cazzo!»
L’art rimase ancora qualche secondo impalato. Poi girò su se stesso, cominciò ad allontanarsi sulla strada sfuocata, senza salutare. Ma, fatti pochi passi, tornò indietro di colpo, a braccio teso, verso l’uomo che stava ancora fermo al suo posto.
Lo spintonò col palmo della mano contro la spalla.
L’uomo vacillò un istante, in silenzio, continuando a guardarlo. Poi alzò il braccio svogliatamente, lo colpì col palmo della mano sopra la tempia, una volta sola, con forza.
Anche l’art vacillò. Si girò di nuovo, allontanandosi come se niente fosse, in silenzio, e capiva che gli era scesa sulla fronte una ciocca di capelli ingellati, per il colpo, mentre continuava a camminare lungo la strada sfuocata.
Percorse a piedi alcuni isolati, respirando quel poco che bastava per continuare ad andare. Di fronte a lui l’immagine della strada era tagliata dall’ombra ravvicinata della ciocca ingellata che si era staccata dalla calotta lucente dei capelli e gli era scesa sulla fronte, su un occhio. La sera calava, si cominciavano ad accendere le luci delle automobili, dei negozi. «Chissà perché le strade continuano a essere così sfuocate» si chiese, «anche se non c’è più il fumino che esce dalla pistola di quel benzinaio?» Camminò su una fila di grate vibranti. Scorgeva sotto di sé le sue scarpe scamosciate che prendevano una forma nuova, per via delle pieghe che si formavano sulla pelle durante i passi, perché non è la stessa cosa per una scarpa camminare sull’asfalto di un marciapiede o su una grata. Girò l’angolo. «È inutile che cerchi di tirarmela su» pensò l’art, «tanto ricadrebbe di nuovo! Quando si stacca si stacca. Non c’è niente da fare, se non hai dietro un pettine.» Poi vide a poca distanza le luci di quel locale. Respirò due o tre volte più forte. Quei respiri che non si capisce se sono respiri oppure sospiri che si sono montati la testa.
Entrò nel locale.
C’erano delle persone che bevevano birra e mangiavano sandwich, sedute qua e là su dei trespoli alti, coi gomiti appoggiati a dei ripiani che correvano lungo la parete di vetro che dava sulla strada.
L’art le guardò una a una, camminando di fianco a loro per tutta la lunghezza del locale. Vide un uomo che aveva effettivamente un orecchino a forma di cazzo. Ma non era di corallo, era di olivina. «Accidenti! Adesso come faccio?» si disse. «E se non è lui?» Esitò qualche istante, alle sue spalle. «Il concetto è lo stesso!» si disse alla fine. «L’avrà cambiato, non avrà solo quello!»
Si sedette vicino all’uomo, che stava sorseggiando una birra scura, guardando oltre la vetrata, soprappensiero.
Si schiarì la voce.
«Lei è l’eiaculatore?» domandò.
L’uomo girò la testa, quasi di scatto.
«Certo che lo sono!» rispose. «E lei chi è? Chi la manda?»
«Mi ha parlato di lei lo Stantuffo.»
«Ah, quello...» disse l’uomo riprendendo a sorseggiare la birra, con noncuranza.
Veniva dal soffitto una musichetta sfuocata, sciroccata.
«Ho saputo che lei ha lavorato con quella ragazza con l’assorbente» cominciò a dire l’art.
«Ah, sì, abbiamo fatto assieme diversi movie! È un po’ che non me la mettono sotto...»
L’art guardava a sua volta verso la strada, deglutiva.
«Diversi movie? Ma com’è possibile! Non è molto che l’ho persa di vista!»
L’eiaculatore si voltò per la prima volta verso l’art.
«Be’, sì, io ci do dentro, non faccio perdere tempo alla produzione! Ne faccio fuori anche due o tre alla settimana, di film!»
Oltre la vetrata la strada era sempre sfuocata.
«Venivamo a mangiare qualcosa qui, io e quella fica» disse ancora l’eiaculatore, riprendendo a guardare verso la vetrata, «tra un ciak e l’altro. Doveva vedere come ci dava dentro!»
«Ah, sì, lo so!» si animò l’art. «Lei è molto golosa! Mangia e beve con appetito! È un piacere vederla! È per rifarsi di tutto il sangue che perde!»
«Lo può ben dire!» sogghignò l’eiaculatore, senza staccare gli occhi dalla strada. «Ma lei chi è? Perché mi sta parlando di quella fica? Cosa vuole da me?»
«Vorrei sapere dove abita adesso! La vorrei rintracciare!»
«E io che cazzo ne so! Chi ne sa più niente di quella là! Me ne mettono sotto una, poi l’altra, non mi ricordo neanche che faccia hanno, il giorno dopo. Io ricordo solo le fiche. Nei minimi particolari, una per una, anche se non si potrebbe neanche immaginare il numero di tutte quelle che mi mettono sotto. Ci sparo dentro, le ustiono. Le riesco a vedere anche al buio, quando spengono tutte le luci, sui set, solo urla, fosforescenze, vetri rotti qua e là, insanguinati. Una a una, come è meglio fiondarlo dentro a questa, a quell’altra, le inclinazioni migliori, fin nei minimi particolari. Le lascio tutte sdentate e smerdate... Sì, sì, adesso che mi ci fa pensare me la ricordo sì quella fica piena di sangue! C’era tutto quel rosso per terra, sul pavimento, sembrava un idrante. Mi sembrava di dover tappare una botte di vino sfondata, con il cazzo. Glielo tiravo dentro per bene, da tutte le parti, sangue, midollo, le sparavo in faccia quella gelatina tutta piena di bolle. Friggeva quasi, a vederla. Le ho fatto venire rosso anche il buco del culo, a quella là!»
L’art adesso era in piedi.
«Venga fuori!» gli disse.
L’eiaculatore staccò per alcuni istanti le labbra dal bicchiere di birra.
«Non mi faccia arrabbiare» disse socchiudendo un po’ gli occhi, tranquillo, e aveva ancora sulle labbra un po’ di schiuma. «Fra una mezz’oretta ho un altro ciak. Mi stavo rilassando.»
Ma l’art lo continuava a fronteggiare, in piedi, molto vicino. Sembrava calmo, disteso, eppure non respirava.
L’eiaculatore posò il bicchiere di birra, lungo, a stelo. Scese controvoglia dal trespolo, senza dire niente, cominciò a seguire l’art verso la porta a vetri del locale.
Fuori la strada era ancora tutta sfuocata.
Fecero alcuni passi in silenzio, fianco a fianco, fino allo scivolo d’uscita di un magazzino.
«Le va bene qui?» sospirò l’eiaculatore.
L’art fece di sì con la testa, senza guardarlo, come se dormisse.
Un secondo dopo colpì l’eiaculatore con qualcosa che stava a mezza strada tra un pugno e uno schiaffo, sul collo.
L’eiaculatore vacillò un po’, ma solo per via del piano dello scivolo che era in pendenza. Colpì l’art con un pugno, sull’orecchio, perché l’art aveva nel frattempo girato la testa da una parte, prima del tempo, come se il pugno dell’altro gli fosse già arrivato. Poi con un altro sopra lo zigomo, mentre l’art stava facendo del suo meglio per cercare di strangolarlo.
«Via di qui, non voglio ubriachi!» disse un uomo in camice grigio, mentre saliva su per lo scivolo con un carrello a mano, perché un furgone si stava fermando per lo scarico merci.
L’eiaculatore fece ancora in tempo a sferrare un pugno contro il mento dell’art, e poi a colpirlo con un calcio al femore, esternamente, col collo del piede.
Poi uscirono in strada.
L’art si girò su se stesso, senza dire niente. Cominciò ad allontanarsi a piccoli passi, zoppicando.
L’eiaculatore rimase a guardarlo, per un po’.
«Vieni qui, ragazzo!» gli gridò dietro, mentre era già distante.
L’art si girò. Tornò indietro.
«Se vuoi sapere qualcosa di quella fica» gli disse un istante dopo, con un sospiro, «forse ti può essere d’aiuto un ginecologo che gira qua e là a rattopparle. Scrivi, ti do l’indirizzo del suo ambulatorio!»
L’art scrisse sul solito biglietto del metrò l’indirizzo che l’eiaculatore gli stava dando, di sbieco, su uno dei due lati di quella freccina che c’è in alto, perché non c’era altro posto.
«Va bene!» disse alla fine. «La ringrazio.»
Si allontanò di nuovo, zoppicando un po’ per le strade sfuocate, tutte illuminate. Vedeva contro l’asfalto l’ombra di diverse ciocche di capelli ingellati che si erano staccate e gli erano cadute giù sulla fronte, sugli occhi, durante la lotta. «Ne sono venute giù almeno sei o sette!» si disse. I negozi stavano già chiudendo. C’era quel traffico convulso che precede l’ora di cena, quando tutti vanno in giro coi succhi gastrici emozionati. Lo zigomo cominciava a fargli male, anche l’orecchio. Se lo massaggiò con la mano, controllò che non ci fosse del sangue, continuando a camminare verso la più vicina stazione della metropolitana. «Tornerò alla casa albergo» si disse, «mi cucinerò qualcosa. Mi pare sia rimasta una di quelle buste di risotto liofilizzato, una scatoletta di vitello tonnato. E domattina andrò subito da quel ginecologo, prima ancora di passare dall’agenzia... Accidenti! Devo anche passare da quella cassiera del cinema porno a raccontarle cos’è successo!»
«Sì, sì, bene! Vanno bene tutte queste cosine, il suo passo è un incanto. Ma adesso si concentri sul flusso! Il lettore, a questo punto, vuole vedere il mestruo, vuole sentire odore di mestruo! Come quegli uomini preistorici coperti di foglie secche, di torsoli, di pelli, fogli di giornale un po’ scagazzati, che seguivano la scia del sangue sull’erba nera e vivente, sulle pietre appena eruttate, di qualche animale morsicato al ventre da un’altra grande bestia volante, carenata, di qualche fica mestruata che si spostava a quattro zampe sui sassi con la patacca coperta da una crosta nera di sangue, piena di mosche...»
«D’accordo, d’accordo! Ci proverò, come sono capace, a modo mio, naturalmente!»
«Ma certo! Si capisce! A modo suo, naturalmente, per il momento...»
Il giorno dopo, di prima mattina, si recò all’ambulatorio di quel ginecologo.
«Riceve già, meno male!» si disse leggendo gli orari sulla targhetta.
Suonò. Sentì il rumore dell’apriporta. Ma non una sola volta, più volte. Scatti brevi ripetuti, poi più lunghi, anche dopo che era già entrato e la porta si era già richiusa alle sue spalle. Si continuavano a sentire anche mentre già camminava nel corridoio d’ingresso e poi imboccava le scale, come se qualcuno su nell’ambulatorio si stesse divertendo a fare l’alfabeto morse col pulsante dell’apriporta.
Salì di un piano. Entrò nella piccola sala d’aspetto, dove alcune donne attendevano già il loro turno.
Il tempo passava. Mentre sfogliava delle riviste di ginecologia disseminate sul basso tavolo al centro, l’art sentiva venire da dentro l’ambulatorio dei rumori improvvisi, dei colpi. Le donne in attesa si scambiavano occhiate, non si capiva se stavano impallidendo o ridendo.
Ogni tanto qualcuna usciva, qualcuna entrava. Ma tutte, quando alla fine uscivano dall’ambulatorio, camminavano in modo strano, disarticolato, andavano a sbattere contro l’attaccapanni, come se non riuscissero a tenere i piedi in traiettoria. Oppure uscivano con la bocca esageratamente allargata. «Accidenti, che strano!» si diceva l’art staccando per un istante gli occhi dalla rivista. «Sembra che là dentro qualcuno abbia messo a queste signore il divaricatore nella bocca invece che in quell’altro posto, come mostrano queste riviste...» Se la massaggiavano un po’ con la mano, mentre barcollavano nel tentativo di uscire, facendo anche il movimento di aprirla e chiuderla molte volte, come per rimettere in sesto la mandibola.
Arrivò finalmente il suo turno. Mise la testa dentro, ma in un primo momento non riuscì a distinguere il ginecologo, perché non era seduto alla sua scrivania con l’aria pensosa, intento a buttare giù una ricetta con la sua grande penna stilografica dal pennino precocemente calvo, e neppure sulla porta ad accoglierlo, e non era neppure intento a lavarsi le mani al lavandino o a togliersi quei guanti di gomma ancora un po’ gocciolanti. Non si vedeva bene dov’era, semplicemente.
L’art girò la testa da tutte le parti, due o tre volte.
«Sono qua, non mi vede? Dove guarda?»
La voce proveniva da una forma che si spostava a scatti improvvisi attraverso la stanza e che, a giudicare dal bagliore del camice bianco che indossava, doveva essere proprio il ginecologo.
L’art rimase a bocca aperta, impalato.
«Che problema c’è?» disse il ginecologo. «Non ha mai visto uno spastico?»
Avevano suonato dal portone giù in basso, perché il ginecologo cominciò a ticchettare sul pulsante dell’apriporta, come se stesse telegrafando e intanto canticchiando.
«Allora, che cosa vuole da me?» chiese il ginecologo gettando avanti di colpo una spalla, e contemporaneamente indietro la testa, come in un passo di danza eseguito di slancio, controvento. «È per quella ferita che ha al volto? Ma io mi occupo solo di signore, non so se ha letto la targa prima di entrare...»
«No, no, non è per quella» disse l’art scuotendo la testa.
«E allora cosa ci fa qui? Chi la manda?»
«Mi ha dato il suo indirizzo l’eiaculatore.»
«Ah, l’eiaculatore... Si sieda.»
Il ginecologo fece un gesto improvviso e violento, con il braccio. L’art sollevò una mano per proteggersi il volto, credendo che l’altro stesse per colpirlo. Un secondo dopo, quando vide che le dita dell’uomo erano andate a finire contro uno spigolo dello scrittoio, capì che questi aveva tentato di dargli la mano.
L’art si lasciò cadere sulla poltroncina girevole. Si massaggiò il femore.
«Ha male anche alla gamba, mi pare» disse il ginecologo. «Vuole che la metta sul lettino e le dia un’occhiata?»
«No, no!» si allarmò l’art. «Non è niente, adesso mi
passa!»
Il ginecologo tirò gli angoli della bocca, socchiuse gli occhi, come se si sentisse improvvisamente ispirato mentre si trovava così, controvento.
«Allora cosa posso fare per lei?»
«Sto cercando una ragazza.»
«Una ragazza? Quale ragazza? Io ne vedo tante...»
«Ha posato per la pubblicità di una marca di assorben
ti. Lei è una che non si dimentica. Ha un flusso talmente forte...»
Il ginecologo fece uno scatto.
«Ah, sì! Altroché se me la ricordo! Mai visto un caso di ipermenorrea come quello! Ipermenorrea e menometrorragia. Ho controllato che non ci fossero fibromi, polipi endometriali, alterazioni della coagulazione del sangue. Niente di niente. È sana come un pesce! Mai vista una cosa simile!»
Il ginecologo si spostava ininterrottamente nella stanza. L’art girava continuamente la testa, per non perderlo d’occhio, facendo ruotare anche la poltroncina, che era girevole apposta.
«Un idrante!» continuò a dire il ginecologo gettando indietro entrambe le braccia, come se stesse cantando su un palco, controvento. «Non credevo ai miei occhi, quando ha aperto le gambe sul lettino. Non riuscivo a inserirle il divaricatore, tanta era la forza del getto che erompeva, era come cercare di tamponare una falla aperta in una petroliera, in una diga. Sopra la testa, la mia lampada da minatore era tutta innaffiata, non serviva più a fare luce, anche le mie mani, le braccia. Non parliamo poi del lettino, del camice che mi ostino a indossare, del pavimento. Mi sono salvato solo un po’ la testa, perché sono un tipo che si sposta fulmineamente, avrà visto, non offre un bersaglio fisso! Non si capiva neppure se c’erano o no lesioni, là in mezzo, quando l’ho visitata dopo una di quelle riprese. Ma lei chi è? Non me l’ha ancora detto.»
«Sono l’art.»
Il ginecologo si arrestò, così all’improvviso che la sua testa in rapido movimento si sfuocò per un istante in un punto dell’ambulatorio.
«Lei è l’art?»
«Be’, sì...»
Il ginecologo avvitò la testa, buttò avanti tutto il busto, le spalle, come un podista che stesse per tagliare il traguardo, controvento, visto al ralenti.
«Mi aveva parlato di lei, adesso che mi ci fa pensare!» esclamò.
«Le ha parlato di me? Ma come? Cosa le ha detto? Ne è sicuro?»
«Ma certo! Mi ricordo, mentre era sul lettino e non sapevo come fare a tamponarla, appena uscita dalle mani di quel domatore... “Adesso cosa starà facendo?” diceva. “Chissà cosa penserà che sono sparita così! Mi stanno sempre alle calcagna, questi qui, anche dopo il lavoro, non posso comunicare con nessuno, non posso fare un passo. Come faccio a dirgli dove mi trovo? Come farà a trovarmi, a liberarmi? Lui fa l’art” mi spiegava, e intanto piangeva.»
«Piangeva?»
«Oh, sì, altroché se piangeva!»
L’art si alzò di scatto dalla sua seggiolina girevole. Anche il ginecologo aveva fatto una specie di piroetta.
«Ma adesso che cosa fa, stia calmo!»
«Ha parlato di un domatore?» chiese l’art, con gli occhi fuori dalla testa. «Chi sarebbe questo domatore?»
«È uno che doma le ragazze recalcitranti. Sa, in quell’ambiente...»
La stanza era tutta sfuocata. Si scorgeva appena la sagoma del ginecologo che stava scattando più volte in avanti, con le anche, come se stesse mimando i gesti del coito, controvento.
«Dov’è questo domatore?» esclamò l’art. «Mi dica chi è, dove sta? Vado da lui, l’affronto!»
«Si calmi, si calmi! Le darò l’indirizzo, ma non ci deve andare così, in questo stato!»
Il ginecologo girò la testa di colpo, da una parte, come se nell’ambulatorio fosse entrato improvvisamente qualcuno, controvento.
«No, no, stavo solo pensando!» disse il ginecologo, che un nuovo gesto di una gamba, del bacino e di un braccio aveva trasportato in un punto del tutto diverso della stanza. «Ah, sì, adesso ricordo...»
L’art ascoltò la voce del ginecologo, che gli sillabava l’indirizzo del domatore, senza neppure scriverselo sul solito biglietto del metrò, tanto non ci sarebbe stato. Imboccò la porta, corse fuori in silenzio, senza salutare, attraversò la sala d’aspetto dove una donna si stava preparando spavaldamente a entrare, corse giù per le scale, balzò in strada. Fece qualche passo a caso, di corsa. Alzò un braccio nell’aria, perché aveva visto un taxi passare vuoto, come a motore spento. Lanciò un grido qualsiasi, per fermarlo.
Oltre i finestrini la strada era ancora tutta sfuocata, sempre più sfuocata, mentre, seduto sul sedile di dietro, si stava facendo trasportare all’indirizzo del domatore.
«Come fa a vedere le strade?» provò a domandare all’autista, da dietro.
«Non le guardo» disse l’uomo senza girarsi.
Venivano dalla radio di bordo quei soliti annunci di chiamate ripetuti continuamente.
«Ecco, siamo arrivati!» disse l’autista d’un tratto, e all’art era parso per un istante di essersi addormentato durante il tragitto, o di essere al contrario rimasto così concentrato da essere passato dall’altra parte.
Si guardò attorno, mentre il taxi si allontanava, arrovesciò la testa tra i grandi palazzi isolati. Un istante dopo si infilò in un portone, cominciò a salire le scale, andando a leggere i nomi sopra le porte, piano per piano, mentre saliva e tremava.
«Sarà questo?» si disse fermandosi infine di fronte a una porta. «È l’unico che non ha il nome!»
Cominciò a suonare, ma come se il dito gli fosse rimasto incollato al campanello.
«Chi cazzo è lei? Cosa vuole? Qui non viene nessuno senza prima avvisare!» disse un uomo aprendo la porta, dopo un po’. «Non lo vede che sto lavorando?»
L’art abbassò gli occhi.
L’uomo era completamente nudo, in erezione.
«Che cosa vuole?» chiese ancora.
Il suo membro sembrava avvolto in qualcosa come un drappo fittamente istoriato.
«Sono qui per sapere dove tenete nascosta la mia ragazza!» disse l’art entrando nella casa di slancio.
«La sua ragazza? Che cazzo di ragazza?»
«Quella con tutto quel sangue...»
«Ah, quella fica!» sogghignò il domatore.
Il suo membro era ancora eretto. Oscillava un po’ ai movimenti del corpo dell’uomo, sempre avvolto in quella specie di drappo.
«Ho di là una fica che sto domando!» disse l’uomo un istante dopo, spazientito. «Non mi faccia perdere tempo!»
La porta di mezzo era chiusa. Si sentiva venire da dietro una contrazione come di qualcuno che stesse singhiozzando oppure vomitando.
L’art girò gli occhi un istante, nella stanza.
«Che cos’è quella roba sui muri?» provò a domandare.
«Un nuovo tipo di tinteggiatura!» sogghignò il domatore. «Adesso va di moda così, qui da noi, in questa zona!»
L’interno della stanza era tutto lordato.
«Fuori, fuori!» gridò il domatore, accompagnando le sue parole con un gesto ripetuto più volte, della mano.
L’art invece rimase.
«Lei mi deve dire prima di quella ragazza!» si ostinò, con i denti serrati, gli occhi bassi.
Il domatore fece un gesto improvviso, con la mano.
«È presto detto: quattro giorni di doma, nove scopate, dieci inculate, a sangue, col rostro, flora, fauna, a tutto spiano, di tutto, pompini da perforazione dell’esofago, morsi alla fica, a sangue, è il caso di dire, bottigliate, la stanza piena, allagata. Pasticche. Era fuori di testa. “Oh, che bello, che bello!” “Ti credo che è bello!” È tutto qui. Se la tenga!»
Il domatore si era preso in mano il membro ancora perfettamente eretto, lo stava sventolando nell’aria, scappellato.
Solo allora l’art si rese conto che non era avvolto in un drappo: era completamente tatuato.
«Venga fuori!» gli disse con un filo di voce.
«Non ce n’è bisogno» si schermì il domatore. «Io faccio tutto qui, a domicilio!»
Allargò le gambe, piantò bene i piedi sul pavimento. Poi, senza aspettare prima l’assalto, colpì l’art due volte, al fegato e al volto, lo gettò contro il muro e, tenendolo da dietro per i capelli ingellati della nuca, lo sbatté due o tre volte contro l’intonaco tutto lordato, e intanto sembrava del tutto tranquillo e anche il suo membro continuava a restare perfettamente eretto, oscillando solo un po’ per la violenza dei colpi.
L’art si girò, provò a colpirlo a sua volta, sul volto. Ma il domatore gli fermò il braccio, lo colpì una seconda volta sulla testa, sul volto, e poi sullo stomaco, sulle costole, prima di fermarsi di colpo.
L’art stava piegato in due, si teneva una mano sulla bocca che sanguinava.
Si sentivano venire dall’altra stanza, ancora più forti, quei conati.
«Ne ha abbastanza?» sospirò il domatore. «Adesso mi lasci continuare il lavoro!»
«Non me ne vado di qui finché non mi avrà detto dove posso trovare la mia ragazza!» disse l’art respirando a fatica, ma tranquillo.
«Che cazzo ne so più di quella fica piena di sangue!» sbottò l’uomo. «Io le metto a posto e poi finiscono chissà dove. Se ne occupano altri. Che cazzo le devo dire: segua il sangue!»
«Il sangue!»
«Certo! Segua la scia del suo sangue!»
«Sì, ma dove comincia?»
«Da lì! Ci sta sopra!» disse il domatore indicando il pavimento, sotto i piedi dell’art.
«Ah, bene, bene! Finalmente ci siamo! La scia!» proruppe il Gatto. «A questo punto farebbe meglio a chiamarla la ragazza senza assorbente! Bene, bene! Vedo che ci sta dando dentro, mi pare, non si riesce più a contenerla!»
«Be’, sì...» balbettò Lanza. «In effetti... Mi sono messo ad andare a ruota libera. Ma forse mi sto allargando troppo, sto prendendomi troppo spazio, qui dentro...»
«È questo il bello! Qui i tempi non sono prefissati. Determinano da sé la propria durata, il proprio fiato. E poi ci sono tante piccole cose che non mi lascio sfuggire. Sono qui, sto con le orecchie dritte. Cos’è, per esempio, quella storia del nuovo cliente dell’agenzia, di cui ha parlato prima l’account? Di che tipo di cliente si tratta?»
«Mah, non saprei...»
«Mi interessa molto, questa faccenda! C’è in ballo qualcosa di grosso, qui dentro, lo sento. E poi tutta questa storia mi sta sempre più facendo frullare in testa anche un’altra idea. Oh, cazzo, che idea! È saltata fuori al momento giusto! Può ribaltare completamente tutto quanto. Gliene parlerò, prima o poi. Ma adesso vada avanti, vada avanti, alla sua maniera, si capisce, dilaghi pure! Qualcuno qui dentro, attraverso di lei, ha lanciato dei segnali a distanza. Il suo gioco è diventato il mio gioco. Il nostro gioco sta prendendo già forma, è iniziato!»
L’art fece un piccolo verso, prima di girarsi e di uscire barcollando un po’ dalla casa.
«Si faccia fare una radiografia delle costole! Io me ne intendo di queste cose!» sentì che il domatore stava gridando alle sue spalle, mentre richiudeva.
I suoi vestiti erano tutti scentrati. Non parliamo dello stato dei suoi capelli ingellati! Vedeva attraverso i loro spuntoni incollati la scia di sangue che proseguiva sul pavimento del pianerottolo, e poi girava un po’ per imboccare le scale, ma all’ultimo momento si dirigeva verso l’ascensore.
L’art premette con forza il pulsante. «Non mi ero neanche accorto che ci fosse un ascensore, qui dentro» si disse, «quando sono arrivato... E nemmeno di quella scia di sangue annerito, in mezzo al pianerottolo, mentre ci andavo sopra.»
L’ascensore si aprì. L’art ci entrò col cuore che martellava, perché il pavimento era tutto sporco di sangue, e c’era sangue anche sulle pareti, sullo specchio. «C’è stata una lotta, qui dentro» si disse vacillando un po’ per i colpi ricevuti da poco, per l’emozione. «La tenevano in due. Lei si è difesa, ha tirato calci mentre qualcun altro l’agganciava con un braccio attorno al petto, alla vita. Si è divincolata, ha lottato, ha tirato calci con tutte e due le gambe unite e sollevate nell’aria. Per questo gli schizzi di sangue sono arrivati così in alto!»
Uscì dall’ascensore. La scia di sangue continuava anche a pianterreno, fino alla porta d’ingresso, e poi fuori, sul marciapiede. L’art la seguiva col cuore in gola, un po’ piegato per riuscire a vederla meglio, ma anche per i colpi che aveva preso allo stomaco, al fegato, e perché faceva un po’ di fatica a respirare. Camminò così per un po’, fino a un punto in cui la scia si interrompeva di colpo.
«Accidenti!» si disse.
Rimase fermo, impalato, per un po’. Si guardò attorno: più niente!
Stava già per chiamare un taxi, invece continuò a camminare sul marciapiede, barcollando.
D’un tratto, un bel po’ più avanti, gli parve di scorgere una macchiolina scura, sulla strada. «Purché non sia una goccia d’olio!» si disse. Si avvicinò un po’ per guardare. Il suo cuore aveva ripreso a martellare più forte, tanto più che ce n’era un’altra simile a quella qualche metro più avanti, e poi un’altra, un’altra ancora, sempre più grandi, ininterrotte. «Ma certo» si disse, «l’hanno caricata a forza su un’auto, nel punto dove la scia si interrompeva di colpo! Ci vuole un po’ di tempo perché nella macchina se ne raccolga così tanto da cominciare a uscire incontenibilmente dai finestrini, di sangue!»
Il numero delle gocce cresceva sempre di più, erano ormai così vicine le une alle altre che ricominciavano a formare una scia. L’art la seguì per molto, tutto piegato per riuscire a guardare, fermandosi un po’ e scendendo direttamente nella strada dove la scia sembrava sgranarsi sempre più, e poi addirittura scompariva di colpo, quando la macchina su cui la ragazza viaggiava si lanciava in qualche sorpasso, così repentino e sfrenato che le gocce di sangue si disperdevano enormemente nell’aria, prima di cadere quasi nebulizzate sull’asfalto.
La pancia gli brontolava, segno che era passato molto tempo, ed era passata anche l’ora di mangiare senza che l’art se ne accorgesse.
Fece ancora qualche passo. Si arrestò.
La scia era scomparsa di colpo, un’altra volta.
L’art provò ancora ad andare avanti, ma non si vedeva più niente.
«Oh, cazzo!» si disse.
Tornò sui suoi passi, cercò di capire cos’era successo. Respirava a fatica, era impallidito di colpo.
«Oh, cazzo!» si disse ancora, perché capiva che lo stava assalendo un attacco di emorroidi. «Ci mancava anche questo!»
Rimase ancora fermo, impalato, per un po’, prima di dirigersi a piccoli passi verso l’agenzia, che era ormai poco distante.
Respirava a fatica, impallidendo di tanto in tanto in modo così repentino che i passanti facevano quei gesti improvvisi e non necessari, come mettersi a posto il nodo della cravatta, o mettersi in bocca una caramella prendendola al volo, dopo averla lanciata in aria e massaggiandosi nello stesso tempo il lobo svolazzante di un’orecchia, con due dita.
Arrivò finalmente in agenzia.
Passò di fronte alla centralinista, cercando di camminare più diritto che poteva, premendosi il fazzoletto contro le labbra perché non si vedesse che sanguinavano. Si tastò la faccia pesta, le costole, il ventre. Stava cercando di salire senza dare nell’occhio le scale di vetro, quando incrociò l’account.
Aveva un’aria febbrile, assente.
«Vedo che sei in forma!» gli disse.
«Be’, non c’è male» disse l’art.
«Meglio così!» continuò l’account. «Sapessi cosa c’è in arrivo! Una cosa dell’altro mondo, mai vista! Mai avuto per le mani una cosa così! Stiamo andando in orbita. Il cliente... Mai visto un cliente così! Gli ho già parlato un paio di volte. Non si capisce quasi che cosa dice per via dell’asma, ma quel poco che dice... Sono due notti che non dormo. Ti racconterò con più calma, appena c’è qualcosa di un po’ più chiaro, in questa storia...»
E scappò via.
L’art salì con fatica le scale, entrò nel suo ufficio.
«Tutto bene?» gli chiese il copy.
«Abbastanza.»
Poi più niente.
Quando l’art lasciò l’agenzia era già buio. Chiamò un taxi, perché faceva fatica a camminare.
«Mi porti a casa!» disse all’autista.
«Cosa ne so di dov’è la sua casa!» gli rispose quello.
L’art glielo disse.
Poco dopo, di fronte allo specchio del bagno, si disinfettò le ferite al volto, sputò il sangue che gli usciva dalle gengive, più volte. Si scoprì il torace e vide che era segnato in più punti, non si azzardava a premere troppo per verificare se le costole erano davvero rotte.
Si pettinò, cercò di mangiare qualcosa, un passato di verdure in cartone, perché gli facevano male le mascelle.
«E adesso come si fa?» si disse.
Tornò in bagno. Era impallidito di nuovo, le sue mani tremavano così tanto per l’agitazione che si spalmò sopra
le emorroidi il dentifricio all’azulene invece che l’apposita pomata.
«Ah... così va meglio!» si disse.
Tornò in camera. Cercò di mettersi a letto, ma era difficile trovare una posizione che non gli facesse male.
Spense la luce, cercò di chiudere gli occhi, di dormire.
«Accidenti!» si ricordò d’un tratto. «Non sono neanche passato a raccontare il resto di questa storia a quella cassiera!»
Si svegliò che non era ancora mattina, di soprassalto.
«Che idiota!» si disse.
Si buttò giù dal letto, o meglio provò a farlo, ma subito il dolore che aveva alle ossa lo fece contrarre. Si mise in cerca dei vestiti sparpagliati sul pavimento, alzando esageratamente le ginocchia a ogni passo, come se stesse ostentando di camminare quatto quatto, in silenzio.
Cercò di infilarsi le mutande, muovendo con fatica le gambe, a culo nudo sulle mattonelle del pavimento.
«Ma certo, ma certo!» si disse. «Come ho fatto a non pensarci prima!»
Andò in bagno. Gli ematomi sul volto e sul resto del corpo gli si erano illividiti. Cercò di lavarsi, e non si capiva se nel frattempo stava gemendo per il dolore oppure canticchiava.
Finì di vestirsi. Uscì in strada, raggiunse in taxi il luogo dove aveva visto la scia di sangue interrompersi improvvisamente, il giorno prima.
«Ecco perché si è interrotta!» si disse. «Hanno rifatto l’asfalto, da questo punto in avanti! E quello nuovo è ormai quasi dello stesso colore di quello vecchio, non si distingue quasi la differenza... Ma allora quanto tempo è passato!»
Cominciò a camminare sull’asfalto nuovo, mentre iniziava già ad albeggiare, lungo la via dai negozi ancora chiusi e con le saracinesche abbassate.
Arrivò a un incrocio. Il suo cuore cominciò a pulsare più forte, incontrollabilmente. Lo strato d’asfalto nuovo era finito di colpo. Al centro della strada che ora svoltava a destra correva una scia quasi nera, come se il camion degli asfaltatori avesse perso ancora un po’ del suo bitume fumante mentre si allontanava.
«Eccola! È lei!» esultò l’art.
Cominciò a seguire la scia, a piccoli passi, col cuore in gola. «Com’è bello andare per la città in questa luce che non è ancora quella del giorno e non è più quella della notte, seguendo bel bello la scia della tua sgarzetta!» avrebbe pensato l’art, se fosse stato in grado di pensare. Attraversò diversi isolati, senza staccare gli occhi dalla scia. Era così visibile e così continua che poteva persino distrarsi di tanto in tanto, e dare un calcio a un barattolo di acqua brillante abbandonato sul marciapiede. Zoppicava, avrebbe voluto tenere le mani nelle tasche ma il male che aveva alle ossa delle falangi glielo impediva.
Vide la scia di sangue svoltare e poi entrare in una casa a più piani.
C’era una donna grassa, in jeans di similpelle, che stava lavando il pavimento dell’androne.
«Sto cercando un set porno» gli disse l’art. «Mi hanno detto che si trova qui, in questa casa.»
La donna smise un istante di tirare lo spazzolone. Lo guardò.
«Il set? Lei? Per quale ragione? È un attore?»
«Devo liberare la mia ragazza!»
La donna lo guardò a bocca aperta. Si soffiò via una ciocca di capelli che le era caduta sul volto.
«La sua ragazza?» disse la donna. «E chi sarebbe questa signorina?»
«È la ragazza senza assorbente. Mi hanno detto che è passata di qui!»
«Oh, sì che è passata» disse la donna strizzando lo strofinaccio sulla bocca del secchio. «Ci può giurare che ci è passata! Perché, non si vede?»
L’art abbassò gli occhi. Vide che l’androne e lo straccio che la donna stava strizzando e le setole dello spazzolone e l’acqua detersiva nel secchio erano tutti rossi di sangue.
Attraversò l’androne, continuò a seguire la scia lungo le scale, fino alla porta di un appartamento del quarto piano.
Suonò il campanello.
«Lei chi è? Cosa vuole?» gli chiese l’uomo che venne ad aprire.
Aveva lo stomaco dilatato, da bevitore.
«Cerco quella ragazza senza assorbente!» disse l’art. «So che è stata qui!»
Non colse del tutto la fulmineità del movimento, ma un secondo dopo, mentre rotolava giù dalle scale, l’art capì che l’uomo gli aveva sferrato un pugno con forza, in pieno volto. E nello stesso tempo avvertiva che una persona, una donna a giudicare dal rumore dei tacchi alti, doveva essere schizzata fuori di corsa dalla stessa porta a cui lui aveva suonato, dopo che l’uomo l’aveva colpito, e adesso stava correndo giù dalle scale e quasi volando, se non proprio al suo fianco, perché non ci sarebbe stato il posto, perlomeno molto vicino, per arrivare in fondo alle scale non troppo tempo dopo di lui, per consolarlo.
«Mi dispiace. Si è fatto male?» gli disse infatti.
«No, no, non è niente. La ringrazio, signorina» rispose l’art.
Stava seduta sui talloni vicino a lui, che era ancora per terra. L’art poteva vedere da molto vicino che non portava mutandine sotto la minigonna a pois.
«Ho sentito che sta cercando quella ragazza senza assorbente...» gli disse.
«Oh, sì, sì! Può aiutarmi?»
La donna ruotò un po’ sui talloni, come su una sedia girevole, di fronte agli occhi dell’art che stava ancora disteso sul pavimento, con la testa appoggiata ad angolo retto contro la parete.
«Non so di preciso dov’è finita, dopo che l’hanno portata fuori di qui tamponata» disse molleggiandosi un po’ sui talloni. «Ma le darò l’indirizzo dell’ultimo set da cui è passata, anche se non si potrebbe. Forse da lì riuscirà a ritrovare la sua traccia, per forza di cose... Ma non dica a nessuno che gliel’ho dato io. Quella ragazza mi aveva parlato molto di lei...»
«Ah, sì, le ha parlato di me!» si animò l’art.
«Sì, sì, non ha fatto che parlarmi di lei, quando è stata qui. Ma adesso cerchi di alzarsi» disse la donna allargando macchinalmente le cosce per l’animazione. «L’aiuto io, la rimetto in pista!»
L’art cominciò ad alzarsi, sorreggendosi a lei. Veniva su piano piano, a segmenti, come una grossa marionetta.
«Accidenti!» disse quando fu finalmente in posizione verticale.
«Ce la fa a stare in piedi?» chiese la donna, che lo sorreggeva ancora per la vita.
«Credo di sì, la ringrazio.»
La donna gli diede l’indirizzo del set.
«Se lo scriva» gli disse.
«Grazie, lo tengo a mente» disse l’art, tastandosi il naso per constatare fino a che punto era rotto.
Intanto la donna stava cercando di rimettergli in ordine la camicia, la giacca, la cravatta.
«Lei chi è? Che mestiere fa, signorina?» provò a chiederle l’art.
«Sono una pornostar.»
Il pianerottolo era vuoto, silenzioso. L’art e la donna stavano uno di fronte all’altra impacciati, senza parlare.
«È stata buona con me!» disse infine l’art, chinandosi a baciarle la mano.
Rimasero ancora per qualche istante in silenzio. Poi l’art si girò su se stesso, cominciò a barcollare verso il portone.
Ma, un secondo prima di uscire, si girò di nuovo verso la donna.
«Come fa a stare assieme a un tipo così, signorina?» le chiese. «Non ha visto che panza?»
Non aspettò la risposta, riprese a barcollare verso il portone, l’oltrepassò, raggiunse una stazione di taxi lì vicino, si lasciò cadere sul sedile di dietro di una delle vetture, emettendo un verso che non si capiva se era un grido per il dolore alle ossa oppure l’indirizzo.
«Ho capito bene?» disse l’autista. «Vuole andare veramente in quel posto?»
«Sì» disse l’art.
La luce adesso era alta, le saracinesche dei negozi, una dopo l’altra, si stavano sollevando. Era forse per questo che la strada sembrava abbassarsi sempre più, e il taxi scivolare lungo un piano in discesa, sprofondare. Veniva dalla radiolina di bordo una di quelle musiche lente, che fanno piangere un po’, del mattino. L’art si assopì per alcuni istanti, lo capì solamente dal rumore che avevano fatto i suoi denti sbattendo gli uni contro gli altri nell’attimo del risveglio.
«Ha freddo?» gli chiese l’autista.
«No, no. Stavo solo sognando.»
D’un tratto sentì che la macchina si era fermata, segno che si doveva essere assopito di nuovo, dopo un po’.
«È arrivato!» disse l’autista girando la testa, e tirando nello stesso tempo il freno a mano, a lungo, lentissimamente, come per fargli capire fino a che punto la strada era in discesa.
L’art uscì piano piano dall’auto, provò a raddrizzarsi del tutto sulle ossa, gemendo sottovoce, per non dare nell’occhio.
Pagò, si diresse verso una porticina di ferro sul retro di un caseggiato.
Non c’era campanello. Batté i pugni contro la porta.
Si sentirono dei passi salire, pesanti, come addormentati.
«Chi cazzo sei?» chiese l’uomo che venne ad aprire.
Aveva le mani bagnate. Venivano dalle sue dita certi odori, non si capiva se erano di genitali o di varechina.
«Sono l’art.»
«E chi cazzo è l’art?»
«Quello che si occupa dell’aspetto iconografico di una campagna pubblicitaria.»
«Dell’aspetto che? Ah, sì? Ma cazzo! Che bello! Che paura! E adesso che cazzo vuoi?»
«La ragazza senza assorbente!»
L’uomo prese dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi, tranquillamente, se lo mise all’interno del pugno prima di colpire l’art due o tre volte sulla mandibola, su un occhio.
Un paio di altri uomini stavano salendo di corsa su per la scala, a piedi nudi.
«Che cazzo succede?» chiese uno dei due. «Hai dei problemi? Ti serve una mano?»
Il primo uomo sputò per terra.
«Nessun problema» disse spostando con calma la testa, perché l’art era venuto avanti di colpo, per colpirlo.
Pochi minuti dopo la porticina di ferro era di nuovo chiusa. L’art era coricato per terra, sul fianco, in posizione raccolta.
«Mi sono dimenticato di togliermi le scarpe, prima di andare a dormire» si disse, perché aveva perso conoscenza per qualche istante.
Cercò di alzarsi. La mandibola doveva essergli andata un po’ fuori posto. Provò a fare qualche passo, ma gli pareva di camminare nell’acqua oppure controvento. Però sentì che stava tirando un sospiro di sollievo, piccolo, perché gli faceva male sospirare, vedendo che la scia di sangue entrava sì nella porticina di ferro, ma che un’altra ne usciva, segno che la ragazza era stata in quel set ma che poi ne era uscita.
«Non è più là dentro!» si disse l’art, riprendendo a cercarla.
Si spostò per alcune ore, seguendo la scia lungo le strade tutte inclinate, e vedendole appena appena perché molte ciocche ingellate gli erano cadute a visiera sugli occhi durante l’ultimo pestaggio, oltre a quelle che gli erano andate fuori posto mentre rotolava giù per le scale.
Era già ora di pranzo. Era affamato, ed era esausto. Stava seguendo dei piccoli segni rossi tracciati di tanto in tanto sul muro, come da una mano, pareva. Per fortuna si stavano dirigendo verso un self-service.
«Pensa proprio a tutto!» si disse l’art. Entrò nel self-service. «È stata qui dentro!» capì vedendo un segno scuro che correva lungo tutta la pila dei cabaret, da una parte, che qualcun altro – non certo lui! – avrebbe potuto scambiare per una ditata sporca di cioccolata che qualche cliente avesse dato per scherzo prima di uscire. «Sì, sì, è stata qui!» si ripeté l’art. «Ha lasciato questo segno per dirmi che sono sulla strada buona, mentre sarà stata stretta tra due di quelli là, con la panza!»
Mangiò qualcosa, con fatica perché la mandibola aveva problemi ad aprirsi e chiudersi bene. Poi uscì di nuovo, ricominciò a seguire i segni sul muro, finché non li vide cessare di colpo. Qualcuno di quelli che erano con lei se ne doveva essere accorto e l’aveva messa a posto lì su due piedi, con uno schiaffo.
«Ve la farò pagare, bastardi!» si disse l’art.
Ma qualche metro più in là, quando ormai non ci sperava più, vide che la scia riprendeva di colpo, e con una macchia così grande che poteva sembrare una di quelle chiazze annerite che si formano nelle strade quando viene rovesciato un secchio di vernice per la segnaletica, e le macchine ci vanno sopra da tutte le parti, con le ruote.
«Si è vuotata una scarpa!» si disse l’art.
Riprese a seguire la scia, fino a una stazione della metropolitana.
Discese le scale mobili, e per fortuna si continuava a vedere la scia in quelle scanalature parallele che sono incise in ciascuno dei gradini di metallo. E poi sul pavimento di gomma. Salì su una vettura, camminando su una striscia nera e caramellata che portava fino a una delle sue porte. Discese alla stazione, dove vide che la scia riprendeva. Ricominciò a seguirla, correndo su per le scale di marmo, come su una passatoia di gala. Uscì in strada, camminandoci sopra lungo il marciapiede, in una via al centro della quale correva un’altra strada sopraelevata, a meno che non fosse una ciocca di capelli ingellati che creava quel rettilineo d’ombra incombente di fronte ai suoi occhi, sull’asfalto.
Camminò sopra un ponte ferroviario, sotto il quale brillava un intrico di binari, e poi ancora lungo una strada più stretta, che svoltava, fino a una costruzione isolata, un capannone industriale dismesso.
Fece irruzione, forzando la porticina con una spalla, discese lungo una stretta scala di ferro, mentre qualcuno, sentendo il rimbombo dei suoi passi, saliva di corsa lungo la stessa scala, dal basso, facendola tremare nelle giunture.
«Questo è un set porno?» chiese l’art quando fu di fronte all’altro, a metà scala.
«Secondo te che cos’è?» disse l’uomo.
Si vedevano, tutt’intorno, dei frammenti di vetro pestati, insanguinati.
«Cosa ci fanno qui dentro dei pezzi di vetro?» chiese ancora l’art.
«Ci sono stati dei brindisi!» sogghignò l’uomo gettando indietro la testa snodata.
Venivano da più in basso dei versi che non parevano umani, da alcuni blocchi di carne così vicini l’uno all’altro che l’art non riusciva a distinguere di cosa si trattasse.
«Lei non può stare qui!» disse l’uomo. «Aria!»
«Non prima che lei mi abbia detto dove avete nascosto la ragazza senza assorbente!»
L’uomo roteò gli occhi.
«Venga fuori che glielo dico. Qui c’è troppo rumore.»
Balenò per un istante, dal basso, il raggio di luce di un riflettore dirottato verso di loro, dal set, da qualcuno che voleva accertarsi di cosa stava succedendo lungo la scala.
Uscirono.
L’uomo non disse nient’altro, dalla sua bocca non usciva alcun suono, mentre pestava l’art con le mani, coi piedi, con la testa, coi gomiti, con le ginocchia.
Erano le tre e mezzo del pomeriggio, quando l’art si allontanò dalla zona, continuando a seguire la scia che usciva biforcata dalla porticina del capannone.
Alle cinque e tre quarti era di fronte a un altro set.
Venne pestato.
Alle sette incappò in due uomini con lo stomaco prominente, che facevano la guardia a un grande camion, col bilico e senza cabina di guida, parcheggiato in uno spazio di estrema periferia, che doveva essere adibito al trasporto di animali perché dal suo interno venivano rumori cavernosi, non umani.
Venne pestato.
Aveva le ossa rotte, eppure un vigore meccanico lo sospingeva.
Alle otto e mezzo, mentre continuava a seguire la scia della sua ragazza, cominciò a incappare in alcuni uomini con le labbra vistosamente dipinte.
«Ci sarà qualche locale equivoco, da queste parti!» si disse.
Ne incontrava sempre di più, seduti su un trespolo di qualche tavola calda, girati verso la strada, intenti a bere un boccale di birra sulla porta aperta di un locale, o a fumarsi una sigaretta camminando sul marciapiede.
L’art continuava a barcollare sulle gambe un po’ segmentate, non ci vedeva più molto bene perché gli occhi gli si erano tutti gonfiati per i colpi, eppure sentiva il suo cuore pulsare sempre più forte, man mano che cresceva il numero di quegli uomini con le labbra dipinte che incontrava, e cominciava sempre più chiaramente a sospettare, a capire, che ciò che colorava le loro labbra in realtà non era rossetto ma mestruo.
«È vicina, lo sento!» si disse col cuore in gola. «Sta moltiplicando i segnali per farmi capire che mi avvicino sempre più a lei, ha sguinzagliato dappertutto i suoi inconsapevoli messaggeri dalle labbra dipinte. Tieni duro, farfalla, non arrenderti proprio adesso, io sono qui!»
Le luci erano già tutte accese, nelle strade, le bocche degli uomini erano come fosforescenti, a guardarsi attorno si vedevano solo quelle macchie brillare, pullulare.
C’era uno di loro che stava fumando, dopo avere mangiato senza evidentemente forbirsi col tovagliolo, di fronte alla porta di un locale.
L’art gli si fermò di fronte, impallidendo di colpo perché gli era venuto un attacco improvviso di emorroidi per l’agitazione.
«Almeno avessi a portata di mano quel dentifricio!» si disse.
L’uomo continuava a fumare, come senza vederlo.
«La sua bocca...» provò a balbettare l’art.
«Be’, che cos’ha la mia bocca!» grugnì l’uomo alzando per la prima volta lo sguardo su di lui.
Si era staccato dalle labbra la sigaretta, era tutta rossa e impiastricciata sul filtro, per il sangue.
«Lei è qui» balbettò ancora l’art, «è qui vicino!»
«Di chi sta parlando?» chiese l’uomo.
«Ma di quella ragazza senza assorbente!»
«Ah, ci può giurare che è qui vicino! Non è tanto che l’ho lavorata!» disse l’uomo facendo sussultare le spalle, per far capire che stava sghignazzando. «Ci abbiamo dato dentro in parecchi, non so se ha dato un’occhiata qui intorno... Ma non vorrei parlare di lavoro anche qui, sono in pausa.»
L’art oscillò nell’aria, per via delle ossa. Ma si trattenne.
«Accidenti, che sbornia!» disse ancora l’uomo continuando a fumare. «Sì, sì, è già due o tre volte che me la mettono sotto. Applico la ventosa della mia bocca a quella falla, gettandomi a capofitto contro il centro di eruzione del getto, incollo le mie labbra alla rosa di quell’idrante, sento che sono sempre sul punto di spaccarsi per la violenta pressione cui sono sottoposte, devo tenere la gola serrata per non doverlo inghiottire, e per non dover poi vomitare durante le riprese, mentre tutt’intorno c’è solo quel rosso, pavimenti, pareti, gli altri corpi che si aggrovigliano insanguinati nell’orgia, come una corolla di gattini appena scodellati e ancora con gli occhi chiusi, si sente solo il boato di quel getto che cresce, che cresce, come quando ci si sta avvicinando a una cascata camminando attraverso un bosco, a fianco di un ruscello che si ingrossa piano piano, si ingrossa, corre sempre più forte, si comincia a distinguere già un rumore che sale, sempre più forte eppure come sempre da più lontano, in mezzo ai rumori del bosco, al cinguettare degli uccellini, degli uccelloni...»
L’art fissava le labbra fosforescenti dell’uomo che si muovevano nel parlare, anche la cicca, che tirava fuori di tanto in tanto, insanguinata.
«Tenda l’orecchio» disse ancora l’uomo, mettendosi una mano dietro il padiglione, «non lo sente anche lei? Cresce, cresce. Non ha ormai che da seguire quello per trovarla! Forza, ce l’ha quasi fatta! Ascolti solo quel rumore di cascata che cresce, piano piano, deve sentire soltanto quello, seguire soltanto quello, a questo punto, finché non arriverà dove ha origine questo fragore!»
L’art rimase ancora un istante di fronte all’uomo, indeciso se fargliela passare liscia o se pestarlo. Poi girò su se stesso, cominciò a camminare in direzione di quella che gli pareva la fonte del fragore.
Camminava con gli occhi quasi chiusi per via delle tumefazioni, ma anche perché così gli sembrava di sentire di più il montare di quel rumore potente di cascata. Lo continuava ad avvertire in mezzo ai suoni improvvisi di clacson delle auto, dei passi, delle voci. Scorgeva anche, qua e là lungo il marciapiede oppure alla guida di qualche auto parcheggiata che ripartiva, quegli uomini dalla bocca vistosamente dipinta, sempre più numerosi, in crescendo, segno, anche questo, che stava andando nella direzione giusta, verso l’origine tonante della cascata.
Il rumore cresceva, cresceva. Lo seguiva tagliando per delle piccole traverse, col cuore che gli batteva sempre più forte, senza respirare. Attraversò una minuscola piazza, camminando con la testa un po’ arrovesciata per il male che aveva alla spina dorsale, con la bocca spalancata per lo sforzo che gli costava respirare. Ma, in questa posizione, poteva vedere al centro delle strade, in alto, i cavi elettrici dei tram che cominciavano impercettibilmente a vibrare, perché il rumore cresceva, stava diventando a poco a poco un fragore. «Resisti, mia colomba! Io sono qui!» si ripeteva continuamente l’art per trovare la forza di percorrere l’ultimo tratto di strada che ancora lo divideva dalla sua ragazza. C’era un numero crescente di quegli uomini con la bocca mestruata, intenti a bighellonare e a fumare, come una razza appena inventata, ancora trasognata.
Anche il marciapiede cominciava a vibrare, si sfuocava. L’art fece ancora un centinaio di metri, nel fragore che cresceva ancora di più, mentre sempre più numerose scorrevano dalle parti le folate di quegli uomini dalla bocca dipinta. Uscivano tutti da un edificio isolato e transennato, segno che le vibrazioni avevano già lesionato le sue strutture.
«È là dentro!» si disse l’art. «Ma come fare a entrare senza dare nell’occhio?»
Si fermò, oscillando un po’ sulle ossa.
«Ecco, ho trovato!» si animò.
Rimase ancora fermo per qualche istante, tumefatto.
«Signorina» chiese con un filo di voce a una ragazza che stava incrociando, «sarebbe così gentile da prestarmi il suo rossetto?»
La ragazza restò per un istante in silenzio, tranquilla eppure con gli occhi leggermente sbarrati.
«La prego.»
La ragazza aprì la borsetta, gli consegnò uno stick.
Oscillando sulle ossa peste, sforzandosi di tenere un po’ aperti gli occhi all’interno delle tumefazioni, l’art cominciò a spalmarsi lo stick su quel che restava delle sue labbra.
Restituì il rossetto alla ragazza, si chinò a baciarle la mano con la bocca appena dipinta, in segno di ringraziamento.
Riprese a camminare verso l’edificio isolato che tremava. Oltrepassò le transenne, passò indisturbato in mezzo a un gruppo di uomini dalle labbra dipinte che uscivano in quel momento. Oltrepassò anche la porta, nel fragore che esorbitava. Discese una rampa di scale, poi un’altra. Entrò in un set ricavato in un seminterrato.
«Sono qui!» gridò, cercando di muovere la mascella sfasciata.
Fece qualche passo in avanti, barcollando. Scorgeva solo, tra le tumefazioni degli occhi, un groviglio di corpi annegati e insanguinati, in uno spazio abbagliato dai riflettori.
«Da dove cazzo salta fuori questo qui? Non c’è scritto su questo cesso di copione!» gli parve che qualcuno – forse il regista – stesse gridando nel fragore.
Ma nessuno muoveva un passo per fermarlo, mentre avanzava con le labbra dipinte, barcollando.
«Accidenti!» gli passò per la mente. «Quante ne avrò da raccontare a quella cassiera!»
Qualcuno con le labbra dipinte doveva avere staccato la bocca o qualcos’altro dalla ragazza perché si vide un getto liberarsi nell’aria, all’improvviso.
«Sono qui!» sentì che la voce della ragazza stava gridando, emozionata.
L’art scavalcò un po’ di corpi, barcollò ancora per qualche passo, nel sangue, nel fragore.
Si chinò, disarticolato, sul corpo della ragazza, che lo guardava dal basso, estasiata.
«Oh, sei qui! Finalmente! Mio guerriero, mio art!» balbettò lei col volto raggiante. «Sei riuscito ad arrivare fino a me, a liberarmi! Credimi, io non ho ancora capito bene cosa mi stanno facendo fare, questi qui!»
«Lo so, ti conosco» disse l’art muovendo la mascella un po’ fracassata. «Non devi dirlo neanche per scherzo! Non devi giustificarti, colomba!»
La prese tra le sue braccia, sollevandola disarticolatamente da terra.
«Oh, cazzo, che sballo!» stava gridando il regista da qualche parte, nel fragore. «Ci manca solo il bacio, a questo punto!»
«Bacio! Bacio!» si sentì gridare da tutte le parti.
Non c’era bisogno di dirlo, perché l’art e la ragazza si stavano già baciando, mentre lui camminava barcollando verso la porta.
Il locale vibrava, si sfuocava.
Nessuno muoveva un passo, nessuno respirava.
L’art continuava a barcollare verso la porta, col corpo nudo della sua ragazza tra le braccia, e anche lei gli teneva abbracciato il collo un po’ tumefatto mentre lo baciava, aveva chiuso gli occhi.
Adesso l’art era quasi arrivato alla porta di ferro del seminterrato, tenendo sempre tra le braccia la sua ragazza, che srotolava dietro di sé una scia purpurea di sangue, come uno strascico.
«Accidenti!» gridò il Gatto. «Ma lei è un narratore di razza!»
L’ispettore Lanza arrossì, si confuse.
«Oh, sì! Lo lasci dire a me, che me ne intendo! D’altronde l’avevo detto subito, non mi ero sbagliato. Lei ha introdotto qui dentro qualcosa che ci porterà lontano, creda a me. Questa discesa agli inferi, come dicono adesso, senza sapere neanche di cosa si tratta, bamboleggiando... Faremo altro, faremo ben altro, in futuro, anzi neppure tra molto, stia a vedere. Faremo ruotare tutta questa cazzo di cosa su se stessa. Lei mi ha dato uno spunto. Si può fare! Si può osare! Stiamo andando a vele spiegate verso il punto di svolta, verso la cascata. So io cosa intendo. Quanto al resto, ho visto che le sono scappati un paio di baciamani...»
«Be’, sa» balbettò Lanza, «non sono mica di legno!»
«Certo, certo, capisco! Vada avanti così, che va bene! Al resto penserò io, ce lo metterò io. Non è lontano il momento in cui anch’io entrerò qui dentro a volto scoperto, come un ariete, direttamente al cospetto della Musa... A proposito, non ha ancora pensato di andare a interrogare il Matto?»
«No... io... veramente...»
«Non guardi in faccia a nessuno. Ci vada, ci vada! È lui l’art della nostra Meringa, a questo punto! Come possiamo sperare di trovarla, se non mettiamo in movimento anche quello là?»
«Però, forse, in questo momento... È un po’ indiscreto, mi pare...»
«Ci vada, ci vada! Sento anch’io un rumore di cascata che cresce, si avvicina. E sono contemporaneamente dentro la cascata e sono la cascata. Solo io posso portare a compimento, a incominciamento... Rompa, rompiamo, gli indugi! Ci vada! Vedrà che cosa si sta mettendo in movimento, qui dentro!»
«Ma adesso lui è qui, qui con me. Isolati dal resto del mondo, separati eppure incarnati, come assenti eppure mai come adesso viventi. In questa notte che si è allargata, è scoppiata. Ci attacchiamo e poi ci stacchiamo. E poi ancora ci riattacchiamo. Dopo brevissimi sonni o dormiveglia durante i quali non siamo da nessuna parte perché siamo in ogni parte. Sento il suo pezzo di carne lievitare di nuovo nella mia mano inanellata che lo tiene con sé anche nel sonno. Lo prendo di nuovo nella mia bocca dipinta, io, la sua Musa. Sono tutta violata eppure è come se con lui fossi ancora inviolata, di nuovo e ogni volta sverginata. Nella mia bocca adornata, nella mia fica salata, nel mio culo tutto smerdato, tutto profumato. Mi rovescio sul dorso, lo abbraccio mentre anche lui mi abbraccia, lo sento penetrare di nuovo dove sono spaccata, consacrata. I nostri occhi sfavillano nella penombra, in questa notte gemmata, deflagrata. Mi apro ancora di più al suo pezzo di carne, giriamo su noi stessi avvinghiati, oltrepassati. Mi metto sopra di lui, lo cavalco, prendendo in pugno la radice del suo cazzo scoppiato, mineralizzato. Ci rovesciamo di nuovo, mi cavalca a lungo, a sua volta, mentre sto sotto di lui tutta scopata, tutta dilatata. Spalanco nell’aria le gambe, le raccolgo tutte un po’ scardinate. Mi prende in bocca le tette. Mi fotte a lungo, in crescendo, mi riempie, mi squarta, il ritmo dei nostri corpi è lo stesso di quello cardiaco che aumenta sempre più, che dilaga. Rovescio gli occhi, la gola mi si chiude. Sento il suo getto rovente allagarmi là dove sono tutta assetata, abbeverata. Ci addormentiamo di nuovo l’uno sull’altra, avvinghiati, abbandonati, prima di svegliarci di nuovo, con le dita ancora intrecciate, ingioiellate. Gli apro il culo, la bocca, lo prendo ancora e ancora in tutti quegli altri spazi negati che si spalancano solo per lui, nel mio corpo. Le nostre bocche riempite. Le nostre lingue smerdate, profumate. Mi viene dentro col volto. Nella mia fica fiutata, immacolata. Si tuffa nella mia pancia spaccata, germogliata. Lo prendo in bocca a mia volta, glielo inghiotto. Gli parlo con la bocca contro il buco del culo, tutta cremata, mezza addormentata. Me lo rimetto dentro la fica piumata, trasognata. Mi afferra i fianchi, le tette, mentre sto tutta inarcata, tutta celebrata, mi entra nella fica col cazzo, fino in fondo, ci entra quasi anche con la carne e l’osso del pube, dai peli tutti bagnati, scompigliati, mentre si muove dentro di me con veemenza. Spingo verso di lui, facendo forza con la pianta dei piedi contro il piano sbrodolato del letto, prima di sollevare di nuovo le gambe, mentre mi passa da parte a parte tenendomi con tutte e due le mani per la carne del culo, con le dita dentro il retto tutto dragato, tutto incoronato, in questo incontro che stavo aspettando da tempo, che ha riaperto il tempo. Ecco, la mia notte è questa, il mio magistero è questo. La soglia è stata abbattuta, è saltata, abbiamo conficcato le nostre teste in una polpa ancora increata. Io non chiedo di avere un canto, un mio canto, perché ogni manifestazione della mia presenza qui dentro è un canto.»
«Eppure anche la mia voce cresce, qui dentro, non si può più fermare. Porto sempre di più sulle spalle il peso di questa storia e dei suoi destini. Io, il suo editore. Io sono colui che sta fuori dalla porta per poter stare più perfettamente dentro la porta. Ho ascoltato ogni cosa, non ho dimenticato. Non ho lasciato cadere nessuno dei fili, ne ho trovati degli altri che nessun altro avrebbe scoperto e neppure immaginato. Sono come il ragazzo che porta i fiori più profumati, ma che nessuno vuole. Sono il più spaesato, il più allontanato. Sono quello che balla stringendo con troppa forza la sua dama, sono l’inaccettato. Sono colui che tutti stanno cercando ma che nessuno vuole. Ho detto tutto questo all’account di quell’agenzia pubblicitaria, quando sono andato finalmente da lui e mi sono presentato. “Sono l’editore di questo libro mai nato, irrespirato” gli ho detto gettando indietro la testa. “Oh, sì, l’aspettavo!” mi ha detto. “Sto seguendo la storia di questo libro con enorme attenzione!” Si è abbandonato sullo schienale. “Non mi sono sfuggite le cose che lei ha detto all’art. Mi ha colpito la storia di quel vostro nuovo cliente, di tenersi pronti...” gli ho detto, “ho colto, tra mille altri, il suo segnale. Mi sono presentato!” L’account ha socchiuso un po’ gli occhi, mi ha sorriso. “Ecco, ora siamo faccia a faccia, senza diaframmi, finalmente, noi due, ci siamo presentati!”»
L’agenzia
L’ufficio era silenzioso. Vedevo, dietro la sua testa, i campioni di alcuni contenitori di detersivo liquido, i fogli colorati di alcuni storyboard.
«Sì, certo» ha detto ancora l’account, «è già un po’ di tempo che ho messo gli occhi su quest’opera che si va formando e di cui lei è l’editore. E, come lei ha prontamente capito, proprio in relazione all’arrivo di questo nostro nuovo, sorprendente cliente. Bene, abbiamo colto reciprocamente i nostri segnali, ci siamo finalmente incontrati. Credo che ci sarà molto da fare, qui dentro, d’ora in avanti. Se qualcuno si era fatto delle idee diverse, si aggiorni. Questa storia comincia soltanto adesso!»
Anch’io mi sono abbandonato per un istante sullo schienale, ho chiuso gli occhi.
«Certe volte succedono cose che non avremmo mai pensato potessero accadere» ha continuato l’account, «persino noi, che viviamo in questo regno. Fino a un secondo prima eravamo alle prese con un detersivo per piatti, con qualche cliente un po’ difficile, titolare di una ditta di collant con mutandine per alzare gli zigomi. Briefing, definizione del target group, pre-test e post-test, tutto il resto... Di colpo arriva una telefonata che ti lascia di sasso. “Ma no, non può essere...” ti dici quando metti giù la cornetta. Fai un giro per sgranchirti le gambe, vai a prendere un caffè alla macchinetta. “Ma lo sai che telefonata ho ricevuto un momento fa?” butti lì col primo che incontri. Riprendi il tran tran delle tue riunioni, le tue colazioni di lavoro, i tuoi viaggi. Non ci pensi quasi più, pensi ad altro. Finché un giorno il tuo telefono squilla di nuovo. Tiri su la cornetta. È ancora quello là. Ti si blocca il respiro. Resti lì impalato, per un po’, ad ascoltare, perché, oltre a tutto il resto, non è facile decifrare bene, parola per parola, ciò che dice quello, per via della voce...»
Mi sono tirato un po’ su, sulla poltroncina. Ho drizzato le orecchie.
«Perché? Che voce ha?»
«Mah... una voce afona, asmatica. Non so come dire... Non sembra in diretta, come se venisse da un’altra parte. “Che sia registrata?” mi sono chiesto. Ma non era registrata perché rispondeva a tono agli abbozzi di domande che riuscivo di tanto in tanto a balbettargli. “Ho capito, ho capito!” ho provato a dirgli. “Ma non si deve stupire del mio sbalordimento. Dobbiamo pensarci un momento, verificare. Lei capisce. Non ci era mai arrivata una richiesta come questa!”»
«Ma di che richiesta si tratta?» ho provato a domandargli. «Mi faccia capire.»
L’account si muoveva continuamente sulla sua poltrona, non si capiva se era per via delle emorroidi o per l’agitazione.
«Non è facile per me dirlo così, su due piedi, di colpo, la prima volta che ci si vede... Avevo qualche problema persino a parlarne agli altri, qui dentro, tanto la cosa era fuori dal comune. D’altronde il compito dell’account è delicato, rischioso, il più delicato e rischioso che ci sia qui dentro: fare da tramite tra il cliente e l’agenzia, tra l’agenzia e il cliente, seguire il cliente che si profila, anche quando dà solamente i primi cenni, fiutarlo, quasi quasi evocarlo, stare radicalmente dalla sua parte, anche quando non ha ancora una parte, stare nello stesso tempo radicalmente anche dalla parte dell’agenzia, e spingersi su questo rischioso terreno così a fondo da non sapere neanche più chi si è, da che parte si sta, se si sta davvero da qualche parte, che cosa si sta mettendo in moto, sta prendendo vita.»
«Sì, sì, d’accordo, capisco, posso capire» gli ho detto, «chi più di me può capire una situazione così! Ma io sono un editore. E sono qui per qualcosa che mi era parso ci riguardasse entrambi. Per questo ho risposto con tale prontezza al suo segnale. Dalle sue parole non si capisce ancora...»
L’account si è mosso ancora di più sulla sua poltrona, oscillando da una parte all’altra per scaricare il peso del corpo alternativamente su una e sull’altra natica invece che sull’ano.
«Be’, sì, non ha tutti i torti» ha ammesso, dopo un po’. «In effetti è come dice lei. È per questo che avevo buttato lì l’accenno a quel nuovo cliente, con l’art... Contavo proprio sulla sua attenzione rapace, di editore, sulla sua straordinaria prontezza di riflessi. Avevo ricevuto da poco una terza telefonata dal cliente. “Allora, quando mi dà una risposta?” si era spazientito, alla fine. “Guardi che non siete l’unica agenzia sul mercato! Posso rivolgermi ad altre!” “No, no!” l’ho fermato. “Se c’è un’agenzia che può far fronte a una simile richiesta, questa è la nostra! Ma prima vorrei avere uno scambio d’idee diretto con lei. Avrei bisogno d’incontrarla.” “C’è qualche problema?” “Nessun problema!” ho risposto. È stato allora che mi è venuta in mente quest’opera in formazione.»
«Ah, era ora!» ho esclamato oscillando asimmetricamente di fronte a lui. «Adesso ci siamo!»
L’account
La mia testa ha cominciato a lavorare alla cosa, a tutto spiano, mentre mi preparavo all’incontro con quel cliente. «Sì, sì, certo» mi dicevo, «questa qui non è una campagna come tutte le altre, qui non è questione di buttare giù uno storyboard, di inventarsi uno slogan, brand image e via! Questa è una campagna come nessuno ha mai fatto e nessuno, per forza di cose, se va in porto, farà... Una campagna, è il caso di dirlo, epocale. Per questo bisogna mettere in moto meccanismi di tutt’altra portata, farci crescere dentro processi latenti da portare a un grado di inveramento assoluto.»
Il giorno dopo sono andato a incontrare il cliente. L’appuntamento era a un’ora insolita: le diciannove. Mentre raggiungevo in macchina l’indirizzo che mi aveva dato, sentivo un leggero batticuore. «Che cosa sto facendo?» mi dicevo. Mi passavo la mano sulle guance appena rasate, ascoltando sovrappensiero l’autoradio. Ho percorso la tangenziale, per un po’. «Ma dove cazzo sta questo cliente?» mi sono detto, fermandomi infine di fronte a un palazzo appena costruito, e che doveva essere ancora quasi del tutto disabitato, a giudicare dalle finestre spente, dai balconcini ancora perfettamente intatti, senza fiori. Ho suonato alla porta. Mi è stato aperto quasi subito, senza che mi venisse chiesto chi ero attraverso la griglia del citofono. Sono entrato. Anche la gabbiola della portineria era spenta, deserta, non solo perché era passata l’ora, mi pareva. Ho cominciato a salire a piedi le scale, perché non mi era stato detto neppure il piano. Passavo di fronte a porte nuove di zecca e tutte chiuse, mentre svoltavo ai pianerottoli, senza targhette dei nomi. Non una voce arrivava da dietro le porte, non un suono. «Ma questo palazzo è deserto!» mi dicevo. Finalmente, a uno degli ultimi piani, ho visto una porta socchiusa. Ho suonato il campanello, per sicurezza.
«Venga avanti!» ha gridato una voce da dentro, afona.
Ho mosso qualche passo all’interno. La casa era vasta, ammobiliata, eppure sembrava del tutto disabitata.
«Eccola qui, finalmente!» ha detto un uomo con la faccia coperta da una maschera di porcellana, vedendomi apparire.
Stava seduto nell’angolo più lontano di un soggiorno perfettamente ammobiliato, ma non su una delle poltroncine che c’erano lì vicino o sul divano, su una piccola sedia a sdraio colorata, di quelle da campeggio.
«Sono l’account executive!» gli ho detto tendendogli la mano.
«E io sono solo, genericamente, il suo cliente, per adesso» ha risposto dandomi a sua volta la mano, ma senza alzarsi dalla sua sedia a sdraio.
Mi ha fatto cenno di accomodarmi su una delle poltrone, un po’ lontano.
Mi sono guardato attorno.
«Lo so quello che sta pensando» mi ha detto. «Non si preoccupi. Questa non è la mia casa. Ho affittato questo appartamento solo per poter trattare questo affare con lei, lontani da occhi indiscreti, indisturbati. Si sieda. E non si impressioni per questa maschera. È solo una piccola precauzione. Si rilassi...»
Mi sono seduto. La sala era illuminata in più punti, eppure la luce era appena sufficiente per vedere.
«Veniamo subito al sodo» disse il cliente. «Il budget!»
Stavo con le orecchie dritte, non fiatavo.
Ha sparato una cifra, con quella sua voce che sembra sempre venire da lontano, afona.
«Come ha detto?» gli ho chiesto.
Non credevo alle mie orecchie, non mi era mai capitato di sentir formulare una cifra come quella.
«Ha capito bene» mi ha detto.
L’ho guardato.
«Ma no, non è possibile! Mi scusi...»
Ha inclinato un po’ la testa, non si capiva se, sotto la maschera, sospirava o rideva.
«Lì, proprio di fronte a lei, sul tavolino» ha detto un istante dopo. «Le ho preparato tutti gli attestati, garanzie finanziarie, coperture... Dia un’occhiata.»
Ho preso la cartella, ho cominciato a sfogliare i documenti. Si sentiva solo il rumore dei fogli che passavano uno dopo l’altro tra le mie dita sfuocate.
«Non credo ai miei occhi» ho balbettato. «Sembra tutto in regola... Non mi era mai capitato di vedere una cifra come questa!»
«Per forza! Non aveva ancora fatto affari con me!»
Ho alzato gli occhi, anche se era lontano, per guardarlo.
«C’è qualche problema?» mi ha chiesto di nuovo. «La cosa la spaventa?»
«Nessun problema!» ho risposto spavaldamente. «Si sa come stanno le cose. Il mondo è in svendita! Si tratta solo di ricavare più che si può dalla sua liquidazione.»
Il cliente ha gettato indietro la testa. La sua maschera ha luccicato per un istante più forte.
«È proprio così, ha detto bene! Ma vorrei che fosse cosciente che l’operazione che abbiamo di fronte non è mai stata tentata da nessuno. E che occorre prepararla con metodi mai tentati prima. Innestare processi di portata tale da creare i loro stessi terreni di incarnazione.»
«Sì, sì, questo lo so, lo capisco» ho provato a dire.
«E bisogna che tutto questo trovi il suo momento di irradiazione in qualche grumo emotivo e mentale che possa portare su di sé tutto quanto» continuò il cliente, «o che ne sia al contrario il portato. Chi può dire infatti perché si sta formando un’opera come questa? Che cosa c’è dietro? Se non è anche questa il portato della strana richiesta che arriva fino a lei con più perentorietà, con più forza, attraverso la voce un po’ afona di questo suo strano cliente che sta portando il suo ruolo di account a un segno del tutto diverso, impensato, mai prima d’ora avvistato...»
Continuavo a guardare il cliente, rabbrividendo un po’ perché, anche se ero stato fatto accomodare un po’ lontano, mi ero accorto che, al di sopra della fronte quasi interamente coperta dalla maschera, portava un evidente parrucchino di nylon.
«Perché qui dentro, in quest’opera, è già tutto inscritto, ci sono già in formazione tutti gli elementi, a guardar bene, a immaginare le loro linee di espansione, di irradiazione. Provi un po’ a pensarci...»
Si è fermato di colpo, non ha detto altro.
Dovevo essere rimasto con gli occhi sbarrati, sulla mia poltrona, perché d’un tratto mi ha fatto un piccolo cenno d’inchino con la testa coperta dalla maschera, per indicare che quel primo colloquio era finito, me ne potevo andare.
Sono uscito da quella casa, ho imboccato le scale e, mentre scendevo, sentivo il rumore dei miei passi risuonare fin dentro le scatole vuote degli appartamenti privi di mobili, oltre le porte appena applicate, impellicciate, quelle d’ingresso e quelle che si trovavano all’interno degli appartamenti deserti e appena dipinti, sigillati.
È stato dopo questo colloquio che ho pensato di lanciare qualche segnale, di rivelare l’irruzione di quel cliente qui dentro, attraverso il dialogo con uno dei nostri, l’art, sperando che qualche orecchio infinitamente ricettivo l’avrebbe colto, che non sarebbe caduto nel vuoto, che avrebbe capito la portata potenziale di questo evento, qui dentro, capace di catalizzare tutto ciò che va nella direzione dello sfondamento, del rovesciamento. Lei mi capisce. Non c’è nessun altro che possa capirlo quanto lei, qui dentro, mi pare... quello che sta succedendo, che si sta preparando. Che sta lavorando in questa direzione da tempo, nel suo vibrante silenzio, lei, il più indignato, il più rassegnato. Ma adesso venga con me, facciamo assieme un giro dell’agenzia, le comincio a far conoscere qualcuno qua e là, stringere un po’ di mani, e intanto parliamo, complottiamo...
Il brief
«Ah...» sospirò l’account alzandosi dalla sua poltroncina, con sollievo.
Mi alzai a mia volta.
Veniva dal resto dell’agenzia un rumore di passi sui trasparenti gradini, di pennarelli fatti sfrecciare sui vetri, a cento all’ora.
«Che straordinaria situazione!» disse l’account prendendomi sottobraccio. «Io e lei insieme. Io, l’account che ha per le mani il più straordinario progetto di campagna mai immaginato, e lei, l’editore di un libro che potrebbe diventare il cuore stesso di questo progetto, il suo campo di forza, il suo destino.»
Ci stavamo muovendo in una sala grande, dove si aprivano da tutte le parti uffici a vista delimitati da pareti di vetro.
«Ecco, vede...» cominciò l’account, «io ho pensato molto a questa storia. Non faccio altro, di giorno, di notte. Passo in rassegna tutti i personaggi, le storie, una per una. Siamo di fronte a questo passaggio inaudito del mio ruolo e della mia funzione d’account, sto trattando una campagna che nessuno al mondo si era mai sentito proporre, che nessun altro si sentirà mai più proporre, per forza di cose, se va in porto. Devo cercare, inventare strade che nessuno aveva mai percorso, in questo mestiere, andare verso uno sguardo totale, esponenziale...»
Si interruppe un istante, mentre eravamo ormai in cima alla scala di vetro che portava al primo piano.
«Le presento l’art!» disse di fronte a una porta aperta.
C’erano due uomini seduti a due scrittoi in fibra, gemelli, in un ufficio.
«L’art? Proprio l’art?» provai a dire.
Non credevo ai miei occhi, mentre uno dei due faceva un cenno di saluto sollevando una mano tutta bendata, irrigidita dentro una steccatura.
Anche la sua testa era bendata, per metà rasata, e una delle sue guance era incerottata.
L’altro, di fronte a lui, non aveva alzato neanche la testa, assente.
«E quell’altro chi è?» chiesi un istante dopo all’account, mentre avevamo già ripreso ad andare.
«Quello è il copy.»
«Ah, sì, il copy! Ma che cos’ha? Sembra triste.»
«Non trova più la sua ragazza, quella con l’acne. È sparita!»
«Oh, cazzo! Adesso anche lei?»
«Nessuna traccia. Sta sbattendo la testa qua e là, non sa neanche dove cominciare a cercarla... L’art invece ha trovato la sua, è tutto contento!»
Una ragazza stava incrociando, nel corridoio, lasciando dietro di sé una musichetta che le scaturiva dalla cuffia del walkman, mentre camminava sorseggiando musicalmente il caffè nel bicchiere di carta appena preso dalla macchinetta, portandoselo alle labbra con la stessa mano che reggeva due pennarelli scappellati, uno color cobaltino e l’altro no.
«Le stavo dicendo...» riprese l’account, «una campagna che nasce in una dimensione diversa, mai tentata prima, assiale, ma dove in un certo senso valgono ancora gli schemi di base d’informazione per briefing: dimensione e valore, tendenze evolutive, indicazioni dei principali segmenti di mercato e relativi potenziali, caratteristiche specifiche del prodotto, sua immagine presso il consumatore... Sì, sì, lo so, può apparire sbalorditivo tutto questo vista la merce che stiamo trattando. E poi... chi è il venditore, in questo caso? Che rapporto può essere stabilito tra chi ci commissiona questa campagna e la merce che ci proponiamo di vendere? E chi ne può essere l’acquirente? Come impostare una ricerca di mercato, in questo caso?»
«Ma che campagna state trattando?» provai a domandare. «Non l’ha ancora detto!»
«E quali sono i processi di valorizzazione della merce che possiamo mettere in atto» continuò senza neppure sentirmi, a mitraglia, «in questo caso, dovendo trattare una merce come questa, che sembra sfuggire a ogni catalogazione di merce, almeno finché non si sarà trovato qualcosa o qualcuno che possa darle il suo valore di merce, che possa, che osi dirsi vertiginosamente esterno, acquirente?... Che cosa stiamo facendo? Quali strade stiamo tentando? Eppure è solo attraverso questo oggetto irradiante, che non si capisce mai se è suscitato o suscitante, che possiamo portare avanti ancora una volta questa operazione estrema, com’è sempre successo nelle esplosioni epocali, tanto più oggi, mentre andiamo e siamo nello stesso tempo l’andare. C’è sempre stato dietro qualcosa così, qualche stratificazione magnetica, orale, qualche opera, qualche grumo o come cazzo vogliamo chiamarlo, che ha dato il via, o che è stato caricato di tutto questo, piano piano, oppure con incoscienza, di colpo. Poi sono arrivati quegli altri. Che ci sono sempre. Ci sono anche adesso, forse ancora di più adesso, lasci dire a me che ho già commissionato per questa nostra campagna dei sondaggi mirati, a strati. Questi qui vogliono il mito, ma proprio quello che si capisce subito che si tratta del Mito, da un chilometro di distanza, quello con l’autopromozione, l’autodescrizione, l’etichetta. Sono tutti in fregola per questa storia del Mito, gli stanno ballando le pance, a tutti quanti, vogliono la manopola dell’accelerazione, della lievitazione, vogliono i paramenti, da buttarsi sopra le pance sudate, vellutate, vogliono entrare nella pancia dell’idolo, di quello che loro stessi hanno trasformato in idolo, per poter parlare attraverso la sua bocca, il suo culo...»
«Accidenti!» gli dissi ridendo. «Se l’è proprio ciucciato bene questo libro! Mi sta rubando il linguaggio, la parte!»
«Oh, sì!» disse continuando concitatamente a parlare. «Ci sono andato dentro di brutto, full immersion, è così che io prendo le cose, qui dentro. Perché bisogna cominciare a suscitare tutto quanto come dal nulla, definizione del brief, brand image, plot, orientare le sue future scansioni, irradiazioni, delle quali nello stesso tempo facciamo parte noi stessi, ne siamo a nostra volta il portato, in totale aderenza, in quintessenza. Allora... vediamo cosa abbiamo per le mani finora, in questo momento, cerchiamo di capire dove possiamo andare, dove stiamo andando. C’è quella donna che urla. È un po’ che non la sentiamo, è il caso di farlo notare. Ma avrà ancora un ruolo, qui dentro. È la voce apocalittica. È stata lei a darmi una prima idea di tutto quanto, quando quel cliente ha cominciato a parlarmi della cosa. Poi c’è quell’investitore. Cazzo! Bel colpo! L’autore fatto fuori all’inizio, su due piedi, è il caso di dire... Mi sa che avremo ancora bisogno di quel tipo lì. Altroché se ne avremo ancora bisogno! E poi quel sacerdote drogato, quel donatore di seme, l’Interfaccia... Mi sono fischiate le orecchie, quando è arrivata. È lì che si appuntano tutte le mie attenzioni, le mie fibrillazioni, adesso che è stata inseminata e... “Ma certo!” mi sono detto. “La chiave è quella! È lì che bisogna puntare!” Oh, cazzo! Ma ci rendiamo conto di cosa può venir fuori da questa storia, qui dentro! State a vedere! Tanto più adesso che abbiamo questo nuovo papa, Elvis I. E poi quei trampolieri, quei roller. Guardi con i suoi occhi: stiamo cominciando a fare spazio a qualcuno di loro, qui dentro...»
Stava infatti sfrecciando nel corridoio una ragazza in roller e con i soli collant, che reggeva in mano un oggetto eccitato.
«Che cos’è quella cosa che ha in mano?» chiesi all’account.
«È un vibratore di tipo nuovo che stiamo lanciando, con la radiosveglia... Oh, cazzo! Ne vedremo delle belle, qui dentro, d’ora in poi! Quel videogame, per esempio... Cosa ci possiamo fare con quel videogame! Potrebbe diventare alla fine il positioning di tutta questa faccenda, una volta che avremo trovato, che saremo riusciti a suscitare il target potenziale. E poi tutti gli altri, traslocatori, domatori, eiaculatori... Accidenti, che casting! Principessa, quella bambina... Chissà se ci sarà in serbo un destino anche per quell’intrepida bambina? Ne ho dimenticato qualcuno?»
«Be’, sì, Ditalina, per esempio...»
«Ah, sì, sì, abbiamo fatto posto anche a lei! L’ho assunta personalmente. Guardi un po’!»
Al centro della sala dei grafici e dei disegnatori, seduta a gambe aperte su un tavolo luminoso, vicino a una barriera di video, Ditalina si stava infilando dentro pennarelli, chine, vernici industriali, con la mano snodata, tutta colorata, e anche la sua fica era colorata, ne colavano fuori getti di colori eruttati, vomitati, mentre si masturbava con la mano affondata là dentro, su un tavolo così luminoso che si vedevano le sue dita radiografate dentro la pancia in schiumazione, in ebollizione.
«Ah, cazzo! Anche lei qui! Allora fate sul serio!»
«Vedo che comincia a capire! Sì, sì, certo. Perché tutto qui dentro deve andare ormai in direzione di questa colossale operazione di creazione, di cancellazione, diventare la sua brand image in continua esplosione, in eruzione. Dovete darvi da fare a finirlo, a cominciarlo dovrei dire piuttosto. Ormai ci siete anche voi in questo marketing, siete in ballo. Portate a compimento, a incominciamento le sue linee di germinazione, portatelo al punto di non ritorno. Mi gira la testa se penso alle potenzialità che ci sono qui dentro. Ne parli anche lei a quell’altro che si è, che è stato presentato qui dentro come l’autore, con quella grande dalia gialla all’occhiello...»
«Oh, quello? Ma quello non si sa neanche più dov’è. Quello pensa solo a scopare! Chissà se sarà in grado di mettere in movimento quest’opera? Se mai ci sarà. Accidenti, come stiamo correndo! E qui non c’è ancora niente, non c’è neppure un titolo!»
«E quell’uomo che la sta inseguendo dall’inizio, con quel manoscritto? Ce l’avrà bene un titolo! Si potrebbe vedere di che titolo si tratta, potremmo usare quello!»
«Ah, quel vecchio con la paresi masturbatoria, vuol dire? Niente male! Accidenti, ha fatto davvero una full immersion, qui dentro, non le è scappato niente!»
Mi fermai all’improvviso.
«Cazzo, che carta mi ha messo in mano, che idea mi ha dato! È questa la chiave di volta che ancora mi mancava, per rovesciare, per cominciare, per ricominciare. Adesso so che sono più vicino a quel punto, lo intravedo. Mi rubi pure la parte! Mi sta bene, ora che mi sto preparando per tutt’altra parte! È vicino il momento in cui potrò finalmente presentarmi di persona, da solo, al cospetto della mia Musa!»
«Forza, allora! Teniamoci in stretto contatto. Le dirò più diffusamente come ho impostato il progetto di questa campagna. Dobbiamo andare a una valorizzazione inimmaginabile della merce che dobbiamo pubblicizzare, che dobbiamo vendere. Ho già in mente dove voglio arrivare. Lo so già che cosa ci vuole, in questi casi, è già successo due o tre volte nei millenni passati, ma mai come adesso. Allora era tutta giocata all’interno. Facile per i pubblicitari di allora! Nessuno si era mai trovato di fronte a una simile proposta di transazione!»
«Ma chi è questo cliente? Che razza di affare state trattando? Non me l’ha ancora detto! Non si è ancora capito!»
L’account rimase con gli occhi sbarrati, non fiatava.
«È quasi l’alba. Abbiamo scopato per tutta la notte, eppure non siamo ancora stanchi l’una dell’altro, mentre un po’ di luce già comincia a filtrare dalle ante, impercettibile ancora, non proprio luce, non ancora luce, solo quella cosa che sta in attesa dentro la luce, e che cresce e che non sa ancora se diventerà luce oppure spazio, luce di spazio o spazio in luce. Lo prendo ancora tra le mie braccia, io, la sua Musa, anche lui mi prende tra le sue braccia, svegliandosi dopo un brevissimo sonno oppure proprio nell’istante in cui si addormenta per un brevissimo sonno, o sono io al contrario che mi sono riaddormentata ma poi risvegliata, colgo sotto le mie dita un brivido che percorre per un istante il suo corpo, anche lui avverte il trasecolare di qualche punto del mio corpo sotto le sue dita glassate, come sulla groppa lucida di una cavalla che si riposa con gli occhi chiusi e forse sogna. Le mie cosce sono bagnate, sento la sua chiara sgorgare a poco a poco dalla fica, dal culo, anche le mie mani sono bagnate, le mie tette come bendate, tutte insalivate, il mio corpo è un fiore pestato, sempre incominciato. Anche le sue mani sono tutte bagnate, il suo cazzo tutto smerdato, tutto profumato. Colgo di tanto in tanto con le mie orecchie un po’ inanellate le prime voci che salgono dalla strada, entrando o uscendo da brevissimi sonni, riescono ad arrivare fino a me anche altre voci che si stanno levando con più forza, qui dentro. Non c’è bisogno che qualcuno mi snidi, io sono da sempre fuori dal nido, da ogni nido, io sono colei che è in volo. Io sono la più cercata, la più desiderata. In questo letto nuziale, in questo appartamento isolato, desintonizzato. In questa notte scoppiata, sguinzagliata. Convergono su di me i mille raggi di questa storia impensata, irrespirata. Io sono la più scopata, la più irradiata. Ecco... adesso si è girato dalla mia parte, sento che il suo pezzo di carne si sta mineralizzando di nuovo nella mia mano dipinta, vellutata. Chiudo gli occhi, allargo la bocca, tutte le mie bocche, mentre mi viene sopra di nuovo. Si addormenta sopra di me con il cazzo ispirato, dispiegato. La luce cresce, salgono sempre più da fuori, dalla strada, i rumori e le voci, le altre voci. Le mie gambe lo tengono ancora abbracciato, il letto è tutto segnato, tutto profumato. Non ho quasi dormito per tutta la notte eppure sono perfettamente riposata, sono rigenerata. Tra un po’ ci alzeremo, ma prima, ancora una volta, ci baceremo, con le nostre bocche infangate, profumate. Ci passeremo le mani lungo i corpi stando ancora abbracciati, con le dita tutte gemmate, tutte sbrodolate, gli toccherò ancora una volta il cazzo spellato, ingioiellato, mi toccherà ancora una volta la fica sbocciata, addormentata. Ci alzeremo in piedi, poco per volta, ondeggiando, ci sposteremo nudi sul pavimento, ci abbracceremo ancora. Questa storia non è finita, è appena cominciata. Mi avvierò verso la cucina sbattendo contro le porte, sballata, mezzo addormentata. Gli preparerò il caffè muovendo le mie dita alla cieca, appena scopate, tutte ingioiellate. Verrà anche lui in cucina ancora svestito, col cazzo appena spillato, ancora emozionato, ascolteremo tra uno sbadiglio e l’altro quel canto che fa il caffè quando sale bene nella macchinetta ben caricata, ben scopata. Penseremo dopo al commiato, il momento non è ancora arrivato. E poi mi preparerò, mi darò un filo di trucco muovendo alla cieca le dita sfuocate, cambierò qualcuno degli orecchini che mi circondano a raggiera le orecchie, li farò tintinnare, li farò brillare. Mi getterò un foulard di seta sul corpo nudo appena lavato, molto visitato, prima di scendere con le scarpe da ginnastica ancora slacciate nel set, dove molti sono già ad aspettarmi per le riprese, con la macchina accesa, già arrapata, con i cazzi già smanettati, tutti imbandierati, le fiche e i culi già lubrificati. E ci troverò forse quella creatura slabbrata che mi ha detto di sapere qualcosa della donna avvolta nella carta stagnola. Perché non me ne sono dimenticata, perché ciò che è in atto possa andare verso il suo compimento, il suo cominciamento. E ci sarà magari anche quel vecchio che è saltato fuori di nuovo, all’improvviso, quello con la paresi masturbatoria che è apparso ultimamente persino sui set, di tanto in tanto, adesso che qualcuno mi ci ha fatto pensare, perché io non sono assente, non sono inoperante. E che mi corre dietro facendo perennemente quel gesto, con la mano, anche quando spengono le luci centrali e restano solo quei riflettori smerdati, insanguinati, in mezzo a tutti quei corpi in tormento, in orgia, con quel manoscritto che tiene sempre arrotolato nella tasca sformata della giacca, o sotto il braccio, stropicciato, nel pugno, se si è dovuto spogliare per non dare nell’occhio in mezzo a tutti quei corpi nudi. Cosa vorrà mai da me? Mi sta alle calcagna, non mi perde mai d’occhio... Forza, mio autore, mio scopatore, che nuovo giorno ci aspetta! La nostra notte è finita, è appena cominciata!»
Canto del vecchio con la paresi masturbatoria
È dall’inizio che inseguo col mio manoscritto l’editore. Perché non si vuole fermare, non lo vuol vedere? Certo, certo, mi rendo conto, il mio portamento, questo mio movimento... La gente scappa quando mi vede arrivare, da quando sono stato colpito da questa paresi. Qualcuno si spaventa, qualcuno ride, quando appaio nella strada con la mia giacca sfondata, il manoscritto conficcato nella tasca slabbrata. Le gambe un po’ arcuate, la schiena e la testa inclinate. Il mio non è un passo, è quasi una corsa, mentre vengo avanti muovendo ritmicamente la mano destra, ad anello, di fronte alla bottoniera ingiallita dei calzoni. Impugnatura bassa, non mi fermo un momento, non mi posso fermare, anche il mio volto e la mia bocca, colpiti dalla paresi, sono irrimediabilmente fissati in un leggero sorriso laido, bloccato, che non mi appartiene, non mi rappresenta, quando vado piegato in due per le strade e sembra che corra verso le persone facendogli festa in quel modo, con quel gesto, quando voglio consolare una bambina cui è caduto il gelato per terra, ai giardinetti, e la madre la tira a sé con orrore, vedendomi arrivare, mentre mi siedo a mangiare qualcosa in una trattoria a prezzo fisso che c’è vicino al ricovero per anziani dove vivo, quando sono allegro, e il cameriere mi sposta sempre verso tavoli più nascosti, più interni, per non lasciarmi in vetrina, di fronte alle persone che passano davanti al locale, sopra il marciapiede. Quando è primavera e sembra che corra coi miei passettini un po’ tremarelli verso le ragazze, per festeggiarle, mentre sto solamente camminando chiuso in me stesso e quasi con le lacrime agli occhi. Quando mi porto il cucchiaio alle labbra, con l’altra mano, quando leggo il giornale tenendolo aperto su un ripiano basso, in modo da poterlo sfogliare con la sola mano sinistra, mentre la destra è perennemente intenta a quel gesto. Quando mi siedo in un cinema e qualcuno nelle poltroncine vicine se ne accorge e mi scaccia, anche se cerco di mascherare quel gesto buttandoci sopra il giornale, la giacca. Se ne accorgono ancora di più, si accendono tutte le luci, mi fanno allontanare mentre tutti mi guardano con le teste girate, nella sala, e neppure la mia faccia mi aiuta perché anche mentre me ne vado piegato in due e senza smettere per un istante quel gesto anche il mio volto è un po’ rosso e un po’ devastato per via delle dermatiti e la mia bocca fissata in quel suo disgustoso sorriso. Anche quando mi corico sulla mia piccola branda e cerco di dormire. Non so se la mia mano si ferma almeno quando dormo, quando sogno. Non avete idea di quanto sia stato arduo per me scrivere questo libro che sto cercando fin dall’inizio di consegnare all’editore, nelle condizioni in cui sono! Perché mi è stata assegnata questa forma? Perché mi è stato dato questo tremore, mentre dentro di me io non tremo? Neanche adesso, neanche nei giorni scorsi, quando ho preso la decisione di entrare direttamente qui dentro, di fare apparire che fossi io a entrare direttamente qui dentro, di anda
re a questo capovolgimento, a questo svelamento. Mi sono presentato a uno di quei set, forte della perentorietà funzionale del mio gesto, mi sono spogliato per non dare nell’occhio, durante le riprese, in mezzo a tutti quei corpi nudi e intenti a mimare il mio gesto, da ogni parte, vicino a tutti quei buchi sforzati, a quelle bocche ormai prive di infissi, e potere così, a poco a poco, scavalcando uno dopo l’altro quei corpi, guadagnare volta per volta posizioni. Mi farò largo tra quelle luci fosforizzate, camminerò su quei vetri sparati, insanguinati. Arriverò infine al cospetto della Musa, per consegnare a lei questo manoscritto che porto fin dall’inizio con me, stretto nel pugno della sola mia mano che non trema, agitandolo come una fiamma sulla ressa dei corpi per farmi vedere anche da lontano. A lei, solo a lei, finalmente, nelle sue mani sporcate, profumate, le poserà sul mio corpo di vecchio, si chinerà sulle mie ossa a baciarle, a profumarle, con la sua bocca aurata, concreata. Prenderà nella sua mano la mia mano paralizzata, compirà assieme a essa quel gesto per cancellare il gesto. Prenderà il mio corpo stecchito tra le sue braccia ambrate, depilate, starò là dentro tutto accucciato, quasi inginocchiato. Si vedrà pendere tra le ossa delle mie gambe il mio povero scroto di vecchio, pelato, deformato, mentre tutt’intorno il groviglio di corpi si muoverà pneumaticamente da tutte le parti come una catasta di gomma animata, elettrizzata, sul pavimento smerdato, insalivato, in quelle luci increate, insanguinate, parlerà con la bocca vicino al mio orecchio avvizzito, muovendosi macchinalmente all’indietro, a quattro zampe su un pezzo di carne, inculata, sfavillata, anch’io cercherò di parlarle con la mia bocca sdentata, contro il suo orecchio sbocciato, inanellato, e le dirò, le balbetterò e la pregherò di prendere finalmente tra le sue mani questo mio manoscritto, per consegnarlo finalmente a colui che fin dall’inizio è il suo editore.
«Bene, bene! Ha visto? È arrivato a destinazione!» esclamò l’account. «Adesso bisognerà che lei si faccia avanti, finalmente, con la Musa, che vada a ritirare a casa sua questo manoscritto. Ha sentito? Lei, in qualità di suo editore...»
«Sì, sì, finalmente! Il ponte è stato gettato! E intanto io aspetto, vado tessendo le mie trame. Sto fermo fuori dalla sua porta, in strada, come un cane. Aspetterò che quello là abbia lasciato, all’alba, la sua casa, ondeggiando sulle sue gambe spompate, trasognate. Mi cambierò la camicia, mi lascerò cadere qualche goccia di profumo sul volto appena rasato, ancora imprecisato. Aspetterò che sia ritornata da quel suo set, prima di salire con la mia borsa di pelle le sue scale. Suonerò alla sua porta. Mi verrà ad aprire con le cosce ancora rigate, come l’altra volta, come la prima volta. Mi consegnerà con le sue mani quel manoscritto, lo infilerò senza fiatare nella mia borsa, ma prima gli darò macchinalmente un’occhiata, senza quasi vedere, se mi assalirà una timidezza improvvisa, come se fossi ancora uno che non sa niente, che non ha visto niente, uno che sta nascendo...»
«E apriremo finalmente questo manoscritto» continuò l’account, «ci guarderemo dentro con le teste appaiate, addormentate, porteremo a compimento i suoi processi di esplosione, di salvazione, perché c’è ancora chi aspetta da qualche parte, annullato, imbambolato, e bisogna cominciare a sguinzagliare una prima traccia, bisogna portare le strutture che stanno alla base di questo possibile balzo al suo svelamento, al suo sommovimento, e sta agendo già dentro il ventre dell’Interfaccia, di quella che è stata chiamata finora l’Interfaccia, il seme di quel donatore intento alla fabbricazione di quel videogame che sta prendendo sempre più piede, qui dentro, perché siamo ancora alla fase dell’attribuzione pubblicitaria di un valore aggiunto alla merce che stiamo trattando, che ci è stato chiesto di valorizzare in vista della sua ostensione commerciale epocale, e ci vuole sempre e bisogna sempre che venga fuori, in questi passaggi d’era, un... un... lo chiami come cazzo vuole lei, bisogna sempre propinare l’idea della salvazione, della redenzione, della liberazione, se si vuole che qualcuno ci caschi.»
«Ma perché? Perché? Non mi ha detto ancora chi è questo vostro cliente, cosa vuole?»
«Chi è il cliente? Non è facile dirlo!»
«Mi dica almeno che campagna state trattando!»
«È una cosa grossa, mi creda, la più grossa...»
«Che cosa? Che cosa?»
«Come faccio a dirle una cosa così, su due piedi!»
Si prese la testa, di colpo, tra le mani.
Canto del donatore
Che fardello è stato gettato sulle mie spalle, a questo punto! Ora mi è più chiaro che cosa si aspetta da me. Perché sono stato tenuto in questa purezza, in questa assolutezza. Il mio corpo, la banca del seme, anche il videogame che sto preparando, e che si espande continuamente fino a conglobare e inghiottire ogni cosa che si muove qui dentro e si divincola e si va formando ed esplode e canta. E che può diventare e che sta diventando e che ha dentro di sé tutte le potenzialità per poter diventare il brand movie di tutta questa sbalorditiva transazione epocale mai vista prima, della quale ancora niente si sa, ma attraverso la quale si percepisce che si andranno a formare le nuove fondazioni di questa storia a venire. L’averla accettata permetterà a questa storia di sfondarsi, di rifondarsi e di collocarsi là dove prima d’ora nessuno è mai stato, di porsi come possibilità stessa del suo incarnarsi. L’invenzione rovesciata delle sue stesse strutture inverate, deflagrate.
Ecco, adesso la casa è in silenzio. Fuori è notte. Il videogame sta palpitando su uno dei miei terminali, mentre lavoro ad alcuni personaggi che hanno fatto irruzione qui dentro, l’art, la ragazza, i getti del suo sangue dentro il quale vanno scivolando e sbandando le ondate dei roller e dei trampolieri, e bisogna operare per prospettive sfondate, dilatate, e nello stesso tempo creo le condizioni per nuovi passaggi e ancora nuovi passaggi che sento si stanno già preparando, qui dentro, non solo quelli che si avverte essere già qui vicini, alla porta, ma anche quelli che sono più avanti e molto più avanti, e così avanti che possiamo sentire già il loro fiato alle nostre spalle. Ho definito le nuove immagini, le ho dilatate. Ho cominciato già a pensare anche a quelle che si stanno preparando a fare irruzione qui dentro, invento spazi che si possano aprire di colpo, sotto i piedi, mi preparo a nuove invenzioni, a nuove fondazioni, lavoro sodo su nuove icone mai trattate prima in un videogame. Vorrei far sentire nel medesimo istante il pulsare dei liquidi interni e dei pianeti. Mi batte il cuore, mentre vedo, tra le altre, anche l’immagine dell’Interfaccia che comincia a prendere forma sulla bolla fosforescente del mio terminale. Si guarda attorno, saggia con le sue scarpe dagli alti tacchi i piani, gli spazi, le prospettive, mentre cammina tranquillamente per una strada appena inventata. Il suo ventre è già leggermente gonfiato, lievitato, sotto la sua veste in jeans a cintura alta. La seguo per un po’, non viene nessun rumore dalle altre stanze, dalla casa. L’accarezzo con la tavoletta digitizer per dare rilievo ai fianchi, alle linee del collo, guardandola senza tremare, senza respirare, mentre si stanno formando al suo interno le nuove proiezioni di questa storia, ora che qualcuno o qualcosa ha eletto il suo ventre, il nostro ventre, a sede delle sue nuove incarnazioni, delle sue irradiazioni, e di cui io sono stato eletto a mia volta donatore. Sono il visitatore dei citoplasmi, l’ospite che entra nelle case in punta di piedi e che le lascia in fiamme. Io sono lo sposo di molte spose ma che non ha una sposa, sono colui che ha dato vita a una stirpe ma che non ha una stirpe. Sono lo sverginatore, sono il destinatore. Sono l’uomo che apre le pance, che fa scoppiare i libri.
«Ecco, adesso l’alba è arrivata. La luce entra già dalle ante della finestra, con forza, dalla strada salgono già i soliti rumori, gli stridori. Aprirò una dopo l’altra le finestre della mia casa, spenzolandomi per un istante all’esterno con le mie braccia nude molto scopate, molto amate. Riattaccherò il telefono che comincerà subito dopo, immancabilmente, a suonare, qualcuno che mi ricorderà qualche appuntamento, qualcuno che dovrà venire a trovarmi, all’improvviso, qualche nuovo ciak. Ma prima lascia che ti abbracci per un’ultima volta. Tremano un po’ le gambe anche a me, ho le braccia molli, gli occhi pesti, alla fine di questa notte. Lascia che ti aiuti a infilare la camicia, che te la distenda bene sulle spalle, sui fianchi, sul torace molto scopato, molto amato. E che ti aiuti a sistemare il colletto, che ti possa pettinare i capelli con le dita della mia mano ancora tutte sparate, tutte profumate, baciandoti un’ultima volta nell’incavo del collo, sulla bocca, con la mia bocca sgarzata, maciullata, i corti capelli ancora cremati, ancora spettinati, gli occhi chiusi sulle ciglia smerdate, profumate.»
Mi girai di nuovo verso la Musa, per abbracciarla un’ultima volta mentre ero già vestito dalle sue mani e sulla porta.
«Ti seguirò con gli occhi dalla finestra» sentii che mi stava ancora dicendo con la bocca premuta contro i miei occhi, contro il collo, «ti guarderò mentre uscirai dal mio portone e poi imboccherai la strada ondeggiando un po’ sulle gambe, e poi mentre ti verrà incontro timidamente quell’ispettore che magari è un po’ di tempo che ti aspetta dall’altra parte, per incontrarti, parlarti...»
«L’ispettore Lanza mi aspetta?» domandai, continuando a tenerla abbracciata, e ad accarezzarle la carne calda delle reni, del culo.
«È un po’ che ti cerca, gli ho detto io stessa di non avere paura a incontrarti, che è venuto ormai il tempo.»
La casa era ancora semibuia, silenziosa, ma la luce che filtrava dalle ante la faceva affiorare, palpitare.
La Musa appoggiò un’ultima volta la guancia alla mia guancia.
«Siamo tutti quanti in attesa, qui dentro» disse respirando contro il mio corpo. «Solo tu puoi portare a compimento una simile impresa. Ecco, ti restituisco a te stesso, ti rimetto al mondo!»
L’ispettore Lanza incontra il Matto
«Da quanto tempo è qui fuori che aspetta?»
«Oh, non si preoccupi, ci sono abituato, è il mio mestiere!»
L’ispettore Lanza era arrossito di colpo. Stava con la testa leggermente girata, imbambolata.
«Mi scusi se la disturbo proprio in questo momento» provò ancora a dire, «ma è già da un po’ che dovevo parlarle, non si può più rimandare.»
«Sono qui.»
«Ecco... avevo pensato, mentre aspettavo che uscisse... Avevo messo gli occhi su quel bar. È prima mattina, forse mangerebbe volentieri qualcosa...»
«Perché no!»
L’aria era fresca. Ondeggiavo un po’ sulle gambe, mentre mi spostavo a fianco dell’ispettore Lanza che attraversava la strada camminando sulle sue scarpe dai tacchi un po’ più alti del normale, come sulle uova.
«Le posso offrire un cappuccino e una brioche?» disse quando fummo seduti uno di fronte all’altro, a un tavolino. «Dovrà avere una fame da lupo! Ha gli occhi pesti...»
Arrossì un’altra volta, si confuse.
Guardavo, nel locale semivuoto, un uomo intento a leggere il giornale con le labbra ancora sporche di schiuma, sovrappensiero, sillabando.
«Accidenti!» si disperò Lanza, d’un tratto. «Com’è difficile cominciare questo colloquio!»
Teneva gli occhi fissi sulle mani della ragazza che stava mettendoci davanti le tazze dei cappuccini, il piatto con le brioche di pastasfoglia, con le dita ancora in evaporazione, molli.
«Voglio dire...» sentii sospirare Lanza, dopo un po’, «sono ormai qui, al suo cospetto... Non si poteva più rimandare l’incontro, a questo punto. Il tempo stringe. Ho avuto delle informazioni... C’è bisogno di un soprassalto. Solo lei può farlo! È venuto per lei il momento di gettarsi in prima persona in questa impresa.»
Alzai gli occhi su Lanza.
«Delle informazioni? Che informazioni?»
«Be’, sa, abbiamo i nostri informatori anche in quell’ambiente... Ci siamo dati da fare, mi creda, nel frattempo. Non c’è tempo da perdere! Coi dati che sono venuti a nostra conoscenza, con quegli altri che sono venuti fuori qui dentro, un po’ alla volta... Dobbiamo compiere finalmente questo salto! Sono qui per chiederle di esporsi in prima persona, in un’operazione in cui non le mancherà il nostro appoggio logistico e la nostra vigilanza ma nella quale solo a lei può venire chiesto di diventarne la figura di punta, combattente, con tutti i rischi che questo comporta... È questo l’ultimo passaggio che ancora ci manca. Se la sente?»
Non staccavo gli occhi da Lanza. Anche un piccolo cane, che si era accucciato al suo fianco, sul pavimento. Fissava i frammenti di pastasfoglia che si muovevano sulle labbra dell’ispettore intento a parlare, a balbettare.
«Ho già imparato qualcosa, da quando mi è stato affidato questo caso. Mi sono fatto le ossa. Mi creda. Non ci faccia mancare la sua dedizione, la sua incarnazione, mentre stiamo giocando tutti quanti questa partita mai vista prima. Manca ormai solo quello per riaprire il gioco... Mi scusi se mi permetto di parlarle così, a lei, proprio a lei, ma capisco che dobbiamo introdurre questo nuovo elemento. Lei sa qual è la mia funzione, qui dentro... Non abbia paura dei suoi sentimenti. Si apra. Non tenga così serrato dentro di sé quello che prova per quella persona scomparsa, quello che sta provando. L’hanno capito ormai tutti quanti quello che ha nel cuore. Lo sa che cosa si vuole da lei, a questo punto!»
«Ah, sì? Cosa?»
«I sentimenti!»
Ci fu un po’ di silenzio.
«È un’idea sua?»
L’ispettore Lanza arrossì ancora di più, le sue labbra erano tutte tempestate di quelle scaglie di pastasfoglia spezzate, acuminate.
«Be’, sì! No! Un po’ sì e un po’ no... Me l’ha suggerita il suo editore.»
«Che altro le ha detto?»
L’ispettore Lanza piegò la testa di lato, si confuse.
«Mi scusi se l’ho interrotta. Vada avanti.»
L’ispettore Lanza si passò finalmente una mano sulle labbra.
«Non ha ancora toccato il suo cappuccino, la brioche...» disse alzando gli occhi di nuovo. «Mangi qualcosa. Deve rimettersi in forze, ne avrà bisogno. Lei non sa che cosa l’aspetta.»
Il cane stava catturando con la lingua le briciole cadute sul pavimento, una per una.
«Non mi ha ancora parlato di quelle informazioni...»
«Oh, sì, accidenti! È difficile per me parlarle di questa cosa...»
«Perché? Cosa avete saputo?»
Il cane aveva finito di leccare il pavimento. Si era venuto a sedere vicino a me, in attesa che cominciassi a mangiare a mia volta la brioche.
«Cose terribili, orrende! Ci sono arrivate delle soffiate... Non c’è un minuto da perdere. Lei è là chiusa dentro il suo involucro di carta stagnola, non sa niente, non pensa a niente, non percepisce niente... Non ha idea di cosa si sta preparando per lei!»
«Che cosa? Si spieghi!»
«È questione di pochi giorni, abbiamo saputo... è già tutto pronto, gli operatori specializzati per quel tipo di riprese segrete, ultrasegrete, il set adatto, mimetizzato...»
«Perché? Cosa vogliono farle?»
L’ispettore Lanza rimase per un istante in silenzio.
«Vogliono finirla sul set!»
«Come... finirla?»
«Insomma... ammazzarla!»
La ragazza che stava alla macchina del caffè era venuta avanti con la testa e col collo, per sentire.
«Non riesco neanche a parlarne» continuò l’ispettore Lanza abbassando la voce, «mi si rizzano i capelli sulla testa al solo pensarci!»
«Ma quando succederà tutto questo?»
«Fra tre giorni! È una lotta contro il tempo, mi creda, non sappiamo nient’altro, tutto il resto lo dovremo scoprire in questi tre giorni. Ma abbiamo perlomeno dei tempi, in questo caso. È già qualcosa...»
«E il set? Dove sarà questo set?»
«Non si sa, bisogna scoprirlo!»
«Ma saprà almeno se sarà qui in città!»
«Neanche quello! Può essere qui, oppure in un’altra città, in un altro paese, in un altro continente. Dobbiamo aspettarci di tutto. Sono circuiti talmente segreti! Abbiamo messo sotto controllo alcuni di questi operatori, nel nostro e in altri paesi, da quando ci è arrivata quella soffiata...»
La ragazza dietro la macchina del caffè ascoltava con gli occhi sbarrati.
«Se la sente di darci una mano?» continuò Lanza. «Noi sappiamo quali sono i suoi sentimenti per quella persona, anche se non è il tipo da metterli in mostra, da farne mercato... Ci manca solo questo elemento. Chi lo sa che non possa essere determinante, in questo caso. Forza, finisca di mangiare la sua brioche, beva quel cappuccino! Non c’è tempo da perdere! Le voci che ci sono arrivate fanno accapponare la pelle. La loro rete è in fermento, ma nessuno ha ancora compiuto un passo falso. Però anche noi abbiamo costruito la nostra rete, un po’ alla volta, anche se sembrava che stessimo facendo altro, pensando ad altro, per depistarli, per disorientarli. Ma adesso siamo qui, abbiamo le nostre sedi operative, abbiamo messo a punto i nostri collegamenti, abbiamo idea di dove cominciare a mettere le mani, in quell’ambiente, mentre quella là dorme assente, narcotizzata nel suo sarcofago di carta stagnola, e altri aspettano da qualche parte una comunicazione improvvisa che dia luce verde, per cominciare la festa... Non sappiamo ancora in che modo, per telefono, parlando in un codice da decifrare, oppure mediante una scheda magnetizzata o qualche segnale noto solo a loro, che apparirà di colpo sul video interfacciato di un terminale, o con una parola sussurrata di colpo da un passante, o con un gesto apparente di saluto, mentre lei giace sprofondata chissà dove, chissà in che stato fisiologico, mentale, impossibile da immaginare, qualcuno la nutre per via endovenosa, la fa evacuare... tutti in attesa di questo segnale improvviso, gente ultraspecializzata, facce che se si vedono non si ricordano, oppure qualche veterano privo di una mano o dalle labbra ustionate, mi hanno detto, per qualche incidente avvenuto su uno di quei loro set che nessuno ha mai visto. Lo strumento già pronto, mimetizzato, imballato, da qualche parte, in qualche magazzino. Tre giorni soltanto! Bisogna far presto, bisogna buttarci. Ha il porto d’armi?»
«No, mai avuto, che io sappia!»
«Non c’è problema! Gliene procuriamo uno noi in quattro e quattr’otto! Non possiamo assumerci la responsabilità di mandarla disarmato là in mezzo. Che arma vorrebbe?»
«Un lanciafiamme!»
«Accidenti! Ne ha fatta di strada!» esclamò il Gatto. «Ma certo, ma certo, è solo questo l’anello che ancora mancava! Gettiamo nella mischia anche lui. Lo mettiamo in scena per farlo uscire di scena. Stiamo andando forte, è quasi fatta!»
«Ma non se ne risentirà? Proprio lui...» provò a dire Lanza. «Sa, dovrò darlo in terza persona...»
«Ma no, quello ormai è fuori, è tutto preso dall’idea di salvare la sua Meringa, l’abbiamo incorniciato, l’abbiamo impacchettato!»
Tirò una boccata con le labbra serrate, si staccò di colpo la cicca, come se la lanciasse.
«Gli prepariamo un finale in grande!» riprese. «Lo facciamo uscire di scena come si deve: azione, emozioni, sentimenti, fusi orari... Oh, cazzo, che idea ha avuto! Ma, mi scusi... adesso che ci penso: chi gli fa la festa?»
«Mi scusi, non capisco...»
«Volevo dire... Chi racconta?»
«Be’, io, naturalmente!» si animò Lanza. «Lei sa... queste storie d’amore... Eravamo d’accordo così, non ricorda?»
«Certo, certo che mi ricordo! Non ho cambiato idea... Però, in questo caso, mi pare, è un’operazione un po’ più delicata, tremenda... Forse la mia mano sarebbe più adatta della sua, più salda...»
L’ispettore Lanza abbassò la testa, corrugò la fronte.
«Mi pareva che mi avesse detto che ero all’altezza, in passato...»
«Ma certo che gliel’ho detto! E glielo ripeto! Ma qui stiamo andando a un passaggio di tutt’altra portata e natura, mi pare. O meglio, viene allo scoperto qualcosa che potrebbe apparire ancora nascosto, a chi non avesse occhi per vedere, perlomeno... e che dovrebbe cominciare a esibire i suoi momenti di incarnazione, di lacerazione, e dove bisognerà fare appello a tutte le nostre forze, richiamare in servizio tutti quanti. Accidenti, che viaggio ci aspetta! Qui non è più solo come in quello dell’art, per capirci! E forse il suo tipo di voce, qui... La prego, non mi fraintenda, io mi fido di lei. Ma questa volta bisogna scendere in strati più profondi, tremendi. Una discesa agli inferi, come scrivono quei coglioncelli là, sui giornali, in questi anni, un giorno sì e un giorno no, come se fosse una cosetta da niente... Ma una discesa agli inferi mentre stavamo già discendendo agli inferi. E io ho una certa dimestichezza con questo tipo di discese, mi creda... Facciamo così: parte lei, lei dà il passo, ma se mi sembrerà, o se mi sentirò di dover andare a un passo più forte, più sfrenato, che non basti ancora quello che stiamo facendo per portare al suo compimento questa impresa, se mi sentirò di portarla a un grado dove nessuno, nonostante tutto, è ancora mai stato, ma che è il solo punto da dove la si può cominciare a pensare, a incominciare... allora io farò irruzione qui dentro, scopertamente, con la mia voce ormai dichiarata, tutta dispiegata, riprenderò, rilancerò il racconto da una posizione diversa, spostata, inaspettata, e anche lei potrà fare lo stesso a sua volta con me, beninteso, quando vorrà, quando le sembrerà di dover riportare la storia di questo combattimento al suo passo, al nostro passo. E poi di nuovo io irromperò e inventerò e spiazzerò e imperverserò, fino a portare questa storia a quella che sembrerà una fine e sarà invece un inizio. Le nostre voci si chiameranno e si risponderanno l’un l’altra, si rilanceranno, si trascineranno su un terreno dove non siamo mai stati, non abbiamo mai neanche lontanamente immaginato. E altre voci potranno irrompere a loro volta a cantare, a traboccare. Sarà come un canto a due voci, ma come un canto a due voci dove ogni altra voce che canta ha voce.»
Entra in scena il Matto
Rimasto solo, il Matto si guardò attorno per qualche istante, sbadigliando un po’, nel locale.
Finì di masticare la brioche, buttò giù in un paio di sorsi il cappuccino. La ragazza che stava alla macchina del caffè lo guardava protesa in avanti, senza respirare.
Anche il cane lo guardava dal pavimento, con la lingua fuori, che svolazzava.
Il Matto chiuse gli occhi un istante. All’interno della sua tasca il cellulare che gli aveva consegnato l’ispettore Lanza prima di lasciarlo cominciò improvvisamente a suonare.
Lo tirò fuori di tasca, premette il tasto della ricezione, se l’accostò all’orecchio.
La ragazza che stava alla macchina del caffè lo guardava con gli occhi sbarrati, innamorati.
«È pronto?» chiese una voce nel cellulare. «Possiamo cominciare?»
«Sono pronto.»
«Bene! Mi terrò in contatto con lei tramite il cellulare. D’ora in poi sarò vicino a lei, come un’ombra. Le guarderò le spalle. Nessun contatto personale, per motivi di sicurezza. Studieremo assieme le nostre mosse. Le darò delle indicazioni. La terrò informata sui loro spostamenti. Il tempo stringe. È una partita infernale quella che ci aspetta!»
«Ma lei chi è?» chiese il Matto. «Ero in contatto con l’ispettore Lanza...»
«L’ispettore Lanza non si occupa in prima persona di casi come questi. Lui qui si ferma. Il suo compito ormai è esaurito. D’ora in avanti non lo incontreremo più sul terreno.»
«Ma lei chi è?» ripeté il Matto.
«Può chiamarmi Lazlo.»
La ragazza che stava alla macchina del caffè aveva le labbra aperte, dipinte, come se stesse dormendo e nello stesso tempo baciando.
«D’accordo» disse il Matto. «Mi dica cosa devo fare.»
«Adesso esca. Stia tranquillo. Cammini. Le dirò al momento opportuno cosa deve fare.»
La strada era in luce. Il Matto fece qualche passo un po’ disassato, prima che il suo spostarsi in avanti potesse definirsi un camminare. Oltrepassò un paio di incroci, continuò ad andare come appena inventato, in mezzo alla poltiglia delle auto che si muoveva da tutte le parti, palpitava. C’era tutt’intorno quella luce che c’è nelle strade quando i fari delle macchine sono stati spenti da poco e si cominciano a sentire i rumori delle saracinesche dei negozi che vengono su una dopo l’altra, con fragore, e si aspetta solo che il cellulare faccia sentire la sua voce dentro la tasca, in mezzo alla folla da poco svegliata, perché tutto cominci.
Si fermò a un incrocio, in attesa che il semaforo diventasse verde. Proprio in quel momento il telefonino iniziò a suonare nella sua tasca.
Premette il tasto della ricezione, se l’accostò all’orecchio.
«Sono Lazlo.»
Si sentiva l’uomo respirare dall’altra parte, tranquillo.
«Allora, mi ascolti bene...» disse Lazlo dopo una pausa. «Le ho prenotato un taxi, fra poco si fermerà all’angolo dove lei si trova, per portarla di corsa all’aeroporto. Si comincia...»
«Ma lei come fa a sapere dove mi trovo?»
«La sto guardando da un’auto.»
Il Matto si girò tutt’intorno.
«Non si guardi attorno! Non bisogna assolutamente dare nell’occhio, non devono capire che siamo in collegamento. Lei non sa con chi abbiamo a che fare!»
«Ma poi perché all’aeroporto?» chiese ancora il Matto.
«C’è un volo fra cinquanta minuti, per Parigi.»
«Parigi?»
«Parli più piano, la prego. Deve sembrare una normale conversazione.»
Il semaforo era diventato verde. La folla stava già muovendosi in avanti per attraversare. Il Matto barcollò da una parte. Sentiva il cuore pulsare forte, non vedeva.
«Le abbiamo già prenotato il volo» continuò Lazlo, «troverà ad attenderla, all’aeroporto di Parigi, un altro taxi che la porterà in un piccolo albergo. Abbiamo già provveduto a pagare tutte le spese. Troverà nella sua stanza uno zaino con della biancheria e dei vestiti, della valuta...»
«Ma perché a Parigi?» chiese ancora il Matto, più piano.
«Abbiamo ragione di credere che il movie non verrà girato qui... Ma adesso... guardi... c’è il taxi! Le spiegherò meglio tra un po’.»
Il taxi si era accostato, stava fermo a motore acceso. Il Matto si buttò sul sedile, mentre l’autista teneva spalancata la portiera spenzolandosi all’indietro con una torsione del busto.
Ripartì immediatamente, mentre da dietro qualche clacson aveva cominciato a suonare, in ritardo, per la sosta.
Oltrepassò il semaforo giallo, andando per un po’ nel flusso delle auto ammassate, prima di gettarsi in una traversa più sgombra, per guadagnare tempo.
Il Matto stava sprofondato contro lo schienale, per la stanchezza, aveva chiuso gli occhi, mentre l’autista guidava senza parlare. Gli era sembrato di essere sul punto di addormentarsi per un istante, dopo la notte insonne appena trascorsa, quando il telefonino cominciò di nuovo a suonare.
«Le stavo dicendo...» riprese Lazlo, come se non ci fosse stata un’interruzione, «abbiamo ragione di credere che verrà girato all’estero. Ci stanno arrivando dei segnali, teniamo sotto controllo la rete di specialisti di questo settore, i migliori che ci sono sulla piazza, al momento, per un lavoro come questo. Tutta gente che fa altri lavori, insospettabile, mimetizzata, che non siamo mai riusciti a beccare con le mani nel sacco, anche se crediamo di conoscere una per una le loro imprese, dalla rete segreta dei nostri informatori. Abbiamo saputo che uno di questi signori è stato allertato a Parigi... a meno che non si tratti di una manovra diversiva per attirarci da un’altra parte... Nome d’arte: Morgan. Di professione agente immobiliare, ballerino di mambo, pene palmato, quattro omicidi per soffocamento, due smembramenti su set pedofili. È in preallarme, ci pare, sta fiutando il vento. Noi non sappiamo dove sia l’interprete principale di quel movie, in questo momento, quella donna narcotizzata avvolta nella carta stagnola. Possiamo solo tenere sotto controllo lenticolare i componenti di quella rete, i professionisti più ricercati, quelli che si spostano da un paese all’altro, da un continente all’altro, sotto la copertura di viaggi d’affari, quando c’è della carne fresca da macellare, in qualcuno di quei set mimetizzati e supersegreti che vengono allestiti e poi smantellati nel giro di una mezza giornata... E poi ritornano alla loro casa, alla loro vita, il giornale tutte le mattine all’edicola, il saluto sull’ascensore, l’appuntamento con il cliente, la colazione con la moglie, coi figli... Ma adesso stia tranquillo, riposi, la sua carta d’imbarco è già pronta, le verrà consegnata a uno sportello delle agenzie, il taxista che l’aspetta all’aeroporto di Parigi conosce già i suoi connotati, sarà lui a contattarla, tenga sempre acceso il cellulare, di giorno, di notte. Mi rifarò vivo io, non appena saprò qualcosa di nuovo. È una lotta contro il tempo, ma ce la faremo!»
La nuca dell’autista sbalzava, mentre il taxi si gettava in strade sempre più larghe, superando le macchine parcheggiate in doppia fila. Il Matto stava abbandonato sul sedile di dietro, sentiva solo il cuore che continuava a pulsare sempre più forte, addormentava.
Si assopì per alcuni istanti, gli parve. Eppure quando riaprì gli occhi la macchina stava già correndo lungo il rettilineo che conduceva all’aeroporto, e si vedevano già, dietro i vetri leggermente azzurrati dei finestrini, le grandi forme degli aerei che planavano sempre più bassi al di sopra dei caseggiati, come gonfiate con una pompa.
L’ingresso dell’aeroporto era ingombro di auto. Il taxista parcheggiò in doppia fila, e solo allora, dallo stridore che stavano facendo le ruote nella fermata, il Matto si rese conto di quanto la macchina fosse andata di corsa.
«Buona fortuna!» gli gridò dietro l’autista, mentre già correva fuori dal taxi e si gettava nell’androne dell’aeroporto ingombro di viaggiatori che andavano con i carrelli stracolmi di valigie, di borse.
Trovò lo sportello, ritirò la carta d’imbarco. Gli altoparlanti stavano già dando l’annuncio del volo.
Cercò la sua uscita, si incolonnò dietro la folla di viaggiatori che stavano già ultimando le operazioni d’imbarco, e poi nel corridoio stretto del metal detector, senza bagaglio, con le gambe che gli ballavano un po’ per la stanchezza e la mancanza di sonno, e poi nel budello che conduceva dentro il ventre dell’aereo, dove una hostess con un rossetto arancione sorrideva.
Si lasciò andare sul suo sedile. Sentì dopo un po’ la voce dell’altoparlante che dava il benvenuto.
La hostess con il rossetto arancione stava muovendo il torso e le braccia in una mimica muta, in fondo al corridoio.
Poi l’aereo cominciò a rollare, si lanciò sulla pista. Dopo un po’ il rumore delle cinture di sicurezza slacciate. Le nubi. Tutte quelle braccine che si muovevano per regolare le prese d’aria. Il rossetto arancione passò col carrello della colazione, vestita in tutt’altro modo. Il Matto prese una scatoletta di noccioline tostate e, mentre le sgranocchiava affamato, nel dormiveglia, sopra le nuvole, in volo, cominciò a pensare con dolcezza alla sua Meringa.
Chiudeva gli occhi, di tanto in tanto, li riapriva, nell’aereo che imbambolava, che volava. «E mi aspettava fuori dalla porta, in cima alle scale» gli veniva in mente a tratti, di colpo, «con i suoi occhi, i capelli, le guance, la bocca che mi sorrideva, che si apriva, e anche tutto il resto del suo corpo di carne, vivente, profumato, e il polso snodato, con quelle piccole linee azzurre delle vene appena accennate, dentro le quali adesso staranno sparando quegli aghi delle fleboclisi per continuare a filmarla, a martoriarla. E la sua mano che mi prendeva la mano dal basso, la stringeva, mentre mi portava in giro per la casa editrice, e poi giù per le scale, certe volte, quando non resistevo e scappavo, correndomi dietro con quelle sue ciabattine, basse, ricamate, nella neve che scricchiolava, cantava...»
Si assopì di nuovo, più a lungo. Lo svegliò la voce che stava annunciando l’atterraggio, il rumore delle cinture di sicurezza allacciate, poi il tonfo dell’aereo che toccava terra e frenava.
Si incamminò verso l’uscita, oltrepassò il sorriso arancione, fece la fila per entrare nel pulmino che conduceva dalla pista all’interno dell’aeroporto, dove andavano e venivano da tutte le parti uomini e donne con caffettani colorati e turbanti.
Nella ressa di persone che aspettavano i viaggiatori in uscita, una ragazza magrebina in jeans e giubbotto di cuoio stava agitando una mano, in punta di piedi per farsi meglio vedere.
«Sono io!» disse al Matto prendendolo sottobraccio. «La porto in albergo!»
Uscirono dall’aeroporto. La ragazza si avvicinò a un taxi parcheggiato a poca distanza.
«Si sieda vicino a me!» disse al Matto, che stava aprendo macchinalmente la portiera di dietro.
Il Matto sedette al suo fianco. Si lasciò andare sullo schienale. Fece solo in tempo a sentire, un secondo prima di addormentarsi sfinito, che la ragazza aveva girato la manopola dell’autoradio, sintonizzandosi su una stazione che trasmetteva musica, tenendola a basso volume, per conciliargli il sonno.
Poco dopo, nella piccola stanza di un albergo, dopo essersi chiuso la porta alle spalle, vide che c’era uno zaino, ai piedi del letto. L’aprì: era pieno di biancheria e di vestiti. In una tasca laterale c’erano delle banconote grandi come lenzuola, delle pile di ricambio per il cellulare.
Il Matto barcollò verso la finestra, guardò fuori un istante, senza aprire i vetri, nella piccola via deserta.
Tornò verso il letto, ci si sedette sopra pesantemente. C’era solo una striscia di materasso su un’asse di trucioli di legno pressati.
Ci si coricò sopra, si addormentò di schianto.
Ci mise del tempo a svegliarsi, e a capire che il cellulare stava suonando nella sua tasca.
Spalancò gli occhi, senza riuscire a ricordare dov’era, per un po’. Si pulì con la mano la saliva che gli era uscita di bocca, annaspò con le mani in cerca del telefonino.
«Sono Lazlo.»
Il Matto articolò qualcosa, con la mascella ancora legata.
«Ha fatto in tempo a riposarsi un po’?» chiese Lazlo. «Ha recuperato le forze?»
«Abbastanza.»
Ci fu un breve silenzio.
«Cambio di programma» disse Lazlo. «Morgan è partito improvvisamente per Anversa. Segretezza assoluta, appuntamento non memorizzato in agenda elettronica. Abbiamo ragione di credere che si debba incontrare con Sax...»
«E chi è questo Sax?»
«Medico chirurgo, specialista in operazioni al tubo digerente e all’intestino retto in particolare, con l’uso di telecamere sonda. Lei capisce... Si vada a rinfrescare la faccia al lavandino. La nostra taxista è già ferma sotto il suo albergo, col motore acceso, per portarla in stazione. Le abbiamo prenotato un treno superveloce per Anversa, dove troverà un’altra macchina che l’aspetta e un albergo già prenotato. Alla reception le consegneranno una busta. E mangi qualcosa, dia retta a me, quando arriva...»
Il Matto infilò rapidamente lo zaino, si andò a chinare sul lavandino. L’acqua fresca lo rianimò un poco. Corse fuori dalla stanza, senza chiudere neanche la porta, scese dalla scala di servizio, di corsa, scansando all’ultimo momento una donna delle pulizie che saliva reggendo una bolla di lenzuola sporche tra le braccia. Passò di fronte alla donna della reception, che stava masticando qualcosa e sorrideva, balzò in strada, poi dentro la portiera spalancata del taxi, che partì all’improvviso.
Il treno si stava già muovendo. Salì all’ultimo istante. Andò a sedersi su una delle poltroncine centrali, di fronte ad altre poltroncine girate dalla sua parte, vuote. Vedeva appena, mentre il treno filava quasi senza rumore e si lasciava andare a piccoli sonni intermittenti e profondi, il paesaggio fuggire dietro i finestrini bombati e un passeggero che si era seduto su uno dei sedili di fronte, spostandosi da un punto all’altro del treno, probabilmente, perché non c’erano state fermate. Aveva accavallato una gamba, posando la caviglia sopra un ginocchio. Il Matto vedeva, tra un sonno e l’altro, che sotto la sua scarpa c’erano degli escrementi appiccicati, così pestati e allargati che uscivano ben oltre la linea della suola, mentre l’uomo sorrideva serenamente tra sé, segno che non se n’era accorto o non se ne curava.
Quando il treno entrò nella stazione di Anversa l’uomo non c’era più. Il Matto si svegliò di colpo, alla voce degli altoparlanti della stazione che stavano parlando in diverse lingue. Si incamminò barcollando verso la portella d’uscita, bilanciandosi meglio lo zaino sulle spalle, poi lungo la banchina che costeggiava il binario, in fondo al quale si fece avanti un uomo dalle guance appena rasate.
Correvano, dietro i finestrini dell’auto, le sagome dei primi quartieri isolati, mentre andava per le strade di quella città sconosciuta e l’autista girava in silenzio il volante imbottito, si sentiva solo il ticchettare delle frecce direzionali, quando la macchina doveva svoltare.
L’albergo era basso, tra due fette di case molto alte, a strapiombo.
Il Matto prese le chiavi dalle mani della ragazza della reception, salì a piedi le scale, fino alla sua stanza.
Entrò, si liberò dello zaino, andò a buttarsi sul mezzo letto. Dormì alcune ore, profondamente. Si svegliò che era già buio, oltre le finestre dalle ante aperte. Si risciacquò sul lavabo, scese in strada, andò a mangiare qualcosa, in piedi dietro una mensola alta, in un locale semideserto. Si incamminò di nuovo verso l’albergo, e mentre andava scorgeva delle finestre accese qua e là nei fondali di quelle alte facciate.
Risalì fino alla sua stanza, si buttò di nuovo sul letto, si addormentò un’altra volta, di schianto.
Si svegliò di nuovo, nel cuore della notte, di soprassalto.
Si guardò attorno, cercò a tentoni l’interruttore della luce. Qualche istante dopo si rese conto che il cellulare stava suonando, chissà da quanto, nella sua tasca.
«La prego, sia più tempestivo a rispondere!» lo rimproverò Lazlo, quando riuscì finalmente a pescare l’apparecchio nella tasca, e a premere il tasto della ricezione dopo aver trovato l’interruttore della luce. «Tenga il cellulare a portata di mano, quando dorme, sul comodino. Potrebbe essere una questione di pochi secondi... Ha dormito?»
«Sì.»
«Si sente più in forze?»
«Sì.»
«Meglio così! Perché ci sono novità grosse. Vogliono fare festa grande, stavolta. Morgan e Sax si sono incontrati, come previsto. Quello che non avevo previsto è che sono poi volati tutti e due a Dresda, dove c’è una grossa centrale. Stanno preparando qualcosa di veramente speciale, abbiamo ragione di pensare che ci sia dentro anche la Bielorussia, stavolta, convergerà a Dresda anche Igor, da Minsk... Si sta muovendo anche l’Est!»
«Chi è questo Igor?»
«Odontotecnico, privo di un occhio, gli è stato lacerato dall’unghia di una delle dita di un piede che una donna stava mulinando all’impazzata nell’aria per liberarsi, mentre lui la teneva ferma e si chinava definitivamente sulla sua carne, per...»
«... sbranarla. E se c’è Igor con lui ci sarà anche quella donna caudata che si porta sempre dietro nei set...»
«Una donna caudata? Esiste al mondo una donna caudata?»
«Certo che esiste! È una siberiana. L’abbiamo scoperta visionando delle cassette supersegrete che arrivano dai paesi dell’Est, merce estrema in cui si stanno specializzando da quelle parti. Non credevamo ai nostri occhi, quando l’abbiamo vista muovere questo lungo, arcuato, snodato mozzicone di coda nuda, priva di peli. Credevamo all’inizio che fosse una protesi, oppure un cordone ombelicale che le uscisse dall’ano, mentre tutt’intorno il sangue correva e si sentivano quelle urla di gente con le budella fuori... Si butti giù dal letto! Deve far presto! Troverà davanti all’albergo una macchina che la porterà correndo a rotta di collo fino a Bruxelles, dove fra due ore c’è un volo per Dresda, via Berlino. È notte, le strade sono sgombre, potrete andare quasi volando, senza neanche fermarvi agli incroci, anche se l’autista è stato svegliato da pochi istanti, come lei, ed è uscito di corsa assonnato, infreddolito, sta sbadigliando nell’abitacolo della macchina fredda, sul marciapiede che c’è sotto il suo albergo. Non gli dirà una sola parola, la porterà correndo a perdifiato fino all’aeroporto di Bruxelles, vedrà solo, attraverso lo specchietto retrovisore, il contorno della sua testa, il bianco degli occhi, sbadiglierà continuando a puntare la strada. E poi all’aeroporto, e poi in volo, quelle voci che parlano lingue sempre diverse, quando atterrerà alle prime luci dell’alba a Dresda, dopo averla vista dall’alto, dai finestrini, dietro le nubi illuminate da poco, come insanguinate. E poi ancora di corsa su un’altra macchina verso un altro albergo in una strada mai vista, un albergo mai visto, piccolo, malfamato, di quelli che certe volte frequentano anche quei signori cui stiamo dando la caccia, sperando di intercettarne qualcuno... Stia in allerta! Tutta la rete si sta mettendo in moto da tutte le parti, tutta l’orda si sta cominciando a spostare. Non abbia paura, qualsiasi cosa succeda. Noi non siamo lontani...»
Il Matto si grattò la zucca, muovendo i primi passi in una piccola stanza a un piano alto, in un albergo di Dresda. Si accostò alla finestra. Si vedeva, da lontano, la massa compatta di un fiume, che correva. Adesso il Matto si sentiva più in forze. Aveva dormito ancora un po’ sugli aerei, durante il volo, di notte. Uscì dalla stanza, prese l’ascensore che traballava, passò davanti all’uomo butterato della reception, uscì in strada, camminando per un po’ in direzione del fiume nella mattinata ventosa. Entrò a mangiare qualcosa in un locale, riprese a camminare verso il fiume, e intanto sentiva il telefonino sbattere contro la sua coscia, in fondo alla tasca.
Si fermò contro la spalletta del fiume. Rimase a guardare l’acqua dell’Elba che correva opaca e compatta verso il mare. «Chissà perché c’è sempre questo strano vento, dove corrono i fiumi?» si chiese. «Come se l’aria e l’acqua corressero tutte e due assieme dentro lo stesso letto...» Passava di tanto in tanto qualche aereo radente, sulle case, come allargato da un pestacarne. Il Matto riprese a guardare il fiume. «E poi ci staccavamo da quel portone...» si disse, «cominciavamo ad andare come senza pensare, per le strade, lei ancora con le sue ciabattine basse, ricamate, il golfino stretto con una mano attorno al collo, sulla neve, sopra i marciapiedi porcellanati, e io vedevo la nuvola del suo fiato attorno alla sua bella bocca, quando respirava, parlava. Sentivo la sua mano palpitare nella mia mano, me la portavo irresistibilmente alle labbra, la baciavo. Continuavamo a camminare senza vedere, tra le luci della città, nella sera, passando tra la polpa della folla che si apriva al nostro passaggio. Passavamo di fronte a qualche grande portone illuminato, i vasi di fiori ai lati, allargati, profumati, un signore elegantemente vestito, le scarpe lucenti, la giacca attillata, senza cappotto nonostante il freddo, la neve, la passatoia rossa che correva nell’atrio della casa, del palazzo, dentro l’androne, poi su lungo lo scalone, gradino dopo gradino. Ci faceva cenno cerimoniosamente di entrare. “Ma non siamo stati invitati!” balbettavo. “Siamo passati di qui per caso, stavamo andando col cuore in gola, senza pensare, senza respirare...” “Oh, no, lei si sbaglia!” sorrideva il signore. “Voi siete stati invitati, anzi siete gli invitati. Siete gli invitati di maggiore riguardo, quelli che tutti stanno aspettando da un pezzo, là dentro, per dare inizio alla festa!” “Ma non abbiamo neanche i vestiti adatti, non ho neanche le scarpe!” provava a dire la Meringa. “Siamo usciti così, all’improvviso, tenendoci irresistibilmente per mano, senza neanche sentire il freddo, senza vedere...” “La prego, acconsenta a entrare in questo palazzo, avrete freddo! Siete voi l’anima della festa, non ci sarà nessuna festa, là dentro, se voi non accettate di fare il vostro ingresso in questa casa. Non preoccupatevi dei vestiti: troverete là dentro gli abiti più belli, ad aspettarvi, della vostra misura, disposti su due poltrone, appena confezionati, ancora profumati.” Provavamo a muovere i primi passi su quella passatoia, vedevo piccole scaglie di neve staccarsi dalle mie scarpe, dalle sue ciabattine, mentre salivamo continuando a tenerci per mano. Ci guardavamo l’un l’altra senza fiatare, mi portavo ancora alle labbra la sua mano rossa a causa del freddo. Ci accoglieva, a fianco della porta che si apriva al termine dello scalone, una ragazza in abito da sera, ci faceva cenno a sua volta di entrare, con la mano piena di piccoli anelli, profumata. Muovevamo qualche passo all’interno, coi nostri piedi per metà infradiciati, le mie scarpe tutte bagnate, le ciabattine della Meringa inzuppate, anche i piedi dentro le calze gelate, intirizziti. Tenevamo tutti e due gli occhi bassi, sui pavimenti lucidi come specchi, ci vedevo riflessa la vastità degli spazi, delle luci, la massa degli invitati che si apriva al nostro passaggio, elegante, sfavillante, mentre si spalancava di fronte a noi un’altra porta e altri spazi ancora più vasti, più lucenti, attraversavamo una dopo l’altra grandi sale felici, andandoci dentro storditi, quasi addormentati, fendevamo quegli spazi mai visti, come regge appena create, percepivamo la presenza, in fondo a una sala ancora più vasta, di due abiti distesi su due grandi poltrone, come troni, uno per me e uno per la Meringa, appena confezionati, ancora inabitati, mentre andavamo attraverso quelle sale incantate, profumate...»
Il Matto sussultò all’improvviso. Il cellulare stava suonando da un po’ di tempo nella sua tasca.
Rimase ancora qualche istante come intontito. Poi tirò fuori il telefonino, premette il tasto della ricezione, se l’accostò all’orecchio.
«Dov’era andato a finire?» chiese Lazlo con la voce leggermente alterata. «L’abbiamo persa di vista!»
«No, no, sono qui.»
«Dove si trova in questo momento? Cosa sta facendo?»
«Guardo il fiume...»
La voce di Lazlo si era interrotta per alcuni istanti, respirava.
«Deve ritornare immediatamente nella sua stanza» riprese. «Forse abbiamo avuto fortuna nella scelta dell’albergo, stavolta. Abbiamo ragione di credere che Igor si trovi lì, con quella siberiana... Siete sotto lo stesso tetto. Non sappiamo invece dove siano Morgan e Sax, da quando sono arrivati all’aeroporto di Dresda hanno fatto perdere le loro tracce. Si incontreranno, non sappiamo dove, non sappiamo quando, ma sappiamo che si incontreranno. Bisogna scoprirlo! A meno che non si incontrino tutti quanti direttamente sul posto, arrivando da punti diversi, da città diverse. In qualcuno di quei loro set mimetizzati da chissà cosa che potremo scoprire solo seguendo le tracce di qualcuno di questi signori che stanno convergendo là per la festa. Della preda ancora nessuna traccia. Abbiamo passato agli infrarossi i carichi di tutti gli aerei per Dresda. Niente. Sarà arrivata qui in qualche altro modo. Un camion adibito al trasporto di qualcos’altro, nel bagagliaio di un’auto, qualche volo privato, oppure portata qui da qualche altra città vicina attraverso complicati passaggi, imbozzolata, narcotizzata. Sempre che il set sia davvero qui, che siamo arrivati davvero al capolinea... Torni in albergo, cerchi di scoprire se sono davvero lì quei due russi. Nessuno la conosce, nessuno potrebbe mai sospettare che lei abbia qualche ruolo in tutto questo. Le do il numero del mio cellulare, perché anche lei possa comunicare tempestivamente con me, d’ora in poi, se avrà bisogno di qualcosa, se le capiterà di scoprire qualcosa... Se lo appunti! Il tempo stringe, il cerchio si sta serrando. Quella donna sarà da qualche parte che aspetta, senza neanche sapere che aspetta. Ancora buona fortuna!»
Il Matto girò i tacchi, cominciò a camminare a grandi passi verso l’albergo, piegato in due per il vento. Sentiva il cuore pulsare, mentre faceva il suo ingresso nella portineria dell’albergo, e poi si avvicinava all’uomo biondo un po’ butterato che stava dietro il banco e masticava qualcosa. Ritirò la sua chiave, ma, girato l’angolo, prima di entrare nell’ascensore, si fermò all’improvviso.
Si sentivano le voci di due persone che parlavano molto piano tra loro, provenienti da una saletta che c’era a pianterreno.
Passò di fronte alla porta, con la scusa di raggiungere la scala di servizio per salire a piedi: erano un uomo e una donna, lui con i capelli lunghi, pettinati all’indietro e imbrillantinati, gli occhiali da sole anche se si trovavano in un interno e c’era la luce accesa nella stanza, lei viso largo, capelli chiari. Stavano seduti tutti e due sullo stesso divano di finta pelle e parlavano sottovoce tra loro, in lingua russa.
Il Matto li oltrepassò facendo finta di niente, senza fiatare. Salì le scale a piedi, si gettò dentro la sua stanza. Richiuse piano, raggiunse l’angolo più lontano dalla porta e cominciò a comporre il numero che Lazlo gli aveva dato.
«Non vi siete sbagliati» sussurrò quando sentì la voce di Lazlo, «quei due sono qui!»
«Ne è sicuro?»
«Parlavano in russo tra loro, sottovoce. Lei è alta, chiara. Non saprei dirle se lui è privo di un occhio, perché portava gli occhiali da sole anche all’interno...»
«È lui!» disse Lazlo. «Cerchi di scoprire in che stanza sono. Tenga d’occhio i loro spostamenti. Mi riferisca immediatamente.»
Il Matto chiuse la comunicazione, si avviò verso la porta. Stava già per uscire nel corridoio, quando, provenienti dal punto dove c’era l’ascensore, sentì venire avanti dei passi, delle voci.
Si appiattì contro il diaframma della porta, senza fiatare, da quando aveva capito che le due voci parlavano in russo, e che si stavano dirigendo verso la porta subito dopo la sua, nel corridoio, la stavano già aprendo lentissimamente con la chiave.
Si staccò dalla porta, si tolse le scarpe, per non fare rumore mentre si spostava attraverso la stanza con i capelli diritti sulla testa gelata.
Si sentiva di tanto in tanto parlare, nell’altra stanza. Poi il rumore di una cerniera fatta scorrere fulmineamente, segno che stavano aprendo una valigia.
Il Matto fece qualche passo sul pavimento, fino al piccolo gabinetto, accostò la porta alle sue spalle, senza chiuderla con la maniglia, per non far rumore, andò dietro la cerata che schermava la doccia, compose un numero piano, col cuore in gola.
«Lazlo?»
«Sì.»
«Quei due sono qui» sussurrò, «sono proprio nella stanza vicino alla mia.»
Un breve silenzio.
«Accidenti!»
Il Matto era tutto chinato sul cellulare, per fare cupola attorno alla propria voce col corpo.
«Accidenti!» disse ancora Lazlo, un istante dopo. «La loro stanza che numero ha?»
«Il numero 15, credo.»
«Bene!» disse Lazlo. «Così sappiamo anche quello! Mettiamo immediatamente sotto controllo il loro telefono. Mi avvisi se sente che lasciano la stanza. Ma non si lasci vedere in faccia una seconda volta da loro, per nessun motivo! La terrò informata io, non appena sapremo qualcosa. Da dove sta telefonando in questo momento?»
«Dal gabinetto.»
«Bene. Lasci il cellulare dove si trova adesso, con la porta chiusa, perché non sentano dall’altra stanza il suo segnale quando dovrò richiamarla. Stiamo tenendo sotto pressione la rete degli informatori, qui a Dresda. Ma nessuno sa niente. Sembra che non ci sia in ballo niente di grosso, per domani. Eppure sono arrivati qui Morgan e Sax, Igor, quella donna caudata. Non possono essere qui tutti quanti per caso! A meno che non ci stiano trascinando qua e là per darci false piste, spiazzarci. E della donna nessuna traccia, neanche di quel laringectomizzato che l’accudisce. Stanno lavorando alla perfezione, non si capisce ancora quale sarà il set, come l’avranno mimetizzato stavolta. Dentro un Tir? In un magazzino di pezzi di ricambio per auto? In un negozio di videocassette in ristrutturazione? Gli operatori già sul posto, per disporre le luci, le griglie di scarico per il sangue, le feci... in attesa degli interpreti arrivati all’ultimo momento dai quattro angoli del pianeta, la cassa con quella donna avvolta nella carta stagnola, gli animali...»
«Gli animali?»
«Be’, sì, ci sono sempre degli animali, quando organizzano uno di questi movie estremi! La voce si sparge immediatamente nella rete dei collezionisti segreti, degli amatori. Ne fanno fuori anche due o tre per ogni seduta, in crescendo, sotto terra, dietro pareti insonorizzate, professionisti che viaggiano su voli internazionali con le valigette ventiquattrore, gente che si vede due o tre volte l’anno e non sa niente l’una dell’altra, di poche parole, perfezionisti, privi di un occhio, ulcerati, palmati, quelle di contorno che interagiscono cruentemente nei movie ma non vengono massacrate. Si preparano nei loro stanzini, allestiti all’interno dei set, per contratto, tirano fuori le loro apparecchiature, le armi da taglio, le telecamere sonda, gli animali, ognuno ha la propria specializzazione, altri sono esperti in elettronica, preparano i monitor per la regia, ricontrollano un’ultima volta le luci, qualcuno ha l’abitudine di farsi meticolosamente la barba, prima delle riprese, devono chiamarlo anche due o tre volte, quando tutto è ormai pronto, sul set... A presto! Lasci il telefonino dentro la doccia, per terra, se non è bagnato, accosti la porta, tenga le orecchie tese, non faccia rumore, non lasci trapelare il più piccolo indizio della sua presenza. Ha mangiato qualcosa?»
«Sì.»
«Meno male, perché non si sa se potrà uscire tanto presto per mangiare di nuovo!»
La comunicazione si interruppe di colpo. Il Matto posò il cellulare sulla conchiglia della doccia, tornò nella stanza. Si accostò alla parete. Stavano parlando, nell’altra stanza, tranquillamente, e intanto si sentiva il rumore dell’acqua che scrosciava, segno che uno dei due si stava rinfrescando nel gabinetto e intanto parlava. La donna, gli pareva, perché la sua voce veniva da un po’ più lontano.
Poi sentì un rumore di piedi nudi sul pavimento, piedi di donna.
«Sta andando a piedi nudi verso quell’uomo» si disse il Matto senza fiatare, «sta attraversando la parte di stanza che la divide dal letto dove Igor la sta aspettando. Si è appena lavata, senza vestiti, nel gabinetto. Cammina in punta di piedi sulle mattonelle fredde del pavimento, dietro il suo corpo anche la coda è nuda e un po’ arcuata, mentre va verso l’uomo che si è sfilato calzoni e mutande. Gli va sopra a gambe aperte, sul letto, comincia a scoparlo con la testa gettata all’indietro, si staglia contro il muro l’ombra del suo corpo con la coda inalberata come una serpe. Si divincola sempre più nell’orgasmo, mentre l’uomo le viene contro sempre più forte dal basso, la bocca nera allargata, per afferrarle coi denti le gocce delle tette e morsicarle e inghiottirle, mentre la donna non smette di rantolare con la testa gettata all’indietro, la lingua fuori, la gola snodata, e di mugolare e imperversare e cantare.»
Canto della donna caudata
Una telefonata breve. Un avviso cifrato. Come sempre, come le altre volte. Il tempo di buttarmi giù dal letto, nella mia casa siberiana isolata, di mettermi qualcosa addosso, di pettinarmi, truccarmi, di preparare la valigia, di buttarci dentro gli orari dei treni, degli aerei, di infilarmi la biancheria fine, le calze aperte in mezzo alle gambe, per dare modo a questo mio lungo mozzicone di coda di uscire. Lo tengo sollevato nell’aria, quando mi siedo sulla tazza del water, perché non si sporchi di merda mentre defeco. Ci passo la mano sotto, per lavarmi, lavo certe volte anche quello, per sicurezza. Lo sistemo sotto la sottoveste, la veste, confezionata apposta con dei piccoli accorgimenti perché non si indovini la sua forma sotto il tessuto, sotto la pelliccia che mi butto sopra all’ultimo momento prima di uscire di casa, e di raggiungere la più vicina stazione, e poi sul treno, mentre guardo dal finestrino quelle grandi pianure gelate, e poi sugli aerei mentre volo sopra gli oceani, negli aeroporti internazionali, nelle grandi città lontane dove mi chiamano continuamente per prendere parte autorevolmente ai macelli, assieme a Igor, a quegli altri. Ci infiliamo in qualche set mimetizzato il cui indirizzo ci viene comunicato all’ultimo momento, con una telefonata improvvisa, un biglietto da visita fatto recapitare nella stanza d’albergo. Mi libero dei vestiti, muovo due o tre volte la coda rattrappita per tanto tempo, come una frusta, la distendo. Sento tutta la spina dorsale partecipare a quel movimento snodato, fino agli anelli della cervice, alla scatola d’osso che contiene il mio cervello caudato, mentre i tecnici cominciano già ad accendere i riflettori da tutte le parti, cominciano a fare già il loro ingresso i macellatori, per metà denudati, ustionati, profumati, si vedono i segni dei colpi sulle ossa delle loro teste rasate, illuminate, i loro volti dai lineamenti falsati più volte dai bisturi dei chirurghi, come poltiglie in cui si aprono grandi occhi slabbrati. Si sente il cigolare delle gabbie che vengono portate dentro, pochi istanti prima che facciano la loro comparsa quei corpi da visitare, da far deflagrare, portati dentro a braccia, trascinati per i capelli, le labbra, bianchi come cenci, in tremore. La festa comincia. Mi muovo in mezzo a quei corpi come una grande scimmia ispirata, stacco a brani le masse dolci delle loro carni in sofferenza totale, guido con la mia mano il cazzo di qualche grande animale infoiato, contro una piccola fica bagnata, sbudellata. Le luci vanno in tumulto. Solo eruzioni sonore, solo quel soffrire. Gli intestini che perdono incontrollabilmente le feci, mentre i corpi vanno in sangue da tutte le parti, in fiore. La mia coda si muove come una frusta, come fa adesso, nell’orgasmo. Entro con le mani in quella massa abbagliata, eviscerata. Socchiudo gli occhi, sbatto le mie lunghe ciglia bagnate, insanguinate, mentre sento che mi stanno venendo dentro da dietro, nel macello. Sollevo l’osso della mia coda, metto allo scoperto l’anello dello sfintere fosforizzato e smerdato, mentre si levano da tutte le parti accordi sonori che non sono neanche più versi primordiali, ancestrali, solo luce in attrito e spazi in totale espansione, in orgia... Ecco, il telefono sta squillando, scorgo appena la forma del braccio dell’uomo che sta sotto di me che si allunga per afferrare il ricevitore mentre continuo a scoparlo da sopra, perché la mia coda abbia lo spazio per torcersi elettricamente nell’aria come una serpe. Il momento è arrivato. Sento appena la voce di Igor che risponde fulmineamente alla fulminea chiamata. Mi solleverò dal suo corpo con la fica ancora bagnata, vedrò colare fuori il grumo della sua chiara appena sparata, ancora arroventata. Ci laveremo rapidamente, una vicino all’altro, in piedi, a gambe larghe, nel cesso. Ci vestiremo in fretta. Infilerò fulmineamente le mutande di seta spaccate in mezzo, i collant lacerati, mi accerterò con la mano che la mia coda esca bene. Mi infilerò la veste allargata, pieghettata, ci getterò sopra la mia pelliccia siberiana rasata, in questa giornata di vento, camminerò come se niente fosse in mezzo alla folla, per andare dove ancora non so, verso qualche corpo da lacerare, da celebrare. In mezzo a tutta quella carne sfondata, rifondata. Solleverò araldicamente la mia coda scuoiata sullo sfondo di questo nuovo macello, esploderà sotto di essa il diadema del mio sfintere affamato, insanguinato, tutt’intorno solo luce in fetore, in sangue...
Nel gabinetto il telefono cominciò improvvisamente a suonare.
Il Matto corse da quella parte, raccolse il cellulare dalla conchiglia della doccia, piegato in due, la porta chiusa alle proprie spalle, premette il tasto della ricezione.
«Abbiamo appena intercettato la loro telefonata» disse Lazlo, «stanno entrando in azione segmenti sempre più forti della rete, la posta cresce, il monte premi è alle stelle, tutti vogliono essere della partita. Si sono messi in moto gli Stati Uniti. Nessuno vuole dare l’esclusiva agli altri della cosa. Sta diventando un movie epocale. Hanno ricevuto un momento fa l’ordine di partire per New York, tutti quanti. Siamo senza parole! Prenderanno un volo via Berlino. Li sentirà passare davanti alla porta fra pochi minuti, forse fra pochi secondi. Non si faccia vedere, non devono vederla in faccia una seconda volta. Le abbiamo prenotato un altro volo per New York, via Lipsia. Arriveranno a poca distanza l’uno dall’altro. Abbiamo allertato i nostri subagenti negli Usa. Sappiamo che si sta muovendo anche Spiro...»
«Chi è questo Spiro?»
«La sua specialità è disossare... Non sappiamo niente di lui. Solo il suo nome in codice. Anzi... no! Una cosa la sappiamo, una sola...»
«Che cosa?»
«Che gli puzzano i piedi!»
Il Matto trattenne il respiro, perché sentiva che Igor e la donna caudata stavano passando di fronte alla porta della sua stanza, stavano dirigendosi verso l’ascensore del corridoio, parlando sottovoce, distesi.
«Sono usciti adesso» sussurrò a Lazlo.
«Bene! Lasci passare cinque minuti prima di abbandonare la stanza. Non si fermi al banco della reception. È già tutto a posto. Esca come se niente fosse, si infili nella macchina che l’aspetta di fronte alla porta e che la trasferirà all’aeroporto dove è in partenza un volo per Lipsia. Di lì volerà a New York, dove una macchina la porterà in un albergo. Ci sono sempre più chiare le linee del loro progetto. Perché, se si è mosso Spiro, si sono mossi anche i divoratori. E, se sono negli Usa, potremo conoscere al millimetro i loro spostamenti da un nostro informatore che abbiamo là, un po’ speciale...»
«Di chi si tratta?»
«Di un serpente!»
«Un serpente?»
«Lo portano in giro quando ci sono quel tipo di riprese. Siamo riusciti a fargli sparare in corpo un ago magnetizzato. Ci basta seguire nel video di un portatile il lampeggiare dei suoi spostamenti nella grande rete delle strade, delle sopraelevate, mentre viaggia facendo sibilare la lingua, nel suo contenitore...»
Canto del serpente
Stiamo percorrendo qualche strada sopraelevata. Lo percepisco anche se sono chiuso qui dentro, nel bagagliaio di un’auto che corre a grande velocità e quasi vola sopra gli alti palazzi, i grattacieli, e tutt’intorno è solo spazio aperto, vertiginoso. Le pareti del mio contenitore stanno vibrando attorno al mio corpo attorcigliato, compatto, come un nodo che si prepara a fiorire, a deflagrare. Accenderanno tutte le luci, come sempre quando mi liberano in quegli spazi abbagliati, dopo avermi spalmato di fosforo tutto il corpo perché si veda la mia traccia nei monitor, sugli schermi, mentre vado alla cieca in quelle caverne squarciate, sbudellate. Mi mettono di fronte quelle mucose già mezze lacerate e squarciate. Non come quelle piccole bestie che mi fanno trovare di tanto in tanto dentro la teca, per il mio nutrimento, e sento dentro il mio corpo le loro ossa che vanno in frantumi sotto l’effetto delle mie contrazioni, sento i loro piccoli crani scoppiare, le loro lunghe orecchie ricoperte di peli. Striscerò lungo quei condotti bagnati, mi affaccerò attraverso un minuscolo squarcio a uno spazio più fumante e segreto, col mio corpo fosforizzato, tutto insanguinato. Andrò attraverso quelle caverne intestinali scoppiate, in quel viscere tutto gonfiato, tutto profumato. Si enfierà tutt’intorno la carne che ci contiene, mentre mi cercherò alla cieca là dentro un nuovo spazio germinale gemello, come in una sfera in generazione, in esordio. Immergerò la freccia ottusa della mia testa in quegli spazi aggrovigliati e incantati, come nella cripta di una cattedrale gemmata, bombardata, mentre tutt’intorno si leverà il canto di quella donna blindata, delle evacuatrici...
«Chi è questa donna blindata?»
«Sappiamo poco di lei» disse Lazlo, «solo che il suo corpo è privo delle aperture. La portano in giro in quei loro macelli, mentre tutt’intorno è solo sangue e fetore. Come sia stato possibile questo, non lo sappiamo. Non abbiamo ancora potuto vederla, esaminarla. Si mette a gambe larghe in mezzo alle orge, intangibile, intatta, la sua carne è perfettamente chiusa da tutte le parti, sembra fatta di smalto...»
«E le evacuatrici?»
Canto delle evacuatrici
Ci stiamo preparando, ciascuna nella sua casa, lontane una dall’altra, sconosciute, provenienti dalle grandi città vertiginose dell’Est, altre invece dall’Oregon, dal Kansas, dalla Georgia, dall’Arizona, nere, bianche, con la pelle maculata, argentata, quando arriva quella chiamata improvvisa, di giorno, di notte, mentre mangiamo, mentre stiamo dormendo o scopando o stiamo girando un hamburger con la paletta, durante l’orario di lavoro, sulla piastra. Posiamo immediatamente il grembiule, chiediamo il cambio. Usciamo quasi di corsa dal locale, prendiamo l’auto parcheggiata nel garage sotterraneo, oppure ci buttiamo giù dal letto, se stiamo dormendo, o ci puliamo la bocca col tovagliolo, se siamo raggiunte a pranzo, una da una parte l’altra dall’altra, ci laviamo i denti macchinalmente, ci passiamo lo stick sulle labbra, indossiamo biancheria pulita, prepariamo la valigetta, la trousse, corriamo alla stazione delle corriere, all’aeroporto, ci prepariamo, anche se il viaggio è lungo e l’appuntamento a distanza di giorni, e magari ci fanno andare qua e là attraverso questo grande paese per spiazzare, per depistare. Ci tratteniamo, lasciamo crescere dentro i nostri corpi il carico intestinale, per giorni e giorni, anche per settimane, per mesi, eppure mangiamo tranquillamente, golosamente, sentiamo il nostro ventre dilatarsi come per una gestazione totale, lo vediamo gonfiarsi gemmato, profumato, e l’ombelico affiorare sempre più dalla carne, esorbitare, sembra sempre sul punto di schizzare fuori esplosivamente dalla bolla del nostro ventre farcito. Ci spostiamo tranquillamente in mezzo alla folla che ci lascia il passo, nelle sale d’attesa degli aeroporti, verso una di quelle stanze di proiezione segrete, dai riflettori già tutti accesi, abbacinate, dove la festa è già cominciata e scorre il sangue. Entreremo da qualche porticina mimetizzata, dopo esserci lubrificate lo sfintere già dilatato, ci vedremo in faccia l’un l’altra solo all’ultimo istante, là dentro, coi nostri grandi ventri gemmati, ingravidati. Spalancheremo le nostre cosce in mezzo al macello, sentiremo i primi cazzi che cominciano già a scoparci cercandosi un varco in mezzo alla fanga, e poi a incularci eruttivamente trapanando i nostri retti murati, mineralizzati, voleranno fuori fallicamente dai nostri buchi sturati enormi stronzi neri come di grandi animali accucciati, abbacinati, si mischieranno al sangue che già scorre da tutte le parti, verso le griglie. Sentiremo appena la forma dei loro cazzi scoparci dentro la merda che già comincia copiosamente a sgorgare, prima di venire espulsi dall’onda d’uscita ormai liberata, e volare via tutti smerdati, addormentati. Si mischierà agli altri anche il nostro canto primordiale snudato, scoperchiato, mentre continueremo con gli occhi chiusi a fluire, a sconfinare, i nostri retti tutti fioriti, deflagrati, parti dell’intestino schizzate fuori dalle aperture per la violenza dell’onda d’uscita, tutti schiumati, tutti trasognati... I nostri ventri sono in lievitazione, in fiore. Ci muoviamo segretamente in mezzo alla folla. Stiamo convergendo da tutti i lati di questo grande paese su New York.
Era buio. Le luci accese vertiginosamente qua e là lungo le pareti di vetro dei grattacieli. Il Matto le vedeva appena dai finestrini dell’auto che lo stava trasportando verso un piccolo albergo, buttato sul sedile di dietro, col cellulare premuto contro l’orecchio.
«Si sente bene?» domandò Lazlo. «Ha fatto buon viaggio?»
Silenzio.
La macchina continuava ad andare. Il taxista muoveva il volante con una mano bendata.
Passavano di tanto in tanto, dai lati, le folate di quelli che vanno sempre avanti con la testa bassa, puntata, quei roller.
«Allora... la situazione è questa» riprese Lazlo. «Sono sbarcati all’aeroporto un’ora prima di lei, ma hanno fatto perdere le loro tracce quasi immediatamente, in una saletta. Diciamo che li abbiamo visti entrare e non li abbiamo più visti uscire. Insomma... ci hanno fregati! Saranno entrati in quella saletta e poi saranno usciti con un aspetto completamente diverso. Come se non bastasse, il serpente non ci sta più inviando impulsi, segno che in questo momento è rinchiuso in un contenitore molto protetto e sta viaggiando da qualche parte, chissà in che direzione. Le evacuatrici sono in viaggio, ma chi ne conosce il volto! Si staranno spostando come se niente fosse in mezzo alla folla. Un uomo, scambiando qualcuna di loro per una donna gravida, le starà forse cedendo cavallerescamente il posto in una vettura della metropolitana. Di Spiro non sappiamo niente di niente. Sono qui a New York, questo è certo, ma abbiamo perso di colpo ogni loro traccia. Non parliamo della donna avvolta nella carta stagnola... Sarà già qui sul posto? Sarà ancora da un’altra parte? Sarà in viaggio? E manca un solo giorno alla realizzazione del movie! Ma non dobbiamo darci per vinti. Abbiamo attivato ancora di più la nostra rete, abbiamo chiesto aiuto ad altre reti di investigatori locali, ci è stato dato accesso ad alcune banche-dati segrete. Li rintracceremo, li prenderemo! Lei intanto mangi qualcosa, riposi, domani sarà un giorno duro per tutti!»
Si vedeva solo, nell’abitacolo buio dell’auto, la mano bendata che si muoveva di tanto in tanto sul volante, mentre l’uomo guidava senza parlare, assorto.
«Un’ultima cosa...» disse Lazlo.
Il Matto rimase in ascolto.
«No, no, niente...» concluse Lazlo un istante dopo, con un sospiro, prima di interrompere improvvisamente la comunicazione.
La macchina aveva imboccato una strada più stretta, ad angolo. La mano bendata del taxista sembrava fosforescente nell’abitacolo buio dell’auto.
«E poi andavamo tra quelle due ali di invitati che si aprivano al nostro passaggio» il Matto riprese a fantasticare, «camminando su quei pavimenti tirati a specchio, ci spostavamo in avanti come con le teste conficcate in qualcosa di molto più vasto, che respira, scorgevamo dalle parti le torri degli invitati che si accendevano più intensamente qua e là, come queste muraglie abitate attraverso le quali stiamo passando, illuminate, si aprivano nelle loro teste le strisce sorridenti e lucenti delle bocche, ai piani più alti, più evocati, mentre andavamo verso le macchie dei vestiti nuovi a noi destinati. “Ma eravamo solo usciti così, senza pensare, senza immaginare...” balbettava la Meringa alle due ragazze che sollevavano i vestiti di fronte a noi, e ci invitavano ad andarli a indossare in uno stanzino lì accanto, illuminato. “Abbiamo imboccato le strade così, senza vedere, senza respirare... solo il suono della neve premuta, benvenuta, il calco dei nostri passi primordiali e appaiati, sotto le nostre scarpe leggere, le nostre ciabattine. Abbiamo ancora le mani gelate, le punte dei nostri piedi bagnate, intirizzite. Non può essere destinato a noi tutto questo!” “Oh, no!” diceva una delle due ragazze, con il volto animato. “Che senso avrebbe tutta questa festa se non foste voi gli invitati? I più inaspettati, i più trasognati.” La sala brillava, palpitava...»
La macchina si stava fermando, si era già fermata.
«Stop!» disse solamente l’autista aprendo per la prima volta bocca, per dire che era arrivato.
Il Matto scese, si caricò lo zaino sulle spalle, fermo di fronte all’albergo. Esitò un istante prima di entrare. Poi imboccò i pochi gradini che conducevano dentro. Si fermò per un po’ al banco della reception. Una donna in accappatoio di spugna gli consegnò le chiavi della sua stanza. Il Matto cominciò a salire le scale. Arrivò al primo piano. Entrò nella stanza. Si liberò dello zaino. C’erano delle banconote per lui, sopra una mensola bassa, tenute ferme da un portacenere. Le mise nel portafoglio. Scese di nuovo, si diresse verso un locale poco distante, costeggiando una recinzione in lamiera ondulata. Entrò, nella luce. Si guardò attorno un istante prima di andarsi a buttare su una delle panche. C’era un menu illustrato sul tavolino. Una ragazza si accostò per raccogliere la sua ordinazione. Era gravida, si vedeva, sotto il grembiule.
«Che sia una di quelle evacuatrici?» si chiese il Matto improvvisamente, un istante prima di lasciarsi andare sulla panca imbottita.
Tutt’intorno gente che mangiava e parlava, sbadigliava. Anche il Matto mangiò qualcosa: pollo fritto, torta di mirtilli, un paio di birre. Prima di lasciare il locale si fece incartare due sandwich e una lattina di birra.
Uscì stringendo in una mano il sacchetto. Tornò in albergo. Aprì la finestra, rimase a guardare per un po’ il fiume delle auto che scivolavano basse, a filo con la via, coi fari accesi, nel varco di una strada che portava a un’altra strada più grande. Un cane abbaiava da qualche parte, afono. Il Matto si andò a gettare sul letto, posò il cellulare sul comodino, buttò a terra le scarpe, si raggomitolò su di un fianco, chiuse gli occhi... «E la sala brillava, palpitava» riprese a fantasticare, «mentre seguivamo col cuore in gola le due ragazze che reggevano i nostri nuovi vestiti, verso lo stanzino. Le sue pareti erano vellutate, profumate. Ci toglievamo uno di fronte all’altra i nostri vecchi vestiti, rimanendo su un piede solo, li lasciavamo cadere sul pavimento appena lucidato, mentre le due ragazze sorridevano come senza vederci, assorte, e nella sala cessava l’animazione, il brusio, veniva solo quell’emozione cava dello spazio che respira silenziosamente da tutte le parti, in attesa. Sentivamo appena il suono della biancheria profumata che saliva musicalmente lungo i nostri corpi gelati, e poi degli abiti che ci porgevano le due ragazze, mentre i nostri piedi cominciavano già a scaldarsi a contatto con le calze nuove, con le scarpe mai prima calzate. Scorgevamo appena la foggia dei nostri vestiti nello specchio dei pavimenti, mentre facevamo il nostro ingresso nella sala grande. Poi l’onda degli invitati si apriva e si richiudeva, veniva dallo scalone il suono di altri invitati che continuavano a salire a ondate, senza vedere, senza respirare. “Ma perché tutto questo? Dove siamo?” provavo a chiedere alle due ragazze, e intanto mi spostavo con la Meringa tenendole una mano attorno alla vita, e anche lei mi passava un braccio attorno alla vita, sentivo solo il suo vestito frusciare, sconfinare, mentre abbandonava la testa contro la mia spalla, mi abbracciava...»
Il Matto spalancò gli occhi, annaspò con le braccia. Era già giorno. La luce entrava dalla finestra, perché si era dimenticato di chiudere le ante prima di addormentarsi.
Il telefonino continuava a suonare.
«Ah, finalmente!» disse Lazlo. «Ce ne ha messo del tempo a svegliarsi!»
Il Matto cambiò di mano al telefonino, perché una delle sue braccia era intorpidita.
«Novità!» disse Lazlo. «Ci stanno facendo ballare.»
«Cos’è successo?»
«Ho saputo poco fa che sono volati a Los Angeles, nella notte. Abbiamo captato laggiù i segnali di quel serpente magnetizzato, per poco. Vuol dire che l’hanno tirato fuori e poi rimesso in un contenitore protetto, durante un trasbordo. Ci segnalano che è stato allertato anche Attila, nome in codice, uno che lavora con un cinghiale...»
«Un cinghiale?»
«Non abbiamo mai avuto notizia di un movie come questo, finora, di simili proporzioni. E oggi è già il terzo giorno! Siamo nell’occhio del ciclone, siamo andati direttamente al cuore! Forza, si butti giù dal letto, scenda in strada di corsa, salti sulla macchina che le abbiamo mandato. E poi via all’aeroporto. Ci attirano da una parte e poi vanno dall’altra. A meno che la cosa cresca e si ingrossi da sola spostandosi così a caso, a valanga, e sempre altri se ne aggiungano lungo la strada... tutta la rete si dispiega, scendono in campo gli specialisti più nascosti e segreti, professionisti, spostati, gente rovinata, ispirata, come un fiume che cresce sempre più andando verso la cascata. Il budget sale continuamente. Abbiamo ragione di credere che non sarà solo la nostra donna avvolta nella carta stagnola a lasciarci la pelle, in quel movie, che convergeranno laggiù anche altri corpi da profanare, da squartare. Si sono mossi persino i divoratori...»
«I divoratori? Chi sono i divoratori?»
Canto dei divoratori
Tuffiamo il grugno nelle pance aperte, nelle vagine scoppiate, arrovesciamo le teste nelle nicchie degli intestini fioriti, sentiamo sgusciare sotto i nostri denti le camere d’aria delle budelle bagnate, lacerate, andando a cercare ancora più in là, con la lingua, gettiamo ancora più avanti le nostre teste appuntite, con la bocca ancora piena di hamburger non ben masticati, mangiati poco prima delle riprese, i capelli tutti bagnati, gli occhi sempre più spalancati, rovesciati, le ciglia lordate, insanguinate, le orecchie smerdate, ricamate, ci giungono appena, dall’esterno, i versi degli animali lanciati ormai nella monta, altri suoni che percepiamo come alterati da distorsori, escono da corpi femminili voci orribili, cavernose, maschili, fanno accapponare la pelle persino a noi che andiamo amnioticamente là dentro, muovendo le nostre dentature alla cieca in zone infinitamente profonde dove nessuno è mai andato, di cui nessuno sa niente, avanziamo a testa in giù mediante il gesto primordiale trainante della masticazione, respirando una respirazione dimenticata, primeva, in quelle masse palpitanti e spolpate, in quelle scatole vertebrali scarnificate, espugnate, scaturiamo alla fine tutti bagnati, con gli occhi velati, la testa evocata, imbozzolata, come gattini appena generati e annegati, in quella luce abbagliata, disossata, mentre tutt’intorno è devastazione, fetore, i monitor tutti infangati, tutti mitragliati, vetri rotti, smerdati, animali infoiati, insanguinati, camminiamo a piedi nudi su quel tappeto ancestrale, prenatale, andiamo infine sotto le docce, tutti assieme, sentiamo cadere dai nostri volti, sotto il getto dell’acqua, il calco dei nostri lineamenti stravolti, digrignati, come una maschera funeraria infangata, insanguinata, liberiamo i capelli, le orecchie, stacchiamo dai nostri occhi quella melma abbagliata, si sganciano dai nostri corpi grandi croste plasmate, loricate, vediamo emergere a poco a poco il torace, le spalle, le nostre dita prima palmate, sempre più separate, ci insaponiamo i capelli, i peli del cazzo, staccando quell’argilla appena spalmata, appena vomitata, ci laviamo i denti muovendo a fatica lo spazzolino sulle gengive sfalsate, agglutinate, ci passiamo il filo tra i denti, vediamo volare via pezzi di carniccio, di feci, si vanno a spiaccicare contro lo specchio di fronte al quale ci tiriamo dalle parti le labbra, con le dita appena sbozzate, digrigniamo i denti per vedere che non sia rimasto più niente tra l’uno e l’altro, prima di uscire perfettamente vestiti, profumati, confusi in mezzo alla folla, la valigetta ventiquattrore, il fermacravatta, in attesa di una convocazione in un altro set, voci mai sentite, persone mai viste, eppure siamo registrati in agenda da qualche parte, i nostri nomi passano segretamente di bocca in bocca... come adesso, che siamo stati convocati per questo movie mai visto prima, da ogni parte, i migliori, nel cuore della notte appena trascorsa, in questa città smisurata, dell’illusione, dell’allucinazione, nel cuore stesso della visione, abbiamo contemplato dall’alto la galassia sterminata delle sue luci, mentre scendevamo planando sulla città degli angeli.
«Brutte notizie» disse la voce di Lazlo, allarmata. «Non hanno contattato nessun medico esperto in espianti! Sono preoccupato.»
Il Matto rimase fermo, col telefonino contro l’orecchio, nella stanza di un piccolo hotel dalle mattonelle sconnesse, a Los Angeles.
«Non capisco.»
«È un brutto segno!»
«Perché?»
«Espiantano sempre prima di finire del tutto le vittime, per il mercato clandestino degli organi... è come al self-service! Vuol dire che questa volta hanno deciso che non resterà un solo organo intatto, alla fine!»
Il Matto ondeggiò, provò a muovere un passo.
«E la città è così sterminata! Ed è fissato per oggi! È come cercare un ago nel pagliaio. Resti sempre pronto, potremmo aver bisogno di chiederle un coinvolgimento ancora più diretto, rischioso, d’ora in avanti. Speriamo solo che non sia già successo!»
Il Matto spense il telefonino, raggiunse il piccolo gabinetto, camminando sulle mattonelle sconnesse, si inginocchiò di fronte alla tazza.
Il cellulare cominciò a suonare di nuovo.
«Cosa le sta succedendo?» chiese Lazlo.
«Sto vomitando.»
Il Matto si buttò in avanti più volte, con il corpo.
«Non crolli proprio adesso, all’ultimo momento!» stava dicendo la voce di Lazlo, allarmata.
Il Matto si passò una mano sulle labbra, si asciugò gli occhi.
«No, no...» provò a dire con la bocca ancora impastata. «È solo la stanchezza, lo stomaco chiuso, la mancanza di sonno, i fusi orari... Avevo provato a buttar giù un sandwich, una lattina di birra, poco fa. Ma non si preoccupi, farò la mia parte fino alla fine, costi quello che costi, fino in fondo.»
Sentì la voce di Lazlo allentarsi, sospirare.
«Anche dove mi trovo io in questo momento, mi creda, non è un gran che...» si lasciò andare un istante dopo. «Stiamo facendo un appostamento di fronte a un grande negozio di giocattoli della Ventinovesima strada, da un furgone. Vicino a me c’è un bicchiere di caffè vuoto, qualche cicca di sigaretta schiacciata. “Che mestiere è mai questo?” mi domando. “Chi sono?” La gente passa. Solo mamme con i marmocchi. Il nostro uomo non entra, non arriva...»
«Un negozio di giocattoli? Per quale ragione?»
«Mah... niente di sicuro, per ora. Ci è arrivata una certa segnalazione. Gliene parlerò, se si concretizzerà qualcosa... Ma adesso deve spostarsi di nuovo. C’è un nostro informatore che si vuole incontrare di persona con lei, dice che si fida solo di lei, la conosce.»
«Mi conosce? Ma io non conosco nessuno in questa città!»
«Vada di corsa! È una lotta contro il tempo. Non possiamo permetterci di buttare via questa carta, con quel poco che abbiamo in mano! Si lavi la bocca, si carichi lo zaino in spalla, non sono in grado di dirle con sicurezza se dovrà ritornare in questo albergo o in un altro. Prenda la metropolitana, scenda alla dodicesima fermata, direzione Seven Street. Salga in superficie. L’informatore l’aspetta. Sarà lui a palesarsi, ci ha detto.»
Il Matto raggiunse la stanza, si caricò lo zaino in spalla, uscì quasi di corsa, poi giù per le scale mobili, continuando a correrci sopra, e poi sulla vettura tutta sbudellata e istoriata.
Si gettò a sedere sopra un sedile. Ascoltò per un po’ lo sferragliare del treno nel tunnel. C’era un uomo di fronte a lui. Sedeva con una gamba accavallata sull’altra, tranquillamente, incurante del fatto che sotto la suola delle sue scarpe si allargavano degli escrementi pestati, a strati.
«È quell’uomo che pesta le merde!» si disse il Matto. «Lo stesso che ho incontrato quella notte sul treno che andava ad Anversa...»
L’uomo guardava di tanto in tanto il Matto, sorrideva.
«Buona fortuna!» gli disse con gentilezza, d’un tratto, quando il treno cominciò a rallentare in vista della dodicesima fermata, e il Matto si stava già preparando a balzare fuori dalla vettura.
Percorse la galleria, quasi correndo. Si sentivano i treni passare, imperversare.
Imboccò le scale, si gettò oltre le portelle d’uscita, e poi su per le altre scale che conducevano all’esterno. Si trovò di fronte un enorme incrocio dove andavano senza sosta lunghe auto snervate, trasognate.
C’era un grande fragore, non si respirava.
Il Matto si arrestò all’improvviso, provò a guardare tutt’intorno. Non si riusciva a indovinare la possibile fonte del fragore.
D’un tratto, guardando verso la parte opposta, lontana, dell’incrocio, scorse una figura ferma in piedi, rimpicciolita, di fronte a un drugstore.
«È quella donna che urla!» capì all’improvviso. «Sarà lei l’informatore di cui mi ha detto Lazlo. Credo che mi stia già parlando!»
Si arrestò con il cuore in gola.
«Sono qui! Non mi sente?»
Il Matto fece qualche passo all’indietro, per cercare di cogliere qualcosa di più dall’esorbitare della sua voce.
Il cielo era alto, ci passava sotto una striscia di luce sbrecciata, rotta.
«Non mi riconosce? Sono io! Ho qualcosa da dirle!»
Il Matto barcollò per alcuni istanti. Si arrestò qualche passo ancora più indietro, a gambe larghe.
«Sono arrivati da tutte le parti» riprese a dire la donna che urla, «si stanno già preparando, stanno controllando il funzionamento dei loro denti argentati, dei loro cazzi rostrati, stanno provando un’ultima volta le telecamere sonda, scendono a controllare gli animali dentro le loro vasche e le loro gabbie, nei loro piccoli hotel, nel capannone fuori mano di qualche magazzino, i divoratori si stanno pettinando aerodinamicamente i capelli, per potersi tuffare dentro più a fondo, i ventri delle evacuatrici sono tesi fino a scoppiare, risuonano come tamburi mentre vanno come se niente fosse in mezzo alla folla, il giocattolo teleguidato è già pronto, lo è andato a ritirare poco fa la persona che lo azionerà dentro il set, da quel grande negozio di giocattoli dove è stato segretamente allestito.»
Il Matto provò ad agitare le braccia nell’aria, da lontano.
«Sì, sì, lo so, hanno fatto degli appostamenti di fronte a quel negozio» continuò la donna che urla. «Non l’hanno individuato solo perché chi l’ha ritirato è una persona affetta da osteogenesis imperfecta, la malattia delle ossa di vetro, e l’hanno scambiata per un bambino. È uscito tranquillamente dal negozio col suo giocattolo elettronico teleguidato, che dovrà risalire lungo quella vagina imbottito di un esplosivo di concezione nuova che verrà fatto scoppiare sul più bello, là dentro. Non sappiamo se rappresenta qualche animale oppure un’automobilina rostrata, un trenino che correrà su una rotaia, dentro il cunicolo di quella caverna abbagliata. Sappiamo solo che è già tutto pronto. È già arrivata anche quella donna avvolta nella carta stagnola. È tutto deciso, è per stasera!»
Nella voragine dell’incrocio il traffico continuava ad andare. Il Matto indietreggiò ancora di più, per cercare di decifrare qualche parola in mezzo alle onde sonore che erompevano dalla donna che urla.
«Sì, ha capito bene, è per stasera! Lei è già pronta in qualche camera insonorizzata e mimetizzata, quel laringecto
mizzato la starà alimentando, le starà ungendo gli sfinteri feriti, lacerati...»
Il Matto arretrò ancora di più, si coprì irresistibilmente le orecchie, si fasciò la testa tirandosi su dalle parti le falde della maglia, per riuscire a sentire qualcosa.
«È già sul posto anche Spiro. Starà girando per qualche drugstore, starà mangiando un hamburger e bevendo una birra seduto sul trespolo di qualche locale, il vuoto attorno per via del fetore dei piedi, si starà spostando tra la folla che si aprirà al suo passaggio, diretto verso un luogo il cui indirizzo gli è stato appena comunicato. Qualcuno si starà portando la mano al naso, guardandosi attorno senza capire. Si toglierà le scarpe, là dentro, libererà nella luce abbagliante quella spaventosa putrefazione, ficcherà in quella fica la cancrena del suo piede snodato, maciullato.»
Il Matto si portò la mano alla bocca, come se dovesse riprendere a vomitare, fermo a grande distanza dalla donna che urla, per riuscire a sentire.
«È arrivata anche quella donna amputata, l’amica di quella nera che chiamano Principessa, Aminah. Ora non ha più né gambe né braccia. La stanno trasportando da una parte all’altra come un tronco tagliato, chiusa nei cofani delle auto, nelle custodie degli strumenti musicali, negli zaini, con la bocca scoppiata, sigillata, mentre tutt’intorno le auto continuano ad andare, le bocche masticano, i buchi del culo non smettono mai di eruttare, le fiche mestruano, inghiottono, la luce soffre, sangue, merda, ovulazioni, costellazioni...»
Il Matto girò la testa un istante, perché erano uscite due donne da una gioielleria poco distante, gli erano passate vicino con il volto azzerato, gli occhi e la bocca quasi attaccati.
«Non si ricorda più di loro? Sono le svere!» disse la donna che urla, che doveva aver colto il suo sguardo anche se si trovava dall’altra parte, lontana, di quell’enorme incrocio. «Hanno soltanto gli occhi per vedere e la bocca per succhiare pezzi di carne, divorarli... D’altronde mi spiega lei a cosa cazzo serve il naso? Per respirare? Ma quelle possono respirare solo inghiottendo! Ci saranno anche loro, stasera, sul set. Anche le esplose. Ci vada dietro, le segua! Meno male che abbiamo trovato una pista! Chissà che non siano proprio loro a portarci sul set?»
Il Matto cominciò a seguirle da una certa distanza, tra la folla. Le gambe gli tremavano un po’. Il telefonino gli ballava dinoccolato dentro la tasca. Lo tirò fuori, cominciò a comporre il numero piano, senza perdere di vista le svere.
«Lazlo?»
«Sono qui. Stia tranquillo.»
Il Matto cambiò di mano al telefonino.
«Cosa sta facendo?»
«Sto seguendo le svere.»
«Non le perda d’occhio un momento. È l’unico filo che abbiamo. Mi chiami immediatamente, non appena le sembrerà di notare qualcosa che possa servire. Per il resto, ora sappiamo che l’ordigno giocattolo è stato già ritirato, che si è radunata una discreta folla, qui a Los Angeles, tutta la peggiore feccia si è data appuntamento qui da ogni parte del mondo. Ma dove di preciso? In che posto? Non siamo ancora riusciti a saperlo. Ed è l’ultimo giorno...»
Il Matto lo sentì sospirare.
«Cosa c’è? È successo qualcosa?»
«No, no, che io sappia!» disse Lazlo, un istante prima di interrompere bruscamente la comunicazione.
Le teste delle svere dondolavano sopra la folla, mentre camminavano appaiate lungo la grande strada dai marciapiedi gremiti.
Il Matto le seguì a lungo. Vagavano senza una meta apparente, si sedevano a bere qualcosa dietro i vetri di un locale dai soffitti già accesi, entravano in un negozio di biancheria intima, di un parrucchiere da dove uscivano con i capelli arricciati. Fino a che cominciò a scendere piano piano la sera, nelle strade.
D’un tratto vide che si stavano dirigendo verso una stazione di corriere dove molte vetture erano ferme e con gli interni sfalsati, illuminati.
Si diressero verso una di queste.
«Cosa sta succedendo?» chiese Lazlo allarmato.
«Stanno prendendo un pullman per Pasadena.»
«Salga anche lei! Pasadena... Che sia quella la meta finale? Metteremo in fibrillazione i nostri informatori in quella città, i nostri terminali. D’altronde non abbiamo altri indizi. Ci stiamo giocando il tutto per tutto. E il terzo giorno è ormai quasi finito, fusi orari compresi!»
Il Matto salì sul pullman, si andò a sedere molto distante dalle svere.
Il motore stava già girando, anche se non c’era ancora l’autista al posto di guida.
Le svere stavano masticando popcorn, pescandoli da un grande cartoccio che avevano comperato prima di salire sul pullman.
Poi l’autista balzò al posto di guida, di colpo, da terra.
Il motore salì di giri, la vettura si stava già muovendo, sulle sue grandi ruote. Si spostava attraverso le lunghe strade piene di luci, e poi sul reticolo delle sopraelevate.
«Lazlo?» sussurrò il Matto nel frastuono della musica filodiffusa che copriva ogni altro rumore.
«Sì... Cosa sta succedendo? Cosa stanno facendo?»
«Niente, ascoltano la musica filodiffusa, stanno masticando popcorn con le loro grandi labbra scoppiate...»
«Pasadena...» fantasticò ancora Lazlo. «Forse siamo finalmente sulla pista giusta, forse stiamo arrivando veramente nella tana dell’orco... Continui a seguirle, veda dove sono dirette, dove prendono alloggio, si faccia portare da una macchina allo stesso albergo!»
Rimase un secondo in silenzio.
«A meno che non ci abbiano mandato apposta queste due per portarci in giro tutti quanti qua e là, mentre da un’altra parte sta avvenendo il macello, è già avvenuto.»
Silenzio.
Il pullman correva. Non si distingueva più il colore del cielo, solo quelle luci che non sanno di andare, di incendiare.
«Lazlo...» sussurrò ancora il Matto.
Ma si accorse che, dall’altra parte, doveva essere stata tolta la comunicazione, perché il cellulare taceva.
Rifece il numero piano, dopo un po’.
«Stanno orientando quelle lucine che ci sono dalle parti, per la lettura, sollevando i loro polsi sottili e le loro mani piene di braccialetti, di anelli» provò a mormorare, «hanno abbassato la luce centrale, nella vettura. Fuori è già buio, solo quelle luci che vanno via dalle parti, chissà dove...»
Il Matto aspettò una risposta, per un po’.
Le svere avevano smesso di masticare popcorn, si erano appisolate l’una con la testa contro la testa dell’altra.
«... E poi altre sale e altre luci si accendevano una dopo l’altra, in prospettiva, a seconda di dove i nostri passi si dirigevano...» il Matto si lasciò andare a fantasticare, «si espandeva in lungo e in largo la folla degli invitati. Ci spostavamo abbracciati attraverso quelle sale sfondate, posando i piedi alla cieca sullo specchio dei pavimenti, ci vedevamo palpitare contro quella moltitudine in piena luce, in gioia, camminavamo sul tappeto delle loro bocche e dei loro volti, tenendo le nostre teste accostate, sentivo contro la mia guancia la schiuma vivente della sua bocca come appena sbocciata, mentre la tenevo e la sospingevo con la mano attorno al fascio esistente della vita, come attraverso vasti spazi stellati, deflagrati, e mi pareva di essere in un tempo diverso, in fiore. “E ti dirò le cose che non sono riuscito mai a dirti” pensavo, fantasticavo, “mi aprirò fino al nucleo fluido, segreto e profondo di me stesso, le mie pareti si espanderanno di colpo, andranno in pezzi, come una diga sfondata dall’acqua, uscirò dalla mia prigione, anche tu uscirai dalla tua prigione, ci verremo incontro increati... Oh, che possa arrivare in tempo per aprire di fronte a te la mia essenza, perché tu possa liberare di fronte a me la tua essenza!”»
Il pullman cominciava già a rallentare. Il Matto guardò fuori, schermandosi gli occhi con le mani.
Le svere si stavano già preparando per scendere, si stavano spalmando il rossetto sulle grandi bocche scoppiate, passandosi di mano lo stesso stick.
Scesero dinoccolate. Il Matto aspettò un po’, facendo passare davanti a sé altri passeggeri. Scese a sua volta.
Si guardò attorno, per pochi istanti, nelle strade piene di luci di Pasadena.
Poi vide che le svere erano salite su un taxi, all’improvviso.
Chiamò un taxi a sua volta. Ci saltò sopra. Fece segno all’autista di seguirle.
La macchina scivolava piano, un po’ distante dall’altra, l’autista muoveva le sue dita nere e lucenti contro la ruota del volante, canticchiava.
L’altra vettura accostò, a qualche metro di distanza da un motel dall’insegna che lampeggiava.
Il Matto fece cenno all’autista di accostare a sua volta, un po’ distante.
Aspettò sull’auto che le svere scendessero dal loro taxi, e poi si dirigessero verso l’imboccatura lucente del motel, e poi ancora un po’, per essere certo che avessero già quasi ultimato le operazioni al banco della reception, ma non al punto da essersi già incamminate verso la stanza, per fare in tempo a leggere il numero della loro chiave.
Pagò la corsa. Uscì a sua volta dal taxi.
L’insegna del motel era sfuocata. Le svere stavano ritirando in quel momento la chiave. Il Matto lesse il numero sul riquadro da cui era stata appena tolta. Si accostò al banco della reception, al portiere di notte che stava ancora a bocca aperta e con gli occhi sbarrati. Mostrò un documento, pagò anticipatamente la notte, ritirò la sua chiave, si avviò a sua volta verso la stanza, e si sentivano ancora i passi delle svere che andavano con le scarpe dai tacchi appuntiti attraverso i corridoi del motel, ai piani più alti, più lontani.
Cominciò a salire anche il Matto, fino al suo piano, che era uno più in basso di quello dove erano salite le svere.
Imboccò il corridoio moquettato, fino alla porta della sua stanza.
Aprì piano, e si sentiva già quel rumore che fanno le chiavi quando girano nelle porte delle stanze deserte.
Mosse qualche passo al buio, all’interno.
La luce dell’insegna esterna filtrava, palpitava.
Cercò l’interruttore a tentoni, con le mani.
La luce si accese. Un istante dopo si spense.
«Si è fulminata!» si disse.
Sentiva il cuore pulsare.
Si accostò alla finestra, provò a tirare su la tapparella con la cinghia allentata.
La luce dell’insegna che lampeggiava all’esterno illuminava di tanto in tanto gli spigoli dei mobili, delle pareti.
Buttò lo zaino su ciò che intravedeva del letto. Tirò fuori di tasca il cellulare, provò a comporre il numero di Lazlo, piegato in due, cominciò a bisbigliare.
Nessuna risposta.
Si buttò a sedere sul letto. Provò a comporre di nuovo il numero, più volte, senza avere risposta.
«Che cosa sta succedendo?» si disse.
Allungò la mano, per posare il cellulare sul comodino.
La ritirò di scatto. Sentì che i capelli gli si stavano rizzando di colpo, sulla testa.
«Che cos’è questa roba?» si disse.
Tastò di nuovo il piano del comodino. Si portò vicino agli occhi il palmo della mano bagnato, nel tenue bagliore dell’insegna pubblicitaria che si accendeva e spegneva.
Si alzò incontrollabilmente dal letto.
«Ma questo è sangue!» si disse.
Il cassetto del comodino era leggermente socchiuso. Afferrò il pomo per tirarlo fuori del tutto.
«È tutto bagnato anche questo!» si accorse.
Ritirò di scatto la mano lordata.
«Cos’è successo qui dentro?» si disse.
Si avvertiva, nel silenzio, nel buio, il rumore inconfondibile di qualcosa di vischioso, di marcio, che colava.
Provò a palpare dentro il cassetto. Il suo esofago si contrasse rumorosamente, un paio di volte, nel silenzio, nel buio, mentre muoveva le dita in una materia molle, gommosa.
Si portò contro il volto la mano bagnata, istintivamente, per difendersi dal fetore.
Afferrò il cellulare, cercò nella poca luce di comporre il numero di Lazlo con le dita bagnate.
«Non risponde nessuno!»
Girò lentamente la testa, tutt’intorno. Un istante dopo corse verso il gabinetto, tutto piegato, si curvò sopra il lavandino, buttandosi in avanti più volte a ogni getto mentre vomitava.
Rimase ancora un po’ piegato sul lavandino, alla fine. Si sentiva anche lì il rumore di qualcosa che colava, che gocciolava.
«Sarà la rosa della doccia che perde!» si disse.
Scorgeva appena, nel leggero bagliore che lampeggiava, attraverso quelle lacrime secche che produce il vomito, le sue pareti tutte lordate.
Anche i rubinetti erano impiastricciati.
Si tirò su, provò ad andare di nuovo verso la stanza, ma, mentre passava vicino alla doccia, scorse, dietro la sua tendina di plastica, qualcosa di enorme e di molle, per terra, sulla conchiglia.
Provò a chinarsi un po’, per toccarla: ritirò la mano di scatto. Riprese ad andare con gli occhi sbarrati verso la stanza. I suoi piedi facevano un leggero rumore sul pavimento, come se stesse andando a piedi nudi in un’acqua bassa, infestata.
Girò ancora gli occhi. Balzavano a tratti sulle pareti grandi segni sparati. Scorgeva, nel palpitare intermittente della luce, adesso che gli occhi si erano maggiormente abituati all’oscurità, la forma di un armadio dalle ante spalancate, mezzo scardinate.
Si accostò, avvicinò la mano, a tentoni, verso i suoi cassetti tutti fuori di sede. Si abbassò per tastare.
Sentiva appena la sua voce gridare, mentre si gettava indietro di colpo, e andava attraverso la stanza dai pavimenti innaffiati.
Le gambe gli tremavano, l’esofago si apriva e si richiudeva.
«È tutto pieno, qui dentro!» si rese conto improvvisamente. «Pavimenti, pareti, il lavandino, la doccia, i cassetti... tutti pieni di sangue e di arti umani amputati, organi spappolati, per metà divorati, intestini lacerati e svuotati... Che macello hanno fatto, qui dentro?»
Si accasciò su una sedia bagnata.
«Ma allora sono passati di qui!» si disse senza fiatare. «Il set era qui! Io ci sono dentro! Oh, no... sono arrivato troppo tardi!»
Rimase immobile, piegato in avanti. La luce continuava meccanicamente ad andare, a palpitare. Sentiva una goccia di sangue che gli colava giù dalla testa e gli passava sulle ciglia, sugli occhi, sulle labbra, dolciastra, prima di cadere, segno che doveva avere colpito con la testa il rubinetto del lavandino, quando ci si era buttato sopra per vomitare.
Rimase così per molto. Il tempo passava. Sentiva appena, confusamente, il suono dei tacchi delle svere che si spostavano a ondate sulla sua testa, nella stanza al piano di sopra, mentre gli scendevano giù dagli occhi quelle lacrime che continuano sempre a colare dopo aver vomitato.
Finché il telefonino cominciò finalmente, da qualche parte, a suonare.
Non se ne rese conto, all’inizio, come se stesse squillando da un’altra parte, in un altro tempo, in un altro spazio.
Si alzò dalla sedia, raggiunse il punto dove il cellulare suonava, si chinò ad afferrarlo sul piano del comodino bagnato, premette il tasto della ricezione con le dita che sgusciavano via per il sangue.
«Sono Lazlo!»
«Dov’era? Io l’avevo cercata, l’avevo chiamata!» gridò quasi il Matto.
«Sarebbe troppo lungo spiegarle... Adesso però sono qui, sono di nuovo qui!»
«Ma non serve più a niente! È tutto finito! Ho trovato il set. Siamo arrivati troppo tardi, sono già passati!»
«No, no, non è vero! Anzi, ho da darle una buona notizia: la data del movie è stata prorogata di un giorno, abbiamo saputo da poco. C’è ancora tempo, c’è ancora speranza. Però non sappiamo se verrà girato di mattina, di pomeriggio, di sera, oppure addirittura durante la notte di questo ultimo giorno che è già cominciato...»
«Perché? Che ore sono?» provò a chiedere il Matto.
«È l’una di notte.»
«Non mi ero accorto che fosse passato così tanto tempo... Ma allora da quanto sono qui dentro, in questa stanza?»
La luce continuava a illuminare, a oscurare.
«E qui allora che cos’è successo?» provò a chiedere il Matto.
«Qualcosa di orrendo, mi sembra di capire da quanto mi dice. Però non sono stati loro, sono stati degli altri. Qualche insospettabile viaggiatore che si ferma a dormire di notte nei motel e sale in camera con qualcuna o qualcuno da sbudellare, qualche regolamento di conti particolarmente efferato, di qualche gang. La donna delle pulizie si sarà dimenticata di passare, oppure le avranno dato per sbaglio le chiavi di una stanza non ancora rimessa in ordine, l’uomo che sta al banco della reception, mezzo addormentato. Manderemo immediatamente qualcuno, non appena lei sarà uscito da quell’inferno. Ma adesso si riprenda! Abbiamo ancora un giorno! Forse molte ore, forse soltanto poche ore, pochi minuti. Però qualche traccia l’abbiamo. Quelle svere...»
«Sì, sì, sono qui, sono sulla mia testa!»
«Bene, perché abbiamo saputo che saranno presenti sicuramente anche loro, alla festa. Lei si trova in un punto nevralgico di quanto si va preparando, nell’occhio del ciclone. La consideriamo ormai il nostro uomo di punta in questa operazione. Sarà lei a fare irruzione per primo, se avremo la fortuna di trovare quel set. Noi le copriremo le spalle, la proteggeremo. Tenga gli occhi aperti, le orecchie aperte, registri ogni loro spostamento, faccia attenzione alle loro mosse. Si tenga pronto a gettarsi alle loro spalle. E si tenga continuamente in contatto con me, qualunque cosa succeda. Non abbia paura, d’ora in poi mi troverà, ci sarò!»
«Avevo chiesto un lanciafiamme!»
«Lo avrà! Non potevamo consegnarglielo prima, non sarebbe passato ai metal detector degli aeroporti. Stia tranquillo, le verrà dato al momento opportuno da uno dei nostri agenti, sul posto, non appena avremo localizzato quel set. Le verrà dato lo zainetto del combustibile, la tuta da fuoco. Ci sarà per lei anche una macchina con le chiavi già inserite, per la fuga...»
Il Matto rimase immobile, nel buio che palpitava, per un po’. Si sentivano solo i rumori impercettibili di quelle cose che colavano vischiosamente da tutte le parti, dai cassetti un po’ scardinati, dal soffitto, dalle pareti. Sopra la sua testa le scarpe dagli alti tacchi delle svere si continuavano a spostare sul pavimento, con fragore.
Poi più niente, di colpo, per un po’.
«Si saranno buttate sul letto» si disse il Matto, «saranno cascate dal sonno, tutte e due, all’improvviso.»
Rimase per qualche istante così, nella stanza che gocciolava. La sua testa si illuminava, si oscurava.
«Eppure... così di colpo! Che strano! Non si è neanche sentito il rumore delle scarpe che cadevano sul pavimento, staccate dalle dita dell’altro piede... Forse hanno ricevuto una telefonata improvvisa, sono uscite tutte e due con le scarpe in mano, per non far sentire i loro passi nei corridoi, nel silenzio, di notte...»
Rimase ancora in ascolto, per un po’. Non arrivava alcun suono dall’appartamento di sopra. Non un cigolare del letto, un rumore d’acqua che usciva da un rubinetto...
«Oh, no!» capì infine il Matto. «Mi hanno beffato. Sono uscite improvvisamente, in silenzio, dopo avere ricevuto qualche comunicazione improvvisa, magari anche solo un numero concordato di squilli e poi basta, per sfuggire al rischio dell’intercettazione...»
Mosse qualche passo attraverso la stanza, incontrollabilmente. Sentiva appena il rumore delle sue scarpe che andavano su quella melma bagnata, sbudellata.
«Ma se provo a correre al piano di sopra» si mise a fantasticare «e a entrare in quella stanza sfondando la porta... Forse trovo scarabocchiato l’indirizzo da qualche parte, una traccia...»
Si lanciò verso la porta, uscì senza neanche richiuderla alle proprie spalle, si mise a correre lungo il corridoio, lasciando impronte di sangue sul pavimento, a ogni passo, e poi su per una rampa delle scale di servizio, fino al piano di sopra, e alla porta della stanza che sovrastava la sua.
Provò a girare la maniglia. Era chiuso.
Ci si buttò contro, una volta, due volte, finché la porta cedette, facilmente, perché se l’erano semplicemente tirata dietro senza dare lo scrocco.
Fece qualche passo all’interno, correndo.
Si arrestò all’improvviso, impietrito.
La stanza era vuota. C’era solo una testa viva di donna che usciva dall’imboccatura di uno zaino dai colori vivaci, in piedi sul pavimento.
«Sono appena uscite!» gridò la testa. «Hanno ricevuto il segnale e sono uscite di corsa, a piedi scalzi. Ma io ho sentito l’indirizzo del set, quando se lo sono ripetute l’un l’altra. Là è tutto pronto, è già arrivata anche quella donna avvolta nella carta stagnola, si gira fra poco, in piena notte. Forza, prendimi in spalla, portami via di qui, prima che arrivino quelli che mi devono portare sul set! Ti aiuterò a liberare quella donna narcotizzata, ti guiderò, alta sulla tua testa, ti parlerò, ti proteggerò!»
«Ma tu chi sei?» balbettò il Matto.
«Sono Aminah, l’amica di Principessa, sono la donna amputata!»
Canto della donna amputata
Mi hanno staccato una gamba, poi l’altra, come fanno i bambini con le zampe delle cavallette che hanno preso nel pugno, mi hanno amputato entrambe le braccia con una motosega, nei set. Mi scopano tenendomi sollevata da dietro, mediante una maniglia, mentre sto bocconi sul pavimento, con la bocca contro il sangue, la merda, mi fanno ballare sopra i loro pezzi di carne come un fantoccio dagli arti staccati, tenendomi per le tette con le mani, coi morsi, mi fanno ruotare sopra i loro corpi come un birillo, mentre immagino il prolungamento dei miei arti amputati, le loro proiezioni stellate, interminate, quando mi trasportano attraverso il set tenendomi per la massa scura e forte e compatta dei miei capelli ricciuti, con la testa gettata all’indietro, i denti serrati come una fiera, digrignati, quando imboccano il mio torso di donna o lo fanno evacuare, o mi ficcano tutta mestruata dentro questo zaino oppure nella custodia di uno strumento musicale, oppure in quell’altro zaino più chiaro, ricamato, con due cinghie di dietro per caricarmi sulle spalle e trasportarmi così per le strade, negli aeroporti, la mia testa vede le altre teste che si spostano attaccate ai loro arti, mentre fendo dall’alto la folla. Non avere paura, prendimi sulle tue spalle, lanciati assieme a me in questa impresa. La tua testa perde sangue, la tua bocca è sporca di vomito, le tue mani e i tuoi vestiti sono tutti lordati, eppure ci siamo trovati, io e te, le tue gambe e le tue braccia diventeranno i miei arti, la mia testa sarà un’altra testa per te, alta sulle tue spalle, saremo come una nuova creatura di specie bipenne. Andremo così allo sbaraglio, la mia testa si ergerà dietro la tua testa, non si capirà quale sarà la parte davanti e quale quella di dietro di questa nuova forma combattente e vivente. E mi leverò, mi innalzerò e mi impennerò, come quei torsi fieri di donne scolpite che si ergevano sulle navi che fendevano il mare in tempesta, sulle prore...
Il corridoio era tutto deserto. Il Matto correva verso le scale, con la donna amputata sulle spalle.
Arrivò a pianterreno. Passò di corsa di fronte al banco della reception, dietro il quale il portiere guardava una videocassetta, sonnecchiava.
«Un taxi!» gli gridò passando.
Si gettò verso l’uscita, mentre l’uomo si era girato a telefonare.
Balzò fuori. L’aria, a quell’ora della notte, era fredda. Si scorgevano i contorni incombenti di una montagna, nel buio.
Sentì che la donna amputata lo stava baciando con dolcezza, da dietro, alla radice del collo, sulla nuca.
«Sta’ tranquillo!» gli sussurrò. «Ce la faremo!»
Giungeva già il rumore del taxi che arrivava a grande velocità, nel silenzio della notte.
Si arrestò, con stridore di ruote.
Il Matto balzò sul sedile di dietro, stando staccato dallo schienale per non schiacciare la donna amputata.
La macchina ripartì a gran velocità.
La donna gridò l’indirizzo al taxista, che solo allora si rese conto della sua presenza.
Si irrigidì, spostò con la mano lo specchietto retrovisore.
Il Matto tirò fuori il cellulare di tasca.
«Lazlo?»
«Sono qui. Stia tranquillo.»
«Stiamo andando. Conosciamo l’indirizzo del set!»
«Me lo dica!»
Il Matto fece ruotare un po’ il cellulare, verso la bocca della donna amputata, che sillabò l’indirizzo.
«Chi c’è con lei?» chiese Lazlo.
«Un’amica.»
Il taxi continuava ad andare, sfrecciavano dalle parti gli orli delle strade diritte e deserte, illuminate.
«Bene!» disse Lazlo. «Diramerò l’ordine di convergere tutti a quell’indirizzo, macchine senza sirena, luci spente, infrarossi, mimetizzate... A che ora è la festa?»
«Adesso! Forse è già cominciata!» disse da dietro la donna amputata.
Il Matto fece segno all’autista di andare ancora più forte. Volavano dalle parti le torri degli istituti di ricerche spaziali, con qualche segmento illuminato qua e là nonostante fosse notte fonda.
Ci fu un lungo silenzio. Il cellulare taceva. La donna amputata teneva il volto premuto contro la nuca del Matto, gli sussurrava qualcosa, lo baciava.
«Mi sente?» riprese a dire la voce di Lazlo, dopo un po’. «Abbiamo fatto delle ricerche incrociate. Lei non ha idea di cosa è successo nei pochi minuti appena trascorsi, di quante informazioni siamo venuti in possesso da quando abbiamo finalmente saputo quell’indirizzo. Accidenti! Tutti i nostri terminali sono in collegamento, le macchine stanno già convergendo. L’indirizzo corrisponde a quello di una torre per simulazioni spaziali, dismessa, con autosilo in demolizione...»
La macchina stava già rallentando. Il Matto balzò fuori, con la donna amputata sulle spalle.
Pagò febbrilmente l’autista. Fece qualche passo di corsa verso una torre a più piani, buia, deserta.
«Ma non c’è nessuno, qui dentro!»
«Ci sono, ci sono...» gli sussurrò la donna amputata. «Bisogna solo scoprire dove.»
Il Matto corse verso la torre.
«Sono già tutti là dentro!» disse Lazlo. «Abbiamo già neutralizzato le loro guardie allo scivolo dell’ingresso. Sono dentro la torre, bisogna solo scoprire a che piano: i professionisti, le svere, i divoratori, le evacuatrici, i riflettori già tutti accesi, l’esplosivo pronto a brillare, e poi il cinghiale, il serpente... Non riusciamo ancora a captare il suo impulso, segno che non l’hanno ancora tirato fuori dal suo contenitore protetto. E poi la donna caudata, quella blindata...»
Canto della donna blindata
Andremo avanti per tutta la notte, nel tabernacolo di questo set insonorizzato, incistato in un piano di questa torre isolata, smantellata. Le luci sono già tutte accese, hanno già fatto il loro ingresso gli specialisti, arrivati fin qui da ogni angolo di questo paese, del mondo. Si stanno già preparando i divoratori, le evacuatrici hanno già denudato i loro ventri quasi scoppiati. Quell’uomo dalle ossa di vetro sta già dando l’ultimo controllo al suo giocattolo a forma di ranocchio voltaico. Gli operatori stanno dando un ultimo controllo alle luci, fumando una sigaretta. Sono già entrati anche i corpi da visitare, da smembrare. Stiamo per cominciare. Ha già fatto il suo ingresso anche la sagoma gigantesca del laringectomizzato, si vede già brillare sulle sue braccia la forma abbagliata di quella donna avvolta nella carta stagnola. Tutt’intorno sonno, silenzio, ma qui dentro fra pochi istanti sarà tutto un imperversare, un urlare, sembrerà, a venire da fuori oltrepassando la membrana di questa piccola enclave sigillata, insonorizzata, di entrare improvvisamente in una reggia tumorale accecata, insanguinata. Andremo tutti assieme come nuotando in una sfera cieca in fusione. Ecco, adesso anch’io ho denudato il mio corpo del tutto privo di aperture. Attorno a me la carne si chiude perfettamente, da ogni parte, come una copertura di smalto, non c’è apertura genitale né anale, non ho quel foro denudato che hanno tutti gli altri in mezzo alla faccia, non ho quelle aperture cispose con le quali gli altri sostengono di sentire. Sono serrata dentro me stessa come in una fortezza. Bianca, smaltata. Sono l’invisitata, sono l’inviolata. Convergeranno a prisma verso di me tutti quei corpi infoiati, scorgerò appena le scintille che faranno i cazzi contro il mio corpo battendoci contro mineralizzati in cerca di apertura. Ci frugheranno dentro con la lingua, coi denti, con le mani tutte lordate, cercheranno di venirmi dentro con le protesi, i rostri, coi trapani, i martelli pneumatici, cercheranno di aprirsi una strada buttandomi contro dell’acido, mentre tutt’intorno cominceranno a entrare in azione i trivellatori, i divoratori, e gli animali verranno liberati dai loro contenitori, dalle loro gabbie, infoiati, mezzo addormentati, cominceranno a frusciare i timer, le sonde, si allargheranno a macchia d’olio e si apriranno e si lacereranno gli sfinteri quasi scoppiati delle evacuatrici, dietro la membrana del set. Percepisco appena i colpi dei loro corpi contro la capsula opalescente del mio corpo, come chi senta bussare al portone del proprio castello, da lontano, mentre è sprofondato nel sonno nelle sue stanze e ancora sogna. Sentirò appena, tutt’intorno, i suoni che fanno i corpi mentre vanno in distruzione, in disintegrazione, come da capofitta dentro un’acqua densa che ruota accecata, oltrepassata...
«Forza!» gridò la voce di Lazlo nel cellulare. «Stanno per cominciare!»
Il Matto si lanciò verso lo scivolo d’ingresso della torre.
«Siamo dentro anche noi!» continuò Lazlo. «Stiamo perlustrando tutta la torre, partendo dai piani più alti... Finora niente!»
C’erano tutt’intorno quegli spazi deserti, segmentati.
«Di là!» gridò al Matto la donna amputata, dallo zaino.
Il Matto imboccò un altro scivolo che scendeva verso i piani sotterranei dell’autosilo, e si sentiva, dalle parti, sfiatare, sconfinare, mentre passava di corsa contro quegli spazi tutti tagliati.
Dappertutto buio, silenzio.
«Dove si trova?» gli chiese Lazlo.
«Sto scendendo nei piani sotterranei.»
«Ha una torcia?»
«No.»
«Accidenti! Rischia di passare vicino a quel set senza neanche accorgersene. Saranno chiusi in qualche nicchia sigillata, non filtrerà neanche il più impercettibile filo di luce, mentre al di là di quella membrana sarà tutto un fragore, un fetore...»
Il Matto continuava a discendere tenendo un braccio puntato in avanti, quello che non reggeva il cellulare. Sentiva appena, alta sulla sua testa, la voce della donna amputata che gli dava indicazioni di rotta.
«Buttati da una parte!» gli gridò d’un tratto.
Un istante dopo sentì il fragore di un’auto che si sfasciava a poca distanza, contro una delle colonne quadrate.
«Cos’è successo?» si allarmò Lazlo.
«Ci hanno lanciato contro una carcassa d’auto, a fari spenti, senza guidatore, mi pare, giù dallo scivolo.»
«Allora si vede che il set è laggiù!» disse Lazlo. «Hanno appostato qualcuno fuori, per sicurezza, mentre là dentro hanno tagliato i ponti con il resto del mondo, non li si può disturbare, non li si può svegliare... Tenga duro! Scendiamo anche noi ai piani sotterranei, con i nostri uomini, le torce. Le consegneremo finalmente l’attrezzatura richiesta. La macchina è già parcheggiata vicino all’ingresso dell’autosilo, all’esterno, con le chiavi già nel cruscotto, tutte e due le portiere già spalancate...»
Il Matto si fermò un istante, col cuore in gola. Sentiva che alle sue spalle la donna amputata stava annusando ripetutamente, con forza.
«Forse ci siamo...» sussurrò.
«Cosa vuoi dire?»
«Sono qui vicino, da qualche parte...»
Il Matto si puntellò a una parete.
La testa della donna continuava ad annusare con forza, alle sue spalle.
«Non senti anche tu questo odore?»
«No, non mi pare... Solo il solito odore di muffa, benzina, olio bruciato, altri spurghi, come c’è sempre nei garage vuoti e dismessi...»
La donna continuava ad annusare. Il Matto avvertiva contro la schiena il sacco del suo corpo che si restringeva e poi si allargava, per la respirazione, dentro lo zaino.
«Eppure non mi posso sbagliare. Lo conosco bene, io, quest’odore!»
«A me non pare, non sento...» balbettò il Matto.
«Ma devi provare a immaginarlo moltiplicato per mille, per centomila, oltre la parete sigillata del set!...»
Il Matto sentì che gli stavano mancando le gambe.
«Lazlo...» provò a bisbigliare nel cellulare. «Forse ci
siamo!»
Ma non aveva fatto in tempo a terminare la frase che cominciò a sentire un rimbombare di passi, lontani, nei piani più alti dell’autosilo.
Un secondo dopo delle strisce di luce, dei bagliori.
«Stanno arrivando!» disse la donna amputata.
Infatti cominciò a distinguere dei lontani chiarori, degli uomini che stavano scendendo verso di loro brandendo le torce, a barriera.
Il locale si rischiarava, si cominciava già a distinguere la sagoma di un grande container numerato.
La barriera di luci si avvicinò ancora di più, si fermò infine tutta sgranata.
«Ha fatto un buon lavoro! Complimenti!» sentì che gli stava dicendo una voce, che gli parve di riconoscere per quella di Lazlo.
Si vedeva, poco distante, vicino a un montacarichi fermo al piano e dallo scorrevole spalancato, una vasta, innaturale costruzione bianca prefabbricata, come un enorme nido di vespe, da cui non filtrava alcun suono, alcuna luce.
«Abbiamo già arrestato chi le ha lanciato contro quell’auto» disse Lazlo. «Adesso entreremo là dentro. A lei l’onore di fare irruzione per primo. Le spetta, se lo è conquistato sul campo. Ecco l’arma che ha chiesto! Indossi la tuta, lo zaino. Lasci a noi l’incarico di prenderci cura della sua bella e coraggiosa amica. Anche lei è salva!»
Non si vedeva il volto di chi stava parlando, nemmeno degli altri, dietro la barriera di torce.
Il Matto si sfilò lo zaino dalle spalle.
«Mi hai salvata!» gli disse la donna. «Ci siamo salvati!»
Il Matto la baciò sugli occhi, prima di consegnare lo zaino a un paio di braccia che si tendevano verso di lui, contro la barriera accecante delle torce.
Cominciò a indossare la tuta da fuoco. Un paio di mani gli consegnarono il contenitore del combustibile, mentre qualcun altro gli mostrava il funzionamento dell’arma.
«E poi fugga immediatamente con l’auto!» lo esortò Lazlo. «Si allontani più che può da questo posto, nel caso qualcuno si lanci alle sue spalle, l’avviseremo noi quando tutto è finito, quando potrà di nuovo tornare. Si lasci finalmente alle spalle tutto questo orrore!»
Qualcuno, lì vicino, aveva già acceso il cannello della fiamma ossidrica, per aprire un varco nella capsula sigillata del set.
Si sentivano già friggere le sue pareti sovrapposte di plastica e polistirolo, come una vescica piena d’aria che venisse improvvisamente squarciata.
Un secondo dopo un enorme fragore cominciò a fare irruzione dalla breccia.
La fiamma ossidrica disegnava fulmineamente una porta dai bordi incendiati.
Poi un uomo la fece volar via di colpo, con un calcio.
Il Matto si lanciò senza respirare all’interno, nel fragore. Scorgeva appena, nella luce accecante dei riflettori, grandi forme divaricate e già insanguinate, altre teste che andavano con il grugno tutto lordato.
Azionò una prima volta il lanciafiamme, alla cieca.
Oltre la ressa delle teste e dei corpi che si erano girati tutti dalla sua parte, impietriti, scorse il lontano luccicare della donna avvolta nella carta stagnola, tirata su da un paranco, nell’aria, con la testa gettata all’indietro, snodata.
Si lanciò ancora avanti, muovendosi a fatica dentro la tuta. Fece partire un altro getto di fuoco. Doveva aver colpito dei corpi nudi e qualche grosso animale pronto alla monta perché, anche se la sua testa era sigillata, avvertiva ugualmente odore di carne bruciata, vedeva fuggire una grande massa pelosa incandescente, come se stesse andando a fuoco un laboratorio di pellicce, mentre avanzava senza più respirare nell’aria resa asciutta e rovente dal combustibile in fiamme.
Lanciò ancora più volte, e avvertiva il suono dei monitor e delle apparecchiature video che si accartocciavano e si liquefacevano, e i riflettori scoppiare, mentre le evacuatrici stavano tutte accosciate, coi loro ventri enormemente gonfiati, nel gesto primordiale e solenne della deiezione, e un piccolo uomo dalle ossa di vetro correva reggendo tra le mani un ranocchio carbonizzato. Non si capiva se una forma che si contorceva bruciando era il serpente magnetizzato appena tirato fuori dal suo contenitore protetto o se era la coda incendiata di quella siberiana che fuggiva e gridava in quegli spazi accecati.
Ora il Matto era arrivato fino al bozzolo luccicante della donna avvolta nella carta stagnola. La liberò dal paranco, se la lasciò cadere tutta scricchiolante e lucente sulle braccia, continuando a imbracciare il lanciafiamme, mentre avvertiva dal fragore che si era levato alle sue spalle che gli uomini di Lazlo avevano fatto irruzione a loro volta sul set, perché molti altri correvano a raggiera da tutte le parti, cercando di raggiungere il montacarichi aperto per fuggire.
Un uomo gli si parò di fronte di colpo, gigantesco, mentre stava per uscire dalla porta che era stata aperta nel set. Allungò le sue forti braccia per strappargli la donna. Il Matto lo colpì con un getto, di striscio, sulla tempia, continuando a fuggire con la donna abbandonata fra le sue braccia.
Oltrepassò il varco, continuò a correre chiuso nell’involucro della tuta, negli spazi dell’autosilo rischiarati qua e là dalle torce, verso l’uscita. Sentiva appena dei passi pesanti, alle sue spalle, forse di quel laringectomizzato che continuava a inseguirlo con la testa mezzo bruciata, seguiti a loro volta dal rimbombare crescente di altri passi in corsa sfrenata, segno che gli uomini di Lazlo si erano gettati alle sue spalle per bloccarlo.
L’uscita era ormai vicina, scorgeva già, dietro la trasparente visiera del casco, il primo balenare della notte stellata.
Si lanciò fuori, depose sul sedile dell’auto dalle portiere già spalancate l’involucro della donna. Si liberò rapidamente della tuta, dello zaino e del lanciafiamme. Si gettò nell’auto, avviò il motore girando la chiave già innestata, e mentre manovrava febbrilmente e con stridore di ruote per uscire, e poi si lanciava verso la grande strada illuminata e deserta, scorse nello specchietto retrovisore, ancora per un istante, la forma del laringectomizzato che sedeva a terra, con una mano contro la tempia, spezzato, tra le forme di altri uomini che lo serravano da ogni lato brandendo le torce.
Canto del laringectomizzato
E adesso cosa farò? A chi mi dedicherò? Dove andrò? Non potrò più prendermi cura del suo corpo inerte, non potrò più lavarla, nutrirla, trasportarla. Non potrò più lenire le sue piaghe con le mie carezze, i miei unguenti, non potrò più inserire gli aghi della fleboclisi nel suo corpo per addormentarla, salvarla. Non potrò più lavare con dolcezza le sue aperture dopo averla fatta evacuare, non potrò più pulirle il naso, spazzolarle i denti bianchi, d’avorio, pettinarle i capelli appena profumati e lavati, nel sonno. Stavamo bene così, io e lei, ciascuno dei due dentro il sonno dell’altro, incarnati, addormentati. Adesso chi la difenderà, chi l’addormenterà? Quando, a poco a poco, comincerà a svanire dentro il suo corpo l’effetto della narcosi, dopo tutto quanto è successo, e non saprà darsi ragione delle piaghe, dei segni. Chi le risparmierà l’orrore del risveglio? Chi le spiegherà? Chi le mentirà? Chi la illuderà? Chi la consolerà?
La macchina filava lungo la strada diritta e deserta che conduceva in Arizona. Il Matto guidava senza quasi vedere, coi fari accesi nella notte che cominciava già a lievitare, girando di tanto in tanto la testa verso l’involucro luccicante nel buio della donna avvolta nella carta stagnola, che giaceva abbandonata sul sedile al suo fianco.
Veniva il suono impercettibile del suo respiro, come da un punto infinitamente tranquillo e profondo, da lontano.
«E poi si girava verso di me con il volto...» il Matto si lasciò andare a fantasticare, mentre i fari dell’auto illuminavano il nastro della strada deserta, «e intanto la tenevo con il braccio attorno alla vita, alle reni, sentivo sotto le mie dita la sua consistenza vivente, tutti e due contro lo specchio del pavimento, poggiati sulla piccola base primordiale dei piedi nelle nuove scarpe appena calzate, ancora profumate, le teste collocate in quelle zone allontanate, aeree, alla sommità delle colonne dei corpi, premevo la schiuma della mia bocca contro l’apertura della sua bocca. Muoveva a sua volta la schiuma della sua bocca contro la mia bocca. Entravamo l’un l’altra nella cavità calda dei nostri corpi col muscolo d’acqua della lingua bagnata, profumata, sentivamo appena il frusciare delle luci contro gli specchi, le onde degli invitati, mentre continuavamo a spostarci senza smettere di baciarci, con le teste girate, compenetrate, nelle zone rarefatte dell’aria, della luce...»
La macchina continuava ad andare, sul sedile di fianco la donna continuava a brillare, a respirare.
«Ci fermavamo irresistibilmente uno contro l’altra, mischiati, appena incominciati, ci spostavamo in ali sempre diverse di quei grandi spazi felici, illuminati, imboccavamo larghe scalinate interne che portavano ad altre grandi sa
le gremite, riprendevamo a spostarci abbracciati sugli specchi dei pavimenti sempre nuovi e come appena inventati,
vedevamo passarci contro le nuvole delle vesti nella luce
in luce...»
Sul sedile di fianco la donna avvolta nella carta stagnola aveva cominciato a respirare leggermente più forte, mentre passavano dalle parti, di tanto in tanto, grandi self-service illuminati, stazioni di servizio con le pompe di benzina allineate e accese nella luce irreale.
«E ci addentravamo e ci smarrivamo in quegli spazi sempre nuovi che passavano contro gli specchi dove si rifletteva luce e soltanto luce, come se specchi e materia specchiata fossero diventati specchi di luce, luce in luce. Salivamo e scendevamo e ci arrampicavamo anche lungo piccole scale che portavano a certi minuscoli spazi inaspettati e inviolati, ripostigli felici, salivamo fino ai solai tutti deserti eppure arredati e ordinati, profumati, scendevamo di nuovo attraverso scale più grandi. Non si scorgevano più neanche le vesti, gli specchi, mentre ci andavamo contro allacciati. Ci guardavamo attorno nelle grandi sale azzerate. “Ma quanto tempo è passato?” mi rendevo conto d’un tratto. “Gli invitati sono andati tutti via, a poco a poco, non ce ne siamo neanche accorti tanto eravamo abbracciati, cancellati, siamo rimasti solo noi in questi grandi spazi deserti, illuminati...”»
Si preparava già ad albeggiare. Sul sedile di fianco la donna avvolta nella carta stagnola respirava sempre più profondamente, più forte.
«L’effetto della narcosi comincia lentamente a passare... Si comincia a svegliare!» si diceva il Matto continuando a guidare. «Il suo corpo si sta gonfiando e sgonfiando sempre di più nel suo involucro, lo sta facendo scricchiolare e cantare... E poi anche le luci si cominciavano a spegnere poco per volta, una a una. Ci aggiravamo nelle grandi sale deserte, non si vedevano più le luci, gli specchi, le macchie dei volti, delle vesti, si cominciava a sentire anche un po’ di freddo, i grandi caloriferi si stavano a poco a poco spegnendo. Cominciava a fare sempre più freddo. Niente più luci, invitati, non c’erano più neanche i nostri nuovi vestiti, solo i miei vecchi vestiti lordati, insanguinati, il suo corpo nudo ricoperto solo dalla carta stagnola, mentre la macchina correva alle prime luci dell’alba, non si sa verso dove...»
L’involucro al suo fianco scricchiolava sempre più forte.
«Ecco... si sta svegliando!» si disse il Matto.
Cominciò a rallentare. Accostò l’auto ai bordi della strada deserta.
La donna respirava sempre più forte. La carta stagnola scricchiolava, cantava.
Il Matto spense il motore. Si girò verso il bozzolo luccicante, cominciò a liberare il volto, la testa.
La donna teneva ancora le palpebre abbassate, ma il suo corpo respirava con sempre più forza, si scuoteva, tremava, come per riuscire a svegliarsi.
Il Matto le tolse gli ultimi frammenti di carta stagnola, dalle orecchie, dalle ciglia. La baciò sulle labbra con la sua bocca che sapeva di vomito.
La Meringa aprì gli occhi, di colpo.
«Sei tu! Finalmente!» disse in un soffio.
Sbatté due o tre volte le palpebre, prima di aprire completamente gli occhi.
«Dove sono stata? Cos’è successo? Dove sono? Chi sono?»
Albeggiava. Cominciavano a sfrecciare di tanto in tanto grandi forme luccicanti di camion, in una scia di vento.
«Formidabile! Cazzo!» esclamò il Gatto. «Lo vedi? Te lo dicevo fin dall’inizio! È così che si fa: aerei, fusi orari, telefonini, baci, zainetti...»
Guardai fuori dalle finestre della casa editrice.
«Non ci sono più quei ponteggi...»
«Ma certo! Basta! I lavori sono finiti! Si può cominciare a pensare a questo cazzo di libro, d’ora in poi, finalmente! Si parte! Tu non hai idea di cosa sta facendo irruzione, qui dentro! Mi sono incontrato di nuovo con quell’account. Sono riuscito a farmi finalmente dire chi è quel loro nuovo, misterioso cliente...»
«Ah, sì? Te l’ha detto? Chi è?»
Il Gatto abbassò la testa, si mise di colpo le mani tra i capelli.
«Non ci riesco, non è ancora venuto il momento di dirlo. Non credevo alle mie orecchie. È troppo, è davvero troppo!»
Rimase per alcuni istanti in silenzio, con gli occhi sbarrati, senza fiatare.
«E mentre tu eri impegnato nella ricerca della Meringa e la bambina cercava il suo cane e il coccodrillo cercava Principessa e l’art cercava la ragazza con o senza assorbente e il copy cercava la ragazza con l’acne e i roller cercavano i trampolieri e i trampolieri i roller e il laringectomizzato cercava la donna avvolta nella carta stagnola e lo spermatozoo del donatore di seme cercava il suo ovulo e l’ovulo dell’Interfaccia cercava il suo spermatozoo e il cliente l’account e l’account, a sua volta, il cliente... per dare vita a tutta l’operazione pubblicitaria di questa sbalorditiva campagna dalle caratteristiche mai viste prima, e qualcuno forse cercava noi che a nostra volta cercavamo tutti quelli che ci stavano a loro volta cercando e il vecchio con la paresi masturbatoria stava cercando fin dall’inizio me che stavo cercando a mia volta la Musa e nient’altro che la Musa...»
Mi girai di colpo a guardarlo, contro la luce del finestrone che illuminava, che accecava.
«Ecco, adesso te lo posso anche dire: sono andato finalmente, scopertamente, da solo, dalla Musa, sono stato faccia a faccia con lei!»
Girò la testa a sua volta, di colpo, verso la mia testa.
«Sì, sono andato, direttamente, senza diaframmi, ho avuto l’ardire di presentarmi, in figura, in corpo, alla fine, da solo, al suo cospetto... Il nostro viaggio è iniziato, sono stato accolto. Ho ricevuto dalle sue mani anche il manoscritto di quel vecchio con la paresi masturbatoria che mi stava inseguendo fin dall’inizio, per consegnarmelo. Eccolo, è lì! Ci ho già dato un’occhiata. È fatta, ce l’abbiamo fatta! Intanto possiamo stampare questo, tanto per gettare un osso a tutti quelli che abbiamo messo in febbrile attesa, tanto per cominciare, mentre ci prepariamo di slancio a cominciare. Hai visto che a forza di darci dentro la cosa alla fine è arrivata, un libro è saltato fuori? Possiamo anche utilizzare il suo titolo, visto che ti sei guardato bene dal darti da fare per tirare fuori un cazzo di titolo per questa roba, che non riuscivamo a trovarlo...»
«Ah, sì? E che titolo è?»
«Canti del caos.»
«Proprio il titolo giusto! Adesso si può cominciare, mi sento davvero pronto a cominciare!»
Il Gatto gettò indietro di colpo la testa, non si capiva se era per sbadigliare o per ingigantire.
«Ti sei svegliato un po’ troppo tardi, ragazzo! Forse non hai ancora capito. Il tuo ruolo, la tua natura, è cambiata, qui dentro, nel frattempo. Le nostre parti si sono invertite: tu con la Meringa, io con la Musa. Ormai ho preso in mano io le redini di questo cazzo di libro. Ti ho gettato letteralmente nei suoi ingranaggi. Intanto ne prendevo io in mano le fila. Ci sei cascato. Sei stato messo da parte, ti ho fregato!»
Gettò indietro ancora di più le spalle. La sua testa si era squarciata di colpo, si vedeva, nella fornace della sua bocca, il rosso del suo palato e della sua lingua mentre sghignazzava e tremava.
Mi girai con tutta la poltroncina, verso il Matto che stava con la bocca allargata, sbambolata.
«Ma adesso torna pure dalla tua Meringa!» gli dissi asciugandomi gli occhi. «Sei tu che l’hai liberata! L’hai salvata! Sarà da qualche parte che ti aspetta. Non saprà niente, non si ricorderà niente...»
«Sì, sì, adesso vado da lei!» si animò il Matto. «Adesso posso finalmente iniziare a pensare a questo cazzo di libro! Si comincia!»
Mi spostai in avanti, staccandomi la sigaretta dal volto, dalle labbra.
«Accidenti, sei duro d’orecchi! Ancora non hai capito?» risi liberando una boccata di fumo contro la sua testa. «D’ora in poi sarà la mia voce a risuonare direttamente, qui dentro. Mi prendo anche, definitivamente, la prima persona, come vedi. Si è mai vista una cosa così? Sono entrato direttamente nella scatola nera di quest’opera in espansione totale, nel suo tessuto vivente, ho orientato le sue strutture, ho suscitato, ho rovesciato, ho annientato, ho creato. Chi più di me può definirsene a buon diritto l’autore, a questo punto? Mi impossesso di quest’opera di prepotenza e d’astuzia, entro in questa grande conchiglia in fiamme un istante prima che diventi fossile. Esplodere completamente, sfondare, fare a pezzi la gabbia, fuoriuscire! Che tutto ruoti davvero intorno a tutto! Nuovi spazi, nuove illusioni, nuove allucinazioni! C’era ancora troppa innocenza, qui dentro! Fuori tutta la sbobba, il dolore! Solo alterità e poesia! Ormai è fatta! Me lo sono conquistato sul campo! Ti ho buttato fuori! Il tuo tempo è finito! È cominciato il mio!»