«Cazzo, ci ha dato dentro!»
«Be’, tanto per cominciare...»
«Stia attento che non le prenda la mano!»
Risi, staccandomi la sigaretta dalla testa.
«Non c’è pericolo.»
L’account si girò per guardarmi, ruotando sulla sua poltroncina e sollevando e inclinando contemporaneamente tutto il corpo per dare sollievo un istante alle emorroidi.
«Stia attento! Queste cose possono dare alla testa. Non si metta anche lei a fare come quell’altro. A proposito: che fine avrà fatto?»
«Ah... lei dice il Matto? Che fine vuole che abbia fatto! Sarà con la sua Meringa, andranno in giro tenendosi per mano, per le strade, di notte, come due bambini. Mi sembra di vederli: lui con la faccia così, lei con la faccia cosà. “Caro, che cosa sono questi segni?” gli chiederà lei guardandosi le mani, le braccia. “Che cosa è successo? Dove sono stata?” “C’è stato un incidente” la infinocchierà lui, “il treno su cui viaggiavamo è uscito dalle rotaie, ha deragliato.” “Ah sì? Non me ne ricordo. Quando è successo? Com’è successo?” “Eravamo seduti vicini. Il treno andava senza fare rumore, c’era una luce di quelle che ci sono solo nei sogni, calmissima, intensa. Il paesaggio correva fuori dal finestrino, ma non è che ci fosse poi il paesaggio, c’era solo la luce, la luce era il paesaggio e il paesaggio era la luce. Guardavamo fuori dal finestrino, io ti tenevo un braccio lungo la schiena, tu avevi la testa abbandonata sulla mia spalla. Il sedile di fronte era vuoto, così ci avevamo allungato sopra una sola gamba ciascuno. Le tenevamo così, accavallate l’una sull’altra. Tutto era calmo. Non saprei neanche se eravamo del tutto svegli o se invece stavamo così, tra la veglia e il sonno. Era tutto infinitamente tranquillo. L’ora, la luce. Tutto immobile, calmo, come se anche noi fossimo parte indistinta della luce, dell’aria. Senza sapere da dove stavamo venendo, dove stavamo andando. Solo la presenza dei nostri due corpi viventi, il nostro respiro dentro il respiro più grande di tutta quella luce che respirava, l’armonia delle sfere, come se per una frazione d’istante ci fosse arrivata da qualche parte indistinta della materia, da infinitamente lontano o da infinitamente vicino, qualcosa che era stata o che era ancora inscritta nelle sue potenzialità segrete, racchiusa come in uno scrigno nel suo codice sfuggito da chissà dove, da una fessura aperta per un istante chissà in quale luogo o in quale stato, desintonizzata da tempo o non ancora arrivata...” Eccetera eccetera... “Sì, ma poi che cosa è successo? Perché sono in questo stato?” gli chiederà la Meringa. “D’un tratto tutto è scomparso. Il treno è volato fuori dalle rotaie, in una curva. Non saprei dire perché. Forse stava correndo troppo forte, forse stava correndo da tempo dove non c’erano più le rotaie, chi può dire... Ci siamo svegliati da un’altra parte, in un ospedale.” “Ma ho anche dei segni sulle gambe, in mezzo alle cosce!” “Ti hanno estratta con la fiamma ossidrica dalle lamiere.” “Sì, ma perché proprio lì? E quello squarcio che ho all’interno del retto... Perché? Che cosa è successo? Dove sono stata? E perché tu, che eri seduto vicino a me, non hai un graffio?” “Oh, non credere, è solo perché non si vede! Le mie ferite sono interne. Ho battuto violentemente la testa, non sono più come prima. Per questo mi hanno chiamato il Matto, qui dentro...” “Ma allora quando è successo? È successo prima che ci incontrassimo per la prima volta in casa editrice? È per questo che non appena ti ho visto...? Anche se non mi ricordavo più niente...” Eccetera eccetera. Seghe, pompini, e intanto lui le smanetta la fica e lei l’uccello, se sono già a questo punto... Andranno avanti così per un pezzo. Si staranno raccontando l’un l’altra queste belle favolette. Diciamo solo così, per il momento. Il resto a suo tempo. Ma adesso andiamo avanti, parliamo d’altro!»
«Oh, sì, cazzo! Era ora!» esclamò l’account.
«Allora, dove eravamo rimasti?»
«Eravamo rimasti che il Matto ha trovato la sua Meringa...»
«E io la mia Musa!»
«E che c’era tutt’intorno questa guerra tra i roller e i trampolieri. E che la donna che urla è da qualche parte in attesa di fare irruzione di nuovo qui dentro, con la sua voce, per dare finalmente questo cazzo di annuncio...»
«Ma l’annuncio di cosa?»
«Che il bambino è nato!»
«Ah, sì, quello spermatozoo del donatore di seme che ha intercettato il suo ovulo e l’ha spaccato! La pancia dell’Interfaccia si sta gonfiando sempre di più, si prenderà a poco a poco tutto lo spazio, qui dentro, creerà lo spazio. Aspettiamo solo che lo scrigno di questa pancia si squarci...»
«... e venga fuori quello che stavano tutti aspettando! Gliela possiamo rifilare così, questa volta. Il cuore stesso di questa campagna pubblicitaria mai vista prima!»
Mi alzai dalla poltroncina, di scatto.
«Sì, sì, non mi sono dimenticato, avevamo già buttato là questa cosa, quell’altra volta. D’accordo, d’accordo, si può fare! E anche questa volta noi ci siamo già installati dentro la sua goccia prima. Vegliamo anzi su di lei, noi, in prima persona, mentre si sposta di giorno e di notte con la sua grande pancia di carne, e si siede con fatica e si alza barcollando, come una torre, mentre al suo interno quell’eiaculato ruota su se stesso, prende sempre di più forma, le pinzette delle sue mani strette a pugno attorno al bulbo della piccola testa bombata. Starà sognando chissà cosa là dentro, quei sogni che si possono sognare solo prima dei sogni, quando sono finiti i sogni. Le palpebre grinzose abbassate su quelle palline degli occhi che si stanno formando magmaticamente là dentro, nel silenzio, nel buio. Vegliamo su di lei perché non prenda dei colpi, non inciampi mettendo malamente un piede sopra un gradino, non voli giù da una scala roteando attorno alla sua grande pancia di carne, mentre al suo interno il nostro eiaculato ruoterà a sua volta al rallentatore in quell’acqua densa, con tutto il suo piccolo corpo scuoiato, le mani dalle piccole dita sgarzate. Perché non incontri sulla sua strada quello stupratore di donne gravide che gira da un po’ di tempo di giorno e di notte, per le strade...»
«Uno stupratore di donne gravide? E chi è questo stupratore di donne gravide? Non era previsto, non l’avevamo ancora incontrato, non avevamo calcolato la sua presenza all’interno della campagna!»
«E allora io che cazzo ci sto a fare, qui dentro?»
Anche l’account si alzò a sua volta, di scatto.
«D’accordo, d’accordo! Ma chi è di preciso questo tipo qui che è stato introdotto adesso? Mi dia almeno un’idea iniziale, mi butti giù uno straccio di storyboard, perché possa parlarne col nostro cliente, giocarci la sua immagine al meglio!»
«Mah... è in giro da poco. Stupra solo le donne gravide. Le aspetta con pazienza fuori dai negozi prémaman, le segue per strada, con le mani in tasca, tranquillo. Sorride beatamente tra sé camminando sulla loro scia, spensierato. Attraversa irresistibilmente la strada quando vede spostarsi dall’altra parte una di quelle bolle di carne, soprattutto nei giorni di primavera quando ci sono in giro tutte quelle pance fiorite, quelle gemme. Si apposta fuori dalle loro case, quando le vede entrare o uscire da qualche porta. Si piazza fuori dal portone di qualcuno di quegli istituti per ragazze madri in attesa, le sceglie soprattutto tra quelle al termine della gravidanza. Le trascina tenendole dolcemente per i capelli in qualche androne buio, deserto, le aiuta a sfilarsi quelle enormi mutande deformate, ad abbassarsi i calzoni scoppiati, quelle salopette deflagrate che adesso le donne portano fin quasi alla fine della gravidanza. Le fa mettere per terra, sulle ginocchia arrossate, si inginocchia dietro di loro, lo infila in quegli spazi in fusione. Le fa coricare sul tavolo di cucina, quando riesce a penetrare nelle loro case mentre sono sole, scopa in piedi quelle loro fiche rientrate, tenendo le palme delle sue mani su quel globo di carne teso fino a scoppiare...»
«Oh, cazzo, ma allora bisogna stare attenti!» si allarmò l’account. «Questo qui ci manda a pallino tutto quanto! Bisognerà impedire che la nostra Interfaccia incontri sulla sua strada questo stupratore! Rischiamo che vada a monte non solo questa gravidanza ma anche tutto quello che ci è ormai legato. Tutto ormai si gioca attorno a questo, qui dentro!»
«Be’, sì, in effetti molte di loro abortiscono dopo averlo incontrato, oppure il bambino subisce trauma...»
«E allora che cazzo le è saltato in mente proprio adesso di mettere in campo questo stupratore?»
«Allora togliamolo!»
«No, non è così che funziona qui dentro, lei lo sa. Una volta introdotto qualcuno, non lo si può più togliere. Rimane dentro per sempre.»
Risi, buttando fuori una boccata di fumo e stritolando nello stesso tempo il mozzicone di sigaretta in un portacenere di metallo.
«Non so cosa farci. Io sono fatto così! Lavoro così!»
Eravamo faccia a faccia, tutti e due in piedi, con le teste gettate all’indietro, per guardarci dall’alto, da un po’ più lontano.
L’account mi fissò ancora per un istante, prima di cominciare a ridere a sua volta, con forza.
«D’accordo, d’accordo!» esclamò infine. «Forse è addirittura meglio così! Dovremo vigilare e vegliare su quella pancia e su quello che ci sta dentro. Introdurrà un elemento di suspense! Ci farà gioco!»
L’account ruotò la testa da una parte e dall’altra, mentre con una mano si allargava il cappio della cravatta.
«A proposito...» disse d’un tratto «non ci abbiamo ancora pensato... Sarà maschio o femmina?»
«Come ha detto? Che cosa?»
«Ma quel pezzettino di carne che tutti stiamo aspettando, qui dentro! Sì, perché si sta dando un po’ troppo per scontato che venga sempre fuori col suo bel pisellino in mezzo alle gambe, in questi casi...»
«Ma sì, buona idea! Mi sta bene! È vero, potrebbe anche avere una piccola fica, stavolta!»
«I tempi sono pubblicitariamente maturi. Lo lasci dire a me, che me ne intendo!»
«D’accordo, d’accordo, mi sta bene, non c’è problema, non mi oppongo: allora stavolta sarà una fica!»
«Sì, sì, cazzo! Un terremoto! Che colpo! Avevo già commissionato a un istituto un’indagine di mercato... adesso glielo posso anche dire. All’inizio sconcerto, rifiuto. Poi, a poco a poco... Oh, cazzo! I dati sono qui. Ci daremo dentro alla grande con questa cosa! Ne ho già accennato al cliente, nel nostro ultimo incontro per mettere a punto questa nostra nuova sbalorditiva campagna...»
«Aggiudicato! D’accordo! Ma ora basta! Ci ha tenuti sulla corda anche troppo! Non faremo un altro passo avanti se non mi dice immediatamente di quale campagna si tratta e chi è il cliente!»
L’account tornò a sedersi, coi gomiti puntati contro il tavolo per tenersi un po’ sollevato dalla poltroncina. Dal resto dell’agenzia non veniva il più piccolo suono, come se tutti, da ogni parte, si fossero bloccati di colpo, attorno ai tavoli, sulle scale di plastica trasparenti, con un piede sollevato e fermo nell’aria a metà passo, davanti alle bolle dei video, alle tastiere, davanti alla macchina del caffè, con quella schiumetta sopra le labbra, nei corridoi, sui roller, negli stanzini dei cessi, con la carta igienica ancora sollevata nell’aria, trasfigurata, il copy e l’art con la sua testa ingellata.
«La campagna... il cliente...» cominciò a balbettare l’account allentandosi ancora di più il cappio della cravatta.
«Basta così! È venuto il momento!» dissi alzando la voce. «Qui non si può più andare avanti di un passo se non ce lo dice!»
L’account abbassò la testa per alzarla subito dopo, di colpo. Mi fissò un istante, abbassò gli occhi di nuovo.
«La campagna... la campagna...» cominciò a farfugliare «d’altra parte a questo punto non mi posso più tirare indietro, me ne rendo conto...»
«Di che cazzo di campagna stiamo parlando? Di che cazzo di campagna abbiamo parlato, finora?»
L’account rise di colpo, con le sole spalle.
«Cosa cazzo si vuole vendere?» incalzai. «Qual è l’oggetto di questa campagna?»
L’account si immobilizzò di colpo.
«Il pianeta!»
Rimasi un po’ così, a bocca aperta, nonostante sia uno che notoriamente non si stupisce di nulla.
«Sta scherzando?»
«No, si figuri! Le sembra il caso?»
Tirai fuori il pacchetto di sigarette.
«Il pianeta? Quale pianeta?»
«Il nostro pianeta, naturalmente! Il pianeta Terra!»
Mi alzai di nuovo, di colpo.
«Il pianeta? Tutto quanto il pianeta?»
«Sì, sì, certo!»
Rimasi per un istante in silenzio, interdetto.
«Oh, cazzo!»
Mi ficcai in bocca una sigaretta, l’accesi piano, tirando a lungo, più volte, contro la fiamma.
«Sta scherzando?» chiesi ancora.
«No, no, le assicuro!»
Fissai per un istante l’account, che adesso era perfettamente calmo.
«E chi volete che possa fare un simile acquisto?» domandai ancora. «Chi potrebbe esserne l’acquirente?»
Rise leggermente, disteso.
«Oh... quello salta sempre fuori, alla fine, se la campagna è efficace!»
Risi a mia volta, buttando fuori il fumo della sigaretta dalla bocca, dal naso.
«Mi scusi...» incalzai ancora, ma adesso tranquillo «quindi, in un certo senso, l’agenzia lavora per la propria estinzione?»
«Be’, sì! In un certo senso... Per forza! D’altronde adesso è così in ogni campo. Però bisogna vedere a quale transazione si andrà. Bisogna vedere chi acquista! Quali spazi si potranno aprire per l’agenzia? Cosa succede dopo? È lì che si può giocare una partita mai giocata prima! Anch’io, come account... Gliel’avevo detto che avrei portato il mio ruolo e la mia funzione di account a una dimensione mai pensata prima.»
«D’accordo, d’accordo! A questo punto non le resta che dirmi chi è il cliente.»
Mi guardava tranquillamente, negli occhi.
«Il cliente?»
«Sì, sì, quello che ha commissionato questa sbalorditiva campagna alla vostra agenzia, quel tizio che lei incontra ogni tanto, che si presenta con la faccia coperta da una maschera di porcellana...»
Socchiuse gli occhi, per un istante.
«Credo sia Dio.»
Lo guardai sorridendo, in silenzio.
«Ho capito bene?»
Mi sorrise a sua volta, allargò le braccia.
«Ragioni: chi vuole che possa permettersi di vendere l’intero pianeta!»
«Be’, sì, niente da dire, mi rendo conto! Come ragionamento non fa una grinza!»
«Lo vede?»
«Ma perché poi vorrebbe venderlo?»
«Ah... non lo so! Se ne vorrà sbarazzare!»
«Ho capito. D’accordo. Ma perché proprio venderlo? Una volta l’avrebbe distrutto!»
«Adesso invece si fa così!»
Ci guardammo in faccia l’un l’altro, con le teste rovesciate all’indietro, gli occhi socchiusi, le labbra tirate in un forsennato sorriso, fin quasi a spaccarsi.
«Per forza!» si animò all’improvviso l’account. «Deve combattere con le stesse armi anche lui, a questo punto: logiche di mercato, pubblicità, transazioni fulminee, epocali, navigazioni in rete, Borse, videogame, fibre ottiche, informazioni satellitari... Non è più il tempo di starsene così, per conto proprio, separati! La stessa nozione di soggetto è stata messa in discussione, aggredita, annientata, in filosofia, in letteratura, nelle scienze naturali, sociali, virtuali... Lo saprà bene anche lei, che stampa dei libri!»
Cominciai a ridere piano, come una pentola che comincia a bollire.
«Come ha detto?»
«Ma sì, per forza! Cosa cazzo conterebbe più, scollegato? Deve entrare in rete anche lui!»
Buttai indietro maggiormente la testa. Sentivo che il mio corpo stava cominciando a tremare sempre più forte. Le mani mi si stavano sfuocando sul piano del tavolo.
«Cosa fa? Cosa le succede?» si allarmò l’account.
Cominciai a ridere forte, con la testa tutta gettata all’indietro, le lacrime agli occhi.
Una ragazza mise dentro il naso per un istante. Si allontanò di nuovo in silenzio, sui roller.
Continuai a ridere forte, per molto, senza riuscire a parlare. Sentivo i miei organi interni sobbalzare dentro il mio corpo.
«Oh, cazzo, cazzo!» balbettai quando riuscii a controllarmi. «Finalmente! Da quanto tempo non ridevo così!»
Mi passai le mani sulle guance bagnate, buttai la sigaretta che mi stava bruciando da un po’ tra le dita, senza schiacciarla.
L’account mi guardava.
«L’ha presa male, mi pare!» disse continuando a fissarmi.
Ripresi a ridere forte, incontrollabilmente.
«E lo vengo a sapere così» dissi ridendo con le lacrime agli occhi, «da un pubblicitario! E me lo fa sapere così! Proprio a me! E proprio io devo salvargli il culo da questo crac epocale? Proprio io, che glielo sto dicendo da sempre! Dovrei limitargli i danni? Io! Proprio io! Che gliel’ho dimostrato in tutti i possibili modi! O forse proprio per questo? Mi ha dato retta, alla fine. Ho solo segato il ramo su cui stavo seduto. Perché ci sono anch’io, nel pacchetto vendita, assieme a tutto il resto della baracca, che cosa crede! Ha trovato finalmente il modo di sbarazzarsi di me!»
L’account rise a sua volta, gettando molto indietro la testa, come se il suo collo fosse fatto di elastico.
«E io allora cosa dovrei dire?» esclamò molleggiandosi un po’ sulla poltroncina. «Lei adesso si può rendere conto di quanto sia sbalorditiva, qui dentro, la mia posizione di account! Perché io devo essere equidistante sia dagli interessi del cliente che da quelli dell’agenzia. Devo stare nello stesso tempo completamente dalla parte del cliente e da quella dell’agenzia. Ma se sono completamente dalla parte del cliente e azzecco la campagna pubblicitaria e questa transazione va in porto, allora è probabile che non ci sarà più nessun altro account, nel futuro, non ci sarà più tessuto commerciale, più agenzia, più pianeta, più niente. E nello stesso tempo, se sono completamente dalla parte dell’agenzia, come posso dire di no allo sbalorditivo bonifico offerto dal cliente e a questa campagna mai vista prima e che nessuno forse vedrà mai più? E che porrà l’agenzia in posizione leader a livello planetario, e forse domani chissà, chi può dire... E allora io sarò completamente e nello stesso tempo dalla parte dell’agenzia e da quella del cliente. Anche se una simile impresa non era mai stata tentata prima. Ci giocheremo e mi giocherò tutto quanto in questo spazio e in questo rischio, in questa fessura di luce che diventa sempre più accecante man mano che si richiude, e proverò e proveremo a passarci in mezzo, per uscire chissà dove, in quale altro spazio, in quale dimensione. Giocarci tutto dentro questa esplosione e autoesplosione commerciale assoluta, in cui siamo nello stesso tempo la nostra scomparsa e il nostro esordio.»
Mi alzai dalla poltroncina.
«E se io invece volessi, fingendo di stare al gioco, fare a poco a poco un gioco diverso, e se io, proprio io fossi il solo che può ridare una chance a tutto quanto... per poter continuare il mio gioco, se è un gioco... Proprio io! Sarei io l’angelo della salvezza, a questo punto, qui dentro!»
L’account mi guardava con gli occhi sbarrati, deglutiva.
«No, no, non faccia caso a quello che dico!» mi ripresi immediatamente. «Sto vaneggiando!»
Ci guardammo un’altra volta, a lungo, in silenzio.
«Ci siamo capiti!» disse qualcuno di noi due, non saprei chi.
Venivano dal resto dell’agenzia rumori attutiti.
«Forza, allora!» si animò l’account. «Cominciamo a darci da fare! Adesso ci rendiamo conto tutti quanti del gioco in cui siamo finiti, noi e questa massa in formazione totale, di cosa saranno espressione le sue figure e le sue tensioni e le sue strutture, cosa possono suscitare, susciteranno, hanno già suscitato, possiamo dire, perché non sapremo mai se siamo il portante oppure il portato, se siamo tutte e due le cose nello stesso tempo e se siamo nello stesso tempo un’altra cosa. Lo lasci dire a me, che me ne intendo. Allora... abbiamo detto che c’è quella pancia con dentro il nostro piccolo redentore del cazzo!»
«O della fica, stavamo ipotizzando poco fa! La brand image di tutta questa campagna pubblicitaria e di tutta questa transazione epocale, se riusciamo a non farla intercettare da quello stupratore di donne gravide che è saltato fuori all’ultimo momento, così, sul più bello. C’è quella donna che urla che ne darà l’annuncio. E poi tutti gli altri che sono già dentro lo storyboard, e anche quelli che continuano ininterrottamente a entrarci, mi pare di aver capito, mentre avrà già visto editorialmente la luce la parte iniziale di questa cosa in formazione totale, questa massa di proiezioni e tensioni, questo sogno...»
«Sì, sì! Ho già lanciato qua e là suggerimenti, istruzioni. Allo sbaraglio, alla cieca: ai grafici di copertina, alle signorine dell’ufficio stampa, ai cellophanatori, ai traduttori... Ma adesso bisognerà preparare la campagna pubblicitaria anche per quel lacerto primordiale che fra un po’ vedrà editorialmente la luce, si fa per dire, che avrà già visto da un pezzo la luce quando usciremo allo scoperto con tutto quello che si sta preparando qui dentro, per quell’osso che gli dovremo tirare mentre continueremo a fuggire per altre strade inventate lì per lì, pezzo a pezzo, solo per poterle percorrere sfrecciando con gli occhi chiusi, la testa gettata all’indietro in tutta questa notte e questo silenzio e questo spavento e questa luce. Mentre staranno già dicendo: “Ma che cos’è questa roba? Si può sapere chi l’ha fatta entrare? Fuori, fuori! Non può stare qui dentro! Richiudete la porta! Entra aria! Che cosa c’entra questa roba con noi? Adesso gliela facciamo vedere noi a quello lì! Ci alziamo dalle nostre poltroncine anatomiche, lo pigliamo a calci nelle palle! Possiamo far vedere a tutti che siamo dei duri, che siamo capaci anche noi di sparare calci nelle palle a chi non ha il culo coperto, gira senza la scorta, non solo di leccare culi potenti, a loro e a tutta la scorta...”. Mentre noi siamo già intanto da tutt’altra parte, non ce ne frega più un cazzo di queste cose... A proposito: a questo punto devo buttare lì un po’ di istruzioni anche ai pubblicitari!»
L’account si raschiò la gola un paio di volte.
«Be’, veramente questo spetterebbe a me!»
«Sì, però si tratta pur sempre di un cazzo di libro, alla fine, di cui sono io l’editore!»
L’account mi sorrise, stando sollevato dalla sua poltroncina, con gli occhi un po’ fuori dalla testa.
C’era una rivista sul filo del tavolo, spalancata.
«Quello là ci ha lasciato questo enorme giacimento di merda e se ne è andato per i cazzi suoi!» dissi cominciando distrattamente a sfogliarla. «Tocca a noi, adesso, tirare fuori da tutta questa profumata sostanza un progetto, un destino.»
Mi chinai ad annusare una pagina della rivista.
«Uhm... che profumo!»
«È un nostro messaggio!» gongolò l’account, vedendo che continuavo ad annusare il bordo della pagina con la pubblicità olfattiva di una marca di profumo.
«Cazzo! Mi è venuta un’idea!»
Ai pubblicitari
Come si fa a pubblicizzare questo libro che non si sa da che parte prendere? direte voi. Semplicissimo! Avete presente quelle pagine di rivista con la strisciata di profumo sul bordo, e lì vicino la fotografia della bottiglietta griffata disegnata dal noto stilista? Sullo sfondo dei due che camminano sollevati da terra sul ponte di Brooklyn, lei con un cetriolo in mano e lui con una giarrettiera a guinzaglio? E tutti che nelle case si gettano a capofitto ad annusare, e lei dice a lui: «Senti, caro, dimmi se ti piace questo bel profumino!». E allora anche lui si ficca con il naso nella scriminatura della rivista, tira su l’odore del profumo mischiato a quello della carta patinata e stampata. Continua ad annusare, mentre lei lì vicino pende dalle sue labbra in attesa della risposta, si sente solo il rumore della proboscide dell’uomo che sniffa con forza, la testa sempre più conficcata nella scriminatura della rivista, fino a quando si rovescia sullo schienale del divano, bianco come uno straccio e privo di sensi, svenuto, e allora lei si getta su di lui per rianimarlo, salvarlo. Gli fa la respirazione bocca a bocca, lo bacia, gli allenta il nodo della cravatta, gli slaccia il colletto della camicia, i calzoni, gli tira giù le mutande, i calzini, lo bacia sopra il prepuzio, riprende a implorarlo e a baciarlo, a spompinarlo... Oppure non vi è mai capitato di rasentare senza saperlo certe edicole piene fino a scoppiare di quelle riviste, e bisogna tenersi con le mani ai muri delle case, ai tetti delle automobili in sosta, mentre si continua a respirare e a fantasticare, per non cadere a terra? O quelle pile di riviste ancora legate o di inserti patinati di quotidiani che i distributori scaricano fuori dalle edicole di mattina presto oppure di notte, già pronte per il giorno dopo? Spargono tutt’intorno quel profumo, fanno barcollare per un po’ qualche raro passante annebbiato, eviscerato. Vengono stivate anche quelle dentro le edicole piene fino a scoppiare, si irradiano quelle orbite profumate tutt’intorno alle loro cupole, nell’aria, nello spazio, gli uccelli volano per un po’ privi di orientamento, a memoria, quando passano attraverso i suoi strati, il piccolo spazio che c’è all’interno dell’edicola ne è così saturato che al cliente si annebbia per un istante la vista quando deve avvicinarsi di più all’apertura per mettere i soldi nella mano della giovane giornalaia. Si vedono ai lati del suo corpo seduto le forme immobili di due stampelle che la ragazza deve usare per camminare. Lei allunga ancora di più la mano fuori dalla feritoia, piccola e profumata, come disossata. Anche le sue stampelle ne sono tutte impregnate, quando la ragazza chiude l’edicola e si allontana per le strade. Lascia dietro di sé una scia snervata, sbudellata. Ma adesso lasciamola lì, per il momento, questa ragazza... Oppure avete mai visto quelle signorine che regalano striscioline pubblicitarie di fronte alle gallerie del centro e alle vetrine di cristallo illuminate, e i passanti che cominciano ad annusarle per un po’, camminando, le fanno annusare a chi gli sta a fianco, se le scambiano l’un l’altro più volte, ci passano sopra due dita, se le portano di tanto in tanto ai fori delle narici mentre continuano a camminare e a parlare, a esalare... Bene! Di cosa parla la prima parte di questo libro in uscita che voi dovete pubblicizzare? Di cosa cazzo parla? Di cosa cazzo sembra parlare dall’inizio alla fine, perlomeno? Di fica! Bene: allora noi faremo tutta la campagna su questo! Strisciate di odore di fica sulle pagine patinate delle riviste, vicino alla riproduzione della copertina. Titolo del libro: Canti del caos, mi pare di ricordare che abbiamo buttato là alla fine, dopo che mi è arrivato in mano attraverso la Musa il manoscritto di quel vecchio affetto da paresi masturbatoria. È inutile girarci attorno, star lì tanto a spiegare, a blaterare. Tanto poi diranno solo: apologia della violenza, pornografia, immoralismo, moralismo, romanticismo, minimalismo, massimalismo, reazione, rivoluzione, insurrezione, eiaculazione, transustanziazione... «È uscito un nuovo libro di quel pazzo furioso... Canti del caos, si è messo in testa di intitolarlo, addirittura» cinguetterà quella là dopo avere rianimato il suo lui ancora privo di sensi sopra il divano, per il godimento. «Ah, sì? Di che libro si tratta?» domanderà lui ormai seduto al suo fianco, tastandole intanto la tetta sotto la giacca in pile della tuta, dal fianco, da sotto. «Senti qui!» le dirà lei allungandogli la rivista. «Ah, sì, cazzo finalmente ho capito: questo è un libro di fica!» dirà lui dopo avere conficcato di nuovo la testa nella scriminatura della rivista. Ne faremo anche delle strisce da far distribuire ai passanti, da quelle signorine di fronte ai negozi del centro, coi roller ai piedi e quegli stivaletti di cristallo, su e giù per le scale trasparenti dei centri multimediali. Si porteranno alle narici quelle serpentine con la strisciata di fica, continueranno a sniffarle a tutto spiano, senza smettere di camminare, per strada, se le infileranno quasi nella narice per tirare meglio, spostandosi senza vedere sulle zeppe, sui roller, andranno a sbattere contro i muri, i segnali stradali con gli ultrasuoni per cani, continuando a camminare e a sniffare...
«Sì, sì, d’accordo! Complimenti! Perfetto! Cazzo, mi sta rubando il mestiere!» interruppe l’account. «Però, però...»
Mi accesi una sigaretta.
«Però cosa?»
«Bisogna tener conto anche del pubblico femminile, in un affare così! Lo lasci dire a me! Lei d’altronde dovrebbe saperlo più di ogni altro, se è vero quel che si dice...»
Risi, buttando fuori il fumo della sigaretta dal naso.
«Ma certo, ci stavo arrivando! Di fica e di cazzo naturalmente! Di fica sulle riviste per lui. Di cazzo sulle riviste per lei. Ma anche giocati assieme sulla stessa rivista, sinergicamente... O addirittura uno di qua e uno di là, se li spariamo sul paginone doppio, centrale. E allora tutti e due con le teste conficcate nella scriminatura della rivista, a sniffare, uno che perde i sensi di qua e l’altra che perde i sensi di là, sul divano, con gli occhi rovesciati all’indietro, la lingua fuori. Strisciate di cazzo anche su quelle striscioline che distribuiscono quelle gambelunghe in mutandine di cristallo, sulle scale mobili dei grandi magazzini, reparto profumi, e lì vicino il titolo del libro buttato lì, di sghimbescio, signorine e signore che continuano a camminare e a sniffare, sulle loro scarpette di spugna, sui roller...»
«Sì, sì, così va bene! Tra l’altro... ho notato anche che è arrivato un nuovo personaggio che prima non c’era...»
«Ah, sì? Non me n’ero accorto. Quale?»
«Ma quella ragazza con le stampelle profumate!»
«È vero! Però, che occhio! Non le scappa niente!»
«Io pensavo, io speravo che avremmo cominciato a lavorare tranquillamente su tutto ciò che avevamo già, a questo punto. Invece vedo che continuano ancora ad arrivarne di nuovi! Bisognerebbe cominciare a stabilizzare un po’ lo storyboard di questa campagna, invece di sottoporla a nuove e continue turbolenze!»
«Non so cosa farci. Gliel’ho già detto: io sono fatto così.»
Si era aperta la porta. Aveva messo dentro il naso per un istante l’art director.
«Scusa! Vedo che sei occupato» disse ritirando la testa ingellata.
«No, no, vieni dentro!» si animò l’account. «Stiamo cominciando a mettere in piedi questa campagna. Vieni dentro! Dovrai occupartene anche tu, d’ora in poi!»
L’art entrò. Si sedette su una poltroncina libera, vicino a me.
«Ti è rimasto un po’ di rossetto sulle labbra» gli indicò l’account.
«Del rossetto?» farfugliò l’art.
Poi arrossì di colpo, incontrollabilmente, tirando fuori di tasca un fazzoletto piegato e stirato, per pulirsi.
«Ancora un po’ qui...» disse l’account indicandogli il punto corrispondente sulle proprie labbra.
L’art bagnò di saliva il bordo del fazzoletto, se lo passò ancora due o tre volte sull’angolo della bocca.
«Ecco, così va bene!» sorrise l’account. «Ti sei presentato!»
Si lasciò andare per un istante sullo schienale.
«Bene!» disse tirandosi su subito dopo, di scatto. «Allora torniamo ai nostri personaggi... Avevamo detto: il Matto con la Meringa e lei con la Musa... Siamo tutti in attesa che quella donna faccia di nuovo irruzione qui dentro, con le sue arti... E poi quelle sue due straordinarie assistenti! E quella ragazza con o senza assorbente del nostro art...»
Lo indicò con la mano. L’art si toccò istintivamente le labbra, per un istante, nel punto dove si era appena pulito.
«E c’è poi quella nera... Principessa! Accidenti! Quella donna dovrà pur avere un futuro, qui dentro! E anche quella donna amputata, Aminah, e poi quella ardimentosa bambina, e quel ginecologo spastico e l’investitore, e anche tutti gli altri che sono passati sfrecciando e poi sono spariti, quell’uomo che pesta le merde, il traslocatore... Non ci dimenticheremo di nessuno di loro, avranno tutti un futuro e un destino, qui dentro. Ne ho già cominciato a parlare col nostro cliente, l’ultima volta che ci siamo incontrati. Non le dico dove, non sempre le potrò dire dove, d’ora in poi. Abbiamo passato e ripassato in rassegna tutte le situazioni che si sono venute a creare, i suoi personaggi, le sue figure, una per una. “La ruota si è messa in moto!” ha detto alla fine, dietro la sua maschera di porcellana. “Si è rimessa in moto! La campagna è partita, non ci resta che aspettare i tempi di maturazione di quel redentore o di quella redentrice, dentro la sua bolla di carne. Non sarà più necessario che ci vediamo ogni volta, a ogni passaggio. Eleggerò un mio messaggero, se avrò bisogno di presentarmi a lei e a voi all’improvviso, in carne, in qualsiasi momento. Non cesserò di inventarne di nuovi ogni volta che ne sentirò l’estro, mentre tutto qui dentro si divincola e prende corpo per attrito, per rischio, il nostro progetto, il nostro sogno...” Da questo momento inizia un brief permanente, come non se ne erano mai visti prima, crescente, fino alla fine.»
L’art si divincolò sulla poltroncina.
«E quella guerra tra i roller e i trampolieri?» interruppe con la voce troppo alta, stridente. «E quel videogame?»
La sua testa ingellata scintillava.
«Di più, di più!» si animò l’account. «Quella era solo la scintilla d’inizio! D’ora in poi tutti quanti, quei trampolieri, quei roller, il videogame, il donatore di seme e il suo ideatore e tutto il resto... sarà tutto parte di una guerra diversa e più generale, totale, ma una guerra che sembrerà tutto il contrario di una guerra, e ogni cosa qui dentro nascerà e rinascerà da questa situazione di rovesciamento e di rischio e di sfacelo connettivo e di distruzione totale. Strapperemo fuori tutto quanto pezzo per pezzo, a morsi, le sue figure, le sue strutture, le sue giunture. Lanceremo e tenderemo tutti questi cavi in tensione oltre quella deiezione seminale innestata che sta prendendo forma, volume, dentro quella bolla di carne. Piegheremo tutta questa visione attorno ai suoi strati in esorbitazione...»
Trasalii, portandomi alle labbra la sigaretta che tremava un po’, si sfuocava.
«Ero spaventato, confuso» continuò l’account, «capivo e non capivo. “È in atto una guerra!” aveva detto la voce afona del cliente dietro la sua maschera di porcellana, all’improvviso. Sono uscito dallo sbalorditivo luogo dove era avvenuto l’incontro, che non sono sicuro di potervi rivelare, in questo caso. Pensavo confusamente a questa guerra che non sembra più neanche una guerra e cresce sempre di più, che si prenderà a poco a poco tutto quanto, qui dentro, e nella quale e negli interstizi della quale ci dovremo scavare una caverna, uno spazio, dovremo tirare fuori con le unghie e coi denti questa cazzo di favola... Guidavo nelle strade buie e deserte, al ritorno, non pensavo a niente, come in un altro spazio, in un’altra dimensione. Il rumore del motore intontiva. Ho inserito un cd con musica d’organo. Passando uno dopo l’altro gli incroci, vedevo la fila dei semafori spenti lampeggiare anche a grandi distanze nelle strade deserte di quell’ora di notte. Mi asciugavo ogni tanto quelle lacrime che colano lungo le guance quando si sbadiglia. D’un tratto... non so spiegare... mi è parso che una macchina che non avevo visto nello specchietto retrovisore mi si fosse improvvisamente accostata. Era adesso al mio fianco, con il finestrino dalla mia parte abbassato. Ma non accelerava per superarmi, continuava a viaggiare affiancata a me nelle strade deserte. Quando ho capito che non faceva assolutamente niente per superarmi, ho girato la testa dalla sua parte, per guardare... Il finestrino era sempre abbassato, ma l’interno era tutto buio, non riuscivo a vedere chi c’era dentro, chi guidava.»
Mi agitai sulla sedia.
«Che cos’ha? Che cosa succede? Perché si sta agitando così?» mi gridò quasi l’account.
L’art si era girato a bocca aperta dalla mia parte, mi fissava.
«Non vedevo chi c’era dentro» continuò l’account, «c’era solo uno spazio nero e molle e, al suo interno, solo un luccicare che si accendeva e spegneva, come se qualcuno stesse fumando là dentro, al buio, da solo, mentre guidava appaiato a me e mi guardava, mi guardava... “Chi, che cosa ci sarà mai là dentro?” mi sono chiesto di nuovo, atterrito.»
Mi alzai di scatto, con la scusa di stirarmi le membra.
«L’altra macchina continuava a correre appaiata a me nelle strade deserte» continuò l’account, «attraversavamo uno dopo l’altro i lampeggianti isolati, agli incroci. “Dove sono finito?” mi chiedevo. “E che ora sarà mai questa, che non c’è assolutamente nessuno per strada? E che posto è questo? E che macchina sarà mai quella? Chi ci sarà al volante? Se c’è davvero qualcuno al volante!” Poi... niente... Non è successo niente, assolutamente niente. Però un istante dopo mi è parso che la macchina si fosse avvicinata se possibile ancora di più, fin quasi a sfiorare con la sua portiera la mia, nella corsa, e che mentre continuava a correre così, appaiata, senza nessuno dentro, qualcosa... non so come dire... come un filo, come il capo di un filo, da quella parte, fosse stato introdotto improvvisamente nella mia testa molle che continuava a guidare atterrita, mentre l’altro capo dello stesso filo si trovava all’interno dell’altra macchina, in quello spazio fluido, terribile che c’era dentro quell’altra macchina, in mano a chi forse stava nell’altra macchina, se davvero c’era dentro qualcuno... È stato un attimo, ma mi è parso immediatamente che qualcosa di definitivo e tremendo fosse successo. “Cosa mi hanno messo dentro la testa?” mi chiedevo confusamente mentre continuavo a guidare senza neanche più guardare verso l’altra macchina dal finestrino abbassato, e intanto sentivo crescere dentro di me una senzazione di panico e di orrore assoluti. “Che cosa è successo un istante fa? Che cosa è successo per sempre?” mi tormentavo continuando a guidare con gli occhi sbarrati. Il capo di un filo, un capo, ma proprio nel senso di un capo, di qualcuno che si installa dentro, nel capo, che porta dominio, che assoggetta...»
L’account si interruppe di colpo, per guardarmi. Si era sentito, nel silenzio, il rumore improvviso dei suoi denti che sbattevano incontrollabilmente una fila contro l’altra, per una contrazione nervosa.
«Che cos’è successo?» continuò l’account, fissando il piano trasparente del tavolo, che luccicava. «Che cosa è successo in quel preciso momento? Non lo so, non lo saprò mai... E poi: è successo in quel preciso momento o in quel preciso momento ho solo capito improvvisamente quello che già mi era successo da sempre, per sempre, per qualche fessura che si era aperta chissà per quale ragione nella mia corazza, nello spazio, nel tempo, nella mia testa ancora in formazione, nella mia massa cerebrale ancora in fusione all’interno dell’amalgama di una massa cerebrale infinitamente più grande e a sua volta in fusione, nel formarsi dei suoi codici mentali, correlazioni, sinapsi, ma quando la mente non era ancora una mente, acqua densa, membrana, come dicevamo all’inizio, in mezzo a mille altri corpi in fusione, fuoco denso, materia eruttata, luce che si inventa le strade, come metallo fuso che corre non si sa verso dove, perché. A chi ero avvinto, in quel momento, all’inizio? Da chi mi sono strappato? Non lo so... però in quel momento mi è tornata in mente quella frase buttata lì dal cliente: “È in atto una guerra!”. Continuavo a guidare, coi capelli irrigiditi sopra la testa per lo spavento. Non sapevo neanche più se l’altra macchina stava correndo ancora al mio fianco. “È cominciato adesso! In questo momento!” pensavo confusamente. “E io ho colto solo il suo innestarsi nella mia materia cerebrale che non fa resistenza. Oppure in quel preciso momento ho semplicemente avvertito quello che sta avvenendo da sempre, per sempre, in zone separate, increate, a nostra insaputa... C’è una vita che corre attraverso di noi ma senza di noi... Non è solo quella scatola nera sprofondata dentro di noi che si sono inventati, e che non è niente, non conta niente, ce la siamo inventata solo per stare tranquilli, per rassicurarci fingendo di spaventarci. C’è ben altro! Siamo dentro ben altro!” Non lo so... non lo so... Non so se vi è mai successo di intercettare una persona un istante dopo che ne ha appena salutata un’altra con la quale si era intrattenuta per un momento a parlare, per strada. Proprio in quella frazione d’istante in cui una delle due persone, o tutte e due, si girano e cominciano ad allontanarsi dopo avere salutato amichevolmente quell’altra, ed essersi informata sulla salute sua, dei suoi famigliari, uno per uno, aver espresso gioia per l’inaspettato incontro con ammiccamenti, sorrisi... Ecco, voi venite avanti camminando sullo stesso marciapiede, sprofondati nei vostri pensieri, le incrociate proprio nell’istante in cui una delle due, dopo l’ultima stretta di mano, si stacca, si gira su se stessa per prendere una direzione diversa o salire in macchina. È solo una frazione di secondo, però è sconvolgente perché in questo frammento di tempo, tra quando la persona stava ancora ridendo con l’altra e quando riprende la sua espressione normale, nel momento in cui la maschera del sorriso e della tensione nervosa cade di colpo dal suo volto e non se ne è ancora sostituita un’altra, si stampa per una frazione d’istante sulla sua faccia un ghigno spaventoso di vergogna e di orrore. Il cambiamento è così improvviso che fa paura vederlo! La maschera si polverizza, tutta la messinscena crolla di colpo, crolla anche la tensione nervosa necessaria a sostenere il dolore di tutta questa finzione. Sul suo volto solo orrore e vergogna per la parte sostenuta fino a un istante prima, ma solo in quella infinitamente breve frazione d’istante, passata la quale non si vede più niente, è cancellato tutto, se non la intercettate proprio in quel preciso momento non vedrete più niente... I muscoli si rilassano di colpo, le labbra, fino a un secondo prima tirate forzatamente in un sorriso, cominciano a cadere, a richiudersi, lasciando scoperta per un istante la chiostra dei denti, della protesi, gli occhi restano per un istante sbarrati, si stampa sulla maschera del suo volto un’espressione di vergogna, di ribrezzo, di odio. La stessa espressione che probabilmente si imprime per un istante sul volto di una persona che ne ha appena sbudellata un’altra, con un coltello girato e rigirato come un mulinello nella sua pancia, di nascosto, di notte, o di un uomo che ha appena stuprato una donna sorpresa nella sua casa, per strada, mentre stava facendo altro, pensando ad altro, con gli sfinteri non lavati, magari mestruata, quell’odore forte che si sente salire dal basso, imputridito, di secrezioni, di merda. Avrà anche lui quella stessa faccia per una frazione d’istante, quando si gira improvvisamente per allontanarsi pieno di orrore per se stesso, per l’altra, se la faccia che intercettate è quella di un uomo che ha appena salutato una donna. Vi sembrerà di poter immaginare sui lunghi denti di due signore elegantemente vestite, o sulle loro protesi nuove macchiate un po’ dal rossetto, tracce di carne appena strappata, di sangue, come quando ci chinavamo sulle pance aperte di qualche altro corpo umano appena sventrato sopra il terreno, col grugno sporco di liquami, di merda, e ne tiravamo fuori le budelle ancora fumanti con le nostre protesi di pietra, coi denti. E anche dietro i loro corpi e dietro le maschere dei loro volti irrigiditi per una frazione d’istante in quella espressione è in atto tutta una guerra di microrganismi dalle forme mostruose, dalle teste sfrenate, piene di antenne guerriere, schiere di microrganismi dai mille nomi e altri ai quali nessuno ha ancora dato un nome, invisibili ancora ai nostri più potenti strumenti di ricognizione dell’infinitamente piccolo, schiere sterminate di forze e forme viventi che combattono e si combattono nelle superfici interne, stratificate, fluide che ci sono sotto questi nostri contenitori di pelle, dappertutto, nella luce, nell’aria, dentro le bolle immondiziali dei nostri corpi, nelle masse liquide dei nostri organi interni. Solo in quella frazione d’istante si vede, si capisce come stanno veramente le cose. Che enorme sforzo, che peso spaventoso portiamo da chissà quanto tempo sulle nostre spalle! Cosa succederà quando si romperà questa pellicina, dopo essersi lacerata all’improvviso in un piccolissimo punto, sottile come quel sorriso che crolla di colpo, che si richiude oscenamente su se stesso dopo aver salutato qualcuno incontrato casualmente, per strada?»
«Cazzo, ci sta dando dentro anche lei!» esclamai all’improvviso.
Non mi ero ancora seduto. Continuavo ad ascoltare in piedi, in silenzio, dall’alto.
«Ma lei non era l’account? Io credevo che lei qui dentro fosse solo l’account!» dissi ancora, con la bocca tirata, ridendo.
L’art si era girato dalla mia parte, dal basso, con la sua testa ingellata, per guardarmi.
L’account si alzò in piedi a sua volta.
«Gliel’avevo detto che questa campagna sbalorditiva che ci è stata commissionata tenderà sempre più a un livello mai visto prima il mio ruolo e la mia funzione di account!»
«Sì, sì, cazzo! Ho capito! Ma non mi cominci a fare il Matto anche lei!»
«Perché? Lo vorrebbe fare lei?» buttò lì, a muso duro.
Risi, senza staccarmi la sigaretta di bocca.
«Oh, no, non c’è pericolo! Io sono il Gatto! Dopo tutto quello che ho fatto per scalzarlo! Però quello là almeno se ne stava zitto, pensava solo a scopare...»
Eravamo tutti e due in piedi, uno di fronte all’altro, faccia a faccia, come suol dirsi.
«Non si preoccupi» si distese improvvisamente l’account, «io sono solo un pubblicitario!»
«Bene!» dissi buttando fuori il fumo, parlando. «Così va bene! Allora, riprendiamo! Dove eravamo rimasti?»
«Alla guerra!» intervenne l’art, sollevato.
«Sì, alla guerra! Ma una guerra mai vista prima e che magari sembrerà da questo punto in poi tutto il contrario di una guerra, dentro la quale si divincolano le linee di irradiazione di questo storyboard cui stiamo cercando di dare vita, come ci si inventa una strada che non c’è solo per poi poterla percorrere. Ma adesso bisogna trasformare tutto questo orrore in annuncio, farci crescere dentro questa cazzo di fiaba.»
Mi ributtai a sedere. Anche l’account si lasciò cadere di colpo sulla sua poltroncina. Ci guardavamo l’un l’altro con gli occhi leggermente sbarrati, senza respirare.
«Tocca a me, a questo punto!» si animò l’art. «Avrei pensato una cosa...»
Scoppiai a ridere, piano.
«Bene! Era ora!»
La testa dell’account sorrideva e tremava.
«Forza!» disse a sua volta. «Si dia da fare! È lei l’art di questa campagna!»
L’art arrossì all’improvviso.
«Avrei pensato una cosa...» farfugliò un’altra volta.
Si passò macchinalmente una mano sulla testa ingellata, per l’emozione. Un secondo dopo tirò fuori di tasca un fazzoletto di carta, per asciugarsi la mano.
«Si sente bene?» rise l’account.
«Sì, sì, sono in forma!»
«Forza, allora, si parte!»
Terzo messaggio
Facciamo irruzione un’ultima volta qui dentro, senza preavviso, senza chiedere il permesso a nessuno, senza raschiarci la gola un momento prima, senza bussare. Vi ricordate ancora di noi? Siamo quel gruppo terroristico di tipo nuovo che avete incontrato all’inizio e che ha dato il via a tutto quanto. E che ancora sta dietro ogni fibra di questo organismo che si sta formando, anche se nessuno pensava a noi, si ricordava di noi, stavano tutti pensando ad altro, avevano in mente tutt’altro, stavano seguendo altre strade che sono state buttate lì per menarli un po’ per il naso, per sarcasmo, per caso, mentre noi siamo qui, in qualche punto dentro noi stessi eppure ignoti persino a noi stessi, collocati non si sa dove, in espansione totale verso non si sa dove, lungo le linee di proiezione nucleari, satellitari, nella ragnatela delle rifrazioni lanciate alla cieca attraverso lo spazio, dei cavi gommati che passano dentro la terra tra le radici in crescita ottusa e vivente nella materia tritata, raffreddata, tra quel brulicare di vita impensata che si espande nel silenzio, nel buio, creature che si spostano molli e senza occhi nella massa organica acuminata, nelle sue zone più gelate e più inerti e poi ancora più in fondo, fino ai primi bagliori termici di quella colla primordiale che continua a bruciare e a schiumare al centro di questa merda che gira e di questa cosa che si sta costruendo da qualche parte per gemmazioni, per eruzioni. Abbiamo attraversato le zone genitali in deflagrazione, abbiamo lanciato la meteora di questa unità fecondata verso uno scardinamento ancora più decisivo e più urgente. Stiamo portando questo organismo viscerale e mentale e le sue strutture verso zone di non ritorno. Porteremo la guerra o qualsiasi cosa si vorrà presentare qui dentro sotto l’involucro di questo nome sgonfiato e oltrepassato fin dentro le sue fibre più segrete, scolleremo le sue cartilagini e i suoi tessuti in anticipazione totale, in annuncio. Dentro i suoi organi ancora in formazione, nel suo pensiero sognato ancora mai registrato, nella sua massa di materia figurale in attrito, in esordio, nelle zone parcellizzate dei corpi in conflitto totale, mentre tutte le altre continueranno come se niente fosse le loro solite meccaniche di relazione. Dentro le sue macchine vertebrate, nelle sue strutture inarcate. Ecco, adesso per esempio c’è quella pancia che si prepara a scoppiare. Noi siamo all’interno di quella pancia eppure siamo anche radicalmente all’interno del cervello seminale di quello stupratore di pance che si sta spostando per le strade in cerca di fiche gonfiate. Noi siamo nel loro punto di congiunzione, di deflagrazione. Noi siamo il baricentro di questa esplosione. Stiamo acquattati nello stesso tempo in quella poltiglia di materia appena inventata e nei corpi cavernosi di quel cazzo che si prepara a sgonfiarla. Il conto alla rovescia è partito. La guerra è iniziata. Faremo il tifo contemporaneamente per l’una e per l’altro. Qualsiasi cosa succederà noi saremo più avanti, sempre un po’ più avanti. E se anche quell’uomo riuscirà alla fine a intercettare l’Interfaccia – cosa che ardentemente speriamo – potremo sempre far crescere artificialmente i follicoli degli embrioni di quel minuscolo progetto di femmina abortita fino a fargli produrre un ovulo che potremo poi fecondare con spermatozoi dello stesso donatore e conservati nella stessa banca del seme da dove tutto questo è partito, per dare vita a un embrione figlio di una fica mai nata e di un cazzo che ha generato la propria madre mai nata e forse se stesso. Senza dare nessuna spiegazione di cosa succederà veramente qui dentro, o facendovi vedere una cosa mentre ne succederà un’altra. La nostra pienezza è tale che ormai possiamo occupare tutti gli spazi sparendo. La nostra scomparsa sigilla per sempre il nostro avvento. Questo terzo e ultimo nostro messaggio non ha altro scopo che farvi sentire la nostra voce che si allontana per sempre. Non ci sentirete più, d’ora in avanti non esistiamo più!
«Bene!» dissi accavallando una zampa. «Sono spuntati di nuovo, per l’ultima volta, anche quelli là. Stiamo andando a capofitto attraverso lo spazio. Siamo in verticale, non sappiamo neanche più se stiamo sprofondando o ascendendo.»
Mi girai di colpo verso l’art.
«E lei cosa stava dicendo un momento fa?» gli chiesi. «Ha detto che aveva pensato una cosa, prima di venire interrotto...»
Scena muta.
Un istante dopo ci alzammo tutti e tre, all’improvviso: io, l’account e l’art.
Uscimmo dalla stanza, ci incamminammo attraverso gli uffici a vista, e poi su per le scale, trasparenti, verso una delle vaste sale ovattate.
L’account fece un passo più avanti, spalancò una porta.
«Avevamo bisogno di uno spazio più grande, crescente!» disse lasciandosi cadere su una poltroncina. «D’ora in poi siederemo qui in permanenza, fino alla fine di questa campagna!»
Il tavolo luccicava. L’art aveva gli occhi sbarrati, non fiatava.
«Forza!» dissi ancora ridendo. «Cominciamo questo cazzo di brief! Fuori il menu!»
Menu
Tocca di nuovo a me, a questo punto. Dove ci eravamo lasciati? Che stavo lavorando al mio videogame e nello stesso tempo aspettavo che il mio seme crioconservato esplodesse dentro qualche bolla di carne. Ora so che questo è successo. Si sposta attraverso questa città una persona vivente che sta elaborando dentro il suo ventre il mio tessuto cromosomico. Il mio codice genetico si sta connettendo esplosivamente col suo. È comparso all’improvviso anche quello stupratore di donne gravide. Dovrò inserire anche lui nelle articolazioni di guerra del mio videogame. Dovrò fare in modo che non possa intercettarla sulla sua strada, nonostante io debba dare a chi giocherà a questo videogame tutte le opzioni perché ciò possa avvenire. Lavorando negli interstizi dei piani inclinati, sulle soggettive falsate, prima che i giocatori prendano in mano i pulsanti di fuoco del joystick, operando nel turbine luminoso dei pixel, inserendo virus di sicurezza, nemici di fine livello dappertutto. Adesso capisco perché sono stato tenuto fin dall’inizio in questo stato, perché mi hanno fatto giocare nello stesso tempo su questi due piani differenti: la donazione del seme e la messa a punto di questo videogame. Io devo portare nello stesso tempo distruzione e salvezza, qui dentro! Non so fino a quando riuscirò a sostenere dentro di me questa spaventosa tensione. Sto lavorando in silenzio nella mia stanza, di fronte ai miei video. In questa poltiglia di radiazioni si stanno creando le connessioni tra il vecchio videogame al quale ho lavorato finora, con quello scontro tra le due squadre dei trampolieri e dei roller, coi loro cascomaschera dai colori diversi, nel quale erano poi confluiti tutti i movimenti iniziali di guerra che si erano determinati qui dentro, e quello nuovo che è stato annunciato e sta prendendo vita. Vedrò spostarsi sui miei terminali la mia stessa materia prima in primordiale esplosione, la guarderò dentro la sua placenta magnetizzata, l’accarezzerò con la tavoletta digitizer, mentre crescerà ciecamente su se stessa, al centro di questa campagna e di questo organismo in tensione. E poi quello stupratore di donne gravide... Che aspetto dargli? Niente di efferato e scostante, direi, niente occhi sbarrati, bocca a taglio, barba di una settimana, niente andatura barcollante, forme tarchiate, calvizie. Lo farò, al contrario, come un giovane uomo, poco più che un ragazzo, dai modi delicati, gentili, disegnerò una per una le lacrime luccicanti che gli scenderanno lungo le guance mentre consumerà ineluttabilmente il suo gesto. Tanto più difficile da individuare, quindi, nella ressa crescente delle nuove figure che si stanno formando, mentre sorriderà a una donna all’ottavo mese, lasciandole il posto a sedere su una vettura della metropolitana, oppure ne aiuterà un’altra a riportare al suo posto il carrello a ruote in un supermercato, recuperando quella moneta e porgendola gentilmente a lei, con un sorriso. Oppure ne aiuterà un’altra a portare un pacchetto un po’ più ingombrante degli altri, all’uscita di uno di quei negozi prémaman, fino al portone della sua casa e anche oltre, come un fratello trovato così all’improvviso, per dono, lungo la strada, in una giornata dolce, tranquilla. E poi dovrò cercare quell’uomo che pesta le merde, che avevamo visto solo un paio di volte, di sfuggita, su un treno diretto ad Anversa, nel metrò di Los Angeles, e che era forse passato inosservato, qui dentro. Spetterà a lui mettere in guardia la donna gravida del mio seme, salvarla. Lo farò senza quelle stupide ali da bipede da cortile con le zampe palmate che mettono di solito ai messaggeri celesti, agli angeli, basterà quella sovrapposizione di strati secchi diversamente colorati che crescono sotto le sue scarpe da ginnastica, e che innalzeranno nell’aria la sua figura, gli faranno compiere passi più lunghi, arrivare prima degli altri quando ci sarà da salvare. E poi anche quegli uomini dalle labbra dipinte, saranno i messaggeri che verranno sguinzagliati a un certo punto qui dentro, dopo che la donna che urla avrà dato per prima l’annuncio. E altre figure che inventerò lì per lì, in questo videogame che sta diventando qualcosa d’altro, sta tendendo verso qualcosa d’altro, come quando un campo visivo si sfonda di colpo, si squarcia, e appaiono improvvisamente zone vaste, impensate, a perdita d’occhio, portando tutto quanto a una tensione mai vista prima, fino a smarrire completamente la propria funzione, andando avanti non si sa verso dove, in quale dimensione e in che forma, verso qualcosa che non si riesce neanche a immaginare, a sognare. Sto continuando a lavorare in silenzio, nella mia stanza, alle prese con lo sfondamento che sta vivendo questo videogame di cui la guerra tra i trampolieri e tra i roller che avevo immaginato all’inizio era solo l’annuncio. Quella minuscola zona va avanti per conto suo, ha trovato ormai la sua forma. Ho definito tutto il sistema di punteggi ancora in forse, ho dato un volto ai capi dei due schieramenti dei trampolieri e dei roller, per quando, al culmine della guerra giocata ormai in mezzo a quest’altra guerra che non sembra neanche più una guerra, si spalancheranno i loro cascomaschera viola-azzurri e neri-gialli all’inizio del combattimento finale, quando saranno l’uno di fronte all’altro. Ho pensato di dare all’uno il volto di Pericle e all’altro quello di Grazia. Pericle capo dei trampolieri e Grazia dei roller...
In questo momento tutto tace nella mia casa, ma sono sicuro che sono entrambi nei loro letti, girati sul fianco, con gli occhi chiusi, perché certe volte si massacrano persino durante il sonno, quando uno dei due si sveglia di soprassalto e si dirige a piedi nudi verso la stanza dell’altro, camminando a tentoni nel corridoio buio, sbattendo contro gli spigoli dei mobili, le porte, si inginocchia in silenzio a fianco del letto dell’altro, comincia a colpirlo mentre è ancora sprofondato nel sonno. Si svegliano a turno feriti, la mattina dopo, credono di avere sognato. Girano per la casa insanguinati, la bocca spaccata, le schegge delle loro ossa spezzate fuoriescono dalla carne, mentre posano sulla stufa a gas la macchinetta del caffè, le rimettono tranquillamente nelle loro sedi. Certe volte non se ne rendono neanche conto, quando si tratta di lesioni interne, respirano a fatica per giorni se una costola spezzata è andata a lacerare la pleura, camminano piegati in due per la casa se il fegato è rimasto traumatizzato dalle percosse ricevute ripetutamente con una bottiglia, in piena notte, nel sonno. Se ne accorgono molti giorni dopo dalle radiografie. «Ma qui è successo un disastro!» esclama il medico alzando contro la luce le lastre. «Possibile che non vi siate accorti di niente!» Ascoltano con gli occhi sbarrati, mentre dalle finestre aperte dell’ambulatorio continuano ad arrivare i suoni ovattati delle macchine che scivolano sulle superfici dell’asfalto bagnato, se è una giornata di pioggia, delle persone che camminano in coppia tenendosi sottobraccio in quelle giornate luminose e tranquille di inizio estate, mentre dentro l’involucro dei loro corpi ancora profumati dal bagnoschiuma qualcuno dei loro organi interni perde siero, collassa, se è stato lacerato in un modo o nell’altro in questa guerra generale e totale che non sembra più neanche una guerra, non solo quelli che si massacrano a notte fonda nelle strade della città silenziosa, deserta, spostandosi a folate sui loro roller, coi loro organi sessuali rostrati, quelle gole tatuate e insanguinate, tutti quei corpi profumati e incendiati, presi a bottigliate nel retto, stuprati, negli appartamenti lordati, sui set, ma anche quelli devastati per conflitti e per guerre scatenate tra organi interni all’insaputa l’uno dell’altro, tra persone diverse, masse di carne e grovigli di vene in sofferenza totale, senza neanche saperlo, nei corpi, ghiandole che vanno allo sbaraglio dentro tessuti innervati... Io guardo certe volte le persone che vanno in giro per strada, dalla mia finestra, o mentre sono chiuse nello scafandro delle loro auto lanciate, mi sembra di vedere distintamente, all’interno dei calchi dei loro corpi in instabile equilibrio dentro lo spazio, il pulsare delle loro vene dentro la carne, negli involucri intestinali, nelle poltiglie cerebrali compresse dentro le scatole craniche in spostamento cieco attraverso lo spazio, sotto la messinscena dei capelli incollati, la carne dell’esofago dentro la carne soffice delle gole baciate, morsicate, nei genitali in attrito dentro le cavità appena evacuate, nelle ventose delle bocche strappate, verniciate. Sento che mi salgono le lacrime agli occhi. Come sono cambiato, come sto cambiando anch’io, da un po’ di tempo, qui dentro!
«Le sue donazioni sono finite!» mi ha detto sorridendo la dottoressa della banca del seme, questa mattina, quando sono passato per l’ultima volta a salutare. Mi ha sorriso, scoprendo i suoi denti un po’ guasti. Si è avvicinata ancora di più a me, col suo corpo magro da bambina che balla dentro il camice bianco, le scarpe da ginnastica ai piedi, le ossa delle spalle evidenti sotto la stoffa. Anch’io mi sono avvicinato di più a lei. Mi guardava con gli occhi dolci, sotto i piccoli occhiali rotondi, di metallo. Ci siamo avvicinati l’uno all’altra così tanto che abbiamo finito con l’abbracciarci irresistibilmente, per la prima e l’ultima volta e, mentre stringevo forte a me con entrambe le braccia quel suo corpicino da bambina affamata, mi è passato per la mente, ho sentito, da come mi stringeva dietro la schiena con le ossa delle sue mani, da come aveva appoggiato la testolina ossuta da piccolo uccello alla mia spalla e al mio collo, che forse qualcosa di me era stato accolto anche nella scatolina del suo ventre piatto, tra le ossa delle sue anche che sentivo premere contro il mio corpo. Le ho fatto una carezza sul volto. Sono andato via di colpo perché non si vedesse che stavo piangendo. Ho camminato per un po’ attraverso la città, con la mia valigetta ventiquattrore, tra tutte quelle cose che ti passano contro le guance, pulviscoli, minuscole ali. Mi sono incamminato verso la casa della Musa, per rivedere anche lei un’ultima volta, forse, chi può dire, qui dentro. Sono salito con emozione lungo le scale, ho sfiorato il campanello della sua porta. Un istante dopo è venuta ad aprirmi, nuda, tranquilla.
Il cataclisma
Si è immobilizzata di fronte alla porta, nel vedermi, perché era già un po’ di tempo che non passavo da lei. «Che emozione vederti di nuovo di persona, qui dentro!» ha esclamato. Senza dire una sola parola è venuta avanti verso di me, la testa non so perché girata di fianco, mi ha abbracciato con gli occhi chiusi, con tutta la carne delle sue mani e delle sue braccia e del suo corpo profumato e sessuato, abbattendosi contro di me come se si fosse addormentata di colpo su un’altra carne sognata. Solo allora mi sono accorto che aveva i corti capelli ancora insaponati. «Scusa» le ho mormorato con la bocca contro la tempia, «sono venuto nel momento sbagliato, ti stavi lavando i capelli.» Non mi ha neanche risposto, come se il tenermi abbracciato così, con gli occhi chiusi, fosse già la risposta. Mi ha portato dentro la casa, continuando a tenermi con un braccio attorno alla vita, la testa insaponata abbandonata sopra il mio petto, senza che nessuno dei due si curasse della camicia che si bagnava e diventava sempre più trasparente sulla mia carne, dei risvolti della giacca allagati. «Le mie donazioni sono finite!» le ho detto. «Sono venuto a ringraziarti per tutto quello che hai fatto per me.» «Io per te?» mi ha risposto passandomi tutte e due le mani sotto il velo della camicia, da dietro, per accarezzarmi la schiena, le reni. «Mi hai preparato all’atto donativo, ogni volta. Sono venuto qui da te e tu ogni volta mi hai spogliato e lavato, mi hai accarezzato e mi hai profumato, mi hai rivestito e mi hai salutato con dolcezza davanti alla porta. Adesso l’inseminazione è avvenuta, stiamo tutti aspettando che quella bolla di carne si apra improvvisamente, qui dentro. Hai iniziato anche quella, fin dall’inizio, tu e lei davanti al video di quel televisore, l’una contro l’altra, sessuate. Hai preparato anche lei, tutto quello che di generativo è stato scagliato qui dentro porta dentro di sé il tuo segno.» Si è girata tutta verso di me, si è abbandonata ancora di più contro il mio petto bagnato. Sentivo salire fino alle mie narici il profumo della sua testa insaponata, vedevo, tra le corte ciocche dei suoi capelli puntati, il guanto della pelle rosata sulle ossa del cranio gommato. «Vieni qui! vieni qui!» mi ha detto spostandosi barcollando abbracciata attraverso la casa. «Ho preparato ogni volta il tuo pezzo di carne, inginocchiata di fronte a te seduto sulla tazza del cesso, ti ho preso in mano il sacco peloso delle palle, te l’ho baciato. Adesso le tue donazioni sono finite. L’ampolla è colma. Puoi fare irruzione dentro di me, finalmente! Puoi fare di me la tua ampolla.» Mi ha fatto spostare attraverso la stanza, tenendosi abbracciata e quasi incollata alla mia vita, al mio petto, senza aprire gli occhi. Siamo entrati così nel bagno, girando su noi stessi, abbracciati, come in un passo di danza. Ha cominciato a spogliarmi, come le altre volte, piano piano, con le sue mani viventi. «Ecco» diceva sfilandomi uno dopo l’altro i vestiti, con le ciglia abbassate, gli occhi chiusi, «ti spoglio ancora per l’ultima volta. Ti tolgo la cravatta, ti slaccio i polsini, ti sfilo la giacca, la camicia, i calzini, ti faccio sedere sul coperchio del water, ti sfilo le mutande, prendo in mano per l’ultima volta il tuo pezzo di carne già eretto, come le altre volte, riesco appena a farlo stare tutto dentro la mia piccola mano piena di anelli, mi abbasso sulla sua grande punta, lo bacio sulla sua apertura uretrale tagliata, consacrata, come quando ti preparavo per una delle tue donazioni. Ecco, adesso ti faccio venire verso di me tenendoti con tutte e due le mani per la vita vivente, mi inginocchio di schiena davanti a te, come una bestia che acconsente alla monta, mi spalmo tranquillamente davanti ai tuoi occhi un po’ di pomata sul buco del culo, ma appena appena, perché possiamo sentire tutti e due l’attrito del tuo pezzo di carne spropositato dentro il mio retto. Che cosa credi? Io lo so quello che ti piace! Ti conosco più di quanto tu conosca ancora te stesso. Chiudi gli occhi sul fatto che sono una femmina, prendimi pure dalla parte in cui maschi e femmine sono assolutamente identici. Ecco, adesso mi abbasso con la testa, metto avanti le braccia, le mani, mentre le mie tette dondolano per conto proprio sotto il mio corpo. Mi metto a quattro zampe sul pavimento, carponi, arcuo la spina dorsale abbassando le reni e sollevando alto di fronte a te il mio culo spaccato, profumato. Sposto le ginocchia nude sul pavimento, per allargare un po’ di più le gambe, perché il taglio del culo si apra ancora di più di fronte ai tuoi occhi, e tu possa vedere prima di penetrarlo col tuo pezzo di carne il foro dell’ano appena lavato. Sento che anche tu ti stai inginocchiando dietro di me, come un animale che si prepara in silenzio alla monta. Allargo ancora di più il foro dell’ano, con due dita di una mia sola mano, mentre con l’altra continuo a tenere puntellato il mio corpo sul pavimento. Sento che hai già puntato la tua grande testa espansa contro il mio anello, stai già entrando dentro il cunicolo del mio retto, stai già dilatando i suoi spazi, e intanto starai vedendo il tuo pezzo di carne sparire poco per volta dentro il minuscolo anello elastico del buco del culo. Non capirai come fa un pezzo di carne così a penetrare tutto intero in quel minuscolo foro. Sento che lo hai infilato completamente, che cominci ad andare già avanti e indietro, senza spingerlo dentro del tutto per non straziarmi. Ti fermi un istante prima di essere arrivato in fondo, lo tiri indietro, lo spingi di nuovo in avanti muovendo sempre più forte le anche contro le gocce delle mie natiche. Abbasso ancora di più la groppa di fronte ai tuoi occhi, mentre mi passi le mani sulla spina dorsale, sulle reni, sui fianchi, per abbassarmi la schiena ancora di più mentre contemporaneamente sollevo in alto la carne del culo contro il tuo pezzo di carne lanciato. Ecco... sì, ancora, così, spingi in avanti ancora di più il tuo grande cazzo dentro il mio retto, senza paura, nel mio viscere tutto allagato, celebrato. Non avere paura di lacerarmi, spaccarmi. È ritornata finalmente la Musa, qui dentro!»
Tutta la stanza tremava, scintillava. Sentivo le ossa delle mie anche battere sempre più forte contro la carne della Musa che gemeva in silenzio, mi incitava. La spostavo in avanti a ogni colpo, si gettava indietro subito dopo, inarcandosi ancora di più per venire penetrata ancora più a fondo. «Ecco, sì, sì...» sentivo che stava gemendo. «Sento che stai crescendo ancora di più, sempre di più, ti sento tutto mineralizzato dentro il mio corpo, mi stai prendendo in mano le tette, da dietro, da sotto, stringendomele per caricarmi con ancora più forza.» Le piastrelle della stanza erano tutte sfuocate, cancellate. Un istante dopo ho sentito partire distintamente, uno per uno, gli schizzi roventi del mio seme dentro il suo retto che si dilatava ancora di più a ogni passaggio. Sono rimasto per un po’ di tempo così, quasi privo di sensi, mentre il membro mi si decongestionava poco per volta nel suo intestino. Mi sono disteso sopra di lei, abbandonato, ingroppato, sulla sua schiena ancora un po’ arcuata, mentre tutti e due continuavamo a stare a quattro zampe sul pavimento. Ho posato la guancia sulla sua spina, per un po’. Sentivo, con l’orecchio sulla sua schiena, che anche il suo cuore cominciava a poco a poco a pulsare più lentamente. Mi ha cercato una mano, da sotto, dopo un po’, gliel’ho stretta. «Non temere» mi ha detto, «ti tengo ancora un po’ dentro di me, non c’è fretta, mentre lo sento rilassarsi poco per volta nella mia carne dopo avere sparato per la prima volta fuori dalla sua ampolla. Adesso sono io la tua ampolla!» Siamo rimasti ancora così, sentivo i nodi profumati della sua spina contro le mie labbra. Quando ho capito che potevo staccarmi, mi sono tirato indietro piano piano, con le anche, ho tirato fuori il membro. Ho visto sbocciare un istante dopo dal foro anale che fulmineamente si richiudeva un fiocco bianco di seme. Ci siamo alzati in piedi. Le nostre gambe tremavano un po’, siamo entrati tutti e due nella vasca da bagno per lavarci, in piedi, uno di fronte all’altra. Ha aperto la doccetta, ha regolato la temperatura dell’acqua, si è fatta sgorgare sulle mani un po’ di sapone liquido, se l’è passato due o tre volte tra le gambe, da dietro, si è risciacquata dirigendo il getto dell’acqua sullo sfintere tenuto aperto con due dita dell’altra mano, mentre io tenevo la sua faccia tra le palme delle mie mani e sentivo palpitare le ossa degli zigomi e delle mascelle sotto la carne tenera delle sue guance. Mi ha preso in mano il membro ancora trasfigurato da una patina nera di feci. «Lascia che te lo lavi io» mi ha detto muovendo i piedi verso di me nel velo d’acqua che cresceva sul fondo della vasca, «che ti tiri via io questo fango.» Ha cominciato a lavarlo con la doccetta, staccando con le mani la patina già seccata, passando le dita piene di anelli sul prepuzio, sul solco che c’è sotto il glande e poi alla radice del membro, tra i peli, sullo scroto, mentre l’acqua un po’ intorbidata portava via le ultime tracce di fango sul fondo della vasca, e poi nello scarico che risucchiava e cantava. Siamo usciti tutti e due dalla vasca, dopo esserci seduti per qualche istante sul suo bordo ed esserci lavati uno dopo l’altro i piedi con la doccetta, e aver lavato le superfici interne di smalto e la rosa fremente dello scarico. Ci siamo asciugati tutti e due con un unico grande asciugamano di spugna nuziale, a vicenda, e poi abbracciati ancora a lungo, con forza, rimanendo al suo interno, per l’ultima volta, prima che la Musa ricominciasse piano piano a vestirmi, le mutande, le calze, mentre stavo seduto sul coperchio del water, baciandomi intanto le ossa delle ginocchia con la bocca vivente, e poi la camicia, la cravatta, il nodo della cravatta, i calzoni, la giacca. E poi in piedi, ancora, per l’ultima volta, uno di fronte all’altra, io e la mia dolce amica, la mia vestitrice, la mia Musa. Mi ha infilato le scarpe, in ginocchio. Vedevo dall’alto le gocce delle sue mammelle dondolare davanti al suo corpo mentre me le faceva calzare. Si è rialzata in piedi, ha preso una spazzola dalla specchiera che c’è sopra il lavabo, ha cominciato a pettinarmi i capelli, sopra le tempie, sulla nuca, facendoci passare dentro le sue dita snodate. Mi ha allacciato i bottoni della giacca, me ne ha slacciato di nuovo uno solo, alla fine, quello in alto. La guardavo, guardavo ancora le sue mani, il suo volto, le sue orecchie con quella raggiera di piccoli orecchini tintinnanti, mentre compiva per l’ultima volta sopra di me i gesti delicati e violenti della vestizione. «Ecco» mi ha detto alla fine, «quello che sta avvenendo in questo momento tra noi è nello stesso tempo un commiato e un esordio. Ti ho preparato da sola, prima di ogni altro, nella mia casa, con dedizione, in silenzio, prima di ogni donazione e della donazione che ha dato vita a questa scommessa epocale. Ti ho connesso con l’Interfaccia. Tu sei chiamato d’ora in poi a un ruolo ancora più decisivo, adesso che il tuo seme ha dato vita a qualcosa che ha riaperto il tempo, qui dentro. Tu, il più appartato, il più riservato.» Mi parlava venendomi vicino con gli occhi, con le labbra, e intanto mi abbassava il colletto della camicia sul nodo della cravatta, mi posava le dita sulla linea delle labbra, degli occhi, per l’ultima volta. «Sta cambiando tutto, qui dentro!» non ho potuto impedirmi di dirle con emozione, di colpo. «Cosa sta succedendo? Io credevo di essere da una parte e invece sono finito dall’altra!» «Un cataclisma!» ha risposto. «Una cosa mai vista!» «E tu?» le ho chiesto ancora con enorme emozione. «Cosa ti sta succedendo? Chi sei adesso? Cosa stai diventando?» «Adesso io sono col Gatto e la Meringa col Matto!» ha risposto. «Lo sai anche tu come lavoro io: sono una puttana!»
Eravamo già usciti dal bagno, camminavamo fianco a fianco verso la porta, tenendoci un’ultima volta per mano. Sentivo le ossa delle sue dita intrecciate con forza alle mie, nel loro velo di carne. Mi ha abbracciato per l’ultima volta davanti alla porta, nuda, come fanno le giovani spose appena aperte. Ho sentito il muscolo della sua lingua all’interno della mia bocca, mentre mi baciava a lungo, in silenzio. Mi sono incamminato lungo le scale, senza guardare i gradini, in tumulto. Qualche istante dopo ho sentito il rumore dei passi di qualcuno che stava salendo lungo la stessa stretta rampa. Ho alzato gli occhi. Ci siamo incrociati, io e l’uomo che saliva un gradino dopo l’altro, zoppicando, col suo scarponcino. Mi sono addossato al muro per lasciarlo passare, i nostri occhi si sono incrociati per un istante. Non sapevo se fare finta di niente o se salutarlo. Siamo rimasti a bocca chiusa, facendo finta di niente, tutti e due, ci siamo oltrepassati come se fossimo due parti assolutamente distinte di uno stesso sogno. Ho continuato a scendere lungo le scale, sono passato sopra quel lucernario di vetro borchiato da cui saliva una musica dolce, rilassata, come se fosse tutto vuoto e deserto, là sotto, solo una donna delle pulizie che passava l’aspirapolvere tra una ripresa e l’altra mentre erano tutti fuori a mangiare qualcosa in qualche snack bar della zona, aspirando residui organici secchi, altre cose impensate che volavano pneumaticamente dentro la vescica piena d’aria dell’aspirapolvere, la stava forse già vuotando nel bidone delle immondizie ascoltando musichetta dolce da una radiolina a transistor, e intanto staccava con le mani il contenuto del sacco, vedeva venire giù assieme ai blocchi di polvere coagulata cespi di peli infeltriti, tampax usati, biancheria sporca, strappata, grumi di seme quasi calcificati in mezzo alla polvere, mischiati a tubetti di vaselina spremuti, mezzi limoni spremuti, avanzi di sandwich che, a giudicare dall’odore, sembravano ripieni di merda... «Dove sono finito?» mi chiedevo imboccando l’altra rampa di scale. «È questo il mio mondo? Come farò a incarnare d’ora in poi la mia nuova parte, e senza più l’aiuto potente della mia Musa, tra l’altro? Quale sarà la mia nuova parte, qui dentro, d’ora in poi?» Ho fatto ancora qualche passo lungo le scale. La ringhiera vibrava un po’, segno che chi stava invece ascendendo ci si aggrappava con la mano per aiutarsi a salire zoppicando. Qualche istante dopo, mentre ero già arrivato in fondo e stavo svoltando allo spigolo dell’ingresso per imboccare l’uscita, ho sentito che, là in alto, l’uomo con lo scarponcino era arrivato a destinazione, e che la Musa lo stava già accogliendo, nuda di fronte alla porta, gli aveva già gettato le braccia al collo, lo stava già baciando sulla sua bocca sottile e fredda, da gatto, sugli occhi, sul collo, prima di portarlo tenendolo abbracciato dentro la sua casa ispirata, profumata...
«Cazzo!» esclamai. «Ma qui non puoi neanche andare a scopare per la prima volta la tua Musa che te lo sbattono subito in piazza!»
«E io allora cosa dovrei dire!» si animò l’art.
Ci eravamo messi tutti in maniche di camicia, ci passavamo l’un l’altro le tracce dei nuovi storyboard.
«Il nostro donatore si è accomiatato alla grande dalla sua Musa, con un inchino, come suol dirsi...» sghignazzò l’account. «D’ora in poi si dedicherà solo al nostro videogame. I suoi spermatozoi hanno già messo in moto questa temeraria campagna e questa ruota. La pancia dell’Interfaccia cresce sempre di più, da qualche parte, qui dentro. È venuto il momento di mettersi in contatto con lei, di sentire direttamente la sua voce, senza intermezzi narrativi del cazzo, siparietti... in modo diretto. Il tempo stringe, il disegno si sta compiendo. Diamoci dentro immediatamente coi canti, stavolta. Non c’è più bisogno di aumentare poco per volta il numero dei giri. Stiamo già girando al massimo. Non c’è più bisogno di scaldare i muscoli, di fare una bella sega al lettore per prepararlo. Il lettore è già caldo, non c’è bisogno di scaldare più nulla. Siamo già roventi! Lo saremo sempre di più, andando avanti. Ecco, in questo momento l’Interfaccia è uscita di casa, sta muovendo alcuni passi sul pianerottolo, è entrata nell’ascensore per combinazione già fermo al suo piano. Sta scendendo lentamente, si sta guardando la pancia nello specchio, premendo la veste con una mano di sopra e una di sotto per evidenziarne meglio il volume. È uscita dall’ascensore, ha imboccato il corridoio d’ingresso, sta muovendo già i primi passi lungo la strada. Speriamo solo che quello stupratore di donne gravide non stia passando proprio in questo stesso momento da quelle parti, con le mani in tasca, per caso, che non l’abbia già intercettata, che non la stia già fissando fermo di fronte alla stessa vetrina dove si è fermata lei, sorridendo, da dietro, alle sue spalle. L’Interfaccia ha ripreso a camminare sul marciapiede, barcollando un po’ per il peso. Si sta dirigendo verso un grande magazzino poco distante, ha già varcato le sue porte di vetro, il suo ventre si sta già spostando moltiplicato attraverso le sue pareti a specchio, e intanto nella sua testa che contiene già un’altra testa sta pensando, fantasticando...»
Canto dell’Interfaccia
Io sono in espansione, in lievitazione, qui dentro. Il mio ruolo è esploso di colpo, da quando ho premuto per la prima volta la mia fica scuoiata contro quella della Musa dentro la bolla iridescente di quel video, di notte. Crescono con le pareti della mia pancia anche le pareti di questa cosa in gravidanza totale. Io ho posto al suo centro questa scommessa e questo azzardo. Il mio corpo si deforma, si espande. Il mio ventre continua a gonfiarsi, l’ombelico è uscito a poco a poco dalla sua sede, sembra sempre sul punto di schizzare via dalla carne. La mia fica rientra sempre di più in mezzo alle gambe, devo andarla a cercare con la mano quando mi siedo pesantemente sul bidè per lavarla. Le tette si gonfiano sempre più, si vede il reticolo azzurro delle vene sbalzare dietro la pelle che le contiene, il capezzolo diventa sempre più scuro, gigante. Il mio ovulo fecondato da quell’eiaculato ha assunto forma di corpo vivente, sento che comincia a comprimere i miei organi interni, mentre si precisano sempre più i suoi rivestimenti di carne, le ossa, le cartilagini, il tessuto nervoso, il piccolo muscolo cardiaco appena inventato, le sue microscopiche dita dei piedi, delle mani, i bulbi delle orecchie, i grumi ancora ciechi degli occhi sotto le palpebre chiuse, rugose, la gelatina del cervello su cui si sta già cominciando a formare il disegno dei suoi circuiti appena stampati, che coincideranno sempre più con quelli di quest’opera in formazione totale e del suo primo lettore. Si nutre di me, con gli occhi chiusi, ruotando, i suoi sogni non ancora sognati sono gli stessi che stiamo sognando tutti quanti, qui dentro, mentre lo trasporto al mio interno attraverso le pareti a specchio di questo grande magazzino, in cerca di un reggipetto di due misure più grandi, di un paio di mutande della dimensione giusta. Le tiro fuori dalla loro confezione, le allargo di fronte ai miei occhi, smisurate, controllo che l’elastico sia abbastanza esteso da comprendere tutta la circonferenza del mio ventre senza stringerlo troppo. Osservo il solco che lascia sulla mia carne, quando me le tolgo, di sera, trasalendo se mi sembra di scorgere sul fondo delle mutande tracce ancora fresche di perdite. Le annuso con apprensione, in attesa. Rimuovo con l’ovatta le secrezioni che sgorgano dal mio corpo. Deglutisco con forza per mandare via la saliva che cresce sempre di più all’interno della mia bocca. Appoggio contro le pareti della mia stanza i piedi gonfi per l’alterato ritorno del sangue, mentre me ne sto sola e nuda, coricata sul letto. Guardo dal basso la sfera della mia carne che cresce. Mi siedo di fronte allo specchio, spalanco le gambe per vedere se qualcosa sta già facendo capolino dal taglio della mia fica. Ne allargo i bordi, mi aspetto sempre di scorgere il proiettile di un piccolo cranio puntato, mentre me ne sto sconosciuta nella mia stanza invisibile tra mille altre stanze, con le finestre sigillate, la luce accesa, accecante, tutta raccolta attorno a me stessa. In questo momento la casa è in silenzio. Mi alzo con fatica dal letto, vado a prendere barcollando la bomboletta della schiuma da barba, il rasoio d’acciaio, le altre cose. Ritorno di fronte allo specchio. Ripeto il gesto iniziale della depilazione, come avevo fatto la prima volta, specularmente, di fronte alla Musa. Mi rado a fondo, lentamente, tenendo con la mano l’ala slanciata del rasoio d’acciaio, entro nella piega profonda che fa la carne, rimuovo assieme alla schiuma i peli pubici che avevano ricominciato a crescere, passo e ripasso di nuovo con la lama attorno al taglio tenuto aperto con l’altra mano, a una distanza infinitamente breve da quel piccolo cranio puntato e addormentato, indugio all’interno del taglio, lo tengo allargato per un po’ con la stessa lama. Ci passo sopra con una compressa di garza per portar via le ultime tracce di schiuma, ripeto il gesto finale del fuoco, come quella volta di fronte alla Musa, il suo suggello. Pompo alcuni spruzzi di quel liquido sulla fica, la rasento con la fiamma sbocciata dall’accendino. Vedo per un istante il fuoco levarsi all’improvviso tra le mie gambe. Bordeggia il taglio, senza scottarmi, prima di spegnersi altrettanto di colpo sulla mia carne, e di lasciarla perfettamente liscia e strinata, profumata. Aspetto che tutto il mio addome si abbassi, quando quella piccola testa si sposterà verso la parte inferiore del mio bacino. Io sono la portatrice di questa esplosione, sono la mucosa che inghiotte lo spazio e che riapre lo spazio, sono la donna piena di seme ma che non conosce il coito. Ecco, adesso la mia spesa è finita, cammino ancora un po’ attraverso queste pareti a specchio. C’è un giovane uomo, poco più che un ragazzo, che mi incrocia ogni tanto e sorride. Mi avvicino a una delle casse, vedo appena le mani della ragazza che tolgono dagli indumenti che ho comperato quelle grandi placche magnetizzate. Uscirò in strada, camminerò per un po’ barcollando sui marciapiedi come una torre, verso l’ambulatorio di quel ginecologo dal quale ho appuntamento tra poco, nel vento leggero che si è levato improvvisamente, qui dentro. Mi fermerò in quel piccolo negozio di sanitari a comperare una ventriera, incrociando quel ragazzo che è uscito a sua volta dal grande magazzino e che deve percorrere evidentemente la mia stessa strada perché sta camminando in silenzio, sorridente, alle mie spalle. Camminerò a mia volta tra le immagini tridimensionali di questi corpi in attrito nell’aria, nello spazio, muovendo le colonne delle gambe attorno ai miei sfinteri depilati e sforzati, in attesa che il proiettile di quella piccola testa balzi fuori dall’anello della mia fica incendiata, come da un cerchio di fuoco.
«Oh, cazzo!» si allarmò l’account. «Mi sembra che quello stupratore l’abbia già intercettata!»
«Bisogna assolutamente impedire che se la faccia!» si allarmò anche l’art. «Se no va a pallino tutto quanto lo storyboard di questa campagna!»
Io stavo seduto in silenzio, sorridevo.
«E poi cos’è questa storia del ginecologo?» si allarmò ancora l’art, «da che ginecologo starà andando?»
«Da che ginecologo vuole che vada?» risi, allargando le braccia. «Ma da quel ginecologo spastico, naturalmente! C’è solo lui di ginecologo, qui dentro!»
«Ma è anche ostetrico?» si ricordò di domandare l’account.
«Be’... se non è zuppa è pan bagnato!» risi ancora più forte.
«Oh, no!» gemette l’art. «Io lo conosco, quello lì! L’abbiamo visto in azione! Quello può fare danni più devastanti persino dello stupratore!»
Il cielo era sgombro. Il vento strappava di tanto in tanto più forte, agli incroci. Le macchine si spostavano scontornate nell’aria, nello spazio. Lo stupratore di donne gravide camminava lungo la stessa strada, alle spalle dell’Interfaccia che avanzava barcollando sul marciapiede. Il vento la faceva un po’ veleggiare, evidenziava ancora di più la sua bolla di carne scolpita, quando si incollava sopra la veste, agli incroci, dove l’aria arriva più liberamente e più forte, da lontano, dall’alto. Lo stupratore fantasticava da dietro i movimenti dei muscoli delle sue gambe, dei glutei, quando lei riprendeva a camminare dopo essersi fermata agli incroci, vedeva con emozione balenare per un istante di fronte ai suoi occhi la linea tratteggiata della sua spina, nel vento che cambiava improvvisamente direzione e le incollava la veste, venendo all’improvviso da dietro. Coglieva la tensione dei suoi anelli d’osso, della muscolatura della sua schiena intenta a sostenere la sua sfera di carne.
Si fermò un istante, per non superarla, perché lei aveva rallentato un po’ prima di entrare in un negozio di sanitari. Vide, stando incollato alla vetrina, che lei si era accostata al banco, stava chiedendo qualcosa alla donna, che era andata a prendere dallo scaffale una scatola piatta che recava il disegno di una ventriera. Si era diretta verso uno degli stanzini, per provarla. «Ecco, adesso ha tirato la tendina dietro di sé, si starà già sfilando la veste, dall’alto» fantasticava lo stupratore da fuori, «l’avrà appesa a quel piolo di ferro dell’attaccapanni, si starà abbassando l’elastico delle mutande, infilando i pollici sotto la sua enorme circonferenza, se le starà togliendo dopo aver sollevato una dopo l’altra le sue gambette sotto quella grande bolla sproporzionata, si starà sfilando le scarpe per dare sollievo ai piedi un po’ gonfi, starà muovendo le dita sul pavimento moquettato dello stanzino, avrà già cominciato a infilarsi la ventriera, lentamente, dal basso. Adesso sarà ferma, in piedi, di fronte allo specchio, vedrà appena di scorcio la sua vagina rientrata...» Il suo cuore cominciò ad accelerare di più. «Oh... ma che sia depilata?» fantasticò con enorme emozione. «Succede così raramente di trovare una donna gravida depilata... una su cento, da queste parti!»
Poi l’Interfaccia uscì dal negozio, con un altro sacchetto. Il ragazzo fece finta di avanzare lungo la strada in quel preciso momento, le sorrise mentre lei riprendeva ad andare qualche passo davanti a lui, lentamente, scolpita dal vento. Imboccò le scale di una stazione del metrò, un passo dopo l’altro, di sbieco, timbrò il biglietto, infilò una scala mobile, scendendo lentamente dall’alto, sospesa nell’aria, con la sua bolla di carne. Salì poco dopo di nuovo, con un’altra scala mobile, perché aveva sbagliato direzione. Il ragazzo la guardava con emozione mentre saliva immobile verso l’alto con la sua sfera di carne trasportata, salendo a sua volta sulla scala mobile parallela.
«Posso aiutarla a portare uno dei sacchetti?» le disse gentilmente, quando furono arrivati tutti e due in cima, appaiati, prima di imboccare di nuovo un’altra scala. «Non si deve stancare!»
L’Interfaccia gli sorrise a sua volta, fece un piccolo cenno di ringraziamento continuando a discendere immobile sulla scala, fino alla banchina del metrò.
«Le potrei portare i sacchetti» le disse ancora il ragazzo andandole più vicino col volto, mentre lei era ferma, sorridente, in attesa, «e poi potrei scortarla nella vettura del metrò, come quei cavalieri che trottavano a fianco della carrozza della giovane regina, e lei a un certo punto girava la testa verso uno dei finestrini, guardava per un solo istante il più giovane di loro, che si accorgeva di quello sguardo continuando a trottare rosso in volto e quasi con le lacrime agli occhi per l’emozione. E poi potrei porgerle il braccio, e farle scudo con il mio corpo mentre attraversa quelle porte taglienti, e si potrà sostenere al mio braccio per sedersi più lentamente, senza venire giù di schianto, dall’alto. E mi metterò in piedi al suo fianco, aggrappato alla sbarra, come una sentinella reale di guardia a uno scrigno. E qualcuna mi guarderà mentre me ne starò immobile accanto a lei, sull’attenti, poi guarderà, lì vicino, il suo ventre, tornerà a guardarmi e quasi ad accarezzarmi con gli occhi, e intanto penserà per un istante dentro di sé, all’interno della vettura in corsa nelle gallerie nere e piene di stridori e di suoni: “Che sia lui il padre? Che sia quel ragazzo a essersi coricato sopra di lei e ad averla fatta fiorire?”. E io avvertirei tutto questo restando così, in piedi, eretto, emozionato, al suo fianco...»
L’Interfaccia ascoltava sorridendo, tranquilla, senza rispondere nulla, senza spostarsi, finché il treno arrivò. Aspettò che l’onda dei passeggeri scendesse. Entrò lentamente. Un uomo si alzò da sedere per farle posto. Lei si lasciò cadere piano piano sopra il sedile, si appoggiò macchinalmente il palmo della mano sopra il ventre. Il treno aveva ricominciato ad andare. Il ragazzo era rimasto in piedi, al suo fianco, stringendo la sbarra. Il suo volto era in fiamme mentre stava immobile, in silenzio, i calzoni deformati dall’erezione, continuando a serrare nel pugno la sbarra di sostegno, come una lancia.
«Che sia lui il padre?» pensò davvero l’Interfaccia, all’improvviso. «Che sia proprio di quel ragazzo il seme che è stato messo dentro il mio corpo? Perché solo io sono tenuta così all’oscuro di tutto quanto, qui dentro!»
Canto dello stupratore di donne gravide
Eccomi qui, in piedi, eretto, al suo fianco. Sto scortando il suo ventre verso le nostre nozze. Lo seguirò attraverso questa città, sotto terra, poi nell’ascensionalità delle scale, sul filo delle strade investite sempre più da questo vento improvviso, finché non troverò un posto dove scoperchiarla, sfondarla. Oppure fino alla porta della sua casa, lungo le scale, se riuscirò a stabilire un contatto con lei con la scusa di aiutarla a portare i sacchetti, di tenerle aperta la porta mentre cerca la chiave, oppure di nascosto, facendo i gradini a due a due mentre lei ascenderà al centro della tromba delle scale con l’ascensore, in punta di piedi per non fare rumore, col cuore in gola. Irromperò all’improvviso al termine della rampa, giusto in tempo per bloccare col piede la sua porta che stava già per richiudersi, come ho fatto altre cento volte. La trascinerò tenendole una mano sulla bocca fino alla stanza, la farò coricare sul letto, oppure sul tavolo. Le sfilerò quelle grandi mutande macchiate un po’ dalle perdite, farò scivolare giù l’elastico sulla sfera del ventre, avrò di colpo di fronte agli occhi il gonfiore della sua vagina rientrata, depilata. «Non gridare, mammina, sta’ tranquilla!» le dirò con dolcezza accarezzandole il ventre. «Non ti devi agitare, non ti devi terrorizzare: farebbe male al bambino! Lui là dentro sente tutto, sa tutto, te lo assicuro, io lo so, mi ricordo, mentre se ne sta con gli occhi chiusi, i pugni contro le tempie, come due piccoli fiori...» La farò coricare sul tavolo, con le gambe ripiegate e allargate, stando in piedi tra le sue cosce, per non doverle andare sul ventre col peso del corpo. «Ecco, sì, così, sta’ tranquilla» le dirò continuando ad accarezzarle la bolla della pancia, «socchiudi gli occhi, lasciati andare, respira più lentamente. Io sono già dentro la tua pancia e sono nello stesso tempo colui che mette il suo seme dentro la tua pancia. Io sono il padre che disfa i padri, sono il padre che viene prima dei padri e alla fine dei padri, quello che arriva dopo che i giochi sono ormai fatti ma che riapre i giochi, quello a cui non è stata data una sola carta ma che ha in mano per un istante tutte le carte. Io sono il solo che conosce l’esperienza del coito. Sono io quello che stavi cercando, sono finalmente arrivato, sono qui, mi hai trovato!»
Lei resterà con gli occhi sbarrati, tranquilla, guarderà con calma il soffitto stando coricata sul tavolo, di fronte a me, le gambe ripiegate e allargate, con la sua vagina pelata e rientrata, la grande sfera del ventre di fronte ai miei occhi, come una cupola appena voltata. Mi abbasserò calzoni e mutande, restando in piedi in mezzo alle sue gambe di carne ripiegate e allargate, sproporzionate rispetto alla bolla del ventre. Guiderò con le mani il mio membro turgido, eretto, dentro la sua apertura pelata, lo infilerò dentro quella cupola, lo spingerò fino in fondo dentro quella sua cavità vivente piena di silenzio e di suoni, busserò con forza alla porta della sua reggia, vedrò me stesso irrompere dentro me stesso andando alla cieca in quella polpa oceanica molle ancora allo stato liquido, tutta piena di occhi primordiali in infusione che cominciano in quello stesso istante a vedere.
Perché faccio questo? Dove sono? Chi sono? Ho cominciato che ero appena un ragazzo. Non ho mai accettato di scopare altra donna che non fosse gravida. Quante saranno? Centinaia, mi pare, a questo punto. Eppure, nonostante l’eco crescente delle mie imprese, continuo sempre a trovarne, aiutato dal mio aspetto tranquillo, dalla mitezza non simulata dei miei modi, mentre giro per le strade dentro lo scafandro dolce del mio volto dai lineamenti delicati, tranquilli, con la mia disperazione, con la mia sete. Non sono ancora riusciti a beccarmi, non sono riusciti a fermarmi. Mi basta un taglio diverso dei capelli, un vestito diverso. Giro per le strade senza suscitare sospetti, tranquillo, anche se so di essere da tempo braccato. Mi tendono trappole mettendo in giro ogni tanto delle finte gravide. Le riconosco anche da molto lontano, all’istante. Colgo persino l’odore del loro sangue marcio, se in quel momento sono addirittura mestruate. Passo vicino a loro come a pupazzi impagliati, con le mani in tasca, sorridendo, sprezzante. Mi concentro poco dopo su una ragazza che passa due o tre strade più in là, e non si capisce neppure che è incinta, porta ancora i suoi jeans attillati, il suo giacchino borchiato, nessun altro se ne accorgerebbe oltre a me. Certe volte non lo sanno neanche loro di essere incinte, non hanno ancora fatto le analisi. Solo io lo capisco, così, al primo sguardo. Le abbordo con gentilezza, anche se mi tremano un po’ le gambe per l’emozione. Le accompagno a casa, se in quel momento sono sole, oppure in qualche posto deserto che soltanto io conosco. Le stupro con delicatezza e violenza. Nella vagina, nel retto. Anche quando sono già molto avanti con la gravidanza, se ho la fortuna di pescarne una all’ottavo mese, al nono, addirittura, qualche volta, pochi giorni prima del parto, in certi giorni più fortunati. Non mi corico mai sulle loro pance, perché farebbe male al bambino, le faccio stare sollevate da terra e a gambe larghe di fronte a me, le loro pance risuonano come tamburi quando batto ritmicamente contro le loro pelli tirate. Le faccio girare per incularle. «No, no, per carità! Non sulla pancia!» mi raccomando, quando vedo che stanno mettendosi bocconi sul tavolo di cucina, o sul letto, e guardano da una parte come se fossero altrove, terrorizzate, tranquille. «Così schiacciamo il bambino!» Le faccio mettere a quattro zampe sul pavimento, o sul letto. Le inculo stringendo con le mani le loro tette rigonfie, da dietro, da sotto, le stringo forte, le torco, mi immagino di sentir colare sulle mie mani quella materia sierosa che sgorga dai loro capezzoli subito dopo il parto. Il loro canale sessuale e il loro sfintere sono sempre più corti, compressi, per l’enorme dilatazione dell’utero. Riesco a capire, penetrando con tutto me stesso dentro la poltiglia dei loro corpi, quando è in atto una gravidanza gemellare oppure semplice, quando è già avvenuto o sta avvenendo l’abbassamento dell’addome, dell’utero, se la placenta è previa. Mi sembra, quando lo spingo dentro a fondo, con violenza, come una sonda, nelle loro vagine o persino nel retto, di penetrare con tutto me stesso dentro la loro placenta, di rientrare di nuovo dentro me stesso, e che ci possa essere per un istante, là dentro, accoglienza anche per me, come per un altro feto gemello che si prepari di nuovo all’esordio. Le sento certe volte venire incontrollabilmente attorno al mio membro, mentre sto con la testa girata. Non capisco se sono le contrazioni interne dell’orgasmo o se sono cominciati già dentro di loro i crampi violenti che precedono l’aborto. Lo tiro fuori piano, dalla vagina, dal retto. Vedo sulla pelle, sul glande, tracce scure, vischiose, non capisco se si tratta di materia fecale o se sono i tessuti acquosi, spappolati della placenta, del feto, come se le avessi appena praticato un’amniocentesi devastante. Me lo rimetto nelle mutande ancora tutto bagnato e lordato, senza neanche lavarlo. Esco dalle loro case con le lacrime agli occhi, e intanto sento che hanno già cominciato a gridare per la violenza dei crampi, il rumore di quel sangue nero che comincia a sgorgare a fiotti dal taglio, tutto quel fetore che irrompe nella casa mentre stanno a gambe larghe sgonfiate, deprogrammate. Il giorno dopo mando un mazzo di fiori.
«Ah... finalmente una boccata d’ossigeno!» risi stirando la bocca.
«Una boccata d’ossigeno?» esclamò l’account. «Ma questo è un orrore! Che cosa si è messo in movimento, qui dentro! Questo qui distrugge tutto! Bisogna fermarlo!»
«Bene! Forza! Fermiamolo pure!» dissi continuando a stirarmi.
«Bisogna fermarlo!» continuò a gesticolare l’account. «Tocca a me prendere l’iniziativa, salvarla... salvare tutto quanto, a questo punto, qui dentro!»
«Bene! Forza! Salviamo!» gli dissi ridendo. «Si dia da fare!»
La macchina andava sulla sopraelevata che risaliva e poi strapiombava. L’account sentiva il cuore pulsare forte, mentre guidava tra le altre auto lanciate verso gli svincoli oppure lungo il nastro della strada a molte corsie, sospeso nell’aria, nello spazio. La luce abbagliava, eppure era come se stesse guidando con gli occhi socchiusi, in piena notte.
Scalò la marcia, si gettò a sua volta verso uno dei nastri d’uscita della tangenziale.
«Dove mi avrà dato appuntamento, stavolta!» si disse, mentre inseriva la tessera magnetizzata, al casello.
Sentì la vocina femminile registrata che lo salutava dalle viscere di metallo dell’apparecchio.
«Troia!» le gridò in risposta.
Inserì un cd nel lettore, abbassò di molto il volume. Guidò ancora per un po’ con gli occhi socchiusi, la testa in fiamme.
«Purché riesca ad arrivare in tempo!» si disse. «Purché riesca a fermarlo!»
Si arrestò a un semaforo. Imboccò una nuova strada a quattro corsie, costeggiando grandi esposizioni con i faretti già accesi nonostante fosse ancora giorno. Infilò un’altra strada più stretta, la seguì fino all’enorme posteggio di un grande magazzino. Parcheggiò l’auto. Disinserì il cd. Si buttò fuori dal sedile, fece qualche passo all’esterno, bloccando l’auto col comando a distanza. Sentì quel piccolo gemito di rimando mentre era già lontano, e camminava verso una costruzione tutta piastrellata di bianco, che luccicava. I varchi di porta e finestre erano ricoperti di fogli di cellophane gonfiati dal vento. Fece qualche passo all’interno, scese nel sotterraneo, si spostò per alcuni istanti in uno spazio non ancora imbiancato, deserto.
«Sono qui! Non mi vede?» sentì che una voce gli stava dicendo, afona.
Si girò per guardare. Ma non vedeva niente, solo quello spazio segmentato ogni tanto da colonne intonacate da poco, forse un garage.
«Non vedo niente!»
«Ah... questa materia nella quale sguazzo» sentì che la voce stava dicendo da qualche parte, «nella quale mi sono stancato ormai di sguazzare! Questo spaventevole gioco di particelle in attrito, nel quale anch’io mi smarrisco, certe volte, non riesco a trovare, tra tutte le forme, la mia forma...»
Un istante dopo vide il cliente seduto su un ponteggio d’assi buttato su due cavalletti di ferro. Dondolava le gambe nell’aria, come un bambino, stava facendo cenno all’account di avvicinarsi, con la mano.
«Venga qui!» disse. «Non abbia paura!»
L’account rabbrividì, fece qualche passo da quella parte. Il viso del cliente era ancora coperto da quella maschera di porcellana, da cui spuntavano capelli di nylon.
«Perché mi ha dato appuntamento in un posto come questo?» provò a dire l’account.
Il cliente arrovesciò per un istante la maschera, come se ci stesse ridendo sotto, senza emettere suoni.
«Dove avrei dovuto darglielo?» disse. «In qualche piccolo spazio devozionale, che hanno costruito a nome mio nel corso del tempo? Non esiste il mio posto! Il mio spazio non ha uno spazio. Io sono stanco di questo. Perciò ho chiesto alla sua agenzia di vendere tutto quanto, anche per non dover più tenere occupata la mia mente con queste cose. Sì, lo so, potrei materializzarmi di fronte a lei in altra forma, senza questa stupida maschera da prestigiatore fallito, questo toupet sintetico da buffone, tanto più che lei ora sa che cosa è penetrato quella notte nella sua testa... Ma io preferisco per il momento così, che lei per raggiungermi debba fare perlomeno un piccolo, stupido viaggio!»
L’account stava ancora in piedi di fronte al cliente, atterrito.
«Le fa paura questa maschera?» recitò ancora la voce, afona.
L’account fece un gesto.
«Me la metto perché lei si spaventerebbe a parlare con qualcuno che le potrebbe apparire come qualcosa che non esiste, un cosiddetto niente» disse ancora la voce, «e poi io stesso non so veramente chi sono. Se sono io o se c’è qualcuno che mi manda, che mi manovra, qui dentro. Come farei a essere quello che sono se sapessi veramente chi sono? Maledizione: significa questo non avere confini? Diciamo solo così, per il momento...»
Si sentivano solo i rumori lontani delle auto lanciate, nelle strade.
«Quello stupratore è già sulle tracce della nostra Interfaccia!» disse l’account. «L’ha già intercettata! Se riesce ad averla, anche tutto il nostro disegno si sgonfia, la nostra campagna fallisce prima ancora di cominciare. Il mio ruolo di account non avrà più futuro, in tutto questo. Lei avrà pagato quella cifra sbalorditiva per niente, questo pianeta non avrà più nessuna chance, non troverà più nessuno disposto a spendere un soldo bucato per comperarlo. Continuerà a girare nello spazio, con noi sopra, come un rottame da cui non si potrà neppure ottenere il bonus della rottamazione. A questo punto io ci speravo...»
«E vuole che io non lo sappia?» sospirò la voce.
Rimase a lungo in silenzio. Poi si passò una mano sopra la maschera, come se fosse sul punto di strapparsela.
«No, no, non si preoccupi!» rassicurò l’account. «Non me la tolgo!»
Veniva dalla sua parte un suono pneumatico, afono, come se stesse ridendo.
«Stia tranquillo! Ho già mandato qualcuno per impedire che quello là possa devastare ciò che la donna sta portando dentro il suo ventre. Il suo angelo, come suol dirsi...»
L’account fece qualche passo, irresistibilmente, verso il ponteggio.
«Cosa sta succedendo, qui dentro?» disse quasi gridando. «Perché si scatenano continuamente queste contrapposizioni di forze? Perché questo gioco? Perché mi è stato chiesto di portare avanti questa campagna e poi si scatenano un istante dopo queste forze di distruzione? Da dove nasce tutto questo? Perché?»
«Non sarà venuto a interrogarmi sul bene e il male?» rise il cliente.
«Perché questa continua violenza allo storyboard di questa campagna?» continuò l’account, come se non l’avesse sentito. «Non appena prepariamo una traccia subito dopo arriva qualcosa che la sconvolge. Come si fa ad andare avanti così?»
Il cliente smise di dondolare i piedi per un istante.
«Mi sta dicendo che la sua agenzia intende rinunciare a questa campagna?» domandò la sua voce.
«No, no! Io non dico questo!» si disperò l’account. «Ma perché allora liberare tutte queste forze tese a impedire che questo disegno si compia?»
«Non lo so» rispose tranquillamente il cliente.
«E quest’opera, questa cosa in formazione totale, questo pianeta al quale siamo tutti aggrappati» continuò l’account, «come può sostenere l’urto di simili forze contrapposte rimanendo se stesso, senza andare in pezzi? C’è qualcosa che guida tutto questo? Un pensiero, uno sguardo?»
Il cliente rimase per qualche istante in silenzio, sul suo ponteggio d’assi.
«A me lo chiede?» sillabò la sua voce, dopo un po’. «Io sono l’ultimo a poter rispondere a una domanda simile. Sotto questa maschera di porcellana non so neppure se i miei occhi sono aperti oppure chiusi e se sto sognando. E non so neanche chi sono. Se sono me stesso o se sono a mia volta nient’altro che il messaggero di me stesso. Eppure non sono un raggio, una molecola espansa, una proiezione. Non ci sono chip dietro la mia maschera di porcellana, come quando uno è da una parte e nello stesso tempo dall’altra. Qualsiasi cosa sia, io sono qui, dentro me stesso. Almeno credo...»
Anche l’account rimase in silenzio, per un po’. Si sentivano solo i rumori delle lontane auto lanciate, nelle strade.
«Venga qui, si sieda vicino a me!» disse la voce afona del cliente.
L’account fece qualche passo in avanti.
«Non abbia paura» lo incoraggiò il cliente.
L’account andò a sedersi sul ponte d’assi, con un piccolo salto.
«Cosa le sta succedendo?» chiese lentamente il cliente. «Mi sembrava così sicuro di sé, le altre volte!»
L’account non girava la testa, eppure percepiva lo stesso la vibrante presenza dell’altro, il taglio della sua maschera contro il bozzolo della testa o di qualsiasi altra cosa ci fosse al posto della sua testa.
«Non lo so, non lo so!» disse dopo un po’, senza girarsi. «Il mio ruolo di account è davvero tremendo, stavolta. Devo giocare tutto me stesso dentro questa distruzione. E poi... che campagna è mai questa? Lei vuole davvero vendere? Perché vuole vendere?»
Il cliente sorrise, gli parve, da quella vicinanza estrema.
«Ci sono infiniti mondi. Questo è solo uno dei tanti, per me. Il più insignificante, mi pare, certe volte...»
I fogli di cellophane che schermavano le grandi finestre senza infissi si erano gonfiati un paio di volte, per il vento.
«Sì, ma perché proprio venderlo?» domandò l’account, senza girarsi.
«Che altro potrei fare?»
«Annientarlo, per esempio!»
«Si metta nei miei panni. Che creazione sarebbe se poi potessi annientarlo? E poi... perché mai? A cosa servirebbe annientarlo? Si riformerebbe uguale da un’altra parte, prima o poi. No, no, meglio venderlo! E proprio questo è il momento!»
L’asse su cui erano entrambi seduti vibrava, segno che il cliente aveva ricominciato a far oscillare le gambe nell’aria.
«E poi chi può comperarlo?» chiese ancora l’account. «Chi può avere la forza economica, l’estrinsecità per fare un simile acquisto? E chi potrebbe mai stabilire il prezzo, in questo caso?»
«Il mercato, naturalmente!»
«Ma come potrà il mercato comperare se stesso? Come possiamo sperare che salti fuori un acquirente per una transazione come questa? Chi può avere la forza, non solo economica, di comperare tutto questo e di comperare nello stesso tempo anche se stesso?»
Il cliente smise di nuovo di dondolare le gambe nell’aria.
«Lei me lo insegna: se la campagna pubblicitaria è fatta come si deve l’acquirente salta sempre fuori, in un modo o nell’altro, alla fine!»
Intanto, camminando avanti e indietro a grandi passi sulla banchina, l’uomo che pesta le merde aspettava l’arrivo del metrò che stava trasportando l’Interfaccia e lo stupratore di donne gravide.
Sentì il rombo del treno che si avvicinava, alla sua sinistra, nel tunnel. E poi il vento forte che ne annunciava l’arrivo.
Lasciò che le vetture scorressero per intero di fronte ai suoi occhi, guardando dentro i finestrini ancora in movimento per vedere in quale carrozza lei si trovava.
Il treno si stava fermando. L’uomo fece alcuni passi verso una delle prime vetture, molleggiato, sulle gambe allungate. Aspettò che le porte si aprissero, e che scendesse l’onda dei passeggeri. Era così sollevato nell’aria che, entrando, abbassò la testa per non sbatterla contro la cornice. Si andò a sedere sul sedile di fronte all’Interfaccia e allo stupratore di donne gravide, che stava sempre in piedi al suo fianco, la sbarra d’appoggio stretta forte nel pugno, come una lancia. Sotto le sue scarpe gli strati sovrapposti di merde pestate erano così numerosi che le sue ginocchia si trovavano in un punto molto più alto di quelle degli altri passeggeri seduti vicino. Appoggiò tranquillamente la testa al finestrino, accavallò le gambe, mettendo una delle caviglie sopra un ginocchio. Sotto la suola delle sue scarpe sollevate si vedevano perfettamente gli strati di diverso colore sovrapposti, alcuni dei quali debordavano molto oltre la linea della suola di gomma. Si infilò un auricolare nel foro dell’orecchio, inclinò leggermente la testa di lato, accese un piccolo apparecchio che teneva dentro una tasca, e mentre ascoltava una musica che nessun altro sentiva muoveva il piede sollevato per seguirne il tempo, facendolo ruotare nell’aria con tutte le sue sfoglie di merda stratificate e sempre più mineralizzate man mano che si avvicinavano alla suola di gomma della scarpa.
Passarono così alcune fermate.
D’un tratto vide che l’Interfaccia stava cominciando le manovre per alzarsi dal sedile, con la sua grande bolla.
Si staccò l’auricolare, lo rimise nel taschino con il suo filo, spense l’apparecchio. Si alzò, fece qualche passo verso la porta opposta, pneumaticamente, sui suoi strati di diversa consistenza e spessore. Vide che la porta si apriva, e che lo stupratore aveva lasciato cavallerescamente il passo all’Interfaccia, che uscì lentamente, oscillando. Lo stupratore stava per fare altrettanto, ma l’uomo gli tagliò la strada di colpo. Rimase alcuni istanti così, a fare da scudo con il suo corpo per impedirgli di uscire, stando girato verso di lui, faccia a faccia.
«Ragazzo, il tuo viaggio è finito!» gli disse. «Tu resti qui!»
Quando sentì che le porte si stavano richiudendo, uscì di un passo. Si girò verso la vettura. Dietro il vetro, il volto dello stupratore rimasto intrappolato lo guardava con gli occhi sbarrati.
L’Interfaccia stava già avvicinandosi alle scale mobili che risalivano in superficie.
L’uomo si mise tranquillamente alle sue spalle, cominciò a seguirla.
Canto dell’uomo che pesta le merde
È la prima volta che prendo la parola direttamente, qui dentro. Finora mi avevate intravisto di sfuggita in un paio di occasioni, su un treno diretto ad Anversa, durante un altro viaggio in metropolitana, mi pare, di notte, seduto come se niente fosse di fronte a qualcuno che aveva la sua missione da portare a compimento, sorridente, tranquillo, anche se non si sapeva niente di me, chi ero, perché ero lì, perché attraversavo la sua vita così, senza una spiegazione, un segno, qual era il mio ruolo, la mia missione, qui dentro. Intercettato così, all’improvviso, in luoghi e spazi che si erano aperti di colpo, per questa facoltà che hanno le mie gambe di muoversi in più lunghe falcate, e di raggiungere in pochi passi luoghi infinitamente lontani. Mi sposto su questi arti allungati dagli strati di materia organica che si sono accumulati col tempo sotto le mie suole, avanzo su queste molle geologiche in continua stratificazione. La mia figura si innalza, la mia testa è posta in zone più alte di dove sono poste generalmente le teste, non mi curo di cosa i miei piedi stanno pestando nel loro andare, non ho il tempo di farlo, mentre avanzo così, a lunghissimi passi per adempiere la mia missione. Pesto senza distinzione escrementi animali, umani, camminando a lunghissimi passi sulla terra pelata, sui marciapiedi, sulle strade illuminate o in penombra, di giorno o di notte, mentre tutt’intorno si sentono quegli schianti delle auto lanciate e quel ruotare vorticoso dei roller. Falcio, percorrendo in pieno giorno i grandi marciapiedi delle vie del centro, certi grandi escrementi appena depositati, lascio dietro di me quelle impronte stampate, senza spostare di un millimetro la rotta del mio passo lanciato, vedo i passanti girare la testa dall’altra parte, sbarrare gli occhi, portarsi certe volte la mano alla bocca come per impedirsi di vomitare, quando accavallo tranquillamente una gamba sul sedile di un treno, del metrò, e appare con tutta evidenza sotto le mie scarpe quella massa di diversi colori, stratificata, e si evidenzia improvvisamente l’origine di quello spaventoso fetore. Riprendo a camminare verso l’uscita su quel magma geologico in espansione, e forse qualcuno che mi vede passare mi scambia per uno di quei ragazzi che camminano su quelle scarpe dalle altissime zeppe che ci sono adesso, quei coturni. Se ne sovrappongono sempre nuovi strati, la mia statura si innalza sempre di più, devo sollevare enormemente le ginocchia a ogni passo, la mia testa va a occupare spazi sempre più aerei, gli strati si appiattiscono gli uni sugli altri, fuoriuscendo sempre più dalle linee delle mie suole, se ne staccano lungo la strada piccoli e grandi pezzi mentre avanzo a lunghissimi passi tranquilli. Si seccano a poco a poco, mentre altre sfoglie più fresche si sovrappongono continuamente, come gli strati magmatici interni della terra, conquistano il loro spessore attraverso dinamiche di sollevamento, deformazione, si scatenano al loro interno movimenti orogenetici, dislocazioni tettoniche, mentre gli strati più originari si irrigidiscono a poco a poco e sempre nuovi allo stato plastico se ne aggiungono, per poi mineralizzarsi a loro volta gli uni sugli altri... Ecco, adesso l’Interfaccia ha imboccato le scale mobili. Mi metto dietro di lei, che non ha capito nulla di quanto è successo poco fa attorno alla sua persona, una decina di gradini più in basso, mentre si sposta ascensionalmente nell’aria con la sua enorme gemma. Io sono il più tranquillo e il più solo, qui dentro. Il mio compito è senza speranza, io devo lasciare aperta una porta alla speranza anche se non ho speranza.
Arrivata in cima, l’Interfaccia fece un piccolo passo in avanti, sulla terraferma. Si diresse verso l’uscita. La sfera del suo ventre era così esorbitante che il sensore fece scattare le due portelle trasparenti molto prima che ci passasse attraverso il resto del suo corpo. Attraversò il mezzanino, salì barcollando le scale. Quando fu in superficie, strinse gli occhi per un istante prima di incamminarsi lungo il vasto marciapiede di un corso. Girò un po’ la testa, quanto bastava per vedere che quell’uomo incontrato in metrò la stava seguendo.
«To’... ce n’è un altro!» si disse sorridendo, tranquilla.
Imboccò una traversa, avanzò ancora un po’, barcollando. Non riusciva a vedersi i piedi che mulinavano sotto la bolla del ventre, sull’asfalto del marciapiede. Si fermò di fronte a un portone. Scorse i nomi sui campanelli, ne suonò uno. Pochi istanti dopo sentì il rumore dell’apriporta che si scatenava. Spinse il portone, l’attraversò con tutta la sfera del corpo. Imboccò il corridoio d’ingresso, mentre l’apriporta continuava forsennatamente a suonare, alle sue spalle. Non c’era ascensore. Salì di un piano, lentamente, fermandosi qualche istante dopo ogni gradino. Entrò nella sala d’aspetto vuota, a quell’ora. Prese posto su una delle poltroncine sbrecciate. Cominciò a sfogliare una rivista. Ma solo pochi istanti dopo la porta dell’ambulatorio si aprì. L’Interfaccia colse solo il biancore di un camice che si spostava a scatti da una parte all’altra, nell’aria.
Il ginecologo spastico visita l’Interfaccia
«È la prima volta che ci incontriamo!» sentì che stava dicendo con emozione una voce.
Il ginecologo si immobilizzò un istante. L’Interfaccia riuscì a mettere a fuoco la sua testa dai capelli sparati.
«Questo è un momento solenne!» disse ancora il ginecologo spastico.
Tentò di darle la mano, ma un istante dopo il biancore del suo braccio ricominciò a spostarsi a sciabolate nell’aria.
Tentò ancora un paio di volte, finché la sua mano riuscì ad afferrare quella dell’Interfaccia. Gliela strinse per una frazione di tempo infinitamente breve, mollando subito dopo la presa per non trascinare con sé tutta la sfera di carne che c’era attaccata, in uno di quei suoi spostamenti incontrollati e improvvisi.
Tentò anche un piccolo inchino, ma la sua testa si abbassò mentre era già da tutt’altra parte della stanza, girata verso un attaccapanni a stelo.
«Io sono onorato di essere stato scelto per seguire questa gravidanza a cui sono legati esiti infinitamente più grandi» disse spostandosi da una parte all’altra della sala d’aspetto, come trasportato irresistibilmente dal vento, «e che è venuta a fare un tutt’uno con questi e con i suoi destini. Che sposta anche me e la mia persona verso un ruolo molto più grande, qui dentro, ora che passo d’un balzo dalla ginecologia all’ostetricia per seguire questo parto da cui dipenderanno le sorti di tutto quanto e le nostre sorti.»
Si immobilizzò un istante. Fece qualche passo verso l’Interfaccia, di sghembo, con la testa gettata all’indietro, una delle spalle puntate arditamente in avanti, come in un passo di danza.
«Mi sono preparato con emozione a questa prima visita come ostetrico» riprese a dire la sua voce, qua e là, «ho fatto la doccia, divincolandomi sotto la sua rosa per questi miei scatti improvvisi, allagando lo stanzino del bagno, mi sono profumato spruzzando qua e là il getto perché non sempre la mia faccia e il mio corpo si trovavano esattamente di fronte al foro del nebulizzatore. Ho indossato biancheria pulita, mulinando gambe e braccia nell’aria prima di riuscire a infilarle. Mi sono messo la camicia, la cravatta, rifacendo il nodo più volte perché la mia mano continuava a strapparla via dal colletto, e a lanciarla tutta sfrangiata nell’aria, nello spazio. Mi sono pettinato, facendo scattare il pettine alla cieca, anche se i miei capelli si spettinavano ogni volta un istante dopo per questi miei movimenti impensati e violenti. Ho raggiunto l’ambulatorio in taxi, battendo due o tre volte la testa prima di riuscire a centrare l’uscita dell’auto. Sono salito a passi sghembi attraverso le scale, sono entrato nella sala d’aspetto vuota, perché per oggi non avevo fissato altri appuntamenti oltre al suo, dopo aver ricevuto la sua telefonata. Ho ascoltato con emozione la sua voce nel cellulare, facendolo schizzare nell’aria qua e là come se stessi gettando dei sassi. Ma adesso lei è qui, noi ci siamo incontrati. L’accompagnerò personalmente verso il lettino a staffe, le porgo galantemente la mano, almeno ci provo, come a una regina mentre barcolla verso il suo trono.»
Gettò il braccio nell’aria due o tre volte, cercando inutilmente di intercettare la mano dell’Interfaccia.
«Ecco!» disse quando in un modo o nell’altro furono dentro l’ambulatorio. «Si prepari, si spogli. Può andare dietro quel paravento, se vuole, mentre io schizzerò da una parte all’altra attraverso la stanza, e a guardarmi dall’esterno sembrerà che sia in preda a chissà quale agitazione, mentre invece io sono del tutto dentro ogni mio gesto, proporzionale, controllato, coerente...»
L’Interfaccia cominciò a spogliarsi tranquillamente al centro della stanza, si sfilò la veste dall’alto, si abbassò l’elastico delle mutande dalla circonferenza enormemente allargata, liberò anche il seno turgido dal reggipetto. Rimase per qualche istante così, in piedi, in mezzo alla stanza, mentre il ginecologo scattava qua e là attorno alla sua grande sfera di carne, come in una danza.
Si sistemò sul lettino, spalancò le gambe ponendole una dopo l’altra sulle staffe, lasciò andare indietro la testa. Vedeva solo, dal punto in cui si trovavano i suoi occhi, le sue ginocchia nude e i suoi piedi un po’ gonfi oltre la linea d’orizzonte della sua carne, la testa del ginecologo che convergeva spasticamente verso la sua vagina rientrata dall’altra parte del globo del suo ventre.
«Adesso prendo il divaricatore» sentì che stava dicendo, prima di scattare di nuovo nella stanza.
Scorgeva appena la macchia del suo camice che sventolava nell’aria, un po’ sfuocata per la fulmineità dei suoi spostamenti.
«E poi prendo anche il mio vecchio specolo antidiluviano dalla vetrinetta, anche se lo so che ormai non si usa più. Infilano tutti qualcosa da qualche parte e poi guardando dentro un video...» lei sentì che stava dicendo da una zona imprecisata della stanza.
Doveva essere ritornato di fronte alle sue gambe allargate, perché qualche istante dopo lei sentì che la stava divaricando in qualche punto lontano del suo corpo, dall’altra parte della sfera planetaria della sua pancia. E poi che stava inserendo qualcosa che doveva essere per forza lo specolo, dopo averla colpita più volte con questo in altri punti lontani, per errori di traiettoria. E che lo specolo aveva cominciato a spostarsi violentemente da una parte all’altra all’interno della sua pancia, per i movimenti improvvisi della testa del ginecologo, che doveva avere appoggiato già l’occhio all’attrezzo, per guardarci dentro.
Cosa vede attraverso lo specolo
«Cosa vedo! Cosa vedo!» disse quasi gridando il ginecologo. «Perché io non mi limito a guardare per prevedibili prospettive immobili, lineari, le cose che sanno o credono di poter essere guardate solo così e si mettono in posa. Io fendo la visione per questi scatti improvvisi della mia testa, io la spiazzo andandoci dentro a strati, dall’interno, le mie diagonali spezzate mettono a fuoco altre zone che nessuno era mai riuscito a snidare, intersecando dall’interno le stratificazioni rotanti di questa sfera.»
La testa del ginecologo scattava sempre più fulmineamente qua e là di fronte alla sua vagina aperta, senza mai staccare l’occhio dall’imboccatura dello specolo.
«E chissà cos’è successo anche a me, quando mi trovavo nelle stesse condizioni, là dentro» sentì che stava considerando, «chissà che un simile tipo di sguardo diagonale, spezzato, non avrebbe potuto individuare zone in ombra, prevedere tutto quanto sarebbe poi successo al mio corpo, mentre ero ancora dentro la mia sfera di carne, un istante prima che si creassero le cause di questo mio stato, durante il parto o poco prima del parto, magari, scarsa ossigenazione al mio piccolo cervello durante il travaglio, trauma durante il parto, quando i miei movimenti erano ancora lenti, solenni, potevo allargare il fiore della mia piccola mano dentro quella bolla d’acqua primordiale, e quella andava a finire assolutamente dove doveva andare a finire, rallentata, la mia testa ruotava acquaticamente, accompagnata, anche il mio cervello al suo interno ruotava attorno a se stesso, non come adesso che va a sbattere traumaticamente qua e là contro la scatola cranica a ogni mio movimento. Connessioni, neuroni, tutto si comprime e si sfracella qua e là, i miei pensieri, i miei sogni sono pensati così, sono sognati così, in questo stato spastico...»
L’Interfaccia sentì che il ginecologo si era staccato di scatto dal suo ventre, la sua testa era sfrecciata due o tre volte in punti diversi, prima di rituffarsi sopra lo specolo.
«Ah, ecco, ecco!» esclamò d’un tratto. «Vedo le pareti interne della sua sfera nel movimento duplice di contrazione e di espansione, le sue masse cieche, i suoi glutini primordiali che comprimono la vescica, accorciano il canale della vagina dentro il quale mi sposto a scatti, l’imboccatura dell’utero, attorno al feto a gambe e braccia conserte nel suo sonno encefalico, prima di fare irruzione all’improvviso qui dentro, attorno al suo progetto di corpo, il budello ombelicale che lo collega alla massa della placenta, la curva stellata della spina in rotazione, dall’altra parte... Ah... ecco... adesso lo vedo bene. Glielo posso confermare ufficialmente, stavolta: è una femmina!»
Si staccò un istante dallo specolo, scattò sfuocato attraverso la stanza, con la testa gettata da una parte, all’indietro, angolata, per avvicinarsi di nuovo alla vetrinetta.
«Certe volte uso persino questo cannocchiale pubico» gridò di nuovo da quella parte, mentre già spasticamente afferrava lo strumento facendo tintinnare i vetri della portella, gli altri oggetti che vi erano contenuti, «guardo dentro le pance attraverso questo cannocchiale che si può allungare e accorciare enormemente, a seconda se voglio vedere lontano o vicino, per usarlo come un telescopio oppure come un microscopio, e vedere così anche quelle piccolissime cose lontane o infinitamente vicine che nessun altro riesce a vedere.»
L’Interfaccia sentì che le stava già infilando il cannocchiale nella vagina, manovrandolo da una parte all’altra come un timone durante una violenta burrasca, per i movimenti della sua testa già premuta con forza contro l’oculare.
Cosa vede attraverso il cannocchiale pubico
«Cosa vedo! Cosa vedo!» la sua voce cominciò a esultare spostandosi da una parte all’altra. «Tutti questi tessuti ghiandolari che bollono dentro la cavità di questo globo di carne in tensione, e un istante dopo un movimento asimmetrico contrapposto dalla parte opposta della sfera, se può esistere qualcosa di opposto dentro la stessa sfera, per uno di questi miei scatti incalcolati e improvvisi, che altrimenti non avrei colto, che nessun altro sarebbe in grado di mettere in collegamento tra loro. Il taglio della sua vagina rasata si sposta sempre più fulmineamente da una parte all’altra della sfera su cui è collocata, per i movimenti incontrollati del cannocchiale pubico all’interno delle sue cavità. Il suo obiettivo è andato adesso a finire contro il piccolo taglio dell’altra vagina in formazione che c’è all’interno della vagina più grande, si sposta anche quella da una parte e dall’altra assieme al resto del feto per gli scatti interni del cannocchiale, come un palloncino attaccato al filo stretto nel pugno di un bambino che corre a perdifiato sul crinale scontornato di una collina. Riesco a vedere attraverso le sue lenti i nuovi tessuti interni in formazione nell’istante stesso in cui prendono vita, per qualche luminosità che evidentemente si sta formando là dentro e che mi permette la visione e il gioco spastico dei raggi e dei fasci e degli angoli alfa e beta tra l’obiettivo e l’oculare di fronte al mio occhio in spastico movimento. Allungo di più il cannocchiale pubico per vedere più lontano ancora, spostandomi da una parte all’altra della stanza, lo rimesto dentro la sfera della sua pancia come dentro un calderone in creazione totale. Tutto prende forma nello stesso istante di fronte al mio occhio, si inventa nello stesso identico istante in cui il mio raggio visivo lo coglie, i movimenti interni dei suoi minuscoli organi in formazione, il canale della nuova vagina, il minuscolo utero che sta prendendo forma dentro l’utero più grande in cui è contenuto, e si prepara a contenere a sua volta dentro di sé un altro utero nuovo, a venire, il pulsare di un altro minuscolo cuore che prenderà forma a sua volta là dentro, coi suoi movimenti spastici di diastole e sistole, le piccole spugne polmonari in attesa cieca del primo respiro e dell’aria che ci entrerà dentro spasticamente, e poi di nuovo uscirà e si andrà a liberare nell’altro utero infinitamente più grande che contiene tutta l’aria del mondo, con tutte quelle minuscole cose che spasticamente ci passano e ci volano e ci profumano e ci cantano dentro, per questi movimenti improvvisi e sghembi della mia testa e dell’oculare che ci è appoggiato contro, e gli uccellini si spostano spasticamente nel cielo, col lombrico che si divincola spasticamente nei loro becchi, e i fiori vanno per conto loro da una parte e dall’altra, e le farfalle anche loro devono spostarsi spasticamente nell’aria per riuscire a posarsi sulle corolle spastiche, le loro spiritrombe partono tre o quattro volte alla cieca nell’aria prima di riuscire a centrare il cuore palpitante del fiore, e le api nel buio dei loro alveari, negli esagoni spastici delle loro cellette, e anche le nuvole si spostano spasticamente nel cielo, e le linee della pioggia, a zig zag, e anche i cavalli lanciati negli ippodromi, e quelli con le pistole in aria nei circuiti automobilistici, e i bolidi che scattano spasticamente da una pista all’altra verso mille circuiti differenti, e gli uomini e le donne che scopano spasticamente da tutte le parti nelle loro case, e gli uomini che scopano spasticamente con gli uomini e le donne che scopano spasticamente con le donne slogate, profumate, nelle loro stanze sessuate, riscaldate, e tutta la gente che si muove spasticamente sui marciapiedi, sui treni, sugli aerei, le rotaie si deformano continuamente per i loro movimenti spastici e per i movimenti spastici delle grandi ruote metalliche che ci vanno sopra zigzagando e sbandando, e i passeggeri là dentro, vanno qua e là per i corridoi con le loro valigie spastiche, e gli aerei vanno spasticamente qua e là nello spazio tra le nuvole spastiche, le teste dei passeggeri si affacciano spasticamente agli oblò di tutti quei finestrini spastici, guardano dall’alto i corsi dei fiumi dalle traiettorie spastiche, le cime tratteggiate delle montagne, i laghi, i mari, tutto quell’azzurro spastico degli oceani che si muove spasticamente qua e là attraversato dalle correnti spastiche, e i pesci là dentro, coi loro movimenti respiratori spastici, tutto già attraverso e dentro questo piccolo utero che si sta formando e in cui sto dilagando e guardando, per cominciare a immaginare a cosa porterà questa piccola cosa che si sta formando, qui dentro, e le grandi città spastiche nelle grandi pianure spastiche sugli strapiombi degli oceani e il cielo stellato con le galassie, le sue nebulose, tutti quei movimenti spastici dei suoi soli, corpi che si spostano spasticamente qua e là incendiati e ghiacciati, pianeti che scompaiono spasticamente dentro se stessi mentre la loro luce continua a viaggiare spasticamente attraverso lo spazio spastico, e tutto spasticamente scatta e si muove qua e là, sulla terra, nell’acqua, nello spazio, e di nuovo all’interno dei corpi che si muovono spasticamente all’interno di ciascuno di questi elementi, nei loro microscopici organi interni, se accorcio vertiginosamente questo cannocchiale pubico per vedere l’infinitamente piccolo che spasticamente si muove, e poi lo allungo di nuovo di colpo, al massimo della sua estensione, andando spasticamente a finire in certi punti lontani e impensati di questa stanza, e allora di nuovo fiori, farfalle e uccellini e api, cavalli, pistole, bolidi, corpi in spastico movimento nello spazio dei corpi spastici dentro lo spazio, e ancora treni, aeroplani e nuvole e fiumi, grandi distese spastiche d’acqua, con quelle masse spastiche delle onde e delle correnti che spostano spasticamente i mari, gli oceani, e metropoli e movimenti spastici di corpi celesti in fiamme all’interno del cosmo spastico, le traiettorie spastiche della luce che inizia da una parte e arriva spasticamente dove geometricamente non sarebbe mai potuta arrivare, contro un altro corpo celeste sconosciuto e invisibile nello spazio, da sempre, si sarebbe detto per sempre, lo accende, cominciano a crescerci sopra forme nuove mai viste prima, in possibilità cieca, in latenza, e allora anche queste cominciano spasticamente a spostarsi e tutto, da ogni parte, spasticamente scatta assieme a tutto il resto che già si stava spasticamente spostando, fiori, farfalle, nuvole, treni, aerei, costellazioni... finché nel generale movimento spastico, e proprio e solo perché esiste questo generale movimento spastico, tutto appare sempre più immobile, armonizzato, tranquillo, più immobile che se non fosse mai esistito nessun movimento, che se ci fosse stata soltanto l’immobilità. Dove sono finito? In quale regno sono finito? Ma questo qui è il paradiso, il mio paradiso!»
Riprendo in mano di nuovo, da capo, tutto quanto il lavoro sul videogame, solo nella mia stanza, di notte, perché cambia tutto continuamente, qui dentro. Perché qui ormai non si tratta solo di sguinzagliarci dentro quello stupratore di donne gravide, che nel frattempo è rimasto bloccato nella vettura di quel metrò, è sceso sconvolto alla fermata dopo, si è lanciato fuori dalla stazione sotterranea, correndo a perdifiato su per le scale mobili che stavano già salendo, e poi per le altre scale di marmo, levigate, e poi ancora sul filo dei marciapiedi, sulle strade, per vedere se riesce a scorgere da lontano la nostra Interfaccia gravida scesa barcollando alla fermata prima, col suo scudiero. Ma lei non c’è più, non si vede, solo il plancton dei passanti che si spostano a ondate sui marciapiedi, il fiume di quelle auto bombate che vanno da tutte le parti, gravidanze a ruote. Cammina ancora per un po’ così, poi rallenta. Sente che anche il suo cuore a poco a poco rallenta, cerca di respirare più lentamente. «Ti intercetterò di nuovo!» si dice. «Ti troverò! Una come te non può non ripassare di nuovo sulla mia strada!» Va avanti ancora così per un po’, alla cieca, per forza di inerzia, tale era stata la spinta ascensionale con cui era balzato fuori dal basso, dalla scala. Sente che gli fanno male i testicoli. Si infila una mano in tasca, penetra con la punta delle dita nella conchiglia e abbassa più che può le mutande per dargli un po’ di sfogo negli spazi ristretti a causa della persistenza dell’erezione. Ecco... come fare, per esempio, a rendere quel movimento repentino della mano nella fodera della tasca, dare l’idea del male ai testicoli stritolati negli spazi ristretti delle mutande, coi loro grovigli di vene congestionate? Accidenti! Questo videogame mi sta ponendo problemi tecnici mai affrontati prima nel mio lavoro. Quali routine impostare, quali motori vettoriali per gestire questi elementi grafici poligonali? Ma, mentre sono qui a pormi queste domande e a ripensare tutta la giocabilità di questo videogame, ecco che quello là ha già scorto, dall’altra parte della strada, qualcosa di colorato e bombato, che cammina. «No, non può essere!» si dice col cuore in gola. «Sarà una di quelle macchinine che fanno adesso, per due sole persone, una di quelle grandi uova con parabrezza e tergicristallo!» Invece è proprio una donna, alla sua prima gravidanza, capisce immediatamente lo stupratore, una ragazza sferica, in salopette, con gli occhialini di metallo altrettanto rotondi. Lo stupratore attraversa in pochi balzi spericolati, tra le macchine che vanno in direzioni opposte lungo il corso a quattro corsie. «Signorina... signora!» le dice gentilmente, ridendo. «Lei è vera oppure è un miraggio?»
Intanto, fuori dall’abitazione del ginecologo spastico, l’uomo che pesta le merde se ne sta tranquillo, dall’altra parte della strada, appoggiato al muro, in attesa che l’Interfaccia esca. Non pensa a niente, sta facendo quello che deve fare, è tranquillo. Sente, di tanto in tanto, arrivare fino alle sue narici un profumo intenso mai sentito prima. «Che cosa avrò pestato, stavolta?» si domanda sorridendo. Invece dopo un po’ capisce che arriva da un’edicola che c’è a un centinaio di metri, tutta piena di locandine e plichi di riviste con quelle strisciate pubblicitarie di marche di profumi. Guarda di tanto in tanto da quella parte, mentre aspetta che la visita sia finita e che l’Interfaccia esca barcollando dal portone di fronte, per scortarla fino a casa. Una ragazza è uscita improvvisamente da dietro il piccolo cubo dell’edicola, per appendere una locandina profumata all’esterno. Cammina su due stampelle, profumate anche quelle. «Accidenti, come sono profumate quelle stampelle!» si dice l’uomo che pesta le merde. Non riesce a staccare gli occhi da lei, mentre la ragazza sta con le braccia levate, le stampelle appoggiate alle ascelle, contro i seni liberi sotto la veste, e si allunga un po’ sulla punta dei piedi per attaccare la locandina con lo sparagraffette. «Com’è bella!» si dice l’uomo che pesta le merde. «E com’è profumata! Accidenti, in quale meraviglioso mondo sono finito, stavolta!»
Intanto, a pochi isolati di distanza, una coppia sta uscendo nello stesso momento da una piccola porta. Hanno tutti e due l’aria rilassata, tranquilla, segno che all’interno della casa da cui sono appena usciti i loro corpi hanno condiviso un momento di indistinzione, lui le tiene una mano sulla spalla, sull’attaccatura del collo, dove passano tutte quelle vene sotto il velo leggero della pelle, che trasportano il flusso del sangue verso la massa sessuata del cervello, e poi giù in ogni angolo del suo corpo appena goduto in libero movimento attraverso lo spazio, e lei tiene un braccio attorno alle sue reni, la testa appoggiata alla sua clavicola, si sposta sul marciapiede pieno di gente come dentro una nicchia vivente, la sua veste si muove leggera attorno alle rotelle delle sue ginocchia, scopre per un secondo l’inizio profumato delle sue cosce, incollandosi e volando di tanto in tanto attorno al suo corpo, per questo vento che si è levato qui dentro, e ha reso più nitide le prospettive, gli sfondi, tutta la città diventa per qualche secondo più leggera, più chiara, si vedono da lontano i contorni delle montagne, dei crateri, dei mari, il movimento di tutti quei corpi attraverso lo spazio... A proposito: come rendere il vento? Perché non vorrei renderlo solo con qualche riga o striscia qua e là, col movimento dei vestiti, dei capelli attorno a un sistema di icone in qualche modo definibile nello spazio, ma vorrei che ogni singolo bit ne fosse attraversato a sua volta dall’interno, come in quel paradiso spastico che ci è stato dato di intravedere per qualche istante, poco fa. Ma... accidenti! Sì! Quei due sono il Matto e la sua Meringa! Fanno ancora qualche passo in avanti, abbracciati. Lui ha girato la testa di colpo da una parte, come se si fosse accorto di essere stato intercettato. Oh, no! Hanno svoltato tutti e due all’improvviso in qualche traversa, sono entrati di colpo da qualche parte, chissà dove, mi sono sfuggiti, sono scomparsi una seconda volta non appena ero riuscito a intercettarli di nuovo, come se non volessero avere più niente a che fare con tutto il resto, qui dentro. Non riesco più a rintracciare le loro icone. Sono usciti di codice. O forse non c’erano neanche mai entrati, o sono dentro e fuori nello stesso tempo, secondo quello che fa comodo loro. Non riesco a fissarli. Ma come si fa a lavorare così! Vado a pescare l’icona dell’investitore, che mancava da tanto tempo. L’immagine si rimpicciolisce, si riallarga di nuovo, si attraversa. Stiamo entrando in punta di piedi nella sua casa. Pochi mobili, nel secchiaio i piatti perfettamente lavati dopo un pasto frugale, una semplice branda per dormire, la stanza di uno che ha una consegna. Adesso è già giorno, lui sta dormendo perché anche questa notte, come ogni notte, la sua missione lo attende. L’ho trascurato un po’, ultimamente. Finora è soltanto un’icona, non ha ancora un volto, eppure, tra tutti gli altri personaggi che si sono liberati qui dentro, è quello verso il quale comincio a provare una maggiore attrazione, forse più ancora che non verso l’Interfaccia la quale pure porta dentro il suo ventre ciò che è nato dall’incontro di uno dei miei spermatozoi crioconservati con uno dei suoi ovociti, e a cui è affidato un ruolo futuro così dirompente. Sento che mi vado staccando sempre più da tutto questo. Non so perché, non so come, ma sto osservando con tenerezza e rispetto il sonno di quest’uomo solo gettato sopra una branda. Mi avvicino con una zoomata, definisco meglio i suoi lineamenti, gli cambio pettinatura, gli getto all’indietro i capelli, gli allungo leggermente la fronte. Lo guardo un po’, senza muovere un dito sulla mia tastiera, mentre dorme abbandonato sulla sua branda, dopo una notte passata al volante, le scarpe dalla suola zigrinata vicino al letto, appaiate, i mezzi guanti sul comodino, e non pensa a niente, non sogna niente, sta tutto e solo all’interno della sua determinazione, della sua missione. Tiene la testa un po’ arrovesciata all’indietro, perché è andato a scavalcare il cuscino, nel sonno, e nessuno lo conosce, nessuno sa chi è, cosa fa, perché lo fa, mentre porta sulle sue spalle, in silenzio, il mandato che gli è stato affidato, qui dentro. Gli vado più vicino ancora, zoomando, sfioro con la punta delle dita le sue labbra perfettamente chiuse anche nel sonno, definisco meglio quella fossetta che c’è tra le labbra e il naso, sto per scendere lungo la linea del suo collo buttato all’indietro, rostrato...
Ma... cosa sta succedendo? Mi devo fermare. Sta succedendo qualcosa, in questo momento, sotto il mio naso, qui in casa, nella mia stessa casa. Non so cosa, ma, dal rumore che arriva fino alla mia stanza dove sto da tempo di fronte alle bolle luminose dei video, con le lacrime agli occhi per la stanchezza, per il sonno, mi sembra che Grazia si sia alzata improvvisamente dal letto. Però non si dirige come al solito verso la stanza di Pericle, con lo spaccaossa, col maglio, per colpirlo mentre è sprofondato nel sonno. È andata in bagno, sento che ha aperto l’acqua della doccia, che si sta lavando tranquillamente sotto il getto. «Cosa sta succedendo?» mi domando di nuovo. «Che sia finita, come se niente fosse, di colpo, questa guerra? Che sia calata finalmente la pace, in questa casa? Non più tutto quel farsi a pezzi, di giorno e di notte, quel soffrire!» La intercetto sul video. Entro così, a mia volta nel bagno. Sì, è vero, si sta lavando sotto la doccia, si insapona il volto passandosi le dita sui globi degli occhi chiusi sotto le palpebre abbassate. Si risciacqua, si asciuga premendosi semplicemente l’asciugamano contro il corpo, facendolo aderire con le dita ai lineamenti del volto, come se stesse prendendo un calco. Si pettina a lungo, si mette un filo di trucco, indossa la biancheria, torna nella sua stanza. In fondo al suo letto è distesa una specie di tuta. Una tuta? Che tuta? Non gliel’avevo mai vista prima. Non capisco. Vado giù zoomando da quella parte, in picchiata. Oh, sì... quei colori! Sono stato preso in parola! Credo di avere capito cosa sta succedendo. La indossa, scivolandoci dentro attraverso lo squarcio aperto della cerniera abbassata, prende possesso dei suoi spazi allungandoci dentro gambe e braccia, mentre nelle altre case è tutto buio e silenzio, stanno dormendo tutti. Tira su la cerniera, con un sibilo forte. Adesso Grazia è tutta sigillata là dentro. Si alza in piedi, luccicante, attillata. Si distende ancora di più fino a occupare ogni spazio e ogni piega. Muove un po’ le giunture dentro quella sua nuova pelle. Si mette a sedere sul letto. Calza un paio di scarponcini di plastica coi roller, si sente il rumore secco delle fibbie che scattano. Rotea due o tre volte i piedi nell’aria, facendo perno sulle caviglie, per calzarli meglio. Si alza di nuovo in piedi, fa due o tre passi un po’ irrigiditi nella stanza, sui roller. Va a prendere qualcosa di voluminoso e lucente appeso all’attaccapanni a stelo. Sì, sì, ormai l’ho capito, lo so: è il cascomaschera! Lo tiene sollevato nell’aria per qualche istante, con tutte e due le mani, socchiude gli occhi prima di calarselo sulla testa e di sigillarsi là dentro come in uno scafandro. Fa roteare due o tre volte la testa nell’aria, col suo rostro. Distende ancora di più la colonna vertebrale, si erge. Rimane ancora per qualche istante così, immobile, come per l’ultima volta, al centro della sua stanza, prima di dirigersi scivolando sui roller verso il corridoio, e poi verso la porta di casa, e sul pianerottolo semibuio, in silenzio, e poi dentro l’ascensore, in piedi, immobile, sui roller, guardandosi dentro lo specchio attraverso le fessure del cascomaschera, e poi nell’ingresso, attraverso il portone, nelle strade. La seguo ancora un po’ mentre il suo corpo si inclina decisamente in avanti, si distende, rema sempre più forte con le braccia, getta qua e là le gambe luccicanti nell’aria, volando sempre più forte sui roller, non si distinguono neanche più le rotelle, neanche a zoomare all’impazzata, solo una striscia lunga, sfuocata, che passa sopra l’asfalto, tutto il suo corpo si libera sempre di più nell’aria, nello spazio, mentre si dirige verso zone più nevralgiche della città, della notte, va a occupare il posto che le spetta da tempo, qui dentro. La seguo ancora per un po’, mentre prende il volo. Vado immediatamente a intercettare anche l’icona di Pericle, perché ho sentito dei movimenti improvvisi venire anche dalla sua stanza. Accidenti, si sta alzando anche lui! Ma non si dirige verso la stanza di Grazia, con l’intenzione di colpirla nel sonno. Sta andando in bagno! Ecco, adesso si spoglia, si fa la doccia. Torna nella sua stanza, si riveste lentamente: calzoni impermeabilizzati, giubbotto termico con la cerniera, di chi si prepara a collocarsi in alto, più in alto, dove soffia il vento. Solleva a sua volta nell’aria anche il suo cascomaschera prima di calarselo sulla testa, dall’alto. Afferra i due lunghi trampoli fosforescenti che erano appoggiati al muro. Esce di casa tenendoli tutti e due sotto l’ascella. Scende a piedi lungo le scale, perché non ci stanno nell’ascensore, attraversa l’atrio, il portone, fa ancora due o tre passi così, sul filo della strada, prima di salire con un balzo sui trampoli, un piolo dopo l’altro fino a quello più in alto. Dove si trova adesso il vento soffia ancora più forte. I suoi vestiti sono incollati al corpo, sventolano alle sue spalle come bandiere, mentre va a occupare il posto che anche a lui spetta da tempo, qui dentro. Non li rivedremo più in questa casa, hanno preso il largo, hanno lasciato questo orrore per andare forse verso un orrore più dispiegato e più grande, o verso dove ancora nessuno sa. Ormai il loro posto è là fuori, in mezzo ai combattimenti, nelle strade. Rimango io solo qui dentro, in questa casa. Mi alzo dalla sedia, mi sgranchisco un po’, senza spegnere i due video. Mi comincio a spogliare. Passerò la mia prima notte di silenzio e di pace, in questa casa ormai abbandonata. Vado a bere un bicchiere d’acqua. Torno nella mia stanza, mi siedo sul letto stirando le braccia, sento le mie ossa scricchiolare liberamente nell’aria, nello spazio. Sbadiglio. Sto per andare sotto le coperte, ma un istante dopo sono ancora di fronte ai video. C’è qualcosa che non mi convince, non capisco cosa. Torno sulle immagini memorizzate di Pericle e Grazia. Le rifaccio correre accelerate. Torno indietro, ogni tanto, vado avanti di nuovo. Mi concentro sul momento esatto in cui indossano i cascomaschera. Oh, no... Ecco cosa non va! Non avevo focalizzato bene la cosa, al momento... Zoomo a tutto spiano, in picchiata. Sì, sì, non c’è dubbio! I due cascomaschera hanno sì i colori dei due capi dei roller e dei trampolieri, però all’incontrario. Se li sono scambiati senza saperlo! Quello di Grazia ha i colori nero e giallo del capo dei trampolieri, quello di Pericle i colori viola e azzurro del capo dei roller. Oh... no! Adesso dietro il cascomaschera del capo dei roller c’è Pericle, dietro quello dei trampolieri c’è Grazia. Si sono sottratti persino al loro ruolo all’interno di questa guerra, stanno portando questa zona del videogame fuori dalla logica da cui era partita, di scontro tra vecchi e giovani umani fissati in modo funzionale nel tempo. Adesso cosa succederà? Chi riuscirà più a fermarli, al punto in cui siamo? Cosa succederà d’ora in poi in questo videogame di cui sto perdendo poco per volta il controllo, che mi sta scoppiando tra le mani, mi pare...?
«Cos’è la creazione? Cos’è il mondo? Come si determinano i movimenti interni del mondo? Perché? Perché esiste questa forza cieca – se è cieca – che tiene insieme spasticamente tutto quanto, qui dentro? Mentre ogni cosa nello stesso tempo si divincola per conto proprio continuando ad andare per la sua orbita gravitazionale, ne tende i tessuti interni, li riempie fino a non lasciare vuota la più infinitamente piccola porzione di spazio, così che ogni movimento e ogni gesto determinano un altro movimento in una zona diversa, infinitamente vicina eppure infinitamente lontana, che mai si sarebbe potuta immaginare in possibile connessione, o in sconnessione così totale da aprire varchi esorbitanti nel tessuto narrativo dello spazio e del tempo. Cosa è avvenuto a un certo punto all’interno di questo spazio, se era uno spazio, se c’era già uno spazio? Perché qualcuno si è arrogato il diritto di sapere, di determinare quello che è avvenuto all’interno di questo spazio, che avverrà in futuro, persino, tentando di relegarmi a un unico ruolo di negazione, di contraddizione, persino adesso e tanto più adesso che ho preso nelle mie mani tutta la matassa di questo azzardo, che tutta la sua dimensione è diventata la stessa mia dimensione? Perché ho potuto prenderla nelle mie mani proprio adesso e soltanto adesso? Per fare quale gioco? Perché? Per conto di chi? Perché fin dall’inizio sono stato chiamato il Gatto, qui dentro? Immediatamente, d’acchito, prima ancora che facessi un gesto, il mio primo gesto. Dove è finito a questo punto quell’altro che è stato messo al mio fianco con il nome di Matto? Che entra ed esce di tanto in tanto come se niente fosse, in silenzio. Adesso, per esempio, perché è uscito? Dov’è andato? Certo, lo so, sono io che ho, che avrei voluto questo passaggio, che l’ho determinato. Ma perché l’ho voluto? E perché proprio adesso? Cosa ci fa con un piede dentro e un piede fuori da tutto questo? Com’è sfuggito al suo ruolo? Che ruolo si è ritagliato, si sta ritagliando, ammesso che qui dentro ci si possano ritagliare ancora dei ruoli? In quale diversa dimensione è fuggito, si è installato? Da cosa ha avuto origine tutta questa esplosione? Perché sono state scagliate qui dentro le punte acuminate di queste eruzioni che andavano ormai da tempo disinnescate nell’aria? Senza più nessuno spazio possibile, senza direzione. Cos’è che ha fatto convergere tutti quanti qui dentro, come quegli stormi sterminati d’uccelli migratori che vengono giù improvvisamente a strapiombo dal cielo? Cos’è questa tensione continua alla salvazione, cosa sono questi squarci spastici di paradiso che irrompono di tanto in tanto qui dentro, adesso, proprio adesso, proprio sotto i miei occhi, proprio adesso che mi è stata data finalmente questa libertà e questo spazio, che li ho strappati e conquistati da me, con le mie mani? Perché devo misurarmi alla fine con un uomo dal volto coperto da una maschera di porcellana? Perché mi si è ripresentato davanti alla fine abbigliato così, come una marionetta autodistruttiva in cerca del suo stupido business? Davanti a me, che sono stato tenuto finora in uno spazio diverso, in una diversa dimensione, in questo spazio separato pieno solo di silenzio e di fuoco, tutto dentro me stesso? Per quale gioco, se è un gioco? Perché mi sono lasciato andare di colpo a dirvi tutto questo, mentre state immobili di fronte a me, con gli occhi sbarrati, in questo brief che è appena iniziato, che non è mai finito?»
Stavano tutti in silenzio, l’account, l’art, il copy che era entrato nel frattempo, come se niente fosse, per prendere parte a sua volta al brief.
Lo guardai.
«Si è messo anche lei il gel nei capelli!» gli dissi. «Colorato, per giunta! Come mai?»
«Mi ha influenzato l’art!» mi rispose.
«D’accordo, d’accordo!» buttò lì a caso l’account, dopo un po’.
Si sollevò dalla poltroncina, non si capiva se per alleggerire un po’ la tensione o se per dare sollievo alle sue emorroidi.
Anche l’art aveva fatto il gesto di alzarsi, ma poi si era limitato a ruotare quasi completamente su se stesso sulla poltroncina girevole, per scambiare due parole sottovoce col copy, che era andato a sedersi vicino a lui.
L’account l’indicò con la mano.
«Il nostro copywriter sta lavorando già alla fase della preparazione dell’annuncio» disse a mo’ di presentazione.
«Ah sì?» mi informai con la bocca tirata da un orecchio all’altro. «All’annuncio di cosa?»
«Ma della prossima nascita del brandello di carne della nostra Interfaccia! Il nostro messia, o redentore, chiamatelo come cazzo volete... o redentrice, per meglio dire, a questo punto... Con tutto ciò che comporterà la sua venuta al mondo, qui dentro!»
«Ah sì, certo! Cazzo, si capisce! L’annuncio... Mi scusi, stavo pensando ad altro.»
«Ma non proprio l’annuncio» intervenne l’art, «qualcosa che viene prima, che preannunci l’annuncio, che faccia crescere sempre più la tensione verso la brand image di questa nostra campagna, e conferisca un surplus di valore commerciale a questo pianeta che è stato messo in vendita.»
«Ma certo!» interloquì l’account. «Chi se lo comprerebbe nelle condizioni in cui si trova adesso? Invece, se creiamo l’illusione pubblicitaria che possa esserci ancora una chance di salvezza, di redenzione, che qualcuno abbia voluto investirci ancora sopra tanto da mandarci di nuovo una figura di redenzione, così da poterli infinocchiare ancora per mille anni, duemila anni... Accidenti, vedrete come salirà il prezzo!»
«Ah, sì, bene, cazzo! E a cosa avete pensato?» chiesi venendo avanti con la freccia del volto.
«Ho lavorato sugli storyboard che continuano a venire fuori» disse il copy, «tanto più dopo quella mossa del nostro cliente di eleggere un proprio messo, qualcosa come un angelo, qui dentro, cercandolo nelle pieghe più nascoste, tra le figure apparse fugacemente e che si pensava non avrebbero lasciato altra traccia. Così, mentre quello proteggerà il ventre della nostra Interfaccia, perché possa venire al mondo la brand image della nostra campagna, noi sguinzaglieremo altre figure di annunciatori, di messaggeri.»
«Ah sì? E chi sarebbero?» domandai.
«Li abbiamo scovati anche noi frugando nelle pieghe più segrete, qui dentro: abbiamo messo gli occhi su quegli uomini dalle labbra dipinte, per esempio...»
L’account si mosse un po’ sulla poltroncina, ridendo.
«Mi faccia capire...» dissi ridendo a mia volta «sta parlando di quegli uomini che abbiamo incontrato durante quella... diciamo così... coraggiosa missione dell’art per salvare dalle grinfie dell’industria porno la sua ragazza non c’è assorbente che tenga?»
Il copy scambiò un’occhiata d’intesa con l’art.
«Sì, sì!» si animò l’art. «Però adesso lei non è più la mia ragazza!»
Scambiai a mia volta un’occhiata con l’account, che rimase in silenzio.
«E lei l’ha poi ritrovata la sua ragazza con l’acne?» chiesi al copy. «L’ultima volta che ci siamo visti mi sembrava che fosse sparita anche quella!»
Nuova occhiata d’intesa tra il copy e l’art.
«Oh, sì, l’ho trovata, alla fine! Ma è stata dura!»
«E come ha fatto?»
«Oh, le solite cose... Però adesso lei non è più la mia ragazza!»
Rimanemmo tutti per alcuni istanti in silenzio.
«Ah sì?» domandai, «e chi è adesso la sua ragazza?»
«Quella non c’è assorbente che tenga!» disse il copy.
«E la mia quella con l’acne!» disse l’art.
Mi girai a guardarli.
«E quando è successo?» provai a informarmi. «Ma se all’inizio di questo brief, poco fa, mi pareva di aver capito, da alcuni... segni, diciamo così, che l’art stava ancora con la ragazza non c’è assorbente che tenga!»
«È successo dopo.»
L’account ruotò due o tre volte sulla sua poltroncina, sorridendo, in silenzio.
«Gliel’avevo già detto come lavorano!» disse rivolto a me. «Loro due si scambiano ogni cosa, qui dentro!»
Rimanemmo di nuovo tutti quanti in silenzio, per un po’.
«Si è tinto i capelli?» chiesi al copy d’un tratto, per cambiare discorso. «L’altra volta che ci eravamo visti non mi sembrava che li avesse rossi!»
«Oh, no!» disse il copy. «Certe volte appoggio la testa in grembo alla mia ragazza!»
Ci avvitammo e ci svitammo tutti e quattro sulle nostre poltroncine, come se niente fosse, in silenzio.
«Caffè!» ordinò l’account all’improvviso, gridando in un telefonino satellitare che aveva tirato fuori dalla fondina.
Qualche istante dopo entrò una ragazza in body, sui roller, con quattro bicchierini di caffè in una sola mano. Li posò sul tavolo, uscì subito dopo, scivolando, in silenzio.
«Cosa ci fa qui Bodyna?» domandai di punto in bianco.
«Adesso lei lavora da noi!» disse l’account accostando le labbra al bicchierino di plastica del caffè. «In cambio della vostra Bodyna vi abbiamo mandato in casa editrice la nostra Ditalina!»
«Oh, cazzo!» mi allarmai. «Ditalina è finita in casa editrice? Ma non lavorerà più nessuno, là dentro!»
Cominciammo a rimestare tutti e quattro nel bicchierino con l’asticella di plastica, a lungo, come se ciascuno aspettasse che l’altro finisse per poter finire a sua volta.
Dal resto dell’agenzia venivano solo rumori ovattati.
«Allora, ritorniamo ai nostri messaggeri dalle labbra dipinte!» si riscosse l’account, dopo aver finito di bere il caffè.
Si girò da una parte, abbassò la testa in un piccolo inchino.
«La parola al copy!» disse indicandolo con la mano.
Anche il copy aveva finito di bere il caffè, faceva cantare tra le mani il suo bicchierino di plastica bianca. Si schiarì la voce.
«Ma sì...» cominciò «avevamo bisogno di figure riconoscibili a grande distanza, che portassero impresso sul loro volto, come un suggello, il segno della loro funzione annunziante, qui dentro. Cosa c’era di meglio di questi uomini dalle labbra... diciamo... dipinte?»
Avevamo tutti finito di bere il caffè, a questo punto, stavamo facendo ruotare e cantare il bicchierino di plastica bianca, tra le dita.
«Ho messo subito gli occhi su di loro» continuò il copy, «creativamente aiutato anche dal fatto che nel frattempo mi ero messo con la ragazza non c’è assorbente che tenga.»
Buttai il bicchierino un po’ stritolato dentro un cestino di plastica trasparente. Anche gli altri buttarono subito dopo i loro bicchierini un po’ massacrati dentro il cestino a vista.
«Ma com’è successo, mi scusi» chiesi al copy, «che lei si è messo con la ragazza non c’è assorbente che tenga e l’art con quella con l’acne? Bisogna dirlo! Qui dentro nessuno ne sapeva ancora un cazzo! Siamo rimasti tutti quanti col fiato sospeso a seguire le gesta dell’art per liberare quella ragazza dalle grinfie dell’industria porno, e adesso scopriamo come se niente fosse che quella si è messa con lei, e che l’art se la fa invece di punto in bianco con la ragazza con l’acne! Cazzo! Senza dare la minima spiegazione! È strano, mi rendo conto, che sia proprio io a sollevare questo problema, e per di più in questi termini... Ma qui ci mandano al diavolo!»
Mi interruppi un istante. Cominciai a ridere forte, a lungo, con le lacrime agli occhi, come da queste parti non si ride più da tempo, dai tempi dei tempi.
«Cazzo!» ripresi dopo un po’, quando mi fui calmato. «Sarà successo senz’altro qualcosa di grosso, si diranno tutti! Qualche terremoto emotivo, di quelli che hanno sempre squarciato le vite degli uomini e i loro libri del cazzo. Accidenti, io ne so qualcosa! Insomma, si aspettano una gran spiegazione. Bisogna darla!»
Il copy, l’art, la ragazza con l’acne
e quella non c’è assorbente che tenga
Il copy e l’art si guardarono tra loro, ammiccando.
«Be’... sì» intervenne l’art, «in effetti qualcosa di grosso è successo!»
«Ah, bene, sentiamo!» dissi continuando a ridere piano, con le lacrime agli occhi.
Anche l’art si schiarì la voce.
«È successo» disse un istante dopo, «che lei mi ha detto...»
«Lei chi?» lo interruppi.
«Ma la ragazza con l’acne!»
«Ah, ho capito... mancava il soggetto!»
«Una volta, che siamo rimasti per un momento soli, lei mi ha detto: “Mi piacerebbe vederti il cazzo!”.»
«Ah sì?»
«Sì!»
«Tutto qui?»
«Sì! Tutto qui!»
Ci guardammo tutti e quattro in silenzio, per un po’.
«E dove è successo?»
«Nella cabina dell’ascensore di un albergo» disse l’art.
«E lei cosa ha fatto?» gli chiesi.
«Lei chi?» chiese l’art, «Manca il soggetto.»
«Lei art! Si capisce!»
«Gliel’ho fatto vedere!»
«Ah, bene! E dopo?»
«Le è piaciuto.»
«Capisco. E poi?»
«Mi ha fatto una sega.»
«Nell’ascensore?»
«Sì. E lo schizzo è andato a finire contro lo specchio!»
«Bene, bene!» rise l’account. «Lo vede? Così è tutto chiaro!»
Mi girai verso il copy.
«E lei e quella ragazza non c’è assorbente che tenga?» domandai.
Il copy si passò le dita tra i rossi capelli lucidi per il gel.
«Ci siamo trovati per caso anche noi due dentro lo stesso ascensore, nello stesso albergo» rispose.
«Ah, ho capito. E che cosa è successo?»
«È successo che io le ho detto: “Mi piacerebbe vederti la fica!”.»
«E lei cos’ha fatto?» mi informai.
«Me l’ha fatta vedere.»
«Ah, bene! E dopo?»
«Mi è piaciuta. Le ho fatto un ditalino.»
«Nella cabina dell’ascensore?»
«Sì.»
Rimanemmo di nuovo in silenzio, tutti e quattro, per un po’.
«D’accordo, d’accordo» conclusi, «adesso è tutto chiaro! Abbiamo dato tutte le coordinate emotive, psicologiche, sociologiche, i lunghi e devastanti processi, i tormenti mentali eccetera eccetera... Così nessuno potrà dire più niente, che non vengono date le motivazioni, che non si capisce un cazzo, qui dentro. Qui si stanno formando nuove coppie da tutte le parti, mi pare. D’altra parte che cos’è un libro se non uno spazio dove si formano continuamente nuove coppie? Ma, a questo punto, mi tolga una curiosità: perché eravate tutti e quattro in quello stesso albergo?»
«Perché eravamo sulle tracce di quegli uomini dalle labbra dipinte!» si rianimò il copy. «Avevamo deciso di coordinare gli sforzi durante la ricerca. L’art e la sua nuova ragazza con l’acne, io e la mia nuova ragazza non c’è assorbente che tenga, che era la fonte diretta – è il caso di dirlo – di quella particolare colorazione delle loro labbra e che li aveva visti in faccia e poteva aiutarci a rintracciare altre persone che potevano collegarci a quelli. Per questo ci spostavamo assieme da una zona all’altra della città, se le veniva in mente dove potevamo trovarne qualcuno, anche in altre città, quando ci arrivava alle orecchie una dritta particolarmente fortunata. Stavamo via anche due o tre giorni, e allora bisognava fermarci in albergo. Prendevamo due camere matrimoniali. Certe volte erano lontane l’una dall’altra, ai lati opposti del corridoio, certe volte una a fianco dell’altra. Non si dormiva tanto, di notte, con quelle due carnine sotto le mani, il muro che divideva le stanze sembrava sempre sul punto di crollare tanto le due testiere ci martellavano contro, una da una parte e l’altra dall’altra...»
Ammiccò all’art.
«“Accidenti, ci stanno dando dentro, quei due!” mi dicevo.»
«“Accidenti, ci stanno dando dentro quei due!” mi dicevo anch’io» disse l’art, ammiccando al copy.
«Certe volte non si trovavano neanche due stanze separate» continuò il copy, «quando arrivavamo in qualche città o in qualche paese dove era in corso un’importante gara di ballo liscio, ad esempio, e tutti gli alberghi erano pieni fino a scoppiare, quasi impossibile trovare una stanza qualsiasi, dappertutto quelle ballerine e quei ballerini che si spostavano qua e là da una stanza all’altra, eccitati, anche a notte fonda, quando tornavano dalle gare parlando animatamente, provavano qualche passo nei corridoi, se erano di quelli che dovevano ancora gareggiare o si preparavano a qualche giro di prova, tutto il piccolo albergo risuonava delle loro voci alterate, i pavimenti e i soffitti tremavano sotto i loro passi, i quadretti appesi alle pareti, l’acqua nei bicchieri sui comodini dove facevano cadere le dentiere, se erano coppie di ballerini anziani, le sputavano fuori dalla bocca come i pugili alla fine del round, oppure i sopradenti metallizzati e smaltati, se erano coppie giovani che si tenevano per i denti nelle giravolte più ardite. Dappertutto quell’afrore di carni sudate, il rumore di vigorosi lavaggi genitali nei gabinetti disseminati qua e là, mentre altre e altri indossavano o si toglievano i vestiti di gara, satinati, attillati, da tutte le parti quel rumore di busti, bustini, sfilati via in un colpo solo dai corpi delle ballerine un po’ in sovrappeso, qua e là nelle stanze, dopo essersi slacciate quei gancetti che ci sono in mezzo alle gambe, il rumore delle tette che esplodono fuori dalla guaina abbassata di colpo, anche a notte fonda, le ultime prove degli abiti nuovi per il giorno dopo, nel caso delle coppie che si erano aggiudicate il passaggio alla gara successiva, indossati restando in piedi per non stropicciarli sul sedere, il ballerino che scioglie il nodo della farfalla di fronte allo specchio con la parte superiore del corpo perfettamente vestita e nudo nella parte inferiore, i testicoli che pendono di una spanna in mezzo alle gambe, i rumori delle ultime scopate qua e là, per alleggerire la tensione prima del sonno, tra tutti quei cazzi svitati, quelle fiche spanate dopo una giornata di giravolte e di spaccate e di salti...»
«Oh, cazzo, bene!» interruppi il copy. «Vedo che è partito anche lei!»
«E ancora i rumori dei gargarismi, degli spazzolini e degli spazzoloni sfregati con forza sui denti, sulle dentiere» continuò il copy, «li restavamo ad ascoltare per un po’ guardandoci in silenzio con gli occhi sbarrati, ridendo, quando non trovavamo due stanze libere e ne prendevamo una sola per tutti e quattro, con un unico letto matrimoniale. L’uomo della reception ci guardava per un istante leccandosi i baffi, o la ragazza, quando dicevamo che ci andava bene anche una stanza sola, sembrava che stessero cadendo a terra stecchiti per l’emozione. Ci allungavano senza fiatare la chiave, con quella targhetta pesante del numero della stanza, pescando a caso tra le quattro mani che si tendevano assieme per prenderla. Salivamo in silenzio le scale, le nostre due belle fichette davanti e noi di dietro, con l’uccello già in tiro, oppure col famoso ascensore, senza fiatare, guardandoci di tanto in tanto a caso qua e là, il collo, le labbra, le tette, il bozzo sotto la cerniera dei calzoni, già tutta tesa e quasi fuori dalla sua sede, lucente, nella cabina abbagliata, mentre l’ascensore continuava a salire, la prima volta che ci è successo. E poi lungo il corridoio. Non ricordo chi ha aperto per primo la porta, quella volta. Siamo entrati in punta di piedi, senza fiatare, nella stanza. Ci siamo guardati attorno con otto occhi. I due comodini, il letto matrimoniale ben fatto. Qualcuno ha aperto la porta del bagno, anche le altre tre teste si sono sporte a loro volta in avanti con emozione, per guardarci dentro. Il lavabo, la doccia, la tazza del cesso, il bidè, tutte quelle cosine che si trovano sulle mensole, sotto gli specchi. Abbiamo posato i bagagli. Ci siamo stiracchiati nell’aria, per un po’. Finché qualcuno ha smesso e allora hanno smesso anche gli altri. Una delle ragazze ha abbassato la ripiegatura del letto, ci si è seduta sopra saltando due o tre volte per saggiare le molle. «Chi va dentro per primo?» ha chiesto qualcuno. Al cesso, naturalmente. «Per primo?» ha risposto qualcun altro. «Siamo amici, noi quattro. Possiamo lavarci tutti assieme, là dentro!» Siamo entrati tutti e quattro, spogliandoci in accelerazione crescente, facevamo fatica a lavarci i nostri due uccelli spenzolandoci sopra il lavabo, tanto crescevano e si modificavano tra le nostre mani, uno da una parte del lavabo e l’altro dall’altra, schizzi di sapone e di acqua dappertutto, mentre le nostre due ragazze si stavano lavando con la doccetta, sollevando tutte e due assieme una sola gambetta nell’aria, dalla stessa parte, si sentiva quel plic ploc che fanno le mani delle ragazze quando se le passano con decisione nelle loro fichette per risciacquarle. Schizzi d’acqua e sapone dappertutto, anche di qualcos’altro, nel caso della mia ragazza non c’è assorbente che tenga... Ma adesso torniamo ai nostri uomini con le labbra dipinte. Scusate, mi ero lasciato trasportare per un po’ da tutt’altra parte, stavo sbilanciando...»
Drizzai le orecchie.
«Vuole scherzare! Proprio adesso che viene il bello! Non se ne parla neppure di cambiare discorso! Lei non sbilancia proprio niente. Vada avanti, racconti! A quegli uomini con le labbra dipinte ci arriviamo lo stesso, tra un po’, a modo nostro.»
Il copy si schiarì un’altra volta la voce. Ammiccò all’art, che ammiccò a sua volta al copy.
Come si scopa in quattro
Siamo usciti tutti arrapati dal cesso. Ma non sapevamo come cominciare, la prima volta. Stavamo lì in piedi, nudi, arrapati. Due fiche e due cazzi appena lavati. Finché abbiamo cominciato ad abbracciarci, nudi, ancora in piedi, impalati, in quattro, in quello spazio mai visto prima. Ciascuno di noi due abbracciava a cazzo duro la sua ragazza e subito dopo anche l’altra, perché non ci restasse male. Le mani sulle reni, sul culo, baciando le loro tette mentre le nostre ragazze ci prendevano in mano le palle. E poi noi con le mani di taglio sulle loro fichette bagnate, prima dentro una fica e poi dentro l’altra, mentre cominciavamo già a inclinarci tutti e quattro e poi a coricarci di traverso sul letto, e anche le nostre ragazze tenevano in mano i nostri cazzi già scappellati, e ce li baciavano a turno e per tutta la loro lunghezza partendo dalle palle e poi su lungo tutto il tubo che vibrava e poi ritornava sempre al suo posto, impalato, e noi sotto a baciare a tutta birra le loro fichette tra le loro gambe già belle allargate, una da una parte e una dall’altra del letto, come due aeroplani, e anche in giro nelle altre stanze dell’albergo ci dovevano essere qua e là degli altri aeroplani perché si sentivano ancora i versi e le piccole grida delle ballerine e dei ballerini che avevano ripreso a ballare, gente che non aveva ancora finito di scopare dalla volta prima o aveva ripreso in quel momento o si era addormentata e poi svegliata e gli era venuta voglia di scopare o di scopare di nuovo. E allora anche noi a darci dentro ancora di più. Le nostre ragazze con i nostri cazzoni in bocca, noi con le loro belle fichette in bocca, prima uno poi l’altro, prima una poi l’altra, noi già con le labbra dipinte dopo aver lavorato dentro la fica della mia ragazza non c’è assorbente che tenga, le lenzuola già un po’ cioccolatate qua e là. Poi di nuovo a rotolare abbracciati, prima a coppie, poi tutti insieme. «Accidenti! In quale fica lo infilo per primo?» ci domandavamo ridendo io e l’art. «Accidenti! Quale cazzo mi prendo dentro per primo?» si domandavano ridendo le nostre ragazze. E di nuovo baci da tutte le parti e risate e carezze, le nostre dita e le nostre mani nelle loro belle fichette già molto lubrificate, allineate l’una vicino all’altra con le ali tutte ben spalancate, tenute aperte ancora di più dalle loro manine dalle unghie dipinte, disossate, le loro testine sollevate tutte e due dal letto per guardare bene, una a fianco dell’altra, la mia ragazza non c’è assorbente che tenga con la sua faccia bella e bianca e piena di sangue, dagli zigomi alti, circassa, la ragazza con l’acne con i suoi occhi profondi, truccati, molto profumati. E poi di nuovo a girarci, noi coricati di traverso sul letto e loro a prenderci in bocca i nostri uccelloni, e stavolta eravamo noi a stare uno vicino all’altro con le gambe allargate come due aeroplani, e loro due a baciarci in mezzo alle cosce e poi sulle palle e intorno alle palle fino al buco del culo appena lavato, con quelle loro linguette, e poi ancora sui cazzi, scambiandosi i cazzi come noi ci eravamo scambiati le loro fiche. E noi due adesso a sollevare le nostre due teste appaiate, la lingua fuori, per guardare le nostre due ragazze che si stavano dando allegramente da fare. «Basta, basta!» imploravamo. «Adesso bisogna scopare!» E allora anche loro a capofitto sul letto, e io che cominciavo a infilarlo dentro la fica della mia ragazza non c’è assorbente che tenga e l’art dentro la fica della sua ragazza con l’acne e si cominciava a scopare appaiati, uno in una parte del letto e l’altro nell’altra, le gambe delle nostre ragazze che facevano gli aeroplani nell’aria, incrociate, i nostri due culi su e giù a martellare e a pompare con lo stesso identico ritmo. «Vuoi venire dentro la tua o vuoi venire dentro la mia?» chiedo all’art girando la testa dalla sua parte, rosso fuoco. «Non sono più in grado di operare una scelta! Ormai sto venendo!» mi dice con la testa girata, rantolando. «Grazie comunque per il pensiero, sarà per un’altra volta!» E intanto anche le nostre fichette si stanno dicendo l’un l’altra: «Vuoi farti riempire dal tuo o vuoi farti riempire dal mio?». Le loro quattro belle gambette di carne già tutte ripiegate e allargate nell’aria, nello spazio. «Il discorso non si pone più in questi termini» risponde l’altra con la gola chiusa, «sto già venendo! Ma la prossima volta ci puoi giurare che ti prendo in parola, bellezza!» I nostri due culetti trivellatori che si alzano e si abbassano sempre più velocemente e più forte tra le ali dei due aeroplani di carne, a stantuffo, ci danno dentro sempre di più mentre le nostre ragazze accompagnano i nostri gesti tirandoci forte con le loro manine dipinte, le dita contro i nostri buchi del culo. La testiera sbatte contro la parete con duplice forza, il letto si sposta per conto proprio attraverso la stanza, le ragazze hanno la lingua fuori, anche noi abbiamo le lingue fuori, il materasso matrimoniale sobbalza, le molle ci fanno volare sempre più in alto ogni volta per via del contraccolpo. Non parliamo degli urli, dei versi! Qualche altra coppia in giro per l’albergo si rimette di nuovo a ballare, accelerano mentre noi stiamo accelerando ancora di più. Si sentono arrivare altri versi e altri urli, prolungati, notturni, mentre noi quattro siamo già coricati di schiena uno vicino all’altro sul letto, la lingua fuori, e ci teniamo per mano. Ci riposiamo un po’, ci abbracciamo di nuovo, incrociati. Le solite cose: palpate di culo, di cazzo, di fica, gli uccelli che ricominciano a tendere i loro imbuti di pelle, le nostre ragazze già a bocca aperta. Altri baci, altri abbracci. La ragazza con l’acne si mette a cavalcioni sopra di me, si infila dentro il mio cazzo tutto bello sporco di sangue della mia ragazza non c’è assorbente che tenga. Mi comincia a scopare, mentre anche la mia ragazza non c’è assorbente che tenga è già a cavallo dell’art e lo comincia a sua volta a scopare. Il suo cazzo entra ed esce rosso birillo dalla sua bella fichetta. «Oh, che bello!» fa la ragazza con l’acne. «Oh, che bello!» fa la mia ragazza non c’è assorbente che tenga. «Oh, che bello!» facciamo io e l’art, mentre le loro quattro tette ballano sempre di più davanti ai nostri quattro occhi. Gliele prendiamo in mano, gliele palpiamo, vediamo i loro quattro grandi capezzoli evidenziarsi sempre di più di fronte ai nostri quattro occhi tutti un po’ fuori dalla testa. «Oh, che bello!» dice ancora l’art con la lingua fuori. Ci scambiamo le fiche all’interno della stessa scopata, le ragazze si scambiano i nostri cazzi all’interno della stessa scopata. Poi entrano in ballo anche i culi, le bocche, due culi, due bocche, quattro culi, quattro bocche, quattro teste con due occhi ciascuna che fanno otto. Per tutta la notte così, fino all’alba, ci rendiamo conto che è mattina solo da quei rumori che fanno i ballerini quando si rimettono le loro dentiere, con uno scatto, qua e là nelle stanze, e ricominciano a provarsi gli abiti nuovi per le prove nuove. Nel nostro albergo e anche in altri, pieni zeppi, sovraffollati, in un’unica stanza anche quando ne sono disponibili due, dopo aver mangiato al termine di una giornata di ricerca particolarmente fruttuosa, un po’ ubriachi. Entriamo nelle nuove stanze, ci guardiamo in faccia leccandoci i baffi per la nuova notte che abbiamo davanti. A luce accesa, a luce spenta, se l’abbiamo spenta solo per dormire un po’, finalmente, e poi ci prende di nuovo voglia gli uni degli altri, ricominciamo. Cercandoci aggrovigliati nel buio, senza neanche capire in quale fica va a finire il nostro cazzo, quale delle due bocche lo sta spompinando, in quale culo, e anche le nostre ragazze cominciano a far confusione, là in mezzo, perché certe volte intravedo nella penombra la ragazza con l’acne che mi viene vicino per leccarmi le palle con la bocca tutta dipinta di un certo rosso che non mi sembra rossetto, segno che ha appena leccato la mia ragazza non c’è assorbente che tenga, nel groviglio dei corpi, e anche a me arriva in bocca alla cieca il birillo tutto rosso di sangue dell’art, e io a mia volta sento salire dal mio birillo un profumino che non capisco se è della mia fichetta oppure della pomata per le emorroidi dell’art, un secondo prima di ficcarlo dentro in qualcuna delle altre tre bocche, senza neanche sapere quale perché oltretutto entriamo nella nostra unica stanza già un po’ sbarellati, un po’ brilli, dopo aver mangiato tutti e quattro assieme in qualche ristorante mai visto di una città mai vista, durante le nostre ricerche, magari anche un po’ impasticcati, certe volte, anche qualcos’altro che circola da noi in agenzia, quando siamo davvero al massimo dei giri, non facciamo neanche in tempo a passare di fronte alla reception che cominciamo già ad abbracciarci, ancora lungo le scale, nella cabina dell’ascensore, ci stringiamo tutti e quattro irresistibilmente di fronte allo specchio, ci baciamo mettendoci tutti e quattro con le labbra a corolla, le lingue vanno da tutte le parti in questi varchi gemelli, le nostre teste e le nostre ossa e i nostri denti cozzano gli uni contro gli altri mentre ci teniamo tutti e quattro abbracciati forte e ci tocchiamo il collo e le reni e le braccia e poi via con le mani sotto le sottane delle nostre ragazze, infilandole sotto i collant per cercare il culo, e loro via a prenderci in mano il pacco già gonfio sotto i calzoni. Barcolliamo fuori dalla cabina, quando le porte si aprono all’improvviso all’arrivo al piano e qualcuno è già davanti in attesa e ci guarda con i globi degli occhi fuori dalla testa mentre noi non ci siamo neanche accorti che l’ascensore è arrivato e siamo ancora così, aggrovigliati, e poi barcolliamo lungo i corridoi in penombra come un unico corpo con otto gambe, e irrompiamo poi nella stanza. Un secondo per guardarci attorno in quel nuovo spazio, per tastare il letto, e subito dopo via a spogliarci a velocità crescente, non si vedono neanche le nostre braccia e le nostre gambe tanto le muoviamo in fretta, disarticolate, per sbarazzarci uno dopo l’altro di tutti gli indumenti, sfuocate. I vestiti volano a corolla da tutte le parti, via le scarpe, le calze, via i reggipetti, le quattro tette di carne che sbocciano da tutte le parti, via le mutande, fiche pelosette e cazzi già scappellati che si fanno festa da tutte le parti, i tampax della mia ragazza non c’è tampax che tenga che volano colorati attraverso la stanza, come stelle filanti, gli assorbenti fuori dalle mutande, dai plantari delle scarpette, i due culi delle nostre ragazze già tutti pronti e lisci e rotondi, profumati. Di corsa al cesso. Io e l’art facciamo pipì a razzo dentro il lavabo, uno da una parte e uno dall’altra, le nostre ragazze si contendono il water perché hanno bevuto molto e se la stanno facendo addosso. «Prima io! Prima io!» Si sente quel rumorino che fanno le fichette delle ragazze quando si siedono sopra le tazze e l’hanno tenuta per molto, quel fischietto. Anche quel plof plof che fanno gli stronzi delle ragazze quando cadono dall’alto nell’acqua, colorati. «Scusate, ragazzi» dice la mia ragazza non c’è assorbente che tenga, «ma ho mangiato e bevuto tanto, non ce la facevo proprio più a tenerla!» Ci buttiamo tutti e quattro sotto la doccia. Ci laviamo l’un l’altro, facendo fatica a stare tutti e quattro nella conchiglia perché i nostri birilli hanno già preso volume. Laviamo le fichette delle nostre ragazze, con le mani già insaponate, con l’acqua, la conchiglia della doccia tutta rossa per il sangue della mia ragazza non c’è assorbente che tenga, a ogni passaggio di mano per risciacquarla, poi i loro buchetti dei loro culetti, loro due che ci lavano i nostri uccelli già decollati, con le loro manine dipinte, avanti e indietro, scrupolosamente, sotto il getto, per risciacquarli bene. «Oh, no, no, vi preghiamo, non lavateci troppo» imploriamo io e l’art, con la lingua fuori, «altrimenti vi veniamo subito in mano prima ancora di cominciare!» E poi ad asciugarci e ad abbracciarci l’un l’altro coi grandi asciugamani di spugna. E poi nella stanza, abbracciati. E poi ancora tutti e quattro sul letto, dentro e fuori da tutte le parti, iniziamo a scopare in una fica e veniamo nell’altra, mentre uno pompa gli altri due leccano, oppure uno che lecca e tre che pompano, buchi delle fichette, dei culi, non si capisce più niente di dove si va a finire. I piedi delle nostre ragazze sempre più in alto, decollati, arrivano fin quasi a toccare la luce che pende giù dal soffitto, quando sono molto contente di noi e noi siamo molto contenti di loro, i nostri culetti pelosi che si alzano e si abbassano assieme, sempre più velocemente, più a fondo. «Oh, che bello! Che bello!» Poi si chiacchiera un po’ nel letto, tutti e quattro, abbracciati, le lenzuola tutte strisciate dal sangue della mia ragazza non c’è assorbente che tenga, anche di quello della ragazza con l’acne, se per caso ha le sue cose anche lei e non ci pensa nemmeno a restare a bocca asciutta, e anche noi non ci pensiamo nemmeno, anche altre strisciate qua e là, di altri colori, di cacca, quando i nostri birilli vanno a finire in qualcuno dei loro culetti o anche in qualcuno dei nostri culetti pelosi, nella ressa dei corpi abbracciati, tanto poi ci laviamo tutti e quattro dentro la doccia e usciamo di nuovo dalla stanza tutti ben pettinati, profumati, tagliamo la corda in fretta, la mattina presto, andiamo a fare colazione in un bar, guardandoci negli occhi sorridendo, tranquilli, e cominciando a ridere col boccone in bocca, cappuccino, brioche, tutto spruzzato fuori dalla bocca, attraverso il locale dove stanno già arrivando quelli che fanno mercato nella piazza vicina e che si sono svegliati di notte, hanno caricato il furgone con le scatole della merce, bevono qualcosa di forte prima di cominciare a montare le bancarelle, pazienza per la ragazza che passa a rifare le stanze, a portar via le lenzuola, tanto non ci trova più, chi s’è visto s’è visto! E a farci caso bene si avverte la differenza tra l’odore della nostra cacca e quella delle nostre ragazze, perché la merda delle ragazze non ha lo stesso identico odore della nostra, non c’è molta differenza, d’accordo, voglio dire, è quasi uguale, se è per quello, eppure qualcosa di diverso c’è anche lì, per il modo che hanno loro di prendere il cibo in bocca, di masticare, per tutte quelle cosette che respirano in modo diverso, nell’aria, quegli smalti che si mettono sulle unghie, delle mani, dei piedi, e intanto respirano tranquillamente, con le testoline chinate, quei profumi che si spruzzano con i nebulizzatori e un po’ ne va sempre a finire nei polmoni, nella trachea, nell’esofago. E delle particelle anche nello stomaco, nell’intestino, per forza! Danno quel particolare profumo alla cacca che c’è dentro i fori dei loro culetti, provate a farci caso, e anche quelle cose che volano da tutte le parti, tutti quei pollini portati dal vento, quelle musichette che vanno nell’aria e che loro non possono non respirare, mangiare. Parole dette con la testa dentro la piega della spalla e del collo, gli occhi chiusi, abbracciati tutti e quattro, tranquilli. E poi di nuovo qualche mano che ricomincia ad accarezzare, a palpare, qualche dito che finisce in qualcuna delle loro fichette ancora tutte belle bagnate, perché non usiamo preservativi, siamo amici fedeli, ci conosciamo, quelle crestine che hanno dentro sono già allo scoperto, sbocciate, sotto le nostre dita, quel germoglio che c’è al loro interno già allo scoperto, le loro manine sui nostri uccelli. Si riprende! Le ragazze sopra di noi, oppure una sopra e una sotto, ci palpiamo e ci accarezziamo l’un l’altro dove il cazzo e la fichetta degli altri due stanno andando già avanti e indietro, incastrati. Le gambe delle nostre ragazze riprendono a volare nell’aria, le loro quattro tette strette nelle nostre quattro mani, sfuocate, tutte dilatate, i capezzoli fuori dalle orbite, le loro otto tette nelle nostre otto mani, se a fianco del letto c’è per caso uno specchio, quattro belle fichette invece di due, quattro cazzi invece di due, vanno dentro e fuori da tutte le parti, otto bocche e otto buchi del culo, non si capisce più niente, quattro culetti pelosi che stantuffano uno di seguito all’altro con lo stesso identico ritmo. Otto «Oh, che bello! Che bello!» invece di quattro, otto urli durante l’orgasmo, quattro nostri e quattro delle nostre ragazze, quattro urli dall’altra parte del muro invece di due, se la coppia di ballerini che c’è nella stanza vicina si è messa a scopare anche lei e c’è uno specchio anche a fianco del loro letto, dodici tra cazzi e fiche se prima di cominciare a scopare abbiamo messo nel videoregistratore una cassetta porno in dotazione dell’albergo e ci sono due che scopano a loro volta nel video, presi dentro anche loro nello stesso specchio, e la ragazza non c’è assorbente che tenga alza la testa mentre sta scopando ed esclama: «Accidenti, ma quella là sono io!» perché è la cassetta di uno di quei film porno che lei aveva girato prima e anche la bolla del video è tutta rossa di sangue, anche le nostre lenzuola, allagate, e allora dodici tra cazzi e fiche che scopano, dodici versi durante l’orgasmo, dodici lingue fuori, dodici versi dell’art per le contrazioni del suo buco del culo sulle emorroidi durante l’orgasmo... Oh, scusate, ma qui ho perso di vista la nostra ricerca di quegli uomini dalle labbra dipinte! Mi sono lasciato trasportare dall’elemento intrinseco... Eppure non abbiamo mai smesso di cercarli, ve lo assicuro, ne abbiamo trovati già molti, li abbiamo già parcheggiati in un alberghetto a spese dell’agenzia, come quei partecipanti alle trasmissioni televisive a premi, in attesa di entrare in azione quando li sguinzaglieremo per dare l’annuncio... Ma, a questo punto, stanno venendo qui al brief anche le nostre ragazze con l’acne e non c’è assorbente che tenga, così potrete sentire tutto direttamente dalle loro bocche, dalle loro boccucce...
Ci alzammo tutti, immediatamente, di scatto, come sparati su da un cannone, perché si vedeva già la maniglia della porta che si abbassava.
La porta dell’ufficio si spalancò.
«Siamo qui!» si annunciarono allegramente le due ragazze.
Le guardavamo con gli occhi fuori dalla testa, mentre facevano il loro ingresso nella sala dove stavamo tenendo il brief.
«Signorine, siamo onorati della vostra presenza!» disse con deferenza l’account, con gli occhi sbarrati, facendo un piccolo inchino.
«Signorine» dissi soltanto io, sobriamente, «sono piacevolmente sorpreso. Che buona idea è stata quella di venire qui di persona! Non me l’aspettavo neppure io, che è tutto dire... Ci sentiremo un po’ meno soli, d’ora in avanti, in questo cazzo di brief.»
Le ragazze erano ancora in piedi, elettrizzate. Giravano su se stesse, come per farsi ammirare da ogni angolo visuale, mentre rispondevano alle nostre frasi, stringevano mani.
«Com’è bella! Com’è alta!» sparò l’account alla ragazza non c’è assorbente che tenga. «Non me la facevo così alta da quel movie pubblicitario!»
«Be’, non sono poi così stanga!» rispose ridendo la ragazza. «Mi sono solo messa qualche plantare in più, nelle scarpe!»
«Ah... bene, bene... capisco!» balbettò l’account.
La ragazza si guardava attorno e rideva.
«E lei...» disse ancora l’account rivolgendosi all’altra ragazza. «Complimenti, signorina! Che meraviglia di acne! Anche nel suo caso il movie non le rende completamente giustizia! Che lineamenti meravigliosi! Che splendida bocca! E tutto questo che emerge da un fondo di materia come in... in...»
«In cancrena!» completò il copy.
«Sì, sì!» sorrise la ragazza, tranquillamente. «L’ho già detto: è un principio di lebbra!»
«Eppure il resto del suo corpo, la sua pelle... in ogni punto... è perfetta! Dovreste vedere che meraviglia!» disse l’art.
La ragazza con l’acne fece il gesto di slacciarsi il bottone dei jeans.
«Volete vedere?» domandò.
«Be’, sì... altroché! Insomma, non so... No, no, cosa dico, forse è meglio di no, non se ne parla in questo momento, in pieno brief...» si confuse l’account.
Il copy e l’art gongolavano.
«Se mi sono presentata anch’io di persona» disse con emozione la ragazza con l’acne, «è perché sento che ci può essere anche per me una chance di guarigione, di salvezza, qui dentro, per come si stanno mettendo le cose...»
Si girò improvvisamente verso di me.
«Lei cosa dice: mi passerà quest’acne, alla fine?»
«La sua acne... la sua lebbra...» balbettai preso alla sprovvista, prima di riprendermi prontamente, «accidenti, lei non perde tempo! Ma certo, non ci avevo pensato, terremo conto anche di questo! Certo, cazzo! Anzi, adesso che ci penso, per forza che le deve passare, alla fine! Altrimenti cosa stiamo qui a fare!»
Eravamo ancora tutti e sei in piedi, elettrizzati in un piccolissimo spazio.
«D’accordo, d’accordo» provai a dire, «ci siamo detti più cose di quelle che in genere si dicono nei convenevoli. Ma qui ci si incontra così, per desideri grandi, per inganni, per urti! D’altronde tocca a me, a questo punto, rifilare questa frottola della salvazione, proprio a me... Non opporrò più resistenza, l’asseconderò, a modo mio, fingerò di assecondarla, fino alla fine, fino in fondo, ci starò dentro, ne farò la mia piccola creazione, il mio sogno. È solo così che me la posso giocare, qui dentro, a questo punto. Ma adesso proviamo a poco a poco a sederci, riprendiamo questo cazzo di brief! Siamo solo all’inizio – ammesso che siamo almeno all’inizio – di questa cosa che ci siamo trovati tutti quanti tra capo e collo, che abbiamo tirato fuori lì per lì per avere qualcosa da sbattergli in faccia... quel manoscritto di quel vecchietto con la paresi segaiola... e poi quegli altri che saltavano e saltano fuori continuamente qua e là, come funghi. Adesso ce la dobbiamo sfangare, tutti all’interno di questo progetto pubblicitario di salvazione, bisogna arrivare a questa cazzo di nascita pubblicitaria, a questa redenzione del cazzo, se no non possiamo neanche riuscire a incominciare. Col cazzo che il problema è che non si riesce più a finire, a smettere di finire... Il problema non è la fine, è l’inizio! Lo spazio che abbiamo di fronte è inconcepibile, enorme. Noi siamo perennemente in balia del nostro esordio. Noi siamo dentro noi stessi e siamo già nello stesso tempo tutti quanti dentro quel feto che si sta preparando a esordire! Stronzate, ragazzi... non fate caso a quello che dico, certe volte vaneggio!»
Rumori di manine e di mani sul piano del tavolo, di gomiti, di scarpette e di scarpe, di sederi pelosi e di sederini mestruati che si accomodavano sulla conchiglia delle poltroncine, mentre tutti e sei prendevamo finalmente posto per riprendere il brief.
«A proposito» buttai lì rivolto alla ragazza non c’è assorbente che tenga, «spero che sia tutto sotto controllo. Mi raccomando, signorina, si trattenga... Non qui al brief!»
«Non è questione di trattenersi!» mi rispose la ragazza ridendo.
Ci guardammo in faccia per qualche istante, io e l’account e le due coppie che si erano prese con emozione per mano, a due a due, guardandosi irresistibilmente negli occhi. Solo che l’art aveva preso la mano della ragazza non c’è assorbente che tenga e il copy quella della ragazza con l’acne.
Mi accomodai meglio sulla poltroncina.
«Scusate, ragazzi» dissi girando la testa, «ma, per un minimo di chiarezza prima di ricominciare... Mi pareva di aver capito che adesso l’art stava con la ragazza con l’acne e il copy con quella non c’è assorbente che tenga! Invece mi pare...»
«È vero» rispose allegramente la ragazza con l’acne, «adesso io sto di nuovo con il mio copy!»
«E io col mio art!» le fece eco la ragazza non c’è assorbente che tenga.
«Come mai?» si informò gentilmente l’account. «Che cosa è successo nel frattempo?»
«Credevamo anche noi che fosse così. Invece no! L’abbiamo capito noi stessi un secondo fa, all’improvviso, quando le nostre mani si sono strette così invece che cosà. Era stata solo una sbandata, si vede. Io sono di nuovo la ragazza del mio art e la ragazza con l’acne quella del suo copy!»
Gettai indietro la testa.
«Bene, ragazzi! Adesso è tutto perfettamente chiaro, le informazioni sono state date. Possiamo riprendere il brief! Stavamo dicendo che siamo sulle tracce di quei messaggeri dalle labbra dipinte. Li abbiamo già trovati, abbiamo saputo poco fa, se nel frattempo non è cambiato anche quello...»
«No, no» interruppe la ragazza non c’è assorbente che tenga, «ci siamo dati da fare, noi quattro, ma alla fine ne abbiamo trovati un bel po’!»
«Bene, allora, sentiamo!»
I messaggeri dalle labbra dipinte
«Abbiamo cominciato a setacciare le strade vicino ai set porno» cominciò il copy, «ma non era facile perché quelli cambiano continuamente posto per non farsi beccare in seguito alla soffiata di qualche vicino di appartamento spaventato da tutti quei colpi e quei versi provenienti dall’altra parte del muro, anche in piena notte, gente che denuncia la presenza di uno zoo clandestino, di una ristrutturazione particolarmente demolitiva di cui nessuno nel condominio sapeva niente. Passavamo e ripassavamo di fronte alle vetrine di qualche tavola fredda vicina ai set, dove certe volte quegli uomini dalle labbra dipinte si mettono a mangiare sui trespoli, le teste e le bocche girate verso la strada, in movimento continuo per la masticazione...»
«Io ne so qualcosa!» interloquì l’art massaggiandosi la mascella.
«Tutti e quattro schierati» riprese il copy, «sui marciapiedi larghi, in mezzo alle strade, per coprire con i nostri otto occhi una porzione di spazio più grande. Camminando dinoccolati nel venticello che si leva da tutte le parti, qui dentro, per via delle gambe molli dopo una delle nostre notti movimentate...»
«Accidenti com’erano molli!» interloquì nuovamente l’art.
«Anche le nostre gambette!» risero assieme le due ragazze. «Oh sì, com’erano molli!»
«Molli molli!» concluse l’art.
«Una gamba di qua, una gamba di là» continuò il copy, «tutti e quattro a braccetto. La fila che sbandava di qua e di là, le nostre ragazze sulle loro scarpette basse, da battitrici, qualcuna qua e là rialzata da qualche plantare, le loro fichette in movimento sotto le mutandine, a ogni passo, una nera e una rossa, i nostri birilli anche loro dinoccolati, impalati, qua e là, a ogni passo, le nostre quattro palle, otto palle, se contiamo lo specchio...»
Si interruppe un istante.
«Da un isolato all’altro» riprese, «spostandoci con i mezzi sotterranei, di superficie, perché quelli che fanno come secondo lavoro i film porno ci danno dentro quando capita e poi si dedicano ad altro, vanno in giro con le loro bocche dipinte, come se niente fosse, le mani in tasca...»
«Finché abbiamo beccato il primo!» esclamò l’art.
«L’ho visto io!» disse la ragazza non c’è assorbente che tenga.
«No, io!» ribatté quella con l’acne.
«Stava segnando con un martello pneumatico una pista su un marciapiede» continuò il copy, «mentre la ruspa dietro di lui staccava pezzi d’asfalto.»
«“Si ricorda di me!” gli ho gridato» disse la ragazza non c’è assorbente che tenga.
«“Signorina, come posso non ricordarmi di lei!” ha esclamato quello lasciando cadere a terra pesantemente l’attrezzo» continuò il copy. «“Allora mi segua!” ha detto la ragazza non c’è assorbente che tenga.»
«Dopo il primo ne è arrivato un secondo» continuò l’art, «lasciavano su due piedi il lavoro, quando gli annunciavamo a cosa erano chiamati qui dentro, d’ora in poi. Ci segnalavano i nomi e gli indirizzi di altri uomini dalle labbra dipinte coi quali avevano lavorato assieme alla mia ragazza non c’è assorbente che tenga, sui set, anche in altre città, fermandoci a dormire – si fa per dire – negli alberghi, e poi con le gambe molli sui marciapiedi. Ne beccavamo uno intento a guidare un autobus nel traffico cittadino, un altro nella cabina di manovra di un’altissima gru, per quella chiazza rossa della bocca che si vedeva palpitare là in alto...»
«Quello l’ho visto io!» interruppe la ragazza con l’acne.
«Buone, buone, ragazze!» esortò l’account.
«Mi sono messa a sventolare le braccia» continuò la ragazza non c’è assorbente che tenga, «anche la gonna... Mi ha riconosciuto immediatamente, là in alto, rimpicciolito, è corso giù ingrandendosi poco per volta lungo quella scaletta.»
«Oppure intercettavamo le loro labbra dietro un parabrezza, quando appartenevano a un guidatore di taxi» continuò il copy, «piantavano lì i passeggeri su due piedi, se vedevano la mia anzi adesso la sua ragazza non c’è assorbente che tenga. “Prego, prego, signori! Adesso fuori dai coglioni!” dicevano aprendo improvvisamente le portiere di dietro, tutti in torsione sopra il sedile di guida. “Ma che maniere sono queste! Che cazzo succede?” gridavano i passeggeri già scesi lungo i bordi della strada, incazzati.»
«La nostra schiera si ingrossava» continuò la ragazza con l’acne, «quando ne beccavamo diversi durante la stessa giornata, invadevamo tutto lo spazio dei larghi marciapiedi, delle strade, sbandando qua e là tutti dinoccolati...»
«Ci vedevano avanzare a ventaglio» continuò la ragazza non c’è assorbente che tenga, «i passanti si fermavano sbalorditi per lasciarci passare. “Chi saranno? Da dove verranno? Dove andranno?” sentivamo che si stavano domandando l’un l’altro.»
«“Lo saprete presto!” dicevamo noi, nel passare» continuò l’art.
«Li parcheggiavamo man mano in un albergo che ci aveva indicato l’agenzia» disse la ragazza con l’acne, «il loro numero cresceva sempre più, adesso stanno di sicuro girando sfaccendati per i corridoi, lungo le scale, il numero delle loro bocche si raddoppia nello specchio dell’ascensore. Invadono la piccola sala da pranzo, durante la colazione del mattino e all’ora di cena. Tutte quelle loro bocche dipinte che masticano da tutte le parti, negli specchi qua e là nella sala, che cominciano improvvisamente a cantare, a sconfinare...»
Canto dei messaggeri dalle labbra dipinte
Non ci avete mai visti? In giro tra le altre persone, per strada, di giorno o di notte? Appoggiati a un muro, come se niente fosse, dietro la vetrina di una tavola calda, di un bar, oppure fermi per strada, a un incrocio, di fronte al rosso speculare di un semaforo che ha bloccato di colpo il flusso dei pedoni? Dietro il parabrezza di un’auto, di uno di quei grandi scooter incapsulati nel loro uovo di plexiglas? Le nostre bocche si spostano come fosforescenti nelle strade, il rosso delle nostre labbra sale attraverso lo spazio trasportato dalle scale mobili delle stazioni, dei centri commerciali pieni di luce, mentre ci portiamo alle labbra la sigaretta dal filtro macchiato. I nostri denti sono bagnati, colorati, quando li mettiamo allo scoperto per una risata sfuggita improvvisamente e senza ragione sui set, nel chiuso dei nostri appartamenti qua e là. Il fiore delle nostre bocche palpita nel buio dei tunnel sotterranei delle metropolitane, mentre ci sfrecciamo dentro al posto di guida immobili dietro il parabrezza della motrice, le nostre teste vibrano per la velocità crescente nei rettilinei lanciati, nelle curve vibranti, prima di sbocciare all’improvviso all’uscita del tunnel di fronte agli occhi sbarrati dei passeggeri in attesa lungo le banchine gommate. Noi siamo quelli che affondano il grugno nelle fiche mestruate. Gettiamo le facce in quella materia emorragica pestilenziale, dopo avere staccato la compressa fradicia degli assorbenti o quei cannelli quasi neri dei tampax, nei set, nelle stanze d’albergo, nelle case. Muoviamo la lingua alla cieca in quel flusso di sangue marcio, muco cervicale e frammenti di tessuto endometriale degenerato, con gli occhi spalancati e sbarrati nella putredine di quell’incendio, sentiamo quella feccia scolarci lungo la gola, nelle froge dilatate al massimo nello sforzo di carpire un po’ d’aria nella respirazione. Avvertiamo anticipatamente l’arrivo del sangue, mentre sbadiliamo diligentemente nei set, nelle case, riusciamo a percepire l’assottigliarsi delle mucose, i fenomeni di necrosi iniziali fino all’ischemia dell’endometrio che finalmente si necrotizza del tutto, si squarcia. Le nostre teste premono contro la scolatura nera dei loro corpi in dissanguamento. Ci ficchiamo a capofitto in quella melma incendiata che cancella ogni forma, solo grumi bagnati che sgusciano sotto i denti, le labbra, sentiamo il flusso emorragico che arriva con ancora più forza sotto l’azione delle nostre lingue bagnate, lasciamo le fiche rosse, incendiate, quando stacchiamo le nostre ventose dalla compressa fradicia dei loro peli pubici insanguinati, l’interno delle cosce allagate, la fenditura del culo, l’anello dell’ano, anche il ventre tutto bagnato, impiastricciato, come se si fosse appena staccato dalle loro carni il muso dentato di qualche grande animale sbudellatore. Anche le nostre labbra sembrano in fiamme quando le stacchiamo da quelle fenditure spaccate, sentiamo il getto che continua a colpirci sul volto quando siamo già distanti dalle loro piaghe irrorate. Usciamo in strada con i nostri grugni incendiati, portiamo in giro il nostro muso colorato e truccato, come quello del maschio del mandrillo coi suoi colori di guerra, le mani in tasca, tranquilli, tra la gente, quasi avessimo appena baciato la nostra ragazza contro un muro, semplicemente, con passione, con forza, entrando con gli occhi chiusi nella cavità vivente della sua bocca intensamente dipinta con il rossetto, e anche le nostre labbra si fossero imbrattate del loro rossetto mentre anche lei ci penetrava muovendo le labbra e la chiostra dei denti contro la nostra bocca, come un perno, entrandoci dentro ancora più a fondo, e le nostre lingue si fossero attorcigliate l’una all’altra come fiori scoppiati, le nostre narici investite dall’odore della saliva scaturita dalle zone più profonde del suo corpo, digestive, la colonna radiografata delle nostre spine con i loro anelli snodati, innamorati, tutt’intorno rumori attutiti, silenzio, quelle macchine alate che vanno attraverso lo spazio, tutti quei corpi ciechi abbagliati che vanno attraverso le cavità del cosmo, di notte, in quella che a noi appare come la notte, il rumore dei nostri passi sui marciapiedi, mentre andiamo con le nostre bocche fosforescenti che si indovinano da lontano nel buio, col nostro materiale emorragico degenerato attorno alle narici, alle labbra, nella cavità della bocca, tra i denti. Non proviamo neanche a darvi un’idea del nostro alito! Eppure siamo stati eletti noi, saremo noi che daremo finalmente l’annuncio. Qualcuno, tra tutte queste forme e queste figure in tensione che si divincolano da ogni parte qui dentro, ha messo gli occhi su di noi. Adesso siamo parcheggiati tutti quanti in questo piccolo albergo che quasi nessuno conosce, come le ultime comparse dell’ultima trasmissione televisiva, passiamo il tempo che ci separa dall’annuncio chiusi tranquillamente dentro le nostre stanze, dormiamo, chiacchieriamo, mangiamo. Ci facciamo visita, camminiamo per i corridoi dalle pareti scrostate. Chiudiamo gli occhi nel buio, di notte, il sonno ci prende. Nessuno sa più niente di noi, della nostra esistenza. Eppure certe volte vediamo i passanti bloccarsi di fronte alla facciata del nostro piccolo albergo, quando ci affacciamo tutti assieme alle sue finestre, come se avessero esposto di colpo un numero enorme di mazzi di fiori rossi fiammanti sui davanzali.
Il copy e l’art gongolavano. Gli occhi della ragazza non c’è assorbente che tenga scintillavano.
«D’accordo! Anche questa è fatta!» dissi accendendomi una sigaretta.
Squillò il telefono.
«Cazzo!» esclamò l’account. «Mi ero dimenticato di dire che non ci disturbassero durante il brief!»
Allungò la mano verso l’apparecchio, sollevò la cornetta.
«Pronto!»
Rimase per qualche istante in ascolto.
«È per lei!» disse girandosi verso di me.
«Per me? Ne è sicuro? Qui dentro?»
L’account allargò le braccia.
«È il suo direttore editoriale. Dice che ha bisogno di parlarle subito!»
L’account fece per passarmi la cornetta.
«Aspetti!» disse invece un istante dopo. «Inserisco il vivavoce. È una cosa che interessa tutti quanti, mi pare.»
Inserì il vivavoce. Un secondo dopo la voce del direttore editoriale fece irruzione, amplificata, nella stanza.
«Che cazzo c’è?» chiesi con gentilezza, per metterlo a suo agio.
La voce cominciò a balbettare: «Eh... padella... trecciolina... rossetto...».
«Ah, ho capito: sta parlando di quella ragazza del self-service di cui abbiamo pubblicato il libro!» tirai a indovinare.
Si sentirono altri suoni, gutturali, a tutto volume.
«Sì, quella che manovrava la padella dei primi» gli venni incontro, «e che aveva un’unica trecciolina sulla testa rasata, il rossetto su un solo labbro. Quello di sotto, mi pare...»
Si sentirono dei versi incontrollati, improvvisi.
«Ah... mi sta dicendo che adesso è il labbro di sopra? Eppure allora era quello di sotto, le assicuro! Si sarà montata la testa dopo la pubblicazione del libro!»
Partì un suono acuto, disarticolato, come un nitrito.
«Che cazzo fa? Sta ridendo?» domandai.
Si sentì nitrire ancora più forte, per un po’.
Scambiai un’occhiata con l’account.
«D’accordo, d’accordo, ho capito...» cominciai, per dare il tempo al direttore editoriale di controllarsi, «sta parlando del libro di quella fichetta del dj... “Okay, metti il tuo bel cazzetto nella mia insalatina”...»
Mi arrestai un istante.
«O era forse di quell’inventore di preservativi per solo glande?»
Si levarono dei versi ancora più concitati, colpi di tosse, strangolamenti.
«Ho capito. Ha cambiato la trama. Adesso parla di una fotomodella che si mette con un indossatore di tanga dai piedi palmati, il quale poi eredita da una zia balbuziente un allevamento di struzzi...»
Dai versi che si levarono dal vivavoce capii che avevo fatto centro.
«Bene, allora, mi dica: che problema c’è?»
Partirono dal vivavoce altri versi, nitriti. Ma doveva esserci anche qualcun altro vicino a lui perché si sentivano venire altri suoni disarticolati oltre ai suoi.
«Ah, ho capito!» gli dissi. «Ha voluto avvertirmi che il libro sta andando alla grande, che sono già partite le aste per le traduzioni, che si stanno accapigliando tutti quanti per i diritti. Sì, sì, va bene, d’accordo, ma non avevo dubbi che sarebbe successo, è la norma! Ma adesso abbia pazienza, siamo impegnati in qualcosa di molto più grosso, qui dentro. Perché cazzo mi ha disturbato per una stronzata così durante un simile brief! Cosa sta succedendo in casa editrice durante la mia assenza? Chi c’è lì vicino a lei?»
Ci fu un breve silenzio. Mi girai verso gli altri.
«Avete visto con che razza di gente mi tocca lavorare!»
Poi, dai nuovi suoni gutturali e dai versi che si levarono un istante dopo dal vivavoce, mi resi conto improvvisamente di quanto stava accadendo.
«C’è Ditalina vicino a lei?» domandai a bruciapelo.
Si sentì nitrire più forte, a perdifiato.
«Ho capito» dissi lasciandomi cadere giù con la schiena, «l’ho saputo anch’io, poco fa, che adesso è finita in casa editrice. Immagino che sarà la sua nuova segretaria. Le starà sempre davanti a gambe aperte... Lo sappiamo tutti come lavorava qui dentro, in agenzia, nelle strade!»
Il copy e l’art ammiccarono alle loro ragazze con l’acne e non c’è assorbente che tenga, che si portarono irresistibilmente le mani agli inguini.
«Lo so, lo so, mi immagino perfettamente cosa starà succedendo in casa editrice» ripresi, «nessuno starà facendo più un cazzo. Ditalina in giro qua e là negli uffici, in azione. Seduta al centralino, la cornetta in una mano, con l’altra che schiaccia i tasti luminosi del quadro per smistare le telefonate, dopo essersela tirata fuori ancora gocciolante dalla fica. Saprà tutto di fica, lì in casa editrice, ogni cosa che tocca, l’apparecchio del centralino, le maniglie delle porte, le fotocopiatrici, le stampanti, i computer, gli interruttori della luce, i manoscritti ammucchiati sopra le scrivanie, le bozze tenute assieme da un elastico. Gireranno tutti quanti a zig zag per i corridoi, sbattendo contro i muri, sbandando. La Meringa sparita! Dove sarà finita, stavolta? Avrà chiesto ferie, sarà in aspettativa. Sarà chissà dove a scopare con quel suo Matto. In compenso ci è arrivata tra capo e collo Ditalina. Nessuno che fa più un cazzo. Lei sempre là con le gambe in aria, seduta negli uffici, sulle seggiole girevoli per farsi vedere da tutte le parti, sulle scrivanie, a culo nudo sul pavimento, durante le riunioni per decidere i titoli nuovi, le campagne pubblicitarie, i budget. Tutti quanti con le teste girate, gli occhi fuori. I redattori che fanno gli editing alla cazzo di cane, i correttori di bozze con gli occhi da tutt’altra parte, le lingue fuori, ci ficcano dentro delle parentesi graffe al posto delle virgolette, in un libro di storia delle bretelle d’angora nell’arte dell’antica Mesopotamia, in un altro che raccoglie i materiali appena sbobinati di un importante convegno sull’estro della femmina del tapiro durante la battaglia delle Termopili, le mani che scappano incontrollabilmente sotto la patta dei calzoni, sotto le gonne, tutti là che smanettano da tutte le parti, i grafici nel loro ufficio, piazzano un’immagine di Ottone di Bismarck nella copertina di un libro sugli amori saffici tra due femmine di coccodrillo, le signorine dell’ufficio stampa che telefonano orgasmicamente ai redattori delle pagine culturali. “Che cosa c’è, signorina?” si sente gridare dall’altra parte del filo. “Cosa sta succedendo? Che libro state lanciando? Non si capisce niente.” “Si calmi! Si calmi! Sembra che stia soffocando!” Le riunioni del consiglio di amministrazione, le presentazioni di nuovi libri agli agenti, ai librai. Ditalina in mezzo alla tavola, che continua a darci dentro con la sua mano snodata. Tutti che fissano quel puntino luccicante del piercing tra le sue grandi labbra, tutta quella roba che sgorga bagnata, eviscerata. “Oh, cazzo! Che cosa vedono le mie pupille!” fa l’agente della Tasmania. “Non ditemi che c’è allegata anche la cassetta paghi due prendi tre!” Nessuno riesce a staccare gli occhi dalla sua mano caricata a molla che continua meccanicamente ad andare. Tutti quanti che smanettano sempre più forte attorno al tavolo delle riunioni, tutte quelle mani e quelle manine che vanno a cento all’ora da tutte le parti, sfuocate. “Come ha detto? Oh, sì, cazzo questo libro andrà alla grande, lo sento! Me le vedo già le mani dei suoi lettori, da tutte le parti, anche loro a cento all’ora, sfuocate, bianche, nere, gialle, a pois, con i peluzzi sopra, gli anellini che tintinnano sempre più forte, le lingue fuori, attorno al tavolo, da tutte le parti, patinate, scontornate, coi piercing!” Ma adesso chi cazzo è che sta parlando? Chi l’ha pronunciata questa battuta? E anche qui attorno al tavolo del nostro brief... Plic... plic... tutti questi rumorini segreti, acquatici. Ma che cazzo di brief è questo? Perché cazzo ci è stata rifilata Ditalina in casa editrice, a questo punto, proprio in questo momento, mentre stiamo ristrutturando tutto quanto, qui dentro? È arrivata questa qui con la sua manina a pila, il piercing interno. In piena ristrutturazione! Ha spalancato questa voragine operativa. Perché voi non avete idea di cosa può succedere in casi come questi. Provate un po’ a immaginare... Introdurre all’interno di qualsiasi attività operativa una cosa così! Manda a pallino tutto! Proprio mentre, dopo la ristrutturazione dei locali della casa editrice, stavamo dando mano a quella delle persone, dei fini. Chi cazzo ha avuto l’idea di rifilarci questa qui, proprio adesso? Ma poi no! Che cazzo sto dicendo! È quello che ci vuole! È esattamente quello che ci vuole, a questo punto! Tutta questa materia cieca che si comprime e si espande... Anzi, darò delle istruzioni anche ai ristrutturatori, già che ci sono. Chiami immediatamente lì nel suo ufficio anche tutti gli altri, le darò in modo diretto a tutti quelli che lavorano nella casa editrice, così, a braccio, tramite il vivavoce... Accidenti, signorina, che cosa c’è adesso?»
La ragazza non c’è assorbente che tenga aveva alzato una mano tutta colorata di rosso, nel gesto di domandare qualcosa.
«Cosa c’è?» ripetei.
«Posso andare in bagno a lavarmi la mano?» domandò.
«Certo che può! Che domande! Non lo doveva neanche chiedere! Non siamo mica all’asilo!»
Uscì dalla stanza, tenendo la mano staccata e sollevata nell’aria e muovendo contemporaneamente le dita snodate, tutte colorate.
Il copy e l’art si guardarono l’un l’altro ammiccando.
«Avete bisogno di andare a lavarvi le mani anche voi?» domandai.
Si annusarono furtivamente le dita.
«No, no, non si sente molto!» risposero assieme.
Mi girai verso l’account.
«E lei? Ha bisogno di uscire anche lei?»
L’account rise.
«Allora... siete pronti lì in casa editrice?» dissi girandomi di nuovo verso il vivavoce.
Si sentirono degli indistinguibili versi di naso e di gola venire dal vivavoce.
«D’accordo, d’accordo. Non si agiti così, ho capito!»
La ragazza non c’è assorbente che tenga rientrò nella stanza. Mi passò a fianco facendo volteggiare nell’aria la manina appena lavata e profumata.
«Bene, ci siamo di nuovo tutti!» conclusi. «Siete pronti anche là? Posso partire?»
Si sentì un forte nitrito.
«D’accordo, allora, si parte!»
Ai ristrutturatori
Che cazzo vi avevo detto prima di tapparmi in questo brief da cui dipendono ormai le sorti di tutto quanto, qui dentro? Quella volta che mi sono incontrato nel mio ufficio lì in casa editrice con voi ristrutturatori? Con quelli che tra di voi ho eletto a ristrutturatori? Vi ricordate? Che ci aspetta il lavoro più devastante e più rischioso e più forte, vi avevo detto, perché dopo avere ristrutturato i muri, le facciate, gli uffici, occorre adesso strappare via da noi stessi, con furore, con leggerezza, con disprezzo, con sdegno, ogni intercapedine culturale, ogni bava umanistica, ogni diaframma, solo il luccicare di questa macchina nuda lanciata non si sa per quale ragione né verso dove. Eravamo tutti attorno a un tavolo. Abbiamo avvicinato tutti quanti le nostre teste di cazzo, a raggiera, come quei generali che convergono tutti verso un unico punto tracciato su una mappa militare indicato e quasi sfondato da un’asta, e nel foro che si è aperto dentro la carta si vedono venire avanti a ondate le sagome dei bombardieri, scattano da ogni parte gli impulsi satellitari, oppure le facce primordiali e ubriache degli sbudellati e degli sbudellatori, più indietro nel tempo, col culo ancora sporco di merda, i movimenti terribili di quei cimieri nella notte buia, nel vento. Noi riprendiamo il movimento orbitale del pensiero in attesa, che si rifiuta di pensare più a niente se pensare significa pensiero che può pensare solo se stesso, operando barbaricamente per sottrazione, per esplosione. Non ce ne frega niente delle derive devozionali, vi avevo detto. Ho scelto i nuovi responsabili dei settori tra gente che non capisce un cazzo di libri. Il responsabile della narrativa viene dalla chirurgia plastica, quella della saggistica è una cubista con un capezzolo di un colore e uno di un altro, i risvolti di copertina li scriverà d’ora in poi un cantante albino affetto da carni crescenti nel naso, il direttore editoriale era fino a poco tempo fa – ormai l’avrete capito tutti! – un fantino, ed è privo per giunta di palato. Invaderemo sempre più i banconi dei librai con qualcosa di sempre più assolutamente identico a quella sostanza che si è soliti diffamare sbrigativamente col nome di merda. Imbottiremo sempre più i libri di gadget, preservativi con struttura autoreggente erettiva, per la terza età, mangimi per cani decolorati e clonati, plantari alla liquerizia per animatori di crociere affetti da sudorazione eccessiva, manubri di bicicletta con un lato più corto dell’altro per operatori turistici focomelici, cd coi rumori orgasmici dei trichechi in galleggiamento tra i ghiacci. Basta con la prosopopea dei redattori chini sulle loro cartelle, le loro borse, le pensose teste di cazzo tra le mani. D’ora in poi solo occhi rovesciati, lingue fuori, Ditalina che passa qua e là negli uffici. La useremo d’ora in poi come nostra icona editoriale, nel nostro sito. In alto a destra. In movimento. E sottrarremo e abbasseremo e ancora sottrarremo e ancora abbasseremo, fino al punto in cui nulla possa più fare diaframma alla catastrofe di questa impresa pubblicitaria mai osata prima e a questo sogno. Ma che possa anche espandersi e moltiplicarsi distruttivamente e creare dall’interno la sua massa in movimento, la sua respirazione futura... Ma che cazzo sto dicendo? Vi sto confondendo. Non fate caso a quello che mi scappa detto mentre vi parlo da qui, da lontano, dall’interno di questo brief appena iniziato. E devo evidentemente far fronte anch’io alla massa in movimento di questi sogni che cominciano solo alla fine dei sogni. Io, che sono stato tenuto in uno spazio diverso, separato. Perché ho preso la preminenza in tutto questo? Perché ho preso in mano o mi è stato dato in mano distruttivamente tutto questo? Per quale gioco? Perché? non smetto di domandarmi. Ma adesso basta! Anche il vostro lavoro è solo all’inizio. Non oso neanche immaginare cosa potete combinare qui dentro, se ce la mettete tutta. Scarpe basse, mutande trasparenti, deodoranti per l’ano, telefonini... «Oh, cazzo, ma da dove suona?» Nessuno riesce a trovarlo. Mani che cercano affannosamente qua e là, finché Ditalina lo tira fuori, raggiante, dalla sua fica. Preme il pulsante dell’ascolto. «Oh, yes! Glielo passo!» Lancia nell’aria il cellulare tutto lubrificato al nostro grafico di copertine, che lo prende al volo, ci appoggia sopra l’orecchio, la bocca. Strabuzza gli occhi, tira fuori mezzo metro di lingua. «Oh, sì, cazzo, sei tu, Copertina! Da quanto tempo non ci sentiamo!» Viene un rumore forte di vento dal cellulare. «Perché non sei più venuto a trovarmi?» dice la voce in un’altra lingua. «Quella comitiva di cui ti parlavo non è ancora arrivata. Qui è tutto freddo, deserto, si sente solo il rumore del vento contro gli spigoli del caseggiato. Io sono sola qui alla reception. Vieni, vieni, ti aspetto!» «Oh, sì, sì, cazzo, mia Copertina!» si emoziona il grafico. «Non vedo anch’io l’ora di vederti, e di stare abbracciato a te dopo avere scopato, e di accarezzarti il filo della schiena, e le tette, le dita dei nostri piedi che si toccano in fondo al divano letto, mentre si sente solo il vento fischiare di fuori, io con la testa nell’incavo tra la tua spalla e il tuo collo, tu con la mano abbandonata sulle mie palle, tranquilla, mentre la tua voce viene presa a poco a poco dal sonno.» «Oh, sì, sì, così» risponde dall’altra parte Copertina, «abbracciati, appena scopati, sbadigliando di tanto in tanto, mezzo addormentati... Oh, sì, vieni, vieni presto, ti aspetto! Qui è tutto pronto per ricevere quella comitiva, le stanze rifatte, la ciambella di carta sopra l’asse del water, il sigillo, ma non è arrivato ancora nessuno. È tutto vuoto, silenzioso, deserto. Mi aggiro lungo le serie di corridoi tutti uguali ricoperti dalla moquette dello stesso colore, salgo fino al solarium, vado a lavare la mia biancheria nell’enorme lavatrice a gettone che c’è un piano sotto terra. Si sente solo il boato della centrifuga che fa vibrare l’intero scatolone del caseggiato deserto...» E poi Ditalina tira fuori dalla fica anche cose trovate qua e là in giro per la casa editrice e conficcate alla rinfusa, sempre più profondamente, là dentro, fogli di carta appallottolati, dattiloscritti, dischetti. Li afferrate con le mani nell’aria. «Cazzo, da dove saltano fuori questi inediti! Ma qui c’è una vera e propria miniera! Possiamo stampare e tascabilizzare e digitalizzare tutta questa roba per secoli, per millenni, mentre qui dentro tutti pensano solo a smanettarsi, la macchina da qualche parte continuerà a girare da sola, alla grande!» Ma... che cosa sto blaterando? Cazzo! Adesso basta! Cosa c’entra questa roba con la ristrutturazione? Staccate il telefono in questo ufficio! Siamo in conclave! Lei, che è l’account, comunichi al centralino che non ci passino più altre telefonate, d’ora in poi, fino alla fine di questo brief, alla fine del tempo!
Sono solo in casa, da quando Pericle e Grazia se ne sono andati di qui, per la loro strada. I pixel palpitano sui miei due video, mentre lavoro in piena notte nella casa deserta. Controllo la resa di alcune figure in movimento trattate in smoothing, i roller, i trampolieri coi loro cascomaschera lanciati nelle strade notturne, ma anche altri che avevamo un po’ perso di vista, ultimamente, altri ancora che non conosciamo ancora ma che si stanno preparando a fare irruzione per la prima volta qui dentro. Mi preparo ad allargare sempre più il ventaglio delle opzioni, aggiungo nuovi livelli lavorando sui data disk. Vado a pescare ansiosamente, di nuovo, la nostra Interfaccia. Ecco, sta dormendo in questo momento, al buio, coricata di schiena, nella sua casa. La cupola della sua pancia deforma il volume del letto. La miro al buio, ci vado dentro con una soggettiva improvvisa per distinguere il feto che dorme a sua volta all’interno dell’utero. Ma... un momento! Una soggettiva di chi? Chi sto mirando? Chi si è inserito? Come ha fatto a penetrare dall’esterno qui dentro? Perché c’è qualcuno, mi pare, nella sua stanza, almeno mi sembra di distinguere qualcosa come un’ombra che si muove al buio e si confonde quasi perfettamente col buio della stanza. A meno che non sia solo un gioco d’ombra che si è creato per caso nella stanza buia, uno di quei vortici cellulari che si creano nelle zone potenziali e sconnesse del buio, della luce. La miro due o tre volte, cerco di bloccare qualcosa che mi sembra quasi la sagoma di un corpo umano che si sposta silenziosamente nel buio. Se non è solo un gioco d’ombra che si è creato nella stanza nera, oppure un baluginare sulla mia retina affaticata dalle tante ore di notte passate di fronte al video. Blocco ancora l’immagine, la ingigantisco con lo zoom, la fisso attentamente, sgranata. «Accidenti!» mi dico col cuore in gola. «Ma quella là è una persona!» Mi alzo un secondo dalla sedia girevole, faccio due o tre passi attraverso la stanza per scaricare un po’ la tensione. Torno a sedermi, ripiombo sull’immagine che si muove in tempo reale. La cupola dell’Interfaccia è ancora là, immobile nella stanza buia, sotto le coperte, il suo respiro è un po’ rauco ma regolare. Non sta succedendo assolutamente niente, mi pare. Eppure, eppure... Quella specie di ombra si sposta, ma è anche vero che i miei occhi sono pieni di rifrazioni, scintille, per la stanchezza, per il sonno... come faccio a essere sicuro che non sia solo un affastellarsi deflagrativo di pixel che viaggiano sulla mia retina invece che nello spazio buio di quella stanza, un impercettibile movimento di luce e ombra determinato da quel leggero chiarore che persino a notte fonda filtra dalle finestre chiuse, mentre sono in gravitazione cieca nel vuoto del cosmo, con quelle sue carcasse incendiate che continuano a ruotare in attrito a sbalorditive distanze. Mi alzo di nuovo, vado a bere un bicchier d’acqua in cucina. Le stanze di Pericle e Grazia sono silenziose e deserte, scorgo dalle porte aperte i loro letti vuoti dalle ripiegature perfettamente ordinate. Vado a mettere la testa dentro. Percorro di nuovo il corridoio fino alla mia stanza. Osservo per un po’ il contorno della sagoma dell’Interfaccia che dorme respirando profondamente... Oh, no! Che cos’è successo in questo preciso momento? Perché mi è parso che qualcosa si sia avvicinato per un istante al profilo della sua testa, fulmineamente. No, no, non è possibile! Come se... come se qualcuno nel buio si sia chinato all’improvviso sulla sua bocca, per baciarla! Sono stanco, dovrei smettere di stare davanti ai video e andare a dormire, a quest’ora. Mi sgranchisco, con le braccia allargate, sbadiglio. Faccio per alzarmi, invece un secondo dopo torno a ficcare gli occhi nelle bolle palpitanti dei video. Blocco l’immagine in una delle due. Lascio correre l’azione sull’altra per poter usufruire contemporaneamente dei due livelli. L’ombra è ancora là, se si tratta di un’ombra. È come se qualcosa o qualcuno si fosse chinato nel buio, irresistibilmente, dall’alto, premendo le sue labbra su quelle dell’Interfaccia sprofondata nel sonno. Nell’altro video invece... Oh, no! Cosa sta succedendo? No, no, sono stanco, i miei occhi non riescono più a decifrare le minime variazioni di luce nella tempesta magnetica che si scatena dentro la bolla del video. Oh, no, no! Perché adesso mi sembra che anche il contorno del corpo gravido dell’Interfaccia si sia deformato, come se, come se... Esito persino a dirlo. Come se qualcuno avesse sollevato improvvisamente le sue coperte, nel buio. Blocco per qualche istante l’immagine sul primo video, faccio correre invece l’azione nel secondo. Cerco di dare più luce all’immagine, senza sgranarla troppo, lavoro in modo fulmineo sui contrasti. Oh, no, no! C’è qualcuno, là dentro, adesso ne sono sicuro, in quella casa! Qualcuno è riuscito a penetrare fin là. Si aggira nella stanza buia, chissà da quando, mentre lei dorme profondamente, col suo grande ventre. La guarda in silenzio, si è chinato irresistibilmente a baciarla, nel buio, poco fa, adesso le ha spostato all’improvviso le coperte, si è chinato sul letto, forse si è inginocchiato, le ha sollevato la camicia da notte, delicatamente, per non svegliarla, le ha scoperto il grande ventre ingravidato, nel buio, ci ha chinato sopra la faccia, mi pare, sull’apertura depilata della sua vagina, che trattiene ormai a stento dentro di sé tutta quella massa liquida in formazione. L’ha fiutata, mi pare, con gli occhi chiusi, l’ha persino baciata. Adesso si è andato a sedere di fronte, per contemplarla a lungo, come quegli animali che vedono anche al buio coi loro occhi sbarrati, notturni. Non fa un gesto, se ne sta immobile, assente, in silenzio, di fronte al taglio rientrato della sua vagina depilata che dorme. Oh, no, ormai non ci sono più dubbi! È quello stupratore di donne gravide! È penetrato anche lui come se niente fosse qui dentro attraverso gli impulsi magnetici di questo game. E io che stavo lì a sorvegliare le entrate della casa dell’Interfaccia, le uscite... Proprio io! Tenevo d’occhio persino quel foro grigliato per lo smaltimento dei gas di scarico, nella sua cucina, per paura che lui cogliesse dal basso attraverso quell’apertura il suo odore di femmina in stato di gravidanza avanzata, passando davanti alla sua casa, di notte, e che si arrampicasse fin lassù per fiutare attraverso quel foro schermato, facendo saltare la sua griglia nel buio, col pugno. E invece... Non ha avuto bisogno di inserire un braccio là dentro, e di liberare il contenuto di una bomboletta, per poi entrare tranquillo nella casa attraverso la porta forzata, andarla a sollevare narcotizzata dal letto, e poi portarla in giro attraverso la casa buia e deserta, cogliendo appena la sagoma abbandonata sulle sue braccia passando di fronte agli specchi, in piena notte, prima di andarla a posare, nuda, su un tavolo, o sul bordo del letto, e di allargarle le gambe sotto la cupola di carne della sua pancia, e di abbassarle con un solo gesto mutande e calze, per penetrare la sua vagina rientrata col suo membro già eretto, nel buio... E invece è entrato nella sua casa così, in tutt’altro modo, con un balzo di piani, attraverso questi impulsi elettromagnetici. Come posso fare a fermarlo, a questo punto? Mi passo una mano sugli occhi. Comincio a cliccare disperatamente per qualche istante, alla cieca. «Dov’è finito adesso quell’uomo?» Intanto mi pare che su uno dei video la sagoma dello stupratore si sia già abbassata i calzoni. Ha gettato indietro la testa, come per respirare con gli occhi chiusi, più forte, si è preso in mano il membro già scappellato. È una questione ormai di secondi, a questo punto. Tutta questa campagna pubblicitaria mai vista prima e quest’opera e questo progetto e questo sogno, tutto appeso a un filo che sta per spezzarsi, se non riesco a inserire in questa stanza buia quell’uomo che è stato messo alle sue calcagna... Dov’era l’ultima volta che l’abbiamo visto? Ah, sì! Eccolo lì, finalmente! È ancora fermo di fronte alla facciata della sua casa, in piena notte, con le braccia conserte, altissimo sulle sue zeppe, mentre l’altro è entrato già nella casa per tutt’altra strada. Lo miro, lo clicco, lo trasferisco in una frazione d’istante dentro la stessa stanza dove ci sono già l’Interfaccia e lo stupratore. Per sicurezza gli metto tra le mani un pesante maglio. Sbatte gli occhi un paio di volte, prima di rendersi conto del nuovo spazio dov’è finito, di che cosa ha in mano. Anche lo stupratore trasale, mi pare, nonostante non si sia ancora accorto visivamente della presenza dell’altro nella stessa stanza. È come se ne avesse percepito la presenza da un ispessirsi dei pixel attorno alla sua figura. Gira la testa due o tre volte nel buio. L’Interfaccia continua a respirare profondamente nel sonno. L’uomo che pesta le merde fa un passo al buio verso lo stupratore. Emette un sibilo lungo, leggero, per non svegliare l’Interfaccia che dorme. Lo stupratore respira più forte.
«Chi c’è qui dentro?» bisbiglia.
«Chi vuole che sia? Sono io!» risponde a sua volta sottovoce l’uomo che pesta le merde.
Lo stupratore si gira a guardare verso l’altro, atterrito.
«Si rivesta!» gli bisbiglia ancora l’uomo che pesta le merde. «Mi segua in cucina! Parliamone là, così non la svegliamo.»
Lo stupratore respira forte.
«E se io non volessi o non potessi fermarmi?» sussurra.
«Non glielo consiglio!» gli risponde nello stesso modo l’uomo che pesta le merde. «Tra le mie mani c’è un maglio!»
Lo stupratore rimane per un istante in silenzio, impietrito. Si vede solo l’ombra colossale dell’Interfaccia che continua a dormire coricata sulla schiena, profondamente. Lo stupratore emette un piccolo verso.
«Non creda che sia facile per me fermarmi, a questo punto...» sospira.
Un istante dopo si capisce che si sta tirando su i calzoni nel buio, con fatica, con pena. L’uomo che pesta le merde gli lascia il tempo per farlo, rispettosamente, a capo chino, in silenzio. Quando gli sembra che abbia finito e si sia ricomposto, lo prende improvvisamente per un braccio, nel buio. Lo sente tremare.
«La porta è di là!» gli bisbiglia.
Escono tutti e due dalla stanza. L’uomo che pesta le merde richiude silenziosamente la porta. Accende la luce della cucina.
«Eccoci qui!» dice a voce più alta, ma sempre attento a non svegliare l’Interfaccia che dorme nell’altra stanza. «Ci siamo già visti un’altra volta, mi pare.»
Lo stupratore arrovescia il collo, la testa, per arrivare a guardare la faccia dell’uomo che pesta le merde.
«Ah, è ancora lei!» dice soltanto.
«Sì!» gli risponde l’altro. «E le dico per l’ultima volta: non minacci più quella donna e quello che porta nel ventre! Mi troverà sempre al suo fianco. Non c’è più niente da fare, qui dentro, per lei. Lei ha chiuso. Guai a lei se si farà ancora trovare sulla mia strada!»
Restano tutti e due faccia a faccia, in silenzio, per un po’. Poi l’uomo che pesta le merde fa un cenno di saluto allo stupratore, che imbocca il corridoio, la porta d’uscita. Si sente il rumore dei suoi passi sul pianerottolo, lungo le scale. L’uomo che pesta le merde beve un po’ d’acqua. Risciacqua il bicchiere e lo rimette al suo posto nello scolapiatti. Dà un’altra occhiata alla cucina, rimette al suo posto una sedia che aveva spostato inavvertitamente, passando. Spegne la luce, ascolta per un po’ il respiro tranquillo della donna prima di uscire a sua volta in silenzio dalla casa. Attraversa il pianerottolo, scende lungo le scale, perché non ci starebbe nell’ascensore. Quando è in strada, getta via il maglio. Comincia a camminare con le mani in tasca, tranquillo. Scavalca con un lunghissimo passo aereo una macchina parcheggiata, continua a camminare senza meta per le strade notturne. «Certe volte mi sento così leggero» si mette a fantasticare, «che mi viene da scavalcare ogni cosa che incontro sulla mia strada, con queste mie lunghe gambe. Potrei camminare dove non ci sono intoppi, seguendo quei percorsi sgombri dove si spostano le fiumane dei passanti coi loro piccoli passi assuefatti a questi minuscoli spazi, potrei aggirare, come tutti, gli altri oggetti che si parano sulla mia strada, con pochi passi di lato, magari cominciando a dirottare la mia traiettoria mentre sono ancora lontano, in modo da non farla apparire neppure a me stesso come una capitolazione, una resa, invece che un cammino. Potrei farmi spostare dagli oggetti e trasformare la mia vita e la mia presenza inesplicabile anche a me stesso in un percorso obbligato. Invece, non so perché, sento dentro di me una tale dolcezza, una tale mitezza, agilità e leggerezza che oltrepasso di slancio ogni persona e ogni oggetto che si venga a trovare sulla mia strada. Sollevo nell’aria le mie alte zeppe stratificate, scavalcando d’un sol balzo il tavolino di un bar attorno al quale molte persone sono sedute a sorseggiare il contenuto di un bicchiere pieno di cubetti di ghiaccio e di ombrellini di carta, proiettato in alto di slancio dalle molle dei miei strati diversamente colorati. Non per impazienza, perché io sento anzi dentro di me solo un’infinita pazienza, non per mancanza di dolcezza e delicatezza verso le persone e le cose, non perché mi senta superiore al più piccolo degli oggetti che condivide con noi questo inesplicabile bagliore attraverso il cosmo e questo viaggio. Mi pare anzi così naturale e alla portata di tutti questo mio modo di attraversare lo spazio che, certe volte, mentre sto scavalcando una coppia di ragazzi che si stanno baciando per la prima volta, irresistibilmente, tutti e due con la visiera del cappello girata all’indietro, in mezzo a una piazza, oppure una comitiva di esquimesi in posa per una foto ricordo, con quei colombi surgelati sopra la mano, oppure un uomo in bicicletta che pedala tranquillamente suonando nello stesso tempo una trombetta a forma di prepuzio, giro per un istante gli occhi verso l’alto perché mi aspetto che qualcun altro o qualcun’altra mi stia nello stesso tempo scavalcando a sua volta in un’altra traiettoria inventata lì per lì attraverso lo spazio oppure in un altro spazio.»
Ecco, adesso sto andando con il mio solito passo verso zone dove non ero mai stato. Scavalco una cupola per la raccolta della carta che è stata incendiata più volte, continuo ad andare molleggiando sulle molle delle mie zeppe stratificate, sento che si aggiungono continuamente altri strati mentre vado sui marciapiedi deserti, attraverso spazi erbosi dove si vanno ad accucciare e svuotare animali e persone. Una macchina sta passando lentamente, in questo momento, come a motore spento. Scorgo un uomo semiaddormentato, con gli occhi socchiusi, al posto di guida. Le mani che tengono il volante sono ricoperte da mezzi guanti. Ha i capelli gettati all’indietro, sbadiglia, segno che si è svegliato da poco e si sta preparando a iniziare anche stanotte il suo giro. Il parabrezza e il muso dell’auto sono ancora perfettamente puliti, perché è appena uscito di casa e non ha ancora incontrato nessuno sulla sua strada. Lo seguo per un po’, col mio solito passo, tranquillo. Forse ha scorto contro un muro la mia lunghissima ombra che cammina dinoccolata, mentre passavo contro la luce di uno dei lampioni, perché mi pare che abbia girato per un istante la testa di lato, come per prendere conoscenza della mia nuova presenza, qui dentro. Poi ha proseguito. Che notte luminosa! Che dolce incombenza mi è stata data! Anche se sono nuovo di qui, e non so nulla, non capisco nulla, mentre mi sposto esterrefatto in questi spazi mai visti prima. Si sente un passo cadenzato e potente venire dal filo della strada che sto percorrendo. Mi fermo un istante, dondolando un po’ sui miei cerchi e per via del vento. Vedo venire avanti qualcosa o qualcuno che cammina su alti trampoli fosforescenti. Mi raggiunge in pochi passi, mi guarda per un istante stupito, nel passare, come di fronte a un’altra creatura trampoliera gemella. Continua ad avanzare senza fermarsi, il cascomaschera girato un po’ da una parte per guardarmi. Mi fa addirittura un leggero cenno di saluto, mi pare, mentre si allontana irresistibilmente a lunghissimi passi. «È notte fonda!» gli grido. «Dove sta andando? Chi è?»
Canto di Pericle
Sto andando verso zone più nevralgiche ancora, qui dentro. La mia testa serrata nel cascomaschera scorge dall’alto le prospettive delle case deserte, attraverso le fessure per gli occhi, oltre la protuberanza del rostro, mentre avanzo oscillando per via del vento su questi trampoli fosforescenti. Sono uscito finalmente dalla mia casa, mi sono strappato dalla mia vita e dalla mia guerra, ho accettato di misurarmi con questi spazi più rischiosi e più vasti, ho modellato la macchina del mio corpo in questa tuta da combattimento e da vento, la mia testa e i miei occhi dietro la fessura di questo casco luccicante e rostrato, ho imparato in pochi istanti a muovere i miei primi passi su queste sbarre che brillano di luce propria nella notte, guardando dall’alto le prospettive vertiginose delle strade investite dal vento, degli incroci, le trafile delle finestre chiuse che mi scorrono a fianco all’altezza della spalla e del bozzolo della testa. Non so che cosa mi aspetta, dove vado, non so perché sono stato strappato alla prospettiva chiusa della mia guerra, al dolore dei miei gesti obbligati e cruenti. Che cosa mi verrà dato in cambio? D’ora in poi non ci sarà più per me il suono dei colpi sferrati al buio, alla cieca, il rumore primordiale e sereno del sangue che esce finalmente dalle proprie sedi e si inventa nuove strade nel silenzio, nel buio. Avverto sotto le superfici della mia tuta da vento la presenza del mio corpo tutto coperto di ferite ancora fresche, punti di sutura, lacerazioni, ematomi. Le mie ossa che muovono nella notte queste lunghissime aste luminose portano ancora i segni dei colpi, delle fratture, tutto il mio scheletro è modificato da calli ossei che fanno zigzagare i movimenti solenni dei miei arti che manovrano asimmetricamente questi trampoli fosforescenti da una prospettiva diversa, qui in alto. Sento venire da lontano, dal basso, i tonfi dei miei nuovi piedi che si posano sull’asfalto delle strade, a enorme distanza l’uno dall’altro, mentre tutta la macchina del mio corpo si sposta irresistibilmente in avanti verso la poltiglia del mio destino. Non ero abituato, non mi era mai successo di provare questa sconvolgente percezione di velocità e di lentezza nello stesso tempo, di vedere trasformato all’istante lo sforzo necessario a imprimere lo spostamento di un solo passo, là in basso, in questo prodigioso trasferimento in avanti di tutta la mia persona nell’aria, qui in alto, tanto che le superfici della mia tuta e del cascomaschera risuonano con enorme fragore a causa del vento mentre fendo l’aria a velocità esponenziale in queste zone più aeree, più alte. Avanzo in questi spazi verticali, la forma della mia testa si va a collocare e a conficcare nel suo punto apicale. Scorgo contro i cornicioni l’ombra filiforme della mia nuova figura in marcia verso i suoi culmini. Mi conficco nella notte con il mio rostro in oscillazione vertiginosa attraverso lo spazio, il prolungamento delle mie gambe si imprime a ogni passo nelle strade d’asfalto, mentre cammino e imparo a camminare nello stesso identico istante, come un nuovo corpo nato in uno spazio verticale diverso, appena inventato, in fiore.
L’uomo con i trampoli fosforescenti è passato, è già lontano, scorgo appena la sagoma del suo corpo proiettata in un punto più alto dello spazio, sulle linee delle sue gambine filiformi in marcia verso chissà dove. Vado avanti così per un po’, le mani in tasca, tranquillo. Scavalco un paio di macchine parcheggiate una a fianco dell’altra, per serenità, per pigrizia, per non dovermi arrendere a circumnavigarle. La città è spenta, le finestre chiuse, la notte è vasta, ventosa. Oscillo a ogni lunghissimo passo sugli strati geologici e colorati delle mie zeppe. Ma mi sembra di tanto in tanto di scorgere delle figure che sgattaiolano fuori da qualche portone, fulmineamente, in silenzio, per andare chissà dove e perché, chissà in quale zona della città che non ho ancora raggiunto, che non so neppure se raggiungerò mai, di cui non sospetto ancora l’esistenza, come per un appuntamento segreto. Poi di nuovo tutto ritorna tranquillo e deserto, per molto, solo le strade vuote e le piazze e le macchine parcheggiate, disattivate, da tutte le parti, gli alberi che penetrano con le loro radici dentro la terra che continua a girare attraverso lo spazio, in questo microscopico pianeta dove sono stato evocato, le case e i grattacieli e i palazzi con le loro fondamenta che continuano sotto il filo delle strade, fin nelle zone umide e nelle polle primordiali dell’acqua che dorme fredda, tranquilla, là sotto. I piccoli organismi appena formati che dormono raggomitolati dentro altri organismi viventi più grandi, anche loro dentro le loro polle vischiose, con gli occhi chiusi, ruotando su se stessi come dei piccoli equilibristi in assenza di gravità. Chissà quanti ce ne saranno, invisibili, qua e là nelle case. Che strano mondo è questo che i miei occhi stanno per la prima volta vedendo! Anche quell’uomo che ho appena bloccato di nuovo proprio sulla soglia di quel corpo umano in lievitazione. Chissà dove sarà adesso, se lo vedremo ancora. Non credo. Non ci riproverà più. Ormai sa che esiste almeno una soglia che non potrà mai oltrepassare. A me è stata data la sorte di tenere aperto lo spazio, qui dentro. Faccio ancora qualche passo così. Rallento un po’, perché mi sembra di sentire un sottile fragore venire da lontano, e avvicinarsi in modo fulmineo, accelerato, e non sono passi, nemmeno ruote di auto, mi pare. Mi fermo un istante, dinoccolato, mi giro ondeggiando nell’aria, sulle mie zeppe. C’è qualcosa che viene avanti in modo diverso, perforante, e si precisa sempre più sul filo della strada, completamente diverso da un’auto lanciata, più in basso di dove di solito si collocano i corpi umani in movimento attraverso lo spazio. Che sia un animale? Uno di quegli organismi animali di cui ho sentito favoleggiare, che corrono tutti alzati sulla linea dell’orizzonte, e vanno avanti con la macchina dei loro corpi puntati, le piccole teste inclinate, assenti. No, non mi pare neppure uno di questi animali, adesso che la cosa si è avvicinata ancora di più e il rumore che l’accompagna è diventato un rombo che rotola sopra l’asfalto. Il rimbombo cresce nella cassa di risonanza delle strade deserte e battute dal vento. Ecco, adesso è vicina, sempre più vicina. Faccio appena in tempo a vederla mentre mi sfreccia di fianco. È qualcosa come un corpo umano dinamicamente raccolto nello spazio, che si sposta su una doppia fila turbinante di minuscole ruote sfuocate per la prodigiosa velocità del loro movimento a vortice. Si solleva un istante, nel vedermi al lato della strada deserta, così in alto, dinoccolato sui miei coturni molli. Tutto il suo corpo si distende nell’aria un po’ di più, controvento, il suo rostro si va a collocare in un punto più alto dello spazio, si sente il fragore dei suoi rossi capelli che escono dal cascomaschera e sventolano forte, allungati, nella corsa. Alza ancora di più il bacino, distende maggiormente gambe e braccia serrate nella sua tuta da vento. Solleva irresistibilmente l’architettura di un braccio inguainato, nell’aria, nello spazio, per salutarmi mentre mi oltrepassa sfrecciando verso chissà dove. Sollevo anch’io irresistibilmente il mio braccio, di rimando, per salutarla e quasi per benedirla...