Canto di Grazia

Sei la prima forma nuova che incontro sulla mia strada, nella mia nuova vita. Non so da dove vieni, chi sei. Non mi era mai successo finora di vedere un corpo così allungato nell’aria, sospeso a fisarmonica su due piedi che poggiano a un’altezza dove gli altri corpi hanno generalmente la testa. Non appena sono balzata fuori dalla mia casa, così, in piena notte, di slancio. Se tu sei la prima, che altre creature mi sarà dato incontrare d’ora in poi sulla mia nuova strada, che non credevo neppure esistessero finché me ne stavo serrata nella mia casa piena di colpi sordi e di ossa spezzate e di ferite e di sangue? Io sono la ragazza dalle mille ferite, il mio corpo femminile è solcato segretamente da mille ferite, le mie gambe lucenti per via di questa attillata tuta da vento sono tutte spezzate e poi ricalcificate, le ossa forti dei miei piedi e gli ossicini delle dita dei piedi che spingono avanti a velocità vertiginosa questi roller mai usati prima sono spezzati e poi rimontati. Sotto la massa soffice delle mie tette le costole sono scardinate. Le ossa della mia testa sono fuori asse dentro lo scrigno del cascomaschera che fende con il suo rostro lo spazio, il mio cervello è tutto pestato, le mie mani inanellate hanno le unghie cianotizzate, sento il fragore delle unghie nuove che ci crescono sotto rosate, profumate. Le mie braccia che nuotano nello spazio per equilibrare la macchina del mio corpo lanciato sono suturate. Eppure tutta la mia persona raccolta su se stessa e che avanza vertiginosamente e quasi volando nello spazio è come appena generata e inventata. Sono come un feto femminile che vola su una prospettiva a ruote. Sono me stessa e sono nello stesso tempo il mio stesso feto. La freccia del mio corpo sessuato si scava un cono di fuga nella parete dell’aria. L’imbuto del mio corpo sessuato apre un altro imbuto rovesciato, gemello, dentro lo spazio. Perché è diverso se è una femmina o un maschio a sfrecciare di notte sui roller. Io sono l’imbuto che vola dentro un altro imbuto, sono il cono che rende conico qualsiasi spazio gli si pari davanti. Io sono la sfera che rovescia la sfera. I miei occhi sessuati vedono, attraverso le fessure del cascomaschera, la superficie dell’asfalto che viene avanti all’incontrario, volando. La linea della strada si solleva prospetticamente di fronte a me come il piano inclinato di un’onda. Sento la massa dispiegata dei miei capelli sfuggiti dal cascomaschera sventolare con fragore alle mie spalle, come uno strascico. Mi allontanerò sempre più dalla mia casa scoppiata. Mi inventerò i miei movimenti e i miei spazi dentro quest’altra proiezione di spazio. Il mio corpo disarcionato volerà su questa curvatura gemella piena di carcasse incendiate e di rotazioni e di luci. Attraverserò la catastrofe luminosa dell’aria tutta piena di corpi cavi in sofferenza, in ebbrezza. Il rostro del mio cascomaschera si coprirà di microrganismi investiti con violenza, sfondati, carcasse alate, creature unicellulari vaganti nell’aria, piumate, addormentate, venute da chissà quale parte del cosmo attraverso le polveri dello spazio e le onde abrasive delle sue luci in viaggio sterminato e senza ritorno attraverso questa bolla d’aria vivente che si è formata chissà perché, chissà dove, chissà dentro dove o fuori da dove, come sopra la chiglia di una nave ricoperta di microrganismi intermittenti semiasfissiati, alghe alate, creature impensate, ossigenate, avanzi lacerati di masticazioni sottomarine segrete e di nuovo in rigenerazione, mentre vado a occupare il posto che mi spetta in battaglia o in qualsiasi altra cosa che mi aspetti o che ci aspetti tutti quanti, qui dentro.

Allora buona fortuna, ragazza che corre! Chissà quali altri incontri mi riserverà questa notte? Come appare vasto e senza soluzioni e confini questo universo, se adesso anch’io posso camminare così, lungo questa porzione di spazio che qualcuno ha chiamato strada, mentre solo poco fa mi trovavo... Oh, accidenti, non avete la più pallida idea di dove mi trovavo! In quali altri spazi, in quali altre dimensioni! Ma adesso sono qui. Dinoccolato, tranquillo. Avanzo, un passo dopo l’altro, sollevando molto più in alto di quanto gli altri siano soliti fare le ginocchia per via di tutto quello che cresce geologicamente sotto la suola delle mie scarpe. Non avete idea di come sia diverso camminare con le mani in tasca quando i vostri piedi poggiano direttamente sopra la curvatura che fa la terra e quando invece i vostri piedi si trovano potenzialmente nel punto di mezzo dell’estensione generale del vostro nuovo corpo. La notte a quest’ora è grande, si prende tutto. Continuo a vedere ancora, ogni tanto, delle figure che scivolano fuori in silenzio e con gli occhi accesi dalle loro case e spariscono in un istante verso zone che devono esserci da qualche parte, qui dentro, ma nelle quali non sono evidentemente ancora entrato e non so neanche se mai mi sarà dato entrare, uno spazio posto qui dentro eppure separato. Il mio compito è solo quello di portarvi in giro così, in questa notte stellata, profumata, nei soli spazi che io conosco, che la mia stessa persona crea intorno a sé con il suo stesso andare. Imbocco una via più grande, salto un guard-rail che c’è in mezzo a una strada a quattro corsie, poco dopo un contenitore per la raccolta del vetro. O meglio, mi preparo a saltarlo, ma un secondo dopo mi sembra di sentire una vocina che esce dalla campana e mi chiama. Com’è possibile? Provo a guardare. Sì, in effetti c’è una bocca che mi sta parlando da dentro uno di quei fori al quale sono state strappate le guarnizioni di gomma. Ma come sono grandi quelle labbra! Sembrano scoppiate! Tengono da sole quasi tutta la circonferenza del foro, tanto sono scoppiate! E mi pare che a guardarci dentro si vedano delle cose diverse da quelle che mi è capitato finora di vedere dentro le bocche delle altre persone quando sbadigliano. La vocina dentro il contenitore mi continua a chiamare. Mi fermo un momento. «E tu chi sei?» le domando. «Non mi conosci? Sono Pompina!» «Mi dispiace» le dico, «ma sono nuovo di qui, non conosco bene le usanze!» Apre ancora di più la bocca là dentro, tutto il foro del contenitore si apre e si chiude, sembra palpitare. «Mi scusi, signorina» le domando, perché la sua voce mi sembra femminile, «che cosa c’è dentro la sua bocca?» Le sue labbra si allungano per un istante, segno che sta sorridendo. «La mia gola è tatuata» mi dice. Fa ancora dei movimenti con la bocca, tutto il foro del contenitore si apre, si chiude, si riapre di nuovo, ne esce fuori ogni tanto una cosa rossa e viva, interminabile, arcuata. «Mi scusi, signorina» le chiedo ancora, «che cos’è quella cosa?» «Ma lei non sa proprio niente: è una lingua!» sorride. «Così lunga?» mi meraviglio. Capisco, meglio sarebbe dire intuisco, cosa quella ragazza dentro il contenitore mi sta proponendo. «È un onore, per me signorina» rispondo, «ma, in questo caso, non mi è proprio possibile accontentarla. Logisticamente, voglio dire... Non lo vede, da là dentro, a quale altezza dello spazio è collocata la parte di me che a lei sembra interessare? Purtroppo, mi verrebbe da dire, in questo caso...» «Oh, non si preoccupi» risponde da là dentro la voce, «io posso anche uscire di qui, mi procuro una scala, l’appoggio al muro, ci salgo sopra mentre lei se ne sta in piedi tranquillo, lì vicino, le slaccio i calzoni, le abbasso le mutande, là in alto... Perché? non le piacerebbe?» «Accidenti, signorina, lei mi mette in imbarazzo. Mi piacerebbe sì! Eccome se mi piacerebbe! Avverto già nel mio corpo delle modificazioni idrauliche al solo pensarci. Non mi aveva parlato nessuno di questa usanza, prima di spedirmi qui dentro. Sono onorato che lei abbia pensato a me. Ma adesso devo continuare per la mia strada, anche se non so perché, né verso dove.» «Peccato!» fa la vocina là dentro. «Uno come te non l’avevo ancora incontrato! Mi mancherai.» «Buona fortuna, ragazza!» dico anche a lei continuando a camminare sulle mie zeppe. «Buona fortuna anche a te, ragazzo!» sento che mi dice a sua volta, da là dentro. Faccio qualche passo così, sovrappensiero, oscillando un po’ per il vento. Guardo la fila dei semafori spenti, lampeggianti, che si stende a perdita d’occhio. Attraverso un incrocio. Mi pare che il mio corpo si sia allungato e si allunghi sempre di più man mano che avanzo, e che la mia testa si vada a collocare in punti sempre più alti dello spazio, segno che devo aver pestato ancora un bel po’ di cose, là sotto. Mi assesto di nuovo, in bilico sui miei cerchi. Vado ancora avanti così per un po’. Sento venire da dietro le finestre i rumori del sonno, dalle case. Eppure di tanto in tanto ce n’è anche qualcuna ancora accesa qua e là, oppure accesa da poco, si vede la luce filtrare dai listelli delle ante serrate. Cammino ancora, girando liberamente la testa da una parte e dall’altra, qui in alto. C’è una finestrella accesa, tra le file delle altre tutte spente. Ha le ante aperte, i vetri spalancati, mi pare. Sì, è proprio così. E c’è addirittura una piccola forma affacciata lassù, controluce, in piena notte. È una forma minuta, sottile. Sembra una bambina. Mi avvicino un po’, anche se la finestra è a un piano più alto rispetto a dove la mia nuova testa riesce ancora ad arrivare. Mi fermo di fronte, un po’ staccato dal muro, piegando il corpo ad arco perché la mia testa riesca a distinguere la piccola persona affacciata. Ma sì... è una personcina controluce, sottile, sembra davvero una bambina. «Ehi, tu!» provo a bisbigliare nel buio, per non svegliare le altre persone che dormono nelle case vicine. La piccola figura abbassa di colpo la testa, sorpresa. Mi vede. «E tu chi sei? Come sei alto! Cosa fai in giro a quest’ora?» mi domanda bisbigliando a sua volta. «Oh, non lo so neanch’io chi sono» bisbiglio, «ma sono finito qui in mezzo anch’io, come te.» Mi guarda un po’, dalla sua finestra, dall’alto, mentre sto là sotto con la testa arrovesciata e il corpo piegato ad arco. «E tu chi sei?» le domando anch’io. «Cosa fai lì da sola, con la finestra aperta, in piena notte? Sembri una bambina...»

Canto della bambina

Certe notti come questa, che non riesco a dormire tanto sono stanca dopo una giornata di lavoro sui set, e mi giro e rigiro nel letto di questa nuova casa dove sono stata portata e dove vivo da sola, imprigionata, mi vengo ad affacciare a questa finestra, a piedi nudi, in vestaglia. Apro piano le ante, perché non sbattano contro il muro svegliando i vicini, appoggio i gomiti sul davanzale, guardo fuori, le strade vuote, la notte, il cielo buio, qualche rara volta stellato. Non un’anima viva, tutto vuoto, silenzio. Nessun grido, di uomini, di animali, come dietro quella parete prefabbricata dove mi portano per girare, e arrivano quelle cose enormi che non si riescono più a staccare da me, li raffreddano con un idrante, ho sempre paura che mi morsichino da qualche parte, da dietro, mentre sono molto contenti di me e fanno quei versi, il regista sempre infuriato, nonostante io sia sempre così scrupolosa sul set e mi prepari con cura prima di cominciare. Mi lavo i capelli, me li pettino a lungo, mi profumo dietro le orecchie, faccio attenzione all’accostamento dei colori dei vestiti che indosso, anche se poi nessuno lo nota, non si accorgono mai di niente, me li strappano subito, quelle bestie che si attaccano al mio corpo da dietro, anche animali orribili, enormi, che non avevo mai visto prima. Qualche altra cosa così spaventosa che non dirò mai a nessuno, che non è giusto dire. Non vedo più niente, non so neanche che cosa mi succede, là dietro, da un certo punto in avanti. Piombo a terra come un sacco, svenuta. Quando mi sveglio c’è sempre quell’orecchia grande, fredda, pelosa, schiacciata contro il mio petto di bambina per sentirmi il cuore, se sono ancora viva mentre qualcun altro mi infila un ago nel braccio, spaventato, sento l’ago che si rigira e fruga là dentro in cerca della mia piccola vena. Il mio cuore si sveglia, ricomincia a pompare forte. «Speriamo che non si rompa!» mi dico aspettando che, come ogni volta, a poco a poco rallenti. La mia faccia diventa rossa, scotto quasi, a toccarmi. Mi buttano addosso un accappatoio, mi frizionano a quattro mani tutto il corpo. Quando sono sicuri che mi sono ripresa e che possono di nuovo mostrarmi, mi portano fuori dalla rientranza dove abbiamo girato, attraverso un’altra stanza più grande dove sono tutti per terra. Mi cerco una stradina in mezzo a tutti quei corpi che si muovono, per non disturbare il lavoro. Si sentono venire dei versi, mentre vanno su e giù da tutte le parti, ci sono tutte quelle lingue che schizzano fuori dalle bocche, rosse, lunghe, bagnate, non la finiscono più di uscire. Qualcuna sbaglia la mira, viene a toccare la mia caviglia, mentre passo. Altri uomini inginocchiati, vestiti, tutti sbilanciati, per arrivare con le videocamere dove ci sono le cose da filmare in primo piano, i buchi delle donne, quelle altre cose enormi che ci vanno dentro da tutte le parti. Arrivo fino al mio mobiletto, mi vesto, mi pettino, mi rimetto in ordine. Viene l’uomo che mi porta sempre a mangiare in un self-service, mi accompagna a casa, viene a riprendermi la mattina dopo per riportarmi sul set. «Dammi la manina!» mi dice, quando ormai siamo in strada e io faccio fatica a camminare, perché dobbiamo sembrare una bambina normale col suo papà. È l’unica frase che dice, per tutto il tempo. Non l’ho mai sentito dire nient’altro. Neanche quando siamo al self-service e lui si siede di fronte a me senza mangiare niente. «Tu non mangi mai?» gli domando. Fa di no con la testa, soprappensiero. «Posso prendere un’altra fetta di torta?» gli chiedo ancora, alla fine. Fa di sì con la testa. Ha i capelli biondi, ossigenati, anche se è vecchio, è tutto pieno di rughe. «Tu come ti chiami?» gli chiedo. Non risponde. Mi riaccompagna a casa con la macchina. Io seduta vicino a lui che guardo la strada. Arriviamo qui. Mi chiude dentro a chiave, quattro mandate. Sento i suoi passi che si allontanano lungo le scale. Mi guardo attorno, in questa mia piccola stanza. Perché sono qui? Perché mi hanno portato qui? Perché sono viva? Vado a bere un bicchier d’acqua nel gabinetto, mi lavo i calzini, le mutandine che si sono sporcate, in un secchiaio di plastica, mi rifaccio il letto, ripiego bene il lenzuolo. Mi spoglio, mi metto la camicia da notte. Vado a letto, in questa stanza vuota, da sola, alla mia età. Non ho più rivisto il mio cane, nemmeno la mia nuova mamma bantu, Principessa. Chissà dove l’hanno portata, dove sarà andata a finire anche lei? Faccio fatica a dormire. Mi giro e rigiro nel letto. Qualche volta vengo ad affacciarmi alla finestra, come questa notte. Mi metto una mantellina sulle spalle, per non prendere freddo e ammalarmi. Come si sta bene di notte! Nessuno in giro, in questa strada dove si affaccia la mia finestra. Solo tu, lungo lungo, questa notte, anche tu solo, che non so da dove vieni, chi sei. Eppure, non so perché, non ho paura di parlare con te, non ho richiuso le finestre e non sono tornata a rinchiudermi nella mia prigione, come mi hanno detto di fare quelli là, se qualcuno mi parla. E anche tu non hai avuto paura di fermarti a parlare in piena notte con me che sono soltanto una bambina che non riesce a prendere sonno e sta affacciata alla finestra, da sola, e aspetta sempre qualcosa. Che qualcuno passi, che qualcuno veda. Certe notti mi immagino che tutta la strada sotto di me diventa soffice, bianca, e che io chiudo gli occhi e mi sporgo un po’ in avanti sul davanzale con la mia camicia da notte e la mia mantellina, sempre un po’ più avanti, dolcemente, così, a occhi chiusi, fino a che senza accorgersi il mio corpo si rovescia con una capriola lenta nell’aria, una capriola di quelle che non avevo mai fatto in vita mia, forse prima, forse prima che nascessi, forse quando ancora non c’ero, e finisco laggiù tra due grandi braccia di bambagia che mi cullano, mi cullano, mentre una bocca dolce mi parla da infinitamente vicino e intanto mi comincia a baciare sulle guance gelate e io non riesco neanche più a distinguere le parole dai baci, e stiamo per molto tempo così e io riesco solo a dire a me stessa e a bisbigliare: «Per sempre, per sempre...» mentre quelle braccia mi stringono ancora di più e io non penso più a niente e non voglio più niente e non ricordo più niente. Oppure che tutto il cielo comincia a poco a poco a rischiararsi, come se mille e mille piccole luci che forse ci sono già all’interno dell’aria anche se nessuno le vede si accendessero una dopo l’altra per me, solo per me... Mi affaccerò in piena notte a questa finestra mentre tutti stanno dormendo, vedrò il cielo diventare bianco, sempre più bianco, e anche tutte le case, la strada, ogni cosa si accenderà di fronte ai miei occhi, diventerà bianca, sempre più bianca, abbagliante, e io sentirò tutta la mia piccola faccia e le guance e la bocca fasciate dalla carezza delle lacrime che vengono giù senza freno, dolci, bianche, trasparenti, venute chissà da dove dall’interno della mia piccola persona dimenticata, da qualche piccolo scrigno pieno di luce che neanch’io sapevo che esistesse dentro di me, e io ci starò dentro a occhi chiusi come nel velo di un altro corpo più luminoso e più caldo e più trasparente e più grande e non penserò più a niente, non respirerò più, mi scioglierò e scomparirò tutta dentro quell’abbraccio e non tremerò più, non piangerò più, rimarrò per sempre in piena luce, in silenzio, là dentro, intatta.

«Buona fortuna anche a te, meravigliosa bambina!» le sussurro prima di ricominciare a spostarmi lungo la strada. «Chi lo sa che il tuo sogno non si possa avverare! Questa notte anche tu mi hai incontrato!» Faccio qualche passo a caso, senza pensare. Cammino ancora per un po’ con le mani nelle tasche che ci sono qui in alto. Mi sembra di essere cresciuto ancora un po’ di statura, di crescere sempre di più a mano a mano che percorro la mia strada, qui dentro, e che la mia testa si stia spostando in zone ancora più in alto, segno che si sono aggiunti altri strati più freschi sotto le fisarmoniche delle mie zeppe, là in basso, mentre vado per le strade di questa città addormentata mai vista prima, in questa notte che non sembra voler mai finire. Saranno state le parole di quella bambina, eppure anche a me sembra che il cielo stia diventando a poco a poco impercettibilmente più chiaro. Qualche macchina coi fari accesi passa di tanto in tanto di fianco, il guidatore si gira verso di me con gli occhi allargati, continuando a sbadigliare con le lacrime agli occhi, insonnolito. Attraverso a lunghissimi passi una piazza deserta. Ci sono delle corriere parcheggiate ai suoi bordi, con le luci spente. Sento il primo rumore di una saracinesca che viene tirata su da qualcuno che non vedo, con forza. Mi giro a guardare. È di un bar. Si vede che apre prima dell’alba, quando è ancora buio, per i passeggeri appena alzati dal letto che hanno bisogno di bere un caffè forte prima di prendere la prima corriera e di mettersi in viaggio. Infatti ci sono già due persone che si stanno avvicinando al varco di quella saracinesca ancora per metà abbassata. Sono due persone o è una sola? Non si capisce bene perché, se sono due, devono camminare talmente abbracciate che sembrano una persona sola. Si dirigono verso il varco della saracinesca. Ci dev’essere una luce che palpita contro il soffitto, appena accesa, prima di riempire di sé tutto il locale. Mi sarebbe piaciuto seguirli per un po’, quei due, se sono due. Ma le mie gambe sono ormai così lunghe... Accidenti, come sono diventate lunghe, come diventano sempre più lunghe da quando ho cominciato a camminare qui dentro! In quattro passi ho già superato la piazza, sto già camminando lungo un’altra strada che va avanti curvando, e devo inchinarmi leggermente di lato, non solo per il vento. Gli strati che ci sono sotto le mie scarpe si snodano un po’ per assecondare questa curvatura di tutto il mio corpo. Vado avanti così, a lunghi passi, oscillando. Penso di tanto in tanto a quei due, se sono poi due. Chi saranno, così abbracciati, a quest’ora? Mi viene voglia di tornare sui miei passi per vedere se ci sono ancora, cosa stanno facendo in questo momento. Inverto la direzione, con un cerchio largo per la nuova lunghezza che hanno assunto ormai i miei arti, curvando un po’ tutta la torre del mio busto e delle mie gambe e di quelle altre gambe stratificate e snodate che ci sono dall’altra parte delle mie gambe. Riprendo a camminare verso la piazza, con le mani in tasca, senza pensare a niente, tranquillo. Mi sembrava più vicina... Ecco, la piazza! Ma c’è qualcosa di diverso, mi pare, al primo sguardo, stavolta. Sì, sì, la saracinesca del bar è stata tirata su del tutto, e ci sono al banco tre o quattro nuovi clienti che stanno bevendo il caffè, tenendo la tazzina sollevata nell’aria, con due dita, e anche la luce è adesso perfettamente diffusa. Ma non ci sono più quei due, se sono due. Dove saranno finiti? Guardo in giro. Oh, sì, è cambiata un’altra cosa, in questa piazza! Infatti, in mezzo a tutte le sagome buie e fredde e coperte di umidità delle corriere che se ne stanno coi loro musi immobili puntati qua e là, ce n’è una accesa. Una qualche lucina illumina il suo interno, le file delle poltrone vuote. Mi fermo un istante, sulle mie lunghe gambe, ondeggiando. Non sono tutte vuote, adesso che guardo meglio. Sono salite già due persone. Se ne stanno tutte raggomitolate e abbracciate sulla corriera ancora fredda e deserta, da sole, in attesa che parta per chissà dove. Chi saranno? Mi avvicino di un passo. Ma sono ancora quei due, se sono due! Stanno anche là dentro tutti abbracciati come un solo corpo di cui si distinguono a malapena due teste. Lui la tiene stretta a sé con un braccio attorno alla spalla, il corpo di lei è ruotato su se stesso per abbracciarlo a sua volta con tutte e due le braccia, e tiene tutto il volto e il naso e la bocca contro il suo petto, e intanto, in qualche modo all’interno di quel blocco incollato, tutti e due si accarezzano il corpo, i lineamenti del volto, e ogni tanto le loro teste si attaccano per baciarsi con la bocca che sa ancora del caffè appena bevuto. E sembra che non pensino a niente, non sono da nessuna parte e sono da ogni parte. Come riescono a stare strette l’una all’altra, le persone, in questo mondo! Come sarà questo sogno che si sogna da svegli, in questo pianeta? Rimango a guardarli ancora un po’, mentre anche quelle tre o quattro persone sono uscite dal bar, si stanno togliendo col dorso della mano la schiumetta che resta per un po’ sulle labbra dopo aver bevuto il caffè. Si guardano attorno nella piazza semideserta, non vedono neppure la mia figura ferma ancora un istante a guardare quei due, solo perché il mio corpo e la mia testa sono collocati in una zona diversa da dove i loro occhi sono abituati a distinguere le persone. Mi giro su me stesso, oscillando, il mio corpo riprende pneumaticamente a spostarsi in quest’aria che comincia a caricarsi sempre più di luce, lo percepisco meglio, da qui dove mi trovo, e posso vedere oltre la curvatura rotante di questo pianeta dietro la quale sale sempre più la luce di quella stella incendiata, con gli organi di senso che ci sono nella mia testa. Allungo ancora di più il passo, anche se non ho una meta. Chissà chi saranno quei due? mi domando, avranno pure un nome anche loro, qui dentro! Chissà dove andranno? Così abbracciati, senza pensare a niente, senza sapere niente... Non è ancora l’alba, ma si prepara già ad albeggiare, mi sembra. Le luci dei lampioni sono ancora accese, si cominciano a distinguere sempre meno dal resto della luce. Le facciate delle case si stanno già rischiarando pian piano. Cammino ancora per un po’ contro le loro superfici impennate e i volti delle persone che cominciano ad aprire le finestre ai piani più alti, in pigiama o in camicia da notte, mi vedono scorrere come se niente fosse alla loro altezza, mi guardano tranquillamente, ancora un po’ addormentate, con i capelli sparati, le bocche ancora spalancate per uno sbadiglio. Passo di fronte a una facciata tutta gremita di fiori rossi, a ogni finestra, a ogni piano, dall’altra parte della strada. Accidenti, quanti fiori su quei davanzali! mi dico. Invece un secondo dopo mi accorgo che non sono fiori ma le grandi bocche rosse, accese, fiammanti di molte persone che hanno aperto tutte assieme le ante di quel piccolo albergo, e se ne stanno così affacciate, da tutte le parti, a ogni piano, a ogni stanza, senza dire niente con le loro grandi bocche dipinte nella prima luce che sale, in attesa. Che strano mondo è questo dove sono finito! mi dico oltrepassando anche quella facciata. Continuo a spostarmi a passi sempre più lunghi, sulle mie pile di cilindri e di cerchi. La luce sale sempre di più, colgo un leggero profumo nell’aria, ogni tanto, quando sfrecciano al mio fianco i primi furgoni diretti chissà dove. Chissà cosa trasporteranno? mi domando. Dove andranno? Cammino all’interno di quel profumo, per un po’, con la mia testa, qui in alto. Siccome non ho una meta, seguo la sua scia quando mi sembra che cambi direzione improvvisamente, per lo svoltare repentino di uno di quei furgoni. Il profumo cresce ancora di più, dentro la luce che cresce. Come faranno a nascere improvvisamente questi profumi, in questo mondo? mi domando. Da dove verranno? Come faranno a separarsi così dal resto dell’aria? O a invaderla così tanto da crearci dentro queste correnti che volano attraverso lo spazio come dei fiumi d’aria, di luce? Io non so ancora niente di questo mondo! Sono arrivato fin qui seguendo la scia di profumo lasciata dietro di sé da uno di quei furgoni, attraverso questa piccola piazza... Ma io lo conosco questo posto! Sono arrivato per una strada diversa nello stesso identico punto dove c’è quell’edicola che avevo visto mentre stavo fermo e con le braccia conserte di fronte a quell’ambulatorio, per proteggere quella donna gravida. E ho anche capito dove vanno a finire tutti quei furgoni. Riforniscono le edicole dei giornali, all’alba, e gli edicolanti sono già svegli, in attesa. Infatti il furgone si accosta all’edicola, un uomo ne esce, scarica molti pacchi di riviste e giornali, prendendoli per il legaccio dell’imballaggio. Li ammucchia vicino all’edicola. È da lì che viene il profumo! Saranno tutti pieni di quelle strisciate pubblicitarie. Tutta la strada ne è invasa, la piazza. Quanti nuovi profumi che non avevo mai sentito sono nati stanotte, mentre ero sveglio per adempiere il compito che mi è stato assegnato, e camminavo così per le strade e fantasticavo e forse sognavo! Adesso dall’edicola è uscita quella stessa ragazza con le stampelle profumate che avevo già visto una volta e che non ho più dimenticato. È già sveglia anche lei, si è già alzata dal letto e poi vestita e lavata e profumata. Si sposta di qualche passo su quelle sue stampelle, si china un po’, taglia i legacci con un coltellino, gli strati delle riviste si distendono un po’ di più, si sprigiona un profumo ancora più intenso nell’aria, nello spazio. Ne prende piccoli blocchi e li va a mettere su quel piano che c’è davanti all’edicola. Rifà molte volte quel gesto, spostandosi tranquillamente sulle sue stampelle. Si tira su ogni tanto con la mano una ciocca di capelli che le ricade continuamente sopra la fronte, quando si china di più per afferrare i giornali, e io mi fermo a guardarla, a guardarla, a guardarla. Com’è bella! Come mi sembra bella! Con che leggerezza si muove, nonostante quelle due stampelle! Che profumo viene da quella parte e dalla sua persona! Ma adesso anche lei mi ha visto, mi è parso. Si arresta col pacco di giornali a mezz’aria, li rimette a terra, percorre con gli occhi tutta la lunghezza delle mie gambe. La sua bocca si allunga sempre più in un sorriso man mano che sale verso il mio corpo e la mia testa, qui in alto. E allora io sento che ricomincio a spostarmi di nuovo irresistibilmente in avanti. Tutto il mio corpo è preso da un bisogno incontrollato di respirazione e di movimento spaziale. La bocca della ragazza si allunga, girata sempre più verso l’alto mentre mi avvicino a lei a lunghissimi passi, solleva irresistibilmente le braccia in un gesto di riconoscimento e accoglienza. Il mio passo si allunga ancora di più, non riesco a impedirmi di scavalcare d’un balzo tutta la cupola profumata della sua edicola e la ragazza che mi sta guardando e mandando baci dal basso. Faccio ancora qualche passo così, incontrollato, ritorno indietro, la scavalco di nuovo, ritorno indietro ancora una volta, la scavalco ancora, mentre la ragazza continua a tenere le braccia sollevate sulla curvatura profumata dell’orizzonte. Oh, come mi piace quando le ragazze sollevano con esaltazione le braccia, in questo mondo!

L’account sorrideva, il copy e l’art tenevano abbracciate la ragazza con l’acne e quella non c’è assorbente che tenga, mentre le due ragazze stavano con le testoline sulle spalle dei due cavalieri e le manine piene di anelli abbandonate sulle patte dei loro calzoni. Io non parlavo.

«Cosa succede?» mi chiese l’account.

«Stavo pensando» mi scossi.

«A che cosa?»

Girai gli occhi.

«A quei due.»

«A quei due chi?» chiese l’account.

«Ma a quei due che sono partiti all’alba con quella corriera, e chi s’è visto s’è visto!»

«Perché le interessano tanto?» chiese ancora l’account.

«Non ha ancora capito chi sono?»

«No, non mi pare, non mi sono neanche posto il problema.»

«Male! Che cosa crede? Sono il Matto e la Meringa. Sono ancora loro!»

Silenzio.

Il Matto e la Meringa partono per chissà dove

«Dove staranno andando quei due?» mi domandai ad alta voce. «Dove crederanno di andare, stretti così l’uno all’altra, all’alba, su quella corriera? Dove si saranno messi in testa di andare? Verso quale luogo? Sfuggendo così, per conto loro, da tutto quanto, qui dentro...»

Dall’altra parte del tavolo l’account si massaggiava silenziosamente le guance e sorrideva.

«Mi sembra di vederli. Saranno ancora là seduti in attesa della partenza, abbracciati, le mani che si accarezzano sotto i vestiti, come se non ne avessero mai abbastanza l’uno dell’altra, sulla schiena calda, lungo la spina, le tette, il torace, anche più giù, ci scommetto, nelle zone calde sotto le mutande, i collant, se la corriera è ancora deserta. Poi qualcuno, poco per volta, comincia a salire. Spunta finalmente anche l’autista, salta su dal basso, accende il motore, per scaldarlo, scende di nuovo, va anche lui a quel bar a bersi un caffè, mentre il motore continua a girare. La corriera adesso trema un po’, anche la luce al suo interno è salita, da quando è stato acceso il motore. La Meringa e il Matto si baciano di nuovo le teste, le bocche. L’interno della corriera vibra ancora di più, le file delle poltroncine vuote, il lontano volante, il cruscotto, le prime teste dei passeggeri saliti. Qualcuno dondola un po’ la testa, chiude gli occhi, ricomincia a dormire. L’interno della corriera si sfuoca, i tergicristalli bloccati in un punto alto del parabrezza, la ruota del volante, le prime teste, non riescono più a stare dentro se stesse, a guardare con gli occhi socchiusi, le bistecche fredde delle bocche schiacciate l’una contro l’altra, appena svegliate, all’alba, le mani ancora sotto i vestiti – sto parlando di nuovo di quei due, si capisce –, le mutande, bene al caldo, profumate, tranquille. La luce sale mentre già sta salendo. Tirano fuori a malincuore le mani, perché sono saliti altri passeggeri e non possono più stare così, con le dita nelle mutande dell’altro, si annusano macchinalmente le dita prima di riprendere a toccarsi da tutte le parti, a carezzarsi... Oh, ma che cazzo di brief è questo?»

Mi interruppi un istante, perché avevo visto che anche la ragazza con l’acne e quella non c’è assorbente che tenga si erano a loro volta annusate macchinalmente le dita piene di anelli, prima di girare di nuovo le testoline verso la mia testa che aveva ricominciato a parlare.

«Sono salite anche altre due o tre ragazze, è salito alla fine anche l’autista, venendo su come catapultato dal basso, con un balzo. Ha preso posto sul suo grande sedile, che si è compresso sotto di lui con un soffio, ha afferrato la grande ruota sfuocata del volante, ha ingranato la marcia. Tutto l’interno della corriera si sfuoca ancora di più, nei primi istanti in cui comincia impercettibilmente a spostarsi sulle sue grandi ruote. Anche le nostre due testoline che ricominciano di nuovo ad accarezzarsi e a baciarsi nell’emozione di questo viaggio che comincia. La corriera si sposta, si inventa a poco a poco un corridoio d’uscita scivolando colossale sulle sue ruote di gomma, tra le altre corriere ancora parcheggiate qua e là nella piazza. Imbocca una strada. L’autista spegne la luce artificiale all’interno, perché fuori dai finestrini l’altra luce è già alta. Tutta questa parte del pianeta è già dentro il suo bozzolo di luce, impossibile immaginare in questo momento che sta in realtà ruotando in uno spazio infinitamente più nero e più cavernoso e più grande dentro questa sua bendatura di luce. Neanche i nostri due imbecilli ce l’hanno per l’anticamera del cervello, e infatti si stanno stringendo ancora di più con le loro manine appena tirate fuori noi sappiamo da dove, le loro dita si toccano le teste, si insinuano tra i capelli, sulla scatola cranica, i padiglioni delle orecchie, le sopracciglia, le ossa degli zigomi, il mento. E poi di nuovo a baciarsi col muscolo della lingua. Quante scariche da quei due cervellini nell’ordinare una simile miriade di ordini a ogni singola parte del corpo per eseguire mille e mille volte gli stessi identici gesti che non sono mai identici, per dare attuazione a quella cosa che è stata chiamata addirittura amore, qui dentro! Guardano fuori dal finestrino ormai pieno di luce, ogni tanto, riprendono irresistibilmente a toccarsi, a baciarsi. Dove staranno andando quelle due testoline di cazzo innamorate? Dove cazzo crederanno di andare? Dove vorranno portarci tutti quanti, qui dentro? Ammesso poi che vogliano davvero portarci da qualche parte, che gliene freghi qualcosa di portarci da qualche parte. E che non si sentano invece come chi è sfuggito a qualcosa d’altro, sta spostandosi lungo una traiettoria diversa, incalcolata, inventata, mentre io sono qui a tenere aperta questa possibilità, questo brief, e che non gli importi nient’altro, come chi ha perso tutto e ha conquistato tutto, come se il viaggiatore e il viaggio fossero diventati finalmente una cosa sola, mentre le loro gambe si intrecciano e si accavallano nella torsione di tutti e due sui sedili, e le loro braccia si attirano e si stringono così forte che sembra che le loro ossa debbano andare in frantumi, come se, dietro i loro rivestimenti di carne, i loro scheletri volessero diventare uno scheletro solo. Perché? Che gioco è questo? Perché io posso stare qui dentro solo perché c’è questo gioco? Dove vorranno andare? Dove crederanno di andare? Eppure conosco anch’io questa travolgente tensione verso un altro corpo. Lo so che cosa si prova. Come mi sentivo tremare le gambe e le braccia mentre salivo per quelle scale aggrappandomi con la mano alla ringhiera per non cadere, io, proprio io, che sono quello che fa tremare gli altri, li abbatto, e poi mentre incrociavo quel donatore di seme che scendeva, il costruttore di questo videogame, e salivo finalmente verso la Musa, la mia Musa, che mi aspettava già sulla porta, nuda, calda, appena inculata, e io ascendevo verso di lei zoppicando, tutta la tromba delle scale risuonava per il battito forte del mio scarponcino sopra i gradini e poi su quel lucernario borchiato, e poi cominciavo a staccare la mano irresistibilmente dalla ringhiera, la sollevavo verso la macchia luminosa del corpo di carne della mia Musa, mentre lei allungava a sua volta la sua mano verso di me che salivo col cuore in gola e intanto sentivo il battito forte del mio cuore pieno di sangue che faceva sbalzare tutta la rete delle vene, delle arterie, tutto quel groviglio di fascine che si gonfiava dentro la carne, invadeva i corpi vischiosi, cavernosi, dentro le gambe, le braccia, nei polmoni, su e giù per il collo turgido con quei rumori ematici primordiali, dentro i globi oculari che vedevano finalmente di fronte a sé la loro Musa in attesa carnale, dentro la massa cerebrale coi suoi filetti innervati, arroventati, nell’imbuto della gola in salivazione, dentro il cazzo che si cominciava a gonfiare sempre più man mano che mi avvicinavo al suo corpo nudo, in attesa, anche lei tutta piena di sangue in spostamento forte dentro i canali delle vene elastiche, delle arterie, coi suoi rumori acquatici, su e giù per le grandi vene del collo ad alimentare la bella testa, l’apertura della rossa bocca succhiatrice di cazzi, delle ascelle rasate, della fica irrorata, del suo cervello ispirato, dell’anello del culo, del budello del retto, e ancora fino a tutta la rete di venule, arteriole, capillari che vanno a lambire la radice di ogni capello, dei peli della fica, del culo, il fiume intestinale della sua merda che scorre dentro le anse bagnate, sotto il velo di carne della sua pancia tagliata. E lei se ne stava lì sulla porta, con tutte e due le braccia allargate, le tette di carne, mentre io mi lasciavo alle spalle gli ultimi gradini che ancora mi separavano dalla mia Musa, e poi più vicino, sempre più vicino. E poi tutti e due sulla stessa superficie del pianerottolo. Allargo anch’io le braccia, respiro a bocca spalancata tanta è l’aria che irrompe nei miei polmoni. “Sei qui, finalmente!” mi dice un istante prima di abbracciarmi, e anch’io abbraccio il suo corpo nudo, con forza, sollevandola da terra. “Direttamente, in prima persona” continua a dire e a mormorare con la bocca già premuta contro il mio volto, “senza più intermediari, senza più niente in mezzo. Quelli che hanno fatto germinare tutto quanto, qui dentro. Allo scoperto. Io e te. Eccoci qui, finalmente!” E intanto anch’io comincio a tuffare il rostro della mia testa e il mio volto nella sua carne, della gola, del collo, mentre anche lei mi cerca la bocca con le labbra, e ci baciamo così, a lungo, irresistibilmente, nel pianerottolo, io puntato a terra quasi su un piede solo, lei con i piedi nudi staccati dal pavimento, le gambe attorcigliate attorno alle mie gambe, le braccia e le mani attorno alla mia vita, le spalle, e poi ancora le sue dita palpitanti sulla testa, sul volto, attorno all’imbuto delle nostre bocche incollate. “Cosa facciamo qui fuori?” geme parlando con la bocca contro la mia bocca, dentro la mia bocca, e spostandomi le labbra da una parte e dall’altra sulla chiostra dei denti. “Entriamo in casa. Quanto abbiamo aspettato questo momento tutti e due, io da una parte e tu dall’altra, qui dentro, tutti e due al centro dei suoi mille fili. Che razza di abbraccio è questo!” Muovo qualche passo zoppicando verso la porta, non capisco se sono le mie gambe a spostarsi o se sono le sue gambe attorcigliate alle mie a metterle in movimento un passo dopo l’altro verso l’apertura della sua casa. E se la porto, o mi porta, o ci portiamo l’un l’altra all’interno, come un unico corpo semovente. Varco così la soglia, col corpo nudo della Musa sollevato da terra. Lei richiude alle nostre spalle la porta, capisco, con una delle sue mani di carne staccate per un istante dal mio volto, dalla mia bocca. Faccio qualche passo dentro la casa, reggendo la mia Musa per la schiena, la vita, con le braccia, le mani, nella spaccatura del culo. Sento che sta già cominciando a spogliarmi, sollevata, mi slaccia i bottoni della camicia, dei calzoni, mi pare, con le dita delle mani, dei piedi. Non riusciamo a fare un passo più avanti, non riusciamo neanche a raggiungere il cesso dalla porta spalancata, la camera da letto. Mi spoglia rapidamente, mentre anch’io la tocco da tutte le parti, la palpo. Mi sfila i vestiti, me li stacca dal corpo con le dita delle mani, la bocca. Rimango in piedi così, nudo, contro il muro, col cazzo duro, le scarpe ai piedi. Sento che sta per togliermi le scarpe. “No, quelle no!” le dico continuando a baciarla. “Rimango meglio in equilibrio se ho ai piedi le scarpe, lo scarponcino...” Si è già inginocchiata davanti a me, mi ha già preso in bocca il cazzo. Lo muovo nella sua bocca, lo faccio entrare e uscire quasi del tutto prima di reinfilarlo dentro fino alla corolla dei peli. “Ecco, sì” sento che sta dicendo, “mi metto con la testa un po’ arrovesciata, così puoi vedere il tuo cazzo duro che sa un po’ di piscio entrare e uscire dal fiore della mia bocca, dalla mia testa, e non si capisce neanche come fa a starci tutto, con quei peli che continuano anche sopra la pelle e arrivano fin quasi alla punta, lo sento, con l’interno delle labbra, la lingua...” Si alza di nuovo in piedi, continuando a tenermi il cazzo con la sua mano dalle dita piene di anelli, mentre le bacio il collo, la bocca, le orecchie anche quelle piene di anelli. “Dai, scopiamo subito! Cosa aspettiamo?” mi dice continuando a baciarmi. “Senza tante storie, la prima volta, in piedi, così, come due ragazzi che devono togliersi la fame più grossa. Abbiamo aspettato anche troppo!”»

Il Gatto e la Musa scopano in piedi e intanto parlano

Mi giro su me stesso, con la Musa attaccata, la tengo sollevata da terra con le braccia mentre anche lei si tiene abbracciata a me con le gambe aperte e levate, attorcigliate alla mia vita, e io la tengo sollevata bene da terra con tutte e due le mani nello spacco del suo culo appena inculato, mentre lei si infila il mio cazzo dentro la pancia e viene giù bene, dall’alto, spaccata, e io mi infilo bene a fondo dentro di lei, la calzo stando in piedi, con le scarpe ai piedi, il mio cazzo tutto pieno di sangue attaccato al resto del mio corpo tutto pieno di sangue. «Eccoci qui, finalmente!» le dico a mia volta, incastrandomi a fondo dentro il suo corpo tagliato con una spinta forte del bacino, dal basso, mentre lei è tutta spalancata e avvinghiata, il filo della schiena e il culo pressati contro il muro per spingerglielo dentro con ancora più forza. «Hai visto che ci siamo incontrati finalmente, io e te?» le dico con la testa gettata all’indietro. «Da quanto tempo aspettavo questo momento, mentre tutto divampava e deragliava e prendeva forma, qui dentro. Io e te. Uno da una parte e uno dall’altra. Io sono stato al mio posto, ho aspettato, mi sono mosso impetuosamente dentro le altre forme gettate avanti come per caso, allo sbaraglio, qui dentro. E adesso sono qui, sono arrivato qui, sono entrato a capofitto dentro il tuo corpo spaccato, nella tua fica ispirata. Li senti i colpi del mio cazzo che fanno tremare il muro contro il quale sei spiaccicata?» «E tu» mi dice lei con la voce un po’ soffocata, «le senti le contrazioni del mio guanto di carne che stringe il tuo pezzo di carne scappellato, e te lo prende dentro mentre le mie gambe ti serrano elasticamente da tutte le parti, e la mia bocca ti bacia sulla faccia e una delle mie mani ti stringe il collo, ti sposta i lineamenti del volto, mentre l’altra ti serra il sacco delle palle che pende e sbatte tra le mie gambe spalancate, contro il buco del mio culo appena goduto, e ti tira più forte verso di me a ogni colpo? Che cosa credete? Anch’io sono stata al mio posto, ho aspettato, ho ispirato. Ho messo il mio corpo e la scatola nera della mia fica e il mio culo al centro di questo finimondo che riapre il mondo. Ho scopato, ho spompinato, ho forgiato.» Continua a parlare così, con la bocca affondata dentro la mia bocca, e i muscoli delle nostre lingue si attorcigliano così forte l’uno all’altro come per strapparsi via dalle loro sedi che avverto il sapore dolce del sangue nell’imbuto di carne della mia gola. «Lo senti il sapore del sangue?» le dico continuando a baciarla e a devastarla con la mia bocca, e caricando i miei colpi dentro la sua pancia col peso di tutto il mio corpo in bilico, che barcolla. «Io non ho paura del sangue!» mi dice gemendo con la bocca bagnata dentro la mia bocca che le sposta qua e là i lineamenti del volto. Scorgo sbavature di sangue palpitare sulla sua bocca, sulle mie guance, sugli occhi, mentre mi stacco per un istante per baciarla e per morsicarla in un’altra parte del corpo, sulle tette, sul collo, e anche lei sta vedendo di certo la mia bocca e la mia testa accendersi di più per il sangue lasciato dalle sue labbra bagnate, tormentate. «Lo senti il fuoco? Ti brucia?» le dico colpendola in modo incontrollato contro la bistecca della fica allargata. «Io non ho paura del fuoco!» mi dice lasciandosi cadere di peso dall’alto contro la maniglia del mio pezzo di carne che si disarticola un po’, come uscendo per un istante dalla sua sede. Le tormento il petto, la schiena, le ficco diverse dita nel buco del culo tutto sforzato, le mordo a sangue la carne delle spalle, del collo, mentre tutta la macchina del mio corpo la colpisce e la sbatte con sempre maggiore violenza a ogni colpo, e si sentono i tonfi delle sue ossa e della sua carne contro il muro. «Ti fa male?» le mormoro con la bocca rossa, bagnata. «Dimmelo se ti fa male!» «Io non ho paura del male!» mi risponde a versi, con la bocca pestata. «Sbattimi ancora più forte! Fracassami! Spaccami! Sfondami! Sono io la tua Musa!» Le vado dentro a sega, dal basso, dall’alto. «Spaccati ancora di più!» le dico con la gola chiusa. «Fammi entrare nello scrigno del tuo corpo segreto con la mia tristezza infinita che nessun altro conosce, fammi finalmente morire!» «Sì, sì, io ti faccio entrare dentro il mio scrigno segreto» la sento dire con la sua gola morsicata, bagnata, «dove neppure io sarei mai entrata senza il rostro peloso del tuo cazzo attaccato a tutta la tua persona che non ha un posto al mondo. La resa dei conti è arrivata. La nostra lotta è disperata, a questo punto, qui dentro. Noi siamo i soli a poterci guardare in faccia arditamente per quello che siamo.» Anch’io comincio quasi a gridare, mentre sprofondo un’ultima volta dentro il suo corpo, la sento gridare ancora più forte mentre stanno partendo dentro il suo ventre i primi schizzi roventi. Mi prende la testa con tutte e due le mani, la mia antica testa. Anch’io le prendo la testa bagnata, un po’ insanguinata. Restiamo per qualche tempo così, i muscoli dei nostri cuori allargano sempre di più i loro cerchi. Stringe forte il mio cazzo con l’interno della sua pancia, mentre continuo a sparare dentro di lei a getti lunghi e dolci e disperati e roventi, venuti chissà da dove dall’interno della solitudine del mio corpo inviolato, come se stessi finalmente pisciando, per la prima volta, così, liberamente, a gambe aperte, con gli occhi chiusi, tremando per tutto il corpo, chissà dove, chissà in che tempo, tutto dentro questa profondissima notte rotante che mi avvolge da tutte le parti e da cui anch’io devo essere per forza venuto, chissà quando, e perché, della quale non conservo ricordo e che pure sento che c’è stata da qualche parte, in mezzo a tutta questa materia stellata, e anche l’interno della sua fica pulsa sempre più forte, il suo buco del culo palpita e si allarga a dismisura a ogni contrazione d’orbita della sua pancia, le anse dei suoi intestini pulsano allo stesso ritmo segreto, sento venire contro le mie dita la massa dolce e buona e calda e incontrollata della sua merda. «Cosa si è rotto dentro di me» le domando con la testa tuffata nella cavità fradicia della sua testa «che non mi riesco a fermare?» «Mi stai allagando, mi hai allagata» risponde serrandomi con la mano piena di anelli la radice del cazzo che pulsa mineralizzato a ogni scarica che l’attraversa. Mi esce un grido, di nuovo, non so da che parte, da lontano, anche a lei esce un grido, dalla gola, dalla fica, dalla pancia, dal culo, mentre sento le mie gambe barcollare sempre di più. «Che cazzo è successo?» le dico. «Non mi era mai successa prima una cosa così!» «Sei venuto» mi dice continuando a baciarmi. «Sei venuto per la prima volta dentro la pancia della tua Musa!» Chiudo gli occhi, anche lei chiude gli occhi. Ci riposiamo per qualche istante l’uno contro la testa dell’altra. «Che cosa sta succedendo, qui dentro?» le chiedo ancora. «Ti stanno giocando» mi dice, «stanno provando a giocarci tutti e due, adesso e proprio adesso che hai preso, che abbiamo preso nelle nostre mani il peso di tutto. Non puoi non averlo compreso, se mi hai così tenacemente cercata, indirettamente, fin dall’inizio, per chi voleva capirlo, per chi aveva ancora occhi per capirlo. Ma è tutto da vedere che cosa succederà! Che nessuno si faccia illusioni, fino all’ultima parola, all’ultimo gesto. Non avere paura. Noi siamo capaci di camminare a testa in giù nella notte. Io sarò sempre al tuo fianco, d’ora in poi!» La bacio un’ultima volta, sulle labbra profumate e bagnate, le tiro fuori le dita dal buco del culo, mentre anche le sue gambe alate si muovono nell’aria per mettere i piedi a terra, e il cazzo mi esce dalla sua fica ancora gonfio e bagnato, insanguinato. «Oh, cazzo, ragazzo: mi hai sverginata!» ride facendomi una carezza sopra la zucca. «Ti è venuto il marchese?» esclamo a mia volta spavaldamente, ridendo. Allungo una mano per farle una carezza sul volto, poi mi fermo, perché vedo che le mie dita sono un po’ sporche di merda. «Non ti preoccupare, ragazzo!» mi sorride di nuovo. «Fammi pure quella carezza, la prima carezza che ti è venuto di fare da quando sei arrivato da solo qui dentro. Io non ho paura di sporcarmi di merda!» Le faccio una carezza lunga sul volto, con la mia mano smerdata, mentre ci sorridiamo uno davanti all’altra con le nostre bocche bagnate, colorate. Si gira un istante, toccandosi con la mano di dietro. Tutta la sua schiena e il suo culo sono stati grattugiati e spellati dall’intonaco del muro mentre la caricavo e venivo dentro il suo corpo. «Sei pronto?» mi dice ancora ridendo. «Vuoi che venga con te?» «Si può fare, ragazza!» le dico abbracciando e sollevando un’ultima volta il suo corpo di carne. Mi stringe a sua volta. «Forza, allora, partiamo! Ripartiamo!»

Girammo tutti quanti la testa da una parte, io e l’account, il copy e l’art e le loro ragazze con l’acne e non c’è assorbente che tenga, perché si era sentito bussare improvvisamente alla porta.

«Chi sarà?» disse l’account. «Cazzo, l’avevo pur detto che non ci disturbassero più fino alla fine di questo brief!»

La porta si aprì, senza aspettare che qualcuno dicesse: «Avanti!».

«Niente paura, ragazzi! Non l’avete capito che stavo arrivando?» disse la Musa facendo il suo ingresso. «Sono proprio io! Sono qui!»

Si sentì un rumore di poltroncine a ruote buttate contro il muro con forza, mentre tutti schizzavano in piedi come caricati a molla, per l’emozione.

«La Musa...» balbettò l’account, «addirittura la Musa! Anche lei qui, al nostro brief, di persona... A che titolo è qui?»

«Sono la ragazza del Gatto!»

Il copy e l’art erano rimasti impalati. Non staccavano gli occhi dai bottoni delle sue tette, che trasparivano ferocemente dalla camicetta di garza.

Mi alzai a mia volta, con calma, la baciai sulla bocca tenendole la bella testa rasata, da dietro, nel palmo della mano, come si fa con la propria ragazza.

L’account le tese la mano, anche il copy e l’art, mentre la ragazza con l’acne e quella non c’è assorbente che tenga la guardavano sorridendo, estasiate.

«Ciao, ragazze!» esclamò la Musa. «Avete lavorato bene! Sono contenta di voi!»

Si abbracciarono tutte e tre, incontrollabilmente.

«Vi conoscete?» balbettò l’account.

La Musa si girò a guardarlo, facendo tintinnare gli orecchini a raggiera.

«Perché? Non l’avevate ancora capito che erano anche loro due mie aiutanti?»

La guardai a mia volta, con gli occhi spalancati, ridendo.

«Oh, cazzo!» le dissi, abbracciandola a mia volta per un istante, con una mano sulla spaccatura del culo, leggera.

«Bene, signori!» concluse solennemente l’account. «Le presentazioni sono finite. Torniamo a sederci. Il brief continua!»

«Ricomincia!» corresse la Musa, mettendosi a sedere al mio fianco.

Si assestarono tutti sulle poltroncine, spostandosi un po’ prima di trovare la posizione migliore, sette buchi del culo, quattro cazzi e tre fiche, più sei tette che si muovevano libere sotto i tessuti leggeri delle camicette, delle magliette, senza contare lo specchio, come direbbe quello là, a questo punto.

«In questo brief si sono formate tre coppie...» buttai lì all’account «lei invece è solo.»

«Non si preoccupi» mi sorrise sprezzante, «prima o poi verrà qualcuno a sedersi al mio fianco. Ho anch’io le mie carte!»

Ci fu un breve silenzio. Poi cominciò a parlare improvvisamente la Musa.

Si ricomincia!

Eccoci qui, finalmente, alla vigilia di questo annuncio, in questa voragine genitale che sta per squarciarsi. Sono stata invocata. Torno a prendermi il posto che mi spetta, qui dentro. Sono stata io ad accogliere il Matto tra le mie braccia, quando mi è stato portato, e poi a fortificarlo, a temprarlo, all’inizio di questa impresa. Ho preparato il seme del donatore dentro il suo scrigno di carne, con le mie mani, e alla fine l’ho accolto con tutta me stessa nel mio intestino. Ho posto la mia fica di fronte alla fica dell’Interfaccia, nella bolla del video, l’ho preparata al concepimento accarezzandola con una lama d’acciaio, col fuoco. Ho disseminato qui dentro le mie nuove aiutanti, altre ancora ne disseminerò, che voi neppure saprete. Ho preso tra le mie mani il rotolo di carta e di fuoco che quel vecchio con la paresi masturbatoria stringeva nella sua mano fin dall’inizio. Ho ascoltato la voce di quel sacerdote, tutte le volte che mi ha cercata, anche in piena notte, sono entrata nel suo tabernacolo con la mia carne spaccata, ho scovato quella Principessa africana, quella bambina, ho accolto ogni voce e ogni corpo che veniva fino a me in ogni forma. Ho amato, ho incitato, ho premiato, ho evocato, ho inventato. Ho preparato ancora quel Matto prima della più rischiosa delle sue imprese, forse, qui dentro, aprendo a lui la bella, dolce e calda voragine del mio corpo per tutta una notte, dentro il mio letto nuziale, l’ho portato fino al punto in cui non poteva che uscire da qui dentro, di colpo, e mettersi in viaggio verso una dimensione diversa abbracciato alla sua Meringa, che ancora davvero non conosciamo, di cui non sappiamo nulla, ma che non potrà che deflagrare incontenibilmente, qui dentro. Mi sono fatta scopare a sangue dal Gatto, mi sono data con tutta me stessa a lui che mi cercava fin dall’inizio, mi invocava. Ormai ci siamo incontrati. Non ci sarà più legge d’ora in avanti, qui dentro, se mai c’è stata!

Ma adesso dove eravamo rimasti? Che fine hanno fatto quel sacerdote, il donatore, Principessa, Aminah, quella donna amputata? Ve lo siete chiesto? Perché le loro figure sono state quasi estirpate dalle loro sedi, d’un tratto, adesso che si è messo in atto questo movimento pubblicitario di salvazione? Dove sono finiti? Eppure arriverà anche per loro il momento, qui dentro, mentre il Matto e la Meringa vanno abbracciati su quella corriera che non si sa ancora dov’è diretta, nessuno l’ha ancora capito, e intanto la luce sale, è salita, comincia già a declinare, segno che è già passato quasi un giorno da quando si sono messi in viaggio, tirano fuori dei sandwich dallo zaino, avvolti neanche a farlo apposta nella carta stagnola, cominciano a divorarli senza smettere di guardarsi, con le briciole incollate alle labbra, se le tolgono con la lingua l’un l’altra, bevono una sorsata di birra, si baciano con le labbra bagnate, tornano a guardare dall’altra parte, la strada. Gli sembra, guardando fuori con gli occhi un po’ intorpiditi dalla stanchezza, dal sonno, che alcune forme investite si stacchino di tanto in tanto dall’asfalto, e riprendano a camminare così come sono, tranquille, minuscoli animali crollati, oggetti senza nessuno scopo apparente, con le loro nuove forme appiattite. Si cominciano a staccare filiformi, dinoccolati, in mezzo a questa guerra e a questa fiaba che cresce, si mettono in marcia sui loro piedi o su ciò che di volta in volta eleggono a questa funzione, anche loro non si sa verso dove. Io lo so invece dov’è diretta adesso Aminah, quella donna amputata. Mi è arrivata in casa poco fa portata dentro uno zaino da Lazlo. «Veniamo da Pasadena» mi ha detto lui, senza stupirsi che fossi nuda, «io e questa coraggiosa ragazza che ho l’onore di farle conoscere. Il suo nome è Aminah. Mi è stato detto di portarla da lei perché conosce la sua amica bantu.» La testa della donna spuntava un po’ dallo zaino, mi guardava con gli occhi lucenti, sorrideva. Ho allungato un braccio, le ho accarezzato la testa, e nel far questo ho accarezzato anche un po’ la testa di Lazlo, che mi guardava silenzioso, tranquillo. «Sì, è vero, conosco Principessa, ma adesso non abita più nel posto dove l’avevo incontrata l’ultima volta, è sparita.» «Non importa» mi ha detto la voce di Aminah, dallo zaino, «ti aiuterò io a cercarla, se vuoi, se mi accetti.» «La tolga da quello zaino» ho detto a Lazlo, «qui è a casa sua!» Si è tolto delicatamente lo zaino, prima da una spalla e poi dall’altra, inclinandosi ogni volta di lato. L’ha messo in piedi sopra una sedia. Mi ha guardato con dolcezza, tranquillo. «Mi piacciono le persone come lei» gli ho detto mentre era già girato di schiena, «di poche parole, eleganti.» Mi ha sorriso, mi è parso, perché aveva già la testa quasi completamente girata. «Buona fortuna, ragazze!» ha detto cominciando a scendere i gradini. «Non vi disturberò più, d’ora in poi!» Mi sono trovata sola con Aminah. Ho provato a sollevarla dalla sedia. «Sono troppo pesante?» mi ha chiesto, perché non avevo calcolato bene il peso dello zaino e l’avevo rimessa giù. «No» le ho detto, «sei leggera, sei la più leggera, qui dentro. Devo solo abituarmi a una simile leggerezza!» La sua testa mi guardava con gli occhi lucenti, sorrideva. «Come sei bella!» mi ha detto. L’ho ripresa di nuovo, l’ho sollevata come una piuma e me la sono messa in spalla. «Hai fame? Sei stanca?» le ho chiesto. «Vuoi dormire?» «Sì, sì» ha sussurrato la sua bocca dietro la mia testa, «ma prima dovrei lavarmi. È tanto tempo che non riesco a lavarmi: sono sporca.» L’ho rimessa per terra, l’ho tirata fuori dallo zaino, piano piano, per non farle male. Ho preso in braccio il suo tronco. Siamo andate tutte e due verso il bagno. «Dove posso appoggiarti?» le ho chiesto. «Dove vuoi» mi ha risposto, «sono abituata a stare in piedi anche senza gambe.» L’ho messa dentro la vasca, diritta, contro la parete. Le ho staccato la maglietta che le avevano messo addosso. «Come sei bella!» le ho detto a mia volta, quando ho avuto di fronte a me l’inquadratura del suo corpo lucido e scuro, sessuato. Ho tappato la vasca. Ho cominciato a far scorrere l’acqua, toccandola di tanto in tanto con la mano per accertarmi che non venisse giù troppo calda e la scottasse. Vedevo il livello dell’acqua salire a poco a poco su per il suo tronco, coprendole i mozziconi delle gambe tranciati quasi all’articolazione, la macchia scura e forte e pelosa della fica priva di cosce, il ventre, le tette. Mi sono tolta le scarpe da ginnastica che avevo ai piedi, ciascuna con le dita dell’altro piede, perché non erano neanche allacciate. Sono entrata a mia volta dentro la vasca, di fronte a lei, che rideva perché il velo dell’acqua era salito di colpo, era arrivato a coprirle anche i mozziconi delle braccia, anche il collo, solo la sua bocca e la sua testa rimanevano fuori. Mi guardava. Il birillo del suo corpo si spostava impercettibilmente qua e là, trasportato dalla massa crescente dell’acqua. «Forza, bella!» le ho detto. «Tiriamo via un po’ di merda!» Ho insaponato la spugna, ho cominciato a frizionarle il corpo sotto il velo dell’acqua, standole inginocchiata vicino. Poi la schiena, il collo, le tette, i buchi della fica e del culo incrostati, i mozziconi di gambe e braccia da cui spuntavano le schegge acuminate dell’osso. «Da quanto tempo nessuno mi lavava così!» mormorava lei con la bocca a filo dell’acqua. Le sono andata ancora più vicino, in ginocchio, tenendo fermo il mozzicone del suo corpo tra le mie cosce, mentre cominciavo a insaponarle la bella testa, facendo attenzione a non farle andare il sapone negli occhi. «Lavami anche gli occhi, le ciglia» mi ha detto baciandomi irresistibilmente le tette che galleggiavano sul filo dell’acqua di fronte alla sua grande bocca, «perché certe volte finisco a faccia in giù nella mia stessa merda, abbandonata per giorni interi, il pavimento sotto di me diventa fradicio e caldo, si allaga per il piscio, la merda, ci scivolo sopra con questo mio mozzicone di corpo che non riesce a far presa su nulla, ci piombo dentro con la faccia, di schianto, sento i miei lineamenti stamparsi nel calco di quella melma come in una maschera calda. Ci resto incollata per molto, perché senza le gambe e le braccia è difficile persino girarsi. Finché qualcuno ritorna, chissà da dove, e mi afferra disgustato per la massa dei capelli crespi, con la mano, mi lava sommariamente sotto il getto della doccia, imprecando, prima di infilarmi dentro lo zaino. Mi sento i capelli e gli occhi e le ciglia ancora incrostati di merda, quando siamo già in strada per qualcuno dei nostri spostamenti. Mi guardo attorno, girando il collo e la testa dentro lo zaino, le persone, le cose, le strade... mi sembrano fatte anche loro di merda. Rovescio indietro la testa dentro lo zaino, guardo per un po’ il cielo, con gli occhi cisposi, mi sembra che anche il cielo sia fatto di merda. Lo guardo a lungo, dal basso, mentre il corpo dotato di arti che mi trasporta si sposta in avanti traballando, incazzato, verso una di quelle case segrete. Vedo da dietro la scatola della sua brutta testa che registra le strade, con dentro il cervello che manda impulsi ai suoi arti. Rovescio ancora la testa, verso il cielo. Non è solo per come sono i miei occhi o per via di questa strana luce radente,

Il cielo di merda

ma tutto questo spazio immenso che mi sovrasta mi sembra veramente fatto di merda, i suoi movimenti interni, gli spostamenti delle masse d’aria di merda che ci sono dentro. Che cos’è il cielo? Che cosa ci fa il cielo sopra di me? Lo vedo appena tra le fessure delle mie ciglia incrostate, tutta la sua massa gialla e nera che puzza di merda sopra la terra che puzza di merda, tutti questi contenitori di intestini che si spostano sul filo della sua curvatura d’orizzonte, questi corpicini che portano in giro da tutte le parti la loro merda e nient’altro che quella, dai tunnel sotterranei delle metropolitane fin nelle zone più alte dell’atmosfera spostandosi dentro quei grandi aerei intercontinentali, sui missili, sui satelliti, sulle stazioni orbitali. Anche il loro cervello è un intestino cerebrale pieno di merda, i loro pensieri sono solo della merda pensata. Hanno scavato miliardi di buchi dentro la terra, nei pavimenti, nei muri, per prendere la mira e appoggiarci i buchi dei loro culi che si aprono e si chiudono continuamente per far uscire la merda, l’hanno iniettata sotto la crosta terrestre, verso il nucleo magmatico di materia incendiata che non smette mai di bruciare, là in fondo. Hanno costruito da tutte le parti ragnatele di tubi per convogliarla nei fiumi, nei mari, negli oceani, tutta piena di avanzi di mangiare non digerito, peli di cazzi, di fica, di culo, di pile usate, di ossa, di sangue, di arti amputati, bollono sotto la terra, la sento pullulare sotto la crosta delle strade mentre mi sposto dentro lo zaino tutto pieno di merda. Trasuda attraverso l’asfalto, sui marciapiedi, sento il rumore che fanno le gomme delle macchine quando ci passano sopra, anche quello che fa quando viene presa dentro i vortici ascensionali dell’aria, della luce, e comincia a salire verso l’alto come un vapore, sento lo scatto spaventoso e potente che fa quando si innesta di colpo nel fronte del cielo, si fa cielo, il rumore delle sue viscere atmosferiche curve che si caricano sempre più di merda, come se il cielo stesso stesse cominciando a cantare...»

Canto del cielo di merda

Cosa sono questi suoni che si producono all’interno del mio corpo gassoso, mentre ruoto attorno a questo pianeta con la macchina primordiale dell’atmosfera? Corpuscoli sfegatati in sospensione nell’aria, fasce di radiazione in attrazione gravitazionale, fino alle estreme particelle dotate di carica elettrica, nelle zone dove i gas tendono irresistibilmente a fuggire per i loro moti molecolari. Io stesso certe volte non riesco più a stare dentro me stesso quando tutta questa materia che sale si satura sempre più di merda che si inietta dentro di me da tutte le parti, portata dagli arcobaleni dell’aria, della luce. Io stesso non so che cos’è la mia luce, come la mia presenza possa ancora venire percepita là in basso come luce. A cosa devo fare da specchio, qui dentro! Cosa volete che sia il cielo? Sono crivellato anch’io da miriadi di buchi, di tubature. Io sono inorridito di stare dentro me stesso. Perché non ho anch’io il mio cielo, un altro cielo? Perché non posso cadere finalmente sulla mia terra? A volte, mentre sto così tumultuosamente dentro me stesso, e tutto è buio e sulla terra si cominciano ad accendere i fuochi, mi domando perché sono stato preso dentro in questo modo, che cosa sono, qui dentro, che cosa mi separa da tutto il resto e mi dà il nome di cielo, mentre sono attraversato da tutte le parti, e ogni microscopica parte di me stesso, ogni minuscolo fotone che trasporta dentro di sé ciecamente la luce è un tutt’uno, fa di me un tutt’uno con questa cosa densa che sale. È la merda che si espande dentro di me e mi riempie e ingravida completamente salendo dalla terra attraverso i processi di trasformazione della materia in vapore, o sono io, al contrario, che scendo e penetro nella terra e mi conficco da tutte le parti con le mie voragini aeree e i turbini della mia luce dentro le budella di questo escremento spaziale? Per quanto ancora riuscirò a sostenere quest’urto spaventevole di materie che si ostinano a percepirsi in contrasto, restando tutt’uno con me stesso e nello stesso tempo con ciò a cui faccio da specchio? Per quanto ancora resisterà questa camera d’aria che mi divide dal resto dello spazio nero e cieco e senza progetto? Poi la cosiddetta luce sale ancora di colpo, ritorna. Un vento improvviso prende forma in qualche punto leggero dentro me stesso per il diverso riscaldamento delle zone dell’atmosfera. Diventa sempre più forte, non capisco neanch’io se ne sono attraversato o se sono io quel vento. Che cosa dovrò rischiarare ancora, qui dentro? Mi scaraventerò dentro me stesso da una zona che si è separata da me stesso, per stare più totalmente dentro me stesso. Qualcosa al mio interno comincerà a turbinare, a volare. Fileranno via anche quegli enormi escrementi cui hanno dato il nome di nubi. Sulla curvatura della terra miriadi di cose piccole e grandi cominceranno a scollarsi, a vorticare, a volare. Strapperò ogni cosa e ogni forma dalla sua sede, scoperchierò le case, farò turbinare insetti, animali, immondizia, preservativi usati risucchiati fuori dai cessi col loro carico seminale, per dare anche a loro una chance all’interno di questo nuovo spazio, strapperò i bambini dalle braccia delle loro madri, da quelle bare a ruote da dove mi guardano ciecamente dal basso con gli occhi ancora velati, imprecisati.

Canto dei neonati strappati dal vento

Sentiremo i nostri corpi non ancora sedimentati sganciarsi dalle bolle di carne piene di arti che ci tengono ancora stretti, inglobati, i nostri progetti di teste da quelle sfere piene di latte contro le quali erano tutti schiacciati, le ventose delle nostre minuscole bocche senza gengive si scolleranno da quel grumo da cui continua a scaturire quel liquido caldo, si continuerà a distinguere il suo filo nell’aria come il getto di un idrante con la canna che si srotola per conto proprio per la pressione interna dell’acqua, cominceremo a volare con le bocche ancora gocciolanti, allagati. Ci strapperà dai marsupi, da quelle bare a ruote dove stavamo adagiati e con gli occhi sbarrati, cominceremo ad andare senza peso nell’aria, nello spazio, ruotandoci dentro con gli occhi chiusi, come in una nuova placenta, come in sogno. Ci strapperà fuori fin dall’interno degli uteri e degli altri canali di carne dove eravamo ancora confezionati, ci tirerà fuori con un tremendo risucchio assieme al filo contorto dell’ombelico, alla massa astratta della placenta, cominceremo ad andare tutti raccolti su noi stessi come dei piccoli astronauti di sola carne che si spostano attraverso lo spazio coi loro cavi di alimentazione, la valigetta ventiquattr’ore della loro placenta in una mano, in quelle zone nere e senza luce, ghiacciate, tra quel finimondo di corpi smisurati, incendiati, gambe e braccia raccolti nel nostro nuovo respiro polmonare, le gemme delle nostre mani e dei nostri piedi in quel nuovo elemento germinale gemello. Passeremo così sopra la curvatura del mondo, guardati con curiosità dagli uccelli morbidi che vanno da tutte le parti nell’aria, dentro le nostre armature leggere di muco, di sangue. Attraverseremo in un solo istante i margini della terra, dell’acqua, della luce, dell’aria, senza bisogno di messinscena di arti, ci sposteremo e ruoteremo in questi spazi in levitazione, in annuncio, scorgeremo dall’alto mille e mille teste arrovesciate a guardarci, dalle torri, dalle auto lanciate, dalle strade, coi grumi dei nostri occhi che non si distinguono ancora dalle cose guardate...

Le ho passato l’acqua sulle ciglia, sul volto, per risciacquarla, staccando la doccetta dall’alto, con la mano, senza smettere di guardarla, di accarezzarla. La sua faccia bagnata luccicava. Il torso del suo corpo stava ritto in piedi di fronte a me, con la sola testa che spuntava dall’acqua. Ho aperto lo scarico. Il livello dell’acqua ha cominciato ad abbassarsi rapidamente. Siamo rimaste una di fronte all’altra, luccicanti, bagnate. Ho passato il getto della doccetta sui nostri due corpi, poi sulle pareti e sul fondo della vasca. Sono uscita, mi sono frizionata rapidamente con l’asciugamano grande, ci ho avvolto Aminah, ancora ritta dentro la vasca. L’ho presa tra le braccia, saldamente, perché non mi cadesse, l’ho sollevata, l’ho portata così fino al mio letto. Ce l’ho distesa sopra, le ho asciugato il volto, le ciglia, i capelli, e poi il collo, le spalle, gli spuntoni d’osso di gambe e braccia, le tette, la fica. L’ho girata dall’altra parte, le ho asciugato anche la bella schiena lucente, il taglio del culo. L’ho girata di nuovo. Mi guardava senza fiatare. «Vuoi che ti lecchi?» le ho chiesto. Mi continuava a guardare. Mi sono abbassata, a quattro zampe sul letto, con la testa capovolta sulla sua fica, gliel’ho aperta un po’ con le mani, mentre Aminah cercava di assecondare il mio gesto spalancando quanto restava dei suoi mozziconi di gambe. Ho cominciato a leccarla, andandole con la mia testa di Musa ben dentro lo spacco del culo, col naso contro il buco, e intanto la toccavo e l’accarezzavo con le mie dita piene di anelli. Sospirava, gemeva. «Posso leccarti anch’io?» mi ha chiesto incontrollabilmente, d’un tratto. «Certo che puoi!» le ho risposto, sollevandomi per un istante con la bocca bagnata. Ho allargato ancora di più le gambe sopra di lei, per porre la mia fica all’altezza delle sue labbra. Ho arcuato la schiena, mentre anche Aminah cercava di leccarmi muovendo assieme alla lingua tutta la testa, andava a conficcare il suo grande naso allargato contro il buco del mio culo. Sentivo la sua lingua larga e forte e rasposa che andava su e giù contro la mia cresta bagnata, spingendo così forte che sembrava che tutta la sua lingua e la sua bocca e la sua testa volessero entrarmi dentro, mentre anch’io passavo la mia lingua e la punta della mia lingua, con delicatezza, con forza, sopra la sua grande cresta bagnata e l’imboccatura della sua fica e l’anello del culo che palpitava. Respirava forte. «Perché non ho le gambe e le braccia per poterti abbracciare?» gemeva muovendo la ventosa della sua bocca dentro la mia carne. «Non pensarlo neanche, mia bella ragazza!» gemevo a mia volta con la ventosa della bocca dentro la sua carne spaccata. «Sei perfetta così! Non ti manca niente!» Muoveva sempre più forte la sua testa un po’ sollevata contro la mia fica e il mio culo, tendendo i muscoli del collo per arrivare ancora più dentro, mentre io assecondavo i suoi movimenti venendo giù un po’ di più a ogni colpo contro la sua lingua forte e il suo muso che mi scopava, mi amava, andandole dentro a mia volta sempre più forte col muso tutto glassato. La sentivo gridare. Avvertivo contro le mie labbra e la lingua, in mezzo a tutta quella chiara d’uovo sbattuta, quel corpuscolo inturgidito dentro la sua schiuma di carne, con la sua microscopica testa eretta, puntata, che veniva sempre più allo scoperto. Gridavo a mia volta, scendendo sempre più spaccata contro la sua testa in movimento forte contro le mie aperture, mentre anche lei mi stava snidando coi movimenti rotanti della lingua quel minuscolo cazzofica bagnato, scappellato, me lo risucchiava e lo rigettava con tutte le labbra, la bocca. Anch’io gridavo sempre più forte e anche Aminah gridava forte, piangeva. Le ho messo nella fica due dita, tre dita, mentre stavo venendo e sentivo che anche lei stava venendo, le ho messo dentro tutta la mano snodata, continuando a leccarla con forza, mentre anche lei gridava e piangeva e tremava, pulsava a tal punto attorno alle ossa della mia mano che sembrava stesse per stritolarmela o per partorirmela, e allora anch’io ho cominciato a venire ancora più forte contro la ventosa della sua bocca e gridavo e mi pareva per un momento di non riuscire, come lei, a controllare del tutto gli sfinteri che tengono dentro tutta la massa calda e vivente degli escrementi. Mi sono buttata giù sopra la sua faccia, sfinita, perché le mie gambe non ce la facevano più a reggermi sollevata, ho lasciato cadere anche la mia faccia contro la sua fica bagnata, tirando fuori la mano tutta lubrificata, piano piano, poco per volta perché non si richiudesse di colpo con quei rumori acquatici, primordiali di risucchio, mentre le ultime contrazioni interne me la stringevano ancora nello scrigno caldo della sua pancia. Il torso del suo corpo tremava ancora forte, batteva i denti, non riusciva a fermarsi. «Tremo così forte perché non ho più gli arti!» ha provato a dire. Mi sono girata dalla sua parte. L’ho abbracciata stretta. «Come vorrei abbracciarti anch’io!» mi ha detto dopo un po’, con la gola ancora chiusa, gemendo. «Non importa» le ho detto, «ti abbraccerò io anche per te. Fa’ conto che le mie braccia e le mie gambe siano anche tue!» L’ho stretta ancora più forte, mentre i tremiti del suo corpo si smorzavano a poco a poco. Ci siamo baciate, con le bocche ancora bagnate. «Nessuno mi aveva mai leccata così!» mi ha detto continuando a baciarmi. «Neanche a me!» le ho risposto. Siamo rimaste incollate, non saprei dire quanto, una tra le braccia dell’altra, lo posso ben dire. Forse ci siamo anche addormentate di tanto in tanto così, per un po’. Quando mi sono svegliata ho visto la bella testa di Aminah a pochi centimetri dalla mia, sorridente. «Tutto da rifare, ragazza!» le ho sorriso a mia volta. «Forza, andiamo a lavarci di nuovo! Poi ti caricherò sulle spalle, andremo a cercare la tua Principessa.»

L’ho presa in braccio, reggendola con fatica perché le mie gambe e le mie braccia erano come spezzate. Ho tirato via il lenzuolo, con una sola mano che spuntava da sotto il suo corpo. L’ho lasciato cadere vicino alla lavatrice. Siamo tornate dentro la vasca, ci siamo lavate l’un l’altra perché, mentre io la lavavo con le mani sotto il velo dell’acqua, e poi salivo a lavarle la bocca tutta bagnata, anche lei mi lavava ridendo la bocca venendomi contro con la sua bocca già insaponata, con la massa dei capelli ancora gonfi di schiuma.

Quando abbiamo finito, le ho messo la mia camicetta più bella, di seta. Ho tagliato via le maniche con un colpo di forbice, perché non le cadessero penzoloni dalle parti, per non doverle legare l’una all’altra dietro il suo corpo come in una camicia di forza. Le ho messo un paio di mutande trasparenti, sgambate. Mi sono rivestita anch’io. L’ho infilata nello zaino, me la sono caricata in spalla. Stavo per uscire, quando il telefono ha cominciato a squillare di colpo. Ho afferrato la cornetta, passando.

Era il sacerdote.

«Ah, è lei!» gli ho gridato. «Finalmente! È un po’ di tempo che non si faceva sentire, qui dentro!»

Mi sono interrotta, perché non si capiva bene quello che diceva.

«Cosa le sta succedendo? Da dove chiama?» gli ho chiesto.

«Ah, mi scusi» ha risposto, «avevo un fazzoletto contro le labbra.»

«Ma perché?»

«Mi hanno rotto la bocca!»

Siamo rimasti per un istante in silenzio. Intanto sentivo che, dietro di me, Aminah mi stava baciando il collo, la testa rasata, con le sue grandi labbra.

«Mio buon amico» gli ho detto, «io ho bisogno di parlare con lei. Rimaniamo in contatto, mi richiami. Avremo ancora bisogno di lei. Ci siamo persi di vista per troppo tempo. Sta cambiando tutto quanto, qui dentro. Siamo tutti quanti dentro questa vorticosa espansione e questo sogno. Io, in questo momento, ho una bella amica sopra le spalle, che mi bacia incontrollabilmente da dietro, sui tendini del collo, stiamo andando in cerca della sua Principessa e di un destino nuovo per lei. Non si sforzi a parlare. Ma, mi scusi, un’ultima cosa: perché le hanno rotto la bocca? Con che cosa gliel’hanno rotta?»

«Con una pietra» ha risposto.

Sono rimasta interdetta.

«Ma chi è stato? Quando è successo? Perché?»

«Lei sa che a volte io cammino fuori da ogni strada, in piena notte, da solo» mi ha detto soltanto.

L’ho baciato, appoggiando le labbra alla cornetta. Anche lui mi ha baciato, mi è parso, prima di riattaccare. Ho riattaccato anch’io. Mi sono diretta verso la porta. Sono uscita. Ho imboccato le scale, scendendo in silenzio col corpo di Aminah sulle spalle. Ma quando sono passata sopra il lucernario di vetro borchiato mi sono fermata per un istante, ho battuto due volte il tacco del piede per terra, con forza, come faccio sempre quando passo là sopra, per segnalare a chi sta là in fondo la mia presenza. Ho sentito levarsi da sotto un urlo improvviso, segno che molte teste si erano girate tutte assieme verso l’alto, gridando. Sono scesa di corsa per l’ultima rampa, siamo uscite in strada. La luce era bassa, le macchine andavano da tutte le parti su quel velo di merda, con le loro ruote gommate.

«Forza, guidami tu!» le ho gridato girando la testa di lato.

Abbiamo cominciato a camminare sul nostro unico paio di gambe, mentre Aminah accostava di tanto in tanto la guancia alla mia guancia per parlarmi, in mezzo alla folla che scantonava di lato al solo vederci. Ci siamo buttate in una stazione della metropolitana, abbiamo viaggiato con le due teste inalberate in mezzo alle altre teste lungo i tunnel bui e deserti e pieni di stridori. Abbiamo raggiunto seminterrati, piccoli appartamenti, scavalcando la donna di turno che cercava di fermarci alla porta.

«Con che diritto credete di poter entrare qui dentro? Chi siete?» ci gridava atterrita.

«Siamo la Musa!» le rispondevo gettandomi nell’altra stanza prima che la porta si richiudesse.

«Hanno cambiato tutto in questi locali!» gemeva la testa di Aminah vicino al mio orecchio. «I muri, le porte, i grembiuli sporchi di sangue, le prese elettriche...»

«Voi non potete stare qui!» gridava la donna coprendosi gli occhi.

«E lei chi è?» le gridava dall’alto Aminah. «Non ha più tra le mani la sega da ferro, quella dentiera tutta sporca di sangue, e non c’è più neppure quell’uomo piccolo, nudo, peloso, che manovrava in silenzio gli interruttori!»

Uscivamo da quella casa, ne raggiungevamo un’altra trasformata in un ufficio turistico pieno di signorine coi tacchi alti, le mutande a filo evidenti sotto i leggeri calzoni bianchi, oppure in un asilo nido privato pieno di bambini a quattro zampe sul pavimento.

«E lei non ha più quel fodero, quelle unghie tutte spezzate, piene di sangue... le ascelle sudate!» diceva a una delle maestre, intenta a tracciare grandi segni colorati su un foglio, assieme a un bambino.

Uscivamo di corsa, andavamo per un po’ così, per le strade. Non le dicevo più niente, mi limitavo a portarla dove la sua bocca mi comandava.

«Chiamo un taxi!» mi ha detto d’un tratto.

L’ha chiamato, alta sulla mia testa, con un fischio potente. Il taxi è arrivato, si è fermato. Mi sono tolta lo zaino, l’ho messo sul sedile di dietro mentre il taxista guardava con gli occhi sbarrati attraverso lo specchietto retrovisore. Mi sono seduta al fianco di Aminah, che ha gridato un indirizzo all’autista. La macchina è ripartita. Ho messo un braccio attorno alle spalle della mia amica, in piedi al mio fianco dentro il suo zaino. Lei ha appoggiato la testa sulla mia spalla. Il taxi continuava ad andare, gli occhi dell’autista ci guardavano di tanto in tanto, sbarrati, dallo specchietto retrovisore.

«Dove stiamo andando?» ho chiesto ad Aminah.

«Dal domatore!» ha risposto.

Siamo rimaste in silenzio tutte e due, per un po’. Anche il taxista taceva. Ha azionato il tergicristallo, meccanicamente, d’un tratto, anche se non pioveva.

«Perché ha acceso il tergicristallo?» gli ho chiesto.

«Per mandare via la merda!» ha risposto.

Non ha detto più niente. Anch’io e Aminah siamo rimaste in silenzio, abbracciate. Dietro i finestrini scorrevano le icone pubblicitarie, le strade. Si sentiva, da un rumore di diapason, che la macchina stava pneumaticamente correndo al di sopra delle altre strade, su una sopraelevata. Ha disegnato una curva alta, nell’aria, si è andata a immettere su una grande strada a strapiombo, a molte corsie. Abbiamo viaggiato ancora per un po’. Io accarezzavo di tanto in tanto con le dita piene di anelli le linee della guancia, del collo della mia amica, che restava con gli occhi chiusi, in silenzio, la testa abbandonata sulla mia spalla. Anch’io ho chiuso gli occhi. Anche a me fa piacere chiudere gli occhi, ogni tanto. La macchina correva adesso lungo una rete di strade più serrate, più strette, che costeggiavano grandi condomini isolati. Si è fermata, d’un tratto. L’autista ha tirato su il freno a mano, con forza, anche se non mi pareva che la strada fosse così in pendenza. L’ho pagato. Sono uscita e mi sono caricata Aminah sulle spalle. Ho fatto qualche passo a caso, in quella zona mai vista, lungo le piccole strade ancora non asfaltate costeggiate qua e là da alti condomini isolati.

«La porta è quella!» mi ha detto Aminah.

Sono entrata, ho camminato lungo l’androne deserto, nel corridoio che portava alla nicchia dell’ascensore. Era già a pianterreno, spalancato. Siamo entrate. Ho premuto il pulsante del piano che Aminah mi ha indicato. Abbiamo cominciato a salire, e intanto ci guardavamo nella parete a specchio, con gli occhi vasodilatati, lucenti, come se ci vedessimo per la prima volta in quella nuova forma bipenne. Siamo arrivate al piano. Ci siamo lasciate alle spalle l’ascensore. Aminah mi ha indicato la porta. Ho suonato, con la propaggine di una delle mie braccia, e intanto sentivo che dietro di me la mia amica respirava più forte, nello zaino. La porta si è aperta. Si è affacciato un uomo in accappatoio, con la testa bagnata.

«Mi stavo facendo la doccia!» ha detto un po’ spazientito, facendo il gesto di asciugarsi il collo col colletto rialzato dell’accappatoio.

Poi ha visto all’improvviso la testa di Aminah, sopra la mia testa. È ammutolito. Il torso di Aminah respirava sempre più forte dentro lo zaino, come un mantice.

«Vi conoscete bene, voi due!» ho buttato lì.

C’è stato un lungo silenzio. Si sentiva solo il respiro di Aminah che gonfiava e sgonfiava la vescica dello zaino, alle mie spalle.

«E lei chi è» mi ha chiesto il domatore d’un tratto, «che crede di potermi parlare così?»

«Non l’ha ancora capito? Io sono la Musa!» ho risposto. «Ci faccia entrare!»

Si è messo di taglio, per farci passare. Siamo entrate in un appartamento perfettamente ordinato, pieno di mobili nuovi. Veniva da pareti e soffitti un odore di vernice non ancora asciugata del tutto.

«Anche qui è tutto diverso!» ha esclamato Aminah. «Dove sono il sangue sui muri, le urla, le ragazze buttate nel loro sporco, per terra, i denti rotti, il fetore...»

«Sta cambiando tutto, qui dentro!» le ha risposto il domatore continuando a frizionarsi il corpo con l’accappatoio. «Ho svuotato l’appartamento di tutti i mobili vecchi, ho bruciato i materassi neri di sangue, ho rifatto i pavimenti sfondati, ho portato fuori sacchi interi di sporcizia, materiali corporei in decomposizione, andando a frugare dove non pulivo da tempo, sotto i mobili, ho cambiato i sanitari intasati, ho disinfettato tutto quanto col fuoco. Mi capitavano in mano schegge d’osso, gusci d’uovo, pezzi di lineamenti, matasse di capelli, di peli, corolle insanguinate di denti, strappati da un pestacarne, da un morso, pezzi di merda fossilizzati, mutande mezze bruciate, masticate e poi rigettate, bottiglie sfondate, avanzi di cibo verdi di muffa, termometri rotti, pezzi di cervello calcificati. Ho rifatto tirare l’intonaco sulle pareti un po’ deragliate, ho ridipinto tutto con colori pastello, ho buttato via i miei vestiti vecchi e ne ho comperati di nuovi. Sono qui, col mio vecchio pezzo di carne tatuato, in questa nuova casa, in attesa che mi si dica cosa si vuole da me, chi sarò d’ora in poi. Ma adesso voi cosa volete da me? Perché siete qui? Io non sono più lo stesso! Sono diventato nel frattempo un’altra cosa!»

Ho riso forte, con le mie gengive rosate, i miei denti bianchi.

«Questa bella ragazza è in cerca della sua Principessa!» gli ho detto un istante dopo. «Pezzo di merda, devi dirci dov’è! Poi ce ne andiamo. Ti lasciamo qui, ci dimentichiamo del tutto della tua esistenza, ti facciamo la cosa peggiore che potremmo farti, qui dentro, non ci occuperemo più di te, ti annulliamo, ti cancelliamo, continuiamo ad andare per le nostre strade, con le nostre quattro lunghe gambe.»

Ci guardava in silenzio. Non veniva nessun rumore neanche dagli appartamenti vicini, come se fossero stati anche quelli svuotati, abbandonati.

«Non ho la minima idea di dov’è! Se n’è andata! Quella è una, che non si può tenere!» ha risposto mettendosi a sedere improvvisamente sul cono di un portaombrelli, come se le gambe gli fossero mancate di colpo. «Ha incontrato uno che l’ha presa con sé, e lei è andata.»

«È andata dove?» ho chiesto io, con la mia voce, uscita dalla mia testa, mi è parso, perché dietro di me la testa di Aminah era ammutolita.

«Non si sa, sono partiti tutti e due verso chissà dove.»

«Anche loro...» mi sono detta.

Siamo rimasti per molti istanti in silenzio, tutti e tre. Poi gli ho chiesto: «Chi è quest’uomo? Lo conosciamo?».

«L’ha vista una notte lungo la strada, ho saputo, mentre correva col suo nuovo camion, perché lei aveva ripreso a battere le strade, da sola. Lui l’ha vista, mentre passava di lì con l’acceleratore premuto a tavoletta. I loro occhi si sono incrociati. Lui ha cominciato a pigiare immediatamente il freno. Le gomme stridevano forte, mentre il camion si arrestava sbandando sull’asfalto, e il carico ammucchiato sopra traballava e volava. Il camion si è finalmente fermato, poche decine di metri più in là, sul ciglio della strada. Lui ha aperto la portiera, ha messo fuori la testa. Principessa ha cominciato a correre verso di lui, con le sue forti gambe. “Salta su!” le ha gridato lui, quando lei è arrivata vicino. “Io ho bisogno di una compagna come te! Vuoi diventare la mia sposa?” “Sì, lo voglio! Ho bisogno anch’io di un compagno come te” gli ha gridato lei in risposta. Lui le ha spalancato l’altra portiera. Lei è volata sul camion. Sono partiti, sgommando. Lui non riusciva a parlare per l’emozione, guidando nella notte con la testa puntata. La strada gli veniva incontro, volava. Anche la testa di lei vibrava per la velocità della corsa, in silenzio al suo fianco, con le sue scarificazioni rituali. “Da dove vieni?” gli ha chiesto lei, dopo un po’. “Ho appena traslocato da un appartamento dove mi ero appena installato” le ha risposto lui senza girarsi per l’emozione, continuando a fissare la strada con la testa puntata, “ho scaraventato dall’alto nel camion i mobili, il materasso, da solo, perché anche il mio aiutante non c’è più, se n’è andato, ha gettato la spugna... e anche la cucina a gas, i sanitari, le piastrelle, i caloriferi, i chiodi a espansione... perché io sono il traslocatore!” “E dove andiamo?” ha chiesto ancora lei, sorridendo. “Dove traslochiamo, stavolta?” “Non lo so. Voglio andare non si sa dove!” ha risposto lui, emozionato. “Ti va di fare questa vita con me?” “Sono già con te!” gli ha risposto lei. “Ho bisogno di traslocare anch’io, come te!” Sono rimasti in silenzio per molto. Poi lui le ha messo una mano sulla seta della spalla. Lei ha appoggiato la testa alla sua, ha chiuso gli occhi. “Vuoi che canti qualcosa?” gli ha chiesto dopo un po’, sottovoce. “Sarebbe bello!” ha risposto lui, senza staccare gli occhi dalla strada. Lei ha cominciato a cantare, con la sua voce roca, da bantu. La strada volava. Il traslocatore teneva gli occhi puntati sulla striscia intermittente, respirava. “Si viaggia bene, così” ha detto senza girarsi verso di lei, che continuava a cantare a bassa voce, tranquilla, “con una Principessa che canta al tuo fianco, di notte, mentre si è in viaggio...”»

Il domatore ha smesso di parlare. Ci siamo guardati in silenzio, tutti e tre. D’un tratto ho sentito che Aminah si era mossa di nuovo, alle mie spalle. Mi ha baciato la nuca.

«Va bene così!» ha mormorato. «Andiamocene via di qui! Va bene così!»

Ci siamo girate per lasciarci alle spalle l’appartamento.

«Io invece non ho nessuno con me, non so dove andrò, che cosa farò!» ha esclamato improvvisamente il domatore vedendoci andare.

«Lei resta lì!» gli ho detto girando i tacchi. «D’ora in poi non esiste più!»

È rimasto sulla porta a guardarci, con le braccia penzoloni, la faccia senza espressione, inerte, mentre ci allontanavamo a grandi passi lungo il corridoio, e poi entravamo nella tenaglia aperta dell’ascensore. Siamo rimaste senza parlare, in piedi contro lo specchio, nel parallelepipedo di luce che sprofondava. Siamo uscite in silenzio, abbiamo camminato per un po’ costeggiando il grande condominio da cui eravamo appena uscite, e poi lungo una stradina che costeggiava un’altra strada più grande, a molte corsie, con le macchine che andavano da tutte le parti scentrate, addormentate.

«Come stai?» ho domandato ad Aminah.

«Va tutto bene» ha risposto, «adesso sono tranquilla.»

Ho fatto ancora qualche passo così, perché anch’io ero molto tranquilla. Poi ho visto un taxi che viaggiava senza passeggeri, sul nastro della strada più grande. L’ho chiamato. Non mi ha sentito. Un istante dopo si è levato da dietro la mia testa un fischio prolungato, potente. Il taxista ha girato la testa di scatto, perché ci aveva ormai oltrepassato. Ha cominciato a frenare.

«Accidenti!» ho gridato ad Aminah, sorridendo. «Dove hai imparato a fischiare così?»

Ha riso anche lei. Il taxi adesso era fermo, ci aspettava con una delle portiere già spalancate. Abbiamo superato il pezzo di terra che separava la stradina piccola da quella più grande, mi sono girata di lato per scavalcare anche il guard-rail che le divideva. Mi sono tolta lo zaino, l’ho messo in piedi sopra il sedile di dietro, mi sono seduta al suo fianco. Il taxista ci guardava senza fiatare. La sua testa ha emesso un rumore secco, segno che le sue due file di denti avevano sbattuto l’una contro l’altra con forza, per una contrazione nervosa. Gli ho dato il mio indirizzo, con voce alta, squillante. Ha ingranato la marcia, è partito di scatto. La radio di bordo continuava a trasmettere avvisi di chiamate a ripetizione. Stavamo tutti e tre in silenzio, mentre la mitragliatrice di quella voce continuava a sparare.

«Ta ta ta ta ta...» le ha fatto il verso il taxista.

Poi è rimasto in silenzio di nuovo. Dietro il parabrezza il cielo slittava. D’un tratto, ho cominciato a sentire un suono, ma come se venisse da un’altra parte, da lontano. Ci ho messo un po’ di tempo a capire che veniva dal mio cellulare. L’ho cercato, frugando nelle tasche dei jeans, perché non ricordavo neanche di averlo. L’ho finalmente trovato. Ho premuto il tasto della ricezione. Ho sentito una bella voce contro il mio orecchio.

«Ah, è lei, padre!» mi sono lasciata andare, perché avevo riconosciuto la voce del sacerdote. «Come ha fatto a sapere che c’era bisogno di lei, a questo punto?»

«Che sacerdote sarei, se non lo sapessi!» mi ha risposto ridendo.

«Dove si trova? Che cosa sta facendo in questo momento?»

«Sono qui. Sono solo» ha risposto.

«Allora ho trovato una buona amica per lei!» gli ho detto con esultanza.

Ho accostato il cellulare all’orecchio di Aminah, perché potesse sentire la voce del sacerdote. Lei ha ascoltato per un po’, poi ha fatto di sì con la testa, sorridendo, in silenzio. Mi sono accostata di nuovo il cellulare alla guancia.

«Si prenda cura di lei» gli ho detto ancora, «mentre io sono impegnata in questo brief da cui dipendono molte cose, qui dentro.»

La comunicazione è finita. Ho dato il nuovo indirizzo al taxista. Siamo rimasti a guardare per un po’ i fiumi delle auto che andavano da tutte le parti, in quella luce. Un aeroplano si stava abbassando, enorme, allargato, sopra le strade. Siamo arrivati davanti alla chiesa. Il sacerdote era fermo di fronte alla porta, in abito talare lungo, sorridente, con gli occhi socchiusi, in attesa.

«È la prima volta che ci incontriamo di persona, io e lei!» gli ho detto andandogli incontro con Aminah sulle spalle. «Non credevo che fosse così giovane!»

Mi ha guardato, girando verso di me la testa sormontata da una nuvola di capelli. Poi ha guardato la testa della mia amica, sorridendo, tranquillo.

«Benvenute, sorelle!» ha detto senza scomporsi.

Si è avvicinato, mi ha accarezzato la testa rasata. Mi ha sfilato con delicatezza lo zaino, se l’è caricato sopra le spalle. Mi ha sorriso ancora, con le labbra spaccate.

«La lascio per un po’ qui da lei» gli ho detto, «nelle sue dolci mani.»

L’ho guardato, con gli occhi un po’ stretti per via della luce.

«Si faccia medicare le labbra!» gli ho detto ancora.

Gli ho dato un bacio, sulla bocca spaccata, prima di allontanarmi. Non vedevo bene il marciapiede, la strada. Sono salita di nuovo sul taxi. Sono rimasta a guardare per un po’ il cielo che si spostava. Come si sposta tutto quanto, qui dentro! Qualche volta, in piena notte, mi telefona quel sacerdote, mentre Aminah sta dormendo. «Le sminuzzo il cibo» mi dice, «la nutro con le mie mani, la imbocco, in ginocchio davanti a lei per essere alla sua stessa altezza, le pulisco le belle labbra col tovagliolo, le do da bere, inclinando il bicchiere poco per volta perché il liquido non le vada di traverso. Le lavo i denti, la pettino, l’accarezzo, la tengo abbracciata, la faccio evacuare e poi le lavo le piaghe, solo nella mia canonica, la metto a letto, nel mio letto perché non ne ho un altro, le rimbocco le coperte, mi vado a coricare lì vicino, per terra, sopra un materassino gonfiabile che qualcuno prima di me ha lasciato dentro l’armadio. Spengo la luce, resto sveglio per molto, in silenzio, per non disturbarla. Però dopo un po’ sento la sua voce parlare improvvisamente nel buio, bassa, tranquilla. “Sta dormendo?” mi chiede. “No, sinceramente no” le rispondo. “Neanch’io sto dormendo. Non riesco a dormire se lei se ne sta lì coricato per terra. Prenderà freddo! Venga qui, padre, ci stiamo tutti e due in questo letto, io non occupo molto posto.” Mi alzo dal materassino, entro a mia volta nel letto. Stiamo così tutti e due, coricati uno vicino all’altra, senza parlare, per molto. Finché sento di nuovo la sua voce nel silenzio, nel buio. “Mi abbracci, padre, mi tenga abbracciata, se non le fa orrore.” Mi giro dalla sua parte, prendo tutto il suo torso di donna tra le mie braccia. La stringo forte, mentre lei appoggia la sua guancia contro la mia. Restiamo senza parlare, non saprei dire per quanto. Sento che la sua guancia si sta bagnando a poco a poco contro la mia, nel silenzio, nel buio. “Mi scusi, padre” mi dice, “non mi era mai successo, è la prima volta che piango.” La stringo ancora più forte. Sento il mio corpo maschile emozionarsi contro il suo corpo di donna. “Mi scusi lei, signorina” le dico, “se non riesco a controllare del tutto le mie emozioni.” “Siamo soli tutti e due” mi dice, “non c’è niente di male se ci teniamo abbracciati.” Mi bacia con la bocca bagnata, sulla bocca spaccata, sugli occhi. “Ecco, adesso va bene” mi dice con la voce già impastata dal sonno. “Posso finalmente dormire!” Dormiamo così, per tutta la notte, castamente, abbracciati. Di mattina mi alzo prima di lei, le preparo la colazione. Intanto anche lei si sveglia. La sento canticchiare tra sé, sottovoce. “Hai una bella voce!” le dico. “Ti farò cantare!” La pettino, la lavo, la vesto, le do da mangiare. La porto in chiesa. La metto in piedi, come un totem, sopra l’altare, mentre sto celebrando la messa. Lei comincia a cantare, intanto le mie mani si muovono sopra le tovaglie profumate, e poi vanno a frugare dentro la porticina del tabernacolo. Prendo il cucchiaino, l’acqua distillata, l’accendino, il mezzo limone. Comincio a preparare la dose. Mi tiro su una manica larga dei paramenti, mi stringo il laccio, tutto inclinato su me stesso, in mezzo all’altare. Guardo la bolla scura un po’ crivellata venire fuori con evidenza dal mio braccio. Sparo in vena. Resto paralizzato così, mentre la voce di Aminah continua a cantare ancora più forte. Tutti nella chiesa piangono. Io resto raggomitolato per un po’, durante lo sballo. Vedo confusamente accanto alla mia testa la testa di Aminah che continua a cantare. Chiudo gli occhi, come per non riaprirli mai più in questo mondo. Io sono fuori posto, qui dentro. Io non ho un posto. Neanche dentro me stesso ho un posto. Signore, qual è il mio posto? Perché tutti gli altri hanno un posto e io non ho nessun posto? Le gambe mi si piegano, la testa mi ciondola sopra le tovaglie dell’altare, perdo saliva, mentre Aminah continua a cantare con la bocca gettata verso l’alto, le lacrime agli occhi, per tutto il tempo in cui io sto da qualche altra parte, dove nessuno mi può trovare, mi può salvare. Poi mi riprendo, poco per volta, piano piano, mi sembra di poter ricominciare a spostare le gambe, le braccia, provo a muoverle un po’ sotto i paramenti, cerco di inghiottire il corpo estraneo della particola appena consacrata, aprendo a caso due o tre volte la mia bocca dalle labbra spaccate prima di riuscire a centrarla. Mi giro verso Aminah, barcollando, con la pisside in mano, do l’eucarestia anche a lei, mentre sta con la sua grande bocca allargata, la testa gettata fieramente all’indietro alla sommità del suo torso di donna. Provo a fare qualche passo verso l’alone sfuocato dei fedeli che mi aspettano già inginocchiati sul primo dei banchi, con le lingue già esageratamente fuori come in un gesto di scherno, tutto inclinato da una parte, sbandando...»

Ascolto quel sacerdote ancora per molto, da sola dentro il mio letto, tra la veglia e il sonno. «La tenga ancora con lei» gli dico alla fine, con la voce impastata, «continui ad avere cura di lei. Ma adesso mi si chiudono gli occhi, padre, mi scusi, le faccio una carezza sul volto, la saluto...»

Lascio cadere il ricevitore, da qualche parte, piombo immediatamente sul letto, comincio a sognare. Il mio corpo, il mio letto, la mia casa... Cosa sta succedendo? Perché si sta spalancando di nuovo tutto quanto, qui dentro? La notte è alta. La voce di Principessa continua a cantare sulla spalla del traslocatore che guida il suo camion verso non si sa dove, mentre anche la Meringa e il Matto stanno viaggiando sulla loro corriera, abbracciati. Da quanto tempo stanno viaggiando? Eppure non sono stanchi, mi pare. Si addormentano di tanto in tanto, uno sulla spalla dell’altra. Si svegliano per un po’, si addormentano ancora. «Che strano viaggio!» le dice il Matto, il mio Matto, svegliandosi per qualche istante, oppure riaddormentandosi nel preciso momento in cui si risveglia di nuovo. «E com’è strana anche questa strada, dalla quale mi pare di tanto in tanto che si alzino delle figure schiacciate, come dei segnali, quando apro gli occhi e ricomincio a guardare, se non sto forse sognando soltanto di svegliarmi, e che cominciano a camminare e a spostarsi tranquillamente ai bordi della strada, in questa notte così alta, stellata. E questa corriera che continua ad andare senza fare fermate e senza che nessuno scenda né salga. E anche gli altri passeggeri che stanno viaggiando con noi, adesso che ci faccio caso... quella bella ragazza calva che, da quando siamo partiti, non ha smesso di depilarsi con quel minuscolo apparecchio a pile che non fa quasi rumore, passandoselo e ripassandoselo sotto le ascelle, sulle gambe, tirandosi su la gonna, fino a mezza coscia, le braccia e persino le mani, le dita delle mani, anche dalla parte dei polpastrelli, e poi il volto, nonostante la sua pelle mi sembri così liscia e così vellutata, il suo biancore sbalza anche in questa luce bassa che hanno messo per non disturbare il sonno dei viaggiatori, anche la sua faccia è bianchissima e priva di sopracciglia, quando si gira con tutta la testa per assecondare i movimenti di quella macchinetta per depilare, e il rumore è infinitamente leggero eppure così lontano, profondo, fa socchiudere gli occhi, addormentare.» Il Matto si gira di nuovo verso la Meringa, anche lei si gira sincronicamente dalla sua parte, nel sonno. Si danno un bacio, leggero, senza neanche svegliarsi. Viaggiano ancora per molto. Il Matto si sveglia di nuovo, o forse si riaddormenta, riprende a guardare la ragazza che si sta depilando. «Chi sarà quella ragazza che adesso si sta depilando persino tra un dito e l’altro delle mani, l’interno delle ginocchia...» si domanda. «E poi la nuca, le spalle e poi ancora il biancore del volto, le cornee degli occhi? Dove starà andando?»

Canto della depilatrice

Mi sono messa in viaggio, col mio nécessaire per la depilazione sulle ginocchia. Non so perché. Ma non è la stessa cosa depilarsi mentre si sta fermi dentro lo spazio o quando la propria immobilità è collocata in un punto che si proietta in avanti all’interno di una traiettoria orbitale. Muovo le mani nell’aria, nella penombra e adesso nelle prime luci dell’alba, mentre questa corriera si sposta non si sa verso dove. Tasto coi sensori dei miei polpastrelli pieni di vibrazioni e di cerchi ogni punto e ogni ripiegatura e ogni snodo di seta della mia epidermide, senza far uso degli stupidi specchi con quella loro duplicazione di punti di fuoco e traiettorie sfalsate. Intercetto il più impercettibile filamento che si ostina a riprodursi continuamente dopo ogni depilazione per lo spostamento cieco di sempre nuove gettate di cellule epiteliali. Io non disprezzo il vello esteso e compatto degli animali, il pelame di cui sono ricoperti per evitare la dispersione del calore, le loro lane ricciute, fino alle grandi setole dei pachidermi e agli aculei dell’istrice lanciati attraverso lo spazio durante il combattimento, i peli sensitivi e innervati, tutti quei manti pigmentati per il deposito di melanina nelle cellule cheratinizzate. Io mi sento sorella del ghepardo, del tarsio, dell’ardimentosa mangusta. È questo nostro mantello così sbrecciato, incompleto, di cui ci restano solo pochi ridicoli lacerti scampati agli spostamenti di specie, è questa povera cosa che resta del nostro antico mantello che mi fa orrore! Queste apparizioni incomplete di rari peli estenuati rimasti abbarbicati qua e là alla nostra epidermide come sulla superficie priva di appigli di uno specchio, concentrati ormai solo attorno alle nostre scatole craniche in smottamento cosmico attraverso il tempo e lo spazio, alle nostre piaghe ed escrescenze genitali, al foro dell’ano. Al posto di quel pelame che ci ricopriva compattamente tutto il volto e i suoi lineamenti, senza costringerci a queste stupide smorfie d’espressione elaborate su cui è stata costruita tutta l’impalcatura psicofisica della vita umana e delle sue proiezioni culturali, mentali... Io li svello inflessibilmente dalle loro sedi, afferrandoli per la parte emersa dello stelo, del fusto, li sradico fin dalle loro zone sprofondate nel derma, alla radice, al bulbo rigonfiato attorno alla papilla dermica del follicolo. Strappo a una a una le ghiandole sebacee, i muscoli erettori dei peli con i loro sistemi vascolari e terminazioni nervose, arrivo fin nelle zone più profonde dove si annidano cellule capaci di spostamenti ciechi verso l’esterno. Entro nelle cavità più segrete, intercetto quanto resta del più esile filamento alloggiato dentro la carne, reso ormai trasparente dalle estirpazioni ripetute senza soluzione nel tempo durante il moto cieco di questo viaggio. Mi rado completamente il piano orbitale della testa, sradico le sopracciglia, le ciglia, entro fin dentro il vestibolo del naso per svellere le vibrisse, i peli acustici alloggiati nei condotti uditivi, devasto la massa in germinazione all’interno delle ascelle, attaccata dai batteri della sudorazione, la faccio volare via dalle parti, scolorita, corrosa, tastando coi sensori dei miei polpastrelli pieni di cerchi per vedere se qualcosa di infinitamente sottile è sfuggito, sulle mie gambe di seta, sopra l’osso levigato del femore, della tibia, sulla massa morbida dei polpacci, sul filo dei tendini che ci sono all’interno delle ginocchia e poi nell’incavo liscio e profondo che c’è dietro la rotula e poi sul filo snodato delle braccia, dei polsi, entrando con la mano sotto la maglia, sulla schiena, le spalle, passando sopra le ossa delle costole, sulla grande massa morbida delle tette, attorno ai capezzoli e poi fin sotto la curvatura orbitale delle tette, sopra le unghie, fin dove parrebbe impossibile anche solo immaginare l’installazione di un organismo pilifero annidato nella nicchia del derma. Conosco ogni millimetro della mia epidermide perfettamente levigata, i fori di installazione di ciascun pelo disseminato qua e là come quei crateri lunari desertificati che continuano a ruotare nell’oscurità del cosmo attraversato da bagliori di luce in collasso termico, mentre anche l’intero mio corpo continua a dislocarsi nello scafandro di questa corriera in viaggio attraverso lo spazio sul derma di questo microscopico pianeta rotante. Io sono la donna che vi accoglie all’inizio del viaggio, di questo nuovo viaggio. Io sono la prima creatura che vi viene incontro, con la sua epidermide bianca, levigata, increata, l’alone del suo corpo appena inventato, appena illuminato. Mi getterò nella massa pulviscolare dell’aria con le linee del mio corpo in penetrazione totale, incontrerò forse al termine di questo viaggio un’altra creatura sessuata in attesa del mio nuovo corpo che ha attraversato questa catastrofe germinale di spazio, per continuare il viaggio. Scoprirò l’essenza del mio corpo di fronte ai suoi nuovi occhi, ponendomi arditamente contro la luce. Rimarrò denudata, increata, di fronte al suo nuovo corpo dalle braccia spalancate, abbagliate. Si vedrà galleggiare attorno alle linee del mio nuovo corpo l’alone abbagliato delle particelle luminose dell’aria che si spostano in sospensione attraverso lo spazio, polveri spaziali, frammenti di luce in gravitazione, organismi attratti dai contorni termici del mio corpo senza diaframma, la nebulosa che circonda il mio corpo come le emissioni gassose di gigantesche combustioni spaziali attorno alle stelle, al nostro pianeta in rivoluzione dentro la bolla esplosiva dell’atmosfera, in mezzo allo spazio cieco pieno di bagliori e di stelle, come un organismo elementare in tensione verso un incontro di specie nuova, mentre mi sposto assieme agli altri corpi proiettati nell’imbuto dell’aria aperto nello spazio dalla testa di questa corriera in fuga verso uno smottamento di ogni cosa e di ogni figura, qui dentro, e si stanno levando sempre più dalle parti quelle figure appiattite che si staccano dall’asfalto e si pongono come segnali di viaggio in movimento per un viaggio diverso, che fa viaggiare il viaggio.

Canto dei segnali

Cos’è successo? Cosa sta succedendo? Perché d’un tratto, senza ragione, dai punti più lontani tra loro dell’epidermide innervata delle strade, delle autostrade, le nostre figure schiacciate hanno sentito l’irresistibile impulso di staccarsi di colpo e di rimettersi in marcia? Chi ci ha chiamati? Chi ci ha svegliati? Perché? Per andare dove? Perché ciascuno nel suo punto di schiacciamento, infinitamente distanti sulla curvatura di questo pianeta, abbiamo sentito nello stesso istante all’interno del nostro corpo appiattito un’incontrollabile tensione a staccarci dalla nostra impronta d’impatto? Oggetti gettati dai finestrini delle auto, animali, persone, forme alate intercettate dal muso o dal parabrezza di un’auto in spostamento cieco attraverso lo spazio e poi spiaccicati dalla sagoma d’urto di un copertone d’auto, e poi ancora da altri copertoni dai disegni sempre diversi che si imprimono uno sopra l’altro nelle nostre forme spianate, microrganismi vaganti nell’aria, insetti famelicamente gettati sulle nostre sagome ancora in sanguinamento e proiettati all’interno del nostro corpo dalla compressione improvvisa, ancora vivi qua e là nelle bolle d’aria lasciate aperte dalle zigrinature e dai solchi stampati a fuoco sul copertone, attraversati da scheletri sovrapposti di lattine di birra, bardature di stagno che contenevano alimenti comperati nelle aree di servizio delle autostrade, con le loro sagomature taglienti, i loro rostri in corsa attraverso il tempo, lo spazio, mozziconi di sigarette che si spengono istantaneamente all’interno dei nostri corpi, orologi da polso strappati via dal vento della corsa mentre il guidatore stava con il braccio spenzolato fuori dal finestrino, nell’aria, contenitori di plastica che si incastrano nelle nostre teste animali appiattite e devastate da insetti per metà maciullati, microscopiche ali trasparenti che si muovono per conto loro dentro le nostre forme piallate, separate dal resto dei loro corpi, montature di occhiali disassate dalla violenza d’impatto, calzature piumate, cartilagini umane bruciate, scatole craniche deflagrate, cervelli istoriati, espansi in una scia di sangue assalito, strutture primordiali stratificate, creature alate in strapiombo, forme umane prenatali gettate fuori a manciate dai finestrini e macinate sotto le ruote, azzerate dal passaggio del muso silenzioso e solenne di quell’investitore che travolge ogni cosa che incontra sulla sua strada, di notte, con gli occhi socchiusi, sbadigliando, qui dentro, su questi tappeti di materia organica e sangue su cui divarica ciecamente le sue strade a venire. Ci siamo sollevati dal nostro spazio d’impronta, abbiamo posto le nostre nuove figure in segnalazione di questo nuovo spazio e di questo nuovo viaggio. Non più segnali fissi, irrigiditi su quei pali posti ai bordi delle strade, agli incroci, e che circondano e stringono d’assedio il viaggio. Noi siamo i nuovi segnali in movimento che spostano i confini del viaggio, siamo i segnali che si sono messi in viaggio per consentire nuovamente il viaggio. Le strade sono in levitazione, in viaggio. Ci strappiamo sempre più numerosi dai nostri letti d’asfalto, spalanchiamo sempre nuove strade dentro le strade, mentre camminiamo e ci spostiamo su compositi progetti di arti attraversati da corpi alati e strisce di copertoni bruciati, inalberiamo i nostri cervelli espansi devastati da lattine esplose e irruzioni di parabrezza frantumati, collochiamo le figure in viaggio fuori dagli orizzonti del viaggio, di ogni viaggio, trascinando alle nostre spalle col nostro semplice andare le carovane a ruote che si spostano qua e là sulla curvatura di questo pianeta, dietro i nostri passi asimmetrici, disarticolati, le nostre nuove forme piallate in resurrezione, i diaframmi dei nostri corpi che si spostano verso un nuovo orizzonte di specie e un nuovo sogno.

La strada si inclina un po’, nelle curve. Il guidatore della corriera continua ad andare seguendo di volta in volta sempre nuovi segnali che sorgono dall’asfalto e si mettono in movimento. Gira di tanto in tanto la ruota del volante con tutte e due le mani, quando deve cambiare all’improvviso la direzione del viaggio, mentre nella corriera i viaggiatori continuano a sonnecchiare qua e là con le teste abbandonate sugli schienali imbottiti, e si sente il rumore leggero della macchinetta che la depilatrice continua a passarsi sopra la pelle di seta. «Ma su quale corriera siamo saliti?» si domanda il Matto confusamente, tra la veglia e il sonno. «Dove stiamo andando tutti quanti, qui dentro? Noi due avevamo preso la prima corriera a caso, così, solo perché dovevamo andare!» La luce ricomincia a salire. È quasi l’alba. Il Matto si gira verso la Meringa, che ha riaperto gli occhi. Rimangono a guardarsi così, per un po’, nella prima luce che sale.

Principessa intanto continua a sua volta a spostarsi attraverso lo spazio, con gli occhi chiusi, sul camion. Ha viaggiato tutta la notte con la testa sulla spalla del traslocatore che continua a guidare in silenzio, seguendo i segnali. Si sveglia per un po’, si riaddormenta. Guarda per qualche istante la testa del traslocatore che fissa la strada sorridendo, tranquillo. Richiude gli occhi, si riaddormenta. Anche il traslocatore gira di tanto in tanto la testa di lato, per guardarla. La inclina un po’, appoggia la tempia sulla sua fronte mentre Principessa continua tranquillamente a dormire, a respirare.

Il viaggio di nozze

La strada si rischiara sempre di più, anche se il camion continua a viaggiare con le luci accese. Principessa si sveglia un’altra volta, più a lungo, spalanca gli occhi, come se vedesse ogni cosa per la prima volta, nel mondo. Solleva la testa dalla spalla del traslocatore, si guarda attorno.

«Dove siamo?» domanda.

«Siamo in viaggio di nozze» risponde il traslocatore continuando a guidare.

Qualche segnale cammina per un po’ al loro fianco, poi alle loro spalle, dopo che il camion l’ha ormai superato, per scortarli un po’ lungo la nuova strada. Si girano su se stessi, per guardarli passare. Si vedono i fogli delle loro mani alzarsi rifrangenti nell’aria per un saluto, le chiazze dei loro cervelli metallizzati dilatarsi per un istante contro lo spazio, nel vento in corsa. Il traslocatore stacca una mano dal volante, la pone sulla spalla di Principessa, sulla sua seta. Anche lei si gira verso di lui, che sta manovrando per accostare.

«Non so più dove siamo» esclama ridendo il traslocatore, «ma qui c’è una casa ancora in costruzione che sembra fatta apposta per poterci già traslocare!»

Inchioda di colpo, mettendo meccanicamente un braccio davanti al corpo di Principessa, perché non vada a sbattere contro il parabrezza. Si sente lo stridore forte della frenata sopra l’asfalto, mentre il camion avanza slittando di lato, a ruote bloccate, per non oltrepassare la casa.

«La nostra prima casa!» grida il traslocatore saltando fuori dal posto di guida.

Anche Principessa salta giù dall’altra parte, mentre il traslocatore è già inalberato su una delle grandi ruote del camion, ha buttato giù la fiancata, con fragore, comincia già a scaricare mobili, sedie, sanitari, materasso, scolapiatti, posate. Volano giù i pannelli dell’armadio, gli infissi. Li afferrano in due, cominciano a salire su per la scala bilanciandoseli sulle braccia, le spalle. Irrompono nella casa, cominciano immediatamente a montare i mobili, a installare la cucina, a collegare i tubi dell’acqua con le chiavi inglesi, le pinze, a uno a uno, a conficcare nel muro i chiodi a espansione per sostenere i pensili più pesanti, aprendo buchi nella parete col trapano elettrico, dopo avere frugato nella cassetta degli attrezzi che si spalanca a fisarmonica, per cercare le punte più adatte. Principessa con le braccia nude, sfuocate per i contraccolpi del trapano.

«E bisogna ancora installare i sanitari, i rubinetti, le luci» le grida il traslocatore, «appendere i quadri, fare il letto con le lenzuola pulite, metterci ai lati i comodini...»

Continuano a lavorare così, in quello spazio nuovo mai prima di allora abitato.

«Si lavora meglio in due!» dice il traslocatore correndo attraverso le stanze di quella nuova casa, con una lampadina che spunta da una tasca, un rubinetto dall’altra.

Collocano uno dopo l’altro gli infissi, lavorando con i cacciavite ad aria compressa, si inerpicano sulla scala per mettere i lampadari, gli specchi, passano di corsa l’aspirapolvere sui pavimenti, volando dietro la vescica piena d’aria che si gonfia di scatto. Accendono i gas del fornello per accertarsi che funzionino tutti. Si guardano attorno, alla fine, per controllare che ogni cosa sia a posto e la casa perfettamente arredata. Solo allora il traslocatore prende con la sua la mano di Principessa, nera, calda, con le palme più chiare. Si tolgono per un istante le scarpe, si vanno a buttare sul letto, sopra le coperte, distesi, con la lingua fuori, stanchi, abbracciati. Un secondo dopo balzano di nuovo in piedi, cominciano a disfare il letto, sradicano coperte, lenzuola, smontano i mobili componibili, la cucina, gli armadi, svellono i sanitari, svitano i rubinetti dai muri non ancora intonacati, staccano i tubi, i lampadari, i quadri, gli specchi, strappano i chiodi a espansione dalle loro sedi.

«Hai dimenticato di staccare il tubo del gas!» gli grida Principessa correndo su e giù per le scale, spenzolandosi fuori dalle finestre per lanciare sul piano del camion parcheggiato sotto la casa la bolla delle lenzuola, i comodini, i caloriferi, la rosa della doccia, l’attaccapanni, le sedie, gli ombrelli.

Corrono su e giù dalle scale reggendo in due i mobili più pesanti, calano giù dalla finestra, con delle funi, frigorifero, lavatrice, il televisore avvolto in una spessa coperta. Si guardano attorno per un’ultima volta nelle stanze di quella casa svuotata, oltrepassata.

«La nostra prima casa!» dice Principessa prendendogli la mano con la sua, calda, nera, dalle palme più chiare.

Un secondo dopo stanno già volando fuori dalla finestra, ridendo con le lacrime agli occhi, abbracciati, planano sul piano del camion, entrano rovesciati nella cabina di guida, dall’alto, a testa in giù, attraverso le portiere già spalancate.

«Forza, ragazza, si parte!» grida il traslocatore passandole una mano sul volto, sui capelli, mentre con l’altra sta già girando la chiavetta dell’accensione. Ingrana la marcia.

«Forza! Forza!» grida a sua volta Principessa, mentre il camion è già lanciato nelle strade col suo carico traballante. «Forza, che se ce la mettiamo tutta possiamo traslocare ancora una volta prima della nostra prima notte di nozze!»

Il traslocatore accelera ancora di più, nelle strade ormai in piena luce. Si butta su delle altre strade più strette, senza preavviso, di colpo, con stridore di ruote, quando si leva improvvisamente dall’asfalto un nuovo segnale, col suo grande cranio dal cervello argentato. Continua a correre così, in pieno giorno, la testa puntata verso la strada, tranquillo. Principessa sta con la schiena abbandonata sopra il sedile, si passa ogni tanto le palme un po’ scorticate della mano l’una sull’altra, le palme dei piedi nudi contro il piano del cruscotto, sorridendo, tranquilla. Muove le dita dalle unghie dipinte contro il piano luminoso del parabrezza. Il traslocatore allunga la mano verso la radio, l’accende. Vanno così nel leggero boato musicale, per un po’. D’un tratto il traslocatore si stacca dallo schienale. Afferra più saldamente la ruota del volante, colpisce il freno col piede, a lungo, con forza. Tutto il camion comincia ad avanzare di sbieco, stridendo, bloccato. Il carico ondeggia alle loro spalle, con fragore.

«Che cosa succede?» domanda Principessa, senza smettere di muovere le dita dei piedi contro lo schermo del parabrezza.

«Siamo arrivati!»

Il camion si arresta quasi contro una costruzione a più piani, isolata. Si gettano fuori, cominciano a scaricare correndo su per le scale. Irrompono nella nuova casa vuota, deserta. La riempiono di mobili, allacciano i tubi, la connettono alla rete in tensione da ogni parte sotto la crosta terrestre, nell’aria. Accendono le luci in tutte le stanze, anche se è giorno, mentre fuori, dal camion, la piccola radio continua a cantare a tutto volume. Si gettano per un istante sul letto, alla fine, abbracciati, sfiniti, prima di ricominciare subito dopo a smontare di nuovo tutto quanto, a sradicare, a strappare. Si lanciano fuori da una delle finestre con l’ultima bracciata di lenzuola, nella luce che ricomincia già a declinare. Lasciano anche quella nuova casa tutta sbrecciata. Saltano di nuovo nella cabina del camion, uno da una parte l’altra dall’altra.

«Avete dimenticato questa!» grida una ragazza correndo verso di loro con una pentola a pressione inalberata sopra la testa.

Il traslocatore inchioda di colpo, perché le ruote del camion avevano già cominciato a girare. Mette un braccio fuori dal finestrino abbassato, afferra la pentola per il manico, la fa volare all’indietro dove c’è il resto del carico.

«Grazie a lei, signorina!» le grida con gentilezza, ripartendo con l’acceleratore premuto a tavoletta, per recuperare il tempo perduto. «Ci sarà utile. Siamo in viaggio di nozze!»

Anche Principessa saluta la ragazza con la mano fuori dal finestrino, mentre il camion ha già ripreso ad andare con stridore di ruote.

«Forza!» dice al traslocatore leccandosi le palme delle mani ancora più scorticate. «se ci diamo dentro davvero riusciremo ad arrivare prima di notte nella nostra casa nuziale!»

Il traslocatore non se lo fa dire due volte. Accelera ancora di più, mentre la luce continua a calare e la radio di bordo a cantare. Principessa appoggia di nuovo la testa alla spalla del traslocatore, che la prende a sua volta per la spalla, con la sua mano dalle palme sempre più scorticate.

«Come scende presto la notte!» sussurra Principessa sbadigliando un po’ per la stanchezza, per il sonno.

Le macchine hanno già acceso le luci, anche il traslocatore ha già acceso le luci del camion. Si indovinano le forme di sempre nuovi segnali che si spostano catarifrangenti nel primo buio.

«Adesso dormirò un po’» dice Principessa chiudendo gli occhi, «a me basta poco per recuperare la stanchezza ed essere di nuovo riposata e gagliarda per la nostra prima notte di nozze!»

Il traslocatore ascolta il suo respiro tranquillo, sulla sua spalla, uscire tiepido dalle sue grandi narici, dalle sue vaste labbra. Allunga il braccio, spegne la radio, per non svegliarla. Continua a guidare nella prima notte, in silenzio, col carico dolce della testa della sua Principessa sopra la spalla. «Che nuovo viaggio ho iniziato?» si domanda. «Dove stiamo andando?» Si sposta ancora così, seguendo i segnali. Finché scorge da lontano qualcosa come una superficie liquida in movimento su cui si riflettono le luci di molte finestre accese. «Dev’essere un fiume!» si dice passandosi una mano sugli occhi. Si avvicina sempre più, si immette su una piccola strada che costeggia l’acqua, guidando per un po’ contro il bagliore delle luci riflesse che tremano al fianco del finestrino abbassato.

«Svegliati, Principessa, mia sposa!» le sussurra accarezzandola con la mano sulla seta lucente della spalla. «Siamo arrivati!»

Principessa si sveglia, apre gli occhi, si guarda attorno senza fiatare, contro lo schermo delle luci in liquido movimento sull’acqua.

«Cos’è successo mentre dormivo?» domanda. «Dove siamo arrivati?»

«A casa!» le risponde il traslocatore, traendo a sé tutto il suo corpo di carne.

La prima notte

Principessa alza gli occhi, verso una casa che viene avanti sempre più nella notte, con la fila delle finestre tutte spalancate, le luci accese in quella zona silenziosa, deserta. Il traslocatore rallenta poco per volta, mentre la casa ingigantisce sempre di più nel buio con le sue facciate abbagliate, traforate. Frena piano, a poco a poco, stavolta, fino ad arrestarsi lentamente sotto la barriera delle sue luci che si riflettono nell’acqua del fiume. Scendono tutti e due piano dal camion, a bocca aperta, in silenzio. Rimangono per qualche istante immobili di fronte alla facciata, tenendosi per mano, scontornati, incendiati.

«E ci sono anche grandi mazzi di fiori bianchi a ogni finestra!» dice Principessa senza fiatare.

«Sì, e anche ai due lati della porta, all’imboccatura delle scale, lungo le scale, da quanto si riesce a vedere da qui, in quella luce...» si accorge il traslocatore stringendole più forte la mano. Hanno messo anche degli addobbi... Eppure la strada è vuota, deserta. Nessuno sapeva del nostro arrivo! Chi ce li avrà messi?»

Restano ancora un po’ contro le luci delle finestre che si riflettono sullo schermo del fiume coi suoi rumori liquidi.

«Forza» si incitano un istante dopo, a vicenda, «cominciamo!»

Si gettano sopra il piano del camion, cominciano a scaricare mobili, sedie, letto, lenzuola, cucina a gas, porte, finestre, sanitari, la borsa termica con dentro il cibo per preparare la cena di nozze. E anche lampadari, quadri, tubi dell’acqua, del gas, correndo su e giù per le scale bordate di vasi di fiori bianchi gradino dopo gradino, nella luce accesa a ogni piano in quella casa deserta, in piena notte. Montano i mobili, allacciano luce e gas, cominciano a preparare la cena di nozze nella casa appena allestita. Uno taglia, l’altra soffrigge, uno apparecchia, l’altra si fa cadere un filo di pasta dall’alto, tra i denti bianchi, le vaste labbra, per controllare se è cotta. Si spande un buon odore per tutta la casa, ad andare qua e là in quelle nuove stanze per dare gli ultimi ritocchi alle tendine, attaccare la spina del telefono, piazzare il televisore, programmare il termostato della caldaia, fissare le ultime viti. Si mettono infine a sedere uno di fronte all’altra, sorridenti, cominciano a mangiare. Le forchette vanno avanti e indietro sempre più velocemente dai piatti alle bocche, e anche le mani che intingono le schegge di pane nel tuorlo d’uovo che si espande, deborda. Si riempiono l’un l’altra i bicchieri, bevono a garganella. Si sente venire già un buon odore di torta dall’interno del forno appena installato. Principessa la tira fuori fumante dentro la teglia, col grande guanto da forno. La tiene sollevata nell’aria per qualche istante, prima di lasciarla cadere rovesciata nel piatto grande e cominciare a staccarla, a rimetterla diritta, a tagliarla. Si gettano sulle sue fette, le cominciano a masticare guardandosi negli occhi, incantati, le loro labbra continuano a sorridersi e a macinare, tutte colorate di sugo, tuorlo d’uovo, grandi briciole di torta attaccate. Se le staccano coi tovagliolini di carta, alla fine, uno da una parte e l’altra dall’altra, li buttano al volo nel bidone delle immondizie, tutti appallottolati e istoriati. Corrono nella stanza nuziale, finiscono di fare il letto, ficcando sempre più in fretta le estremità delle lenzuola sotto il materasso. Si cominciano a spogliare fulmineamente, uno di fronte all’altra. Si abbracciano così, in piedi, sazi, arrapati.

«Prima voglio farmi una doccia» dice Principessa, «come una vera signora!»

Il suo corpo nudo corre verso il cesso, nero, bello, spaccato, contro lo sfondo della parete appena imbiancata. Il traslocatore dietro, a piedi nudi sulle mattonelle appena posate. Si gettano assieme sotto la rosa della doccia appena montata. L’acqua comincia a sgorgare, con tutti i suoi rumori di luci liquide, cellulari. Si lavano e si insaponano l’un l’altra, si accarezzano con l’acqua appena emersa dalle viscere della terra per mandar via il sapone dalla fronte, dalle orecchie, dagli occhi, dal culo, dal taglio in mezzo alle gambe, di Principessa, tra la sua paglia di ferro. Anche Principessa manda via il sapone dalle palle mineralizzate del traslocatore, dal suo cazzo bagnato, eretto. Saltano fuori dalla doccia, quasi senza asciugarsi. Principessa attraversa di nuovo il corridoio, di corsa, con le piante dei piedi bagnate, nera, lucente. Salgono tutti e due in piedi sul letto. Restano per qualche istante così, uno di fronte all’altra, molto più in alto del filo della stanza, immobili, eretti. Si spostano affondando i piedi qua e là nella massa soffice del materasso a molle. Si prendono per mano, cominciano a saltarci sopra irresistibilmente, abbracciati. I loro corpi inclinati volano sempre più in alto nello spazio nuovo di quella stanza nuziale, ancora bagnati, molto arrapati. Le tette di Principessa compiono un arco sussultorio completo nell’aria, quando i loro due corpi si staccano un po’ l’uno dall’altro, anche le palle del traslocatore sotto il suo cazzo che si solleva mineralizzato nell’aria, anche il cibo appena ingerito partecipa all’interno dei loro corpi a questa festa nuziale. Rallentano sempre più, si abbracciano un’ultima volta, respirano affannosamente prima di piombare tutti e due sul letto continuando a baciarsi. Principessa spalanca l’incavo nero e bagnato delle sue gambe, le rovescia su se stesse nell’aria per aprirsi sempre di più al prolungamento del corpo del traslocatore che sta già sprofondando in quel nuovo spazio inventato. Cominciano a rotolare sul letto, incastrati. Tutta la casa è silenziosa, deserta, si sentono solo le loro voci che cominciano già a debordare. Gemiti, grida alte, sottili, come piccoli canti. Il traslocatore entra ancora di più nel corpo della sua Principessa, mentre anche lei si muove forte per prenderlo dentro ancora di più. Solleva in alto le sue gambe lucide e nere, le cosce, ripiegate nell’aria, nello spazio, i piedi girati già verso l’alto, con le piante più chiare. Il traslocatore si solleva un po’ dal suo corpo, puntato sui gomiti, per contemplare la sua bella testa, il suo petto, le sue braccia rovesciate all’indietro sul letto, l’incavo profumato delle sue ascelle, le linee del costato messe a nudo dalla respirazione affannosa, le ossa delle anche, fino al punto dove i loro due corpi sono incastrati. Anche lei gli contempla il torace, le spalle, tutta la macchina del suo corpo irrorato, che si muove sempre più forte dentro la polpa cosmica della sua pancia bagnata. Si prendono irresistibilmente le mani allargate sul letto, molto lontane dalle loro due teste, le gambe di Principessa si rovesciano sempre di più nell’aria, nello spazio, si cominciano a serrare dietro il corpo del traslocatore, incrociate. Le sue mani si staccano dalle mani di lui, afferrano il suo culo entrandoci dentro a fondo per tirarlo sempre più forte contro il proprio corpo spaccato. Anche il traslocatore afferra Principessa da dietro la schiena, il culo, le reni, per tirare contro di sé il suo corpo con ancora più forza, mentre comincia a sentire i suoi getti lunghi, abbandonati, roventi, uno per uno all’interno del suo corpo nuziale. Si attaccano con le labbra, si staccano per poter ricominciare a gemere, a urlare. Rimangono per un po’ l’uno nelle braccia dell’altra. Stanno per alzarsi finalmente dal letto, quando il traslocatore si ricorda d’un tratto: «Accidenti, non ti ho portata in braccio sul letto, come si fa con le spose!».

Salta giù dal letto, anche Principessa salta giù dal letto, con le cosce rigate. Il traslocatore la solleva tra le sue braccia, lei viene su leggera, mettendogli le braccia al collo. Fanno alcuni passi a caso attraverso la stanza, la casa. Poi il traslocatore la va a posare sul letto. Lei gli allarga le braccia, sorridente, come se fosse quella la prima volta. Lo bacia su tutto il corpo, anche lui la bacia su tutto il corpo, prima di entrare di nuovo dentro di lei, lentamente, con gli occhi sbarrati, senza fiatare, come se fosse la prima volta. Ricominciano a scopare piano, accarezzandosi con le mani là dove i loro corpi sono incastrati. Poi sempre più profondamente, più a fondo, e lui intanto le bacia le spalle, la gola allargata, rovesciata, e lei gli bacia gli occhi, le spalle, il torace. Si sentono gemere sempre più forte nella casa deserta e addobbata. Poi quegli altri versi e quegli altri urli nuziali, prenatali. Si addormentano per qualche istante, alla fine, abbracciati, ancora incastrati. Ma quando riaprono gli occhi si sentono perfettamente riposati. Staccano le masse liquide dei loro corpi. Si tirano su dal letto, fanno qualche passo attraverso la stanza, vacillando un po’ sulle gambe, tenendosi per mano. Si affacciano alla finestra. Restano per un po’ a guardare le luci che si riflettono sulla massa liquida che corre di fronte alla casa, assieme alle altre luci che si spostano attraverso lo spazio incendiate, corpi in combustione, in esordio, masse di materia trasfigurata in proiezione cieca attraverso altri spazi e altri corpi celesti e pianeti traslocatori.

«Ce la siamo presa un po’ comoda, questa volta!» si rende conto improvvisamente lui. «Bisognerà recuperare il tempo perduto!»

«Forza, allora!» si riscuote anche Principessa. «La notte non è ancora passata. Possiamo traslocare da qui prima ancora che finisca!»

Si vanno a lavare i genitali nel gabinetto, una da una parte l’altro dall’altra della coppa del lavandino. Si vestono fulmineamente, lavano i piatti nel secchiaio, le posate, buttano i resti nel bidone delle immondizie, richiudono il sacchetto di plastica che ci avevano messo dentro, svellono gli elettrodomestici dalle loro sedi, ritirano i tubi dell’acqua, del gas, degli scarichi, sradicano i fili elettrici dalle canaline, smontano i mobili, staccano i radiatori dopo averli svuotati dell’acqua, strappano i chiodi a espansione, coi denti, per fare più in fretta, in cima alla scala, staccano i quadri, i sanitari, gli specchi, sollevano in due tutto il letto, la bolla delle lenzuola ancora bagnate, profumate, l’attaccapanni, il portaombrelli, gli ombrelli, avvolgono la bolla del televisore nella coperta, buttano tutto quanto nel camion. Ripartono che è ancora notte, si lasciano alle spalle quella casa dalla facciata illuminata e piena di mazzi di fiori bianchi e di addobbi. La vedono ancora per un po’ in ciascuno dei due specchietti retrovisori, uno da una parte e l’altra dall’altra, mentre costeggiano ancora l’acqua piena di luce del fiume, prima di svoltare di colpo e di imboccare una nuova strada seguendo un nuovo segnale sollevato di colpo nell’aria, nello spazio.

«Vuoi sentire un po’ di musica?» le domanda il traslocatore allungando la mano verso la radio, nel cruscotto.

«Ma no! Restiamo in silenzio, per un po’...» gli risponde Principessa appoggiando la guancia contro il suo petto, all’interno del suo braccio che continua a guidare. «Si sta bene così!»

Rimangono a lungo senza parlare, nel camion che continua a viaggiare di notte, nelle strade deserte. Principessa chiude gli occhi di tanto in tanto, si addormenta. Anche il traslocatore si lascia andare senza accorgersene a brevissimi sonni improvvisi e profondi, ristoratori, continuando a tenere Principessa abbracciata con la mano, col braccio.

«A cosa pensi?» le domanda posandole la bocca sopra la fronte, d’un tratto.

«A niente» risponde lei senza aprire gli occhi, «si sta bene così, siamo in viaggio.»

Anche il Matto e la Meringa stanno intanto continuando a viaggiare sulla corriera. La luce esterna è salita e poi calata di nuovo, è di nuovo notte. La corriera continua ad andare nel buio, seguendo i segnali. L’autista continua a manovrare la ruota del volante, sul suo sedile sollevato, dall’alto. Stanno ancora abbracciati, non si stancano di accarezzarsi, baciarsi.

«Chissà dove starà andando questa corriera? Non si ferma mai...» sussurra il Matto alla Meringa, con la bocca sulla sua tempia, tra i capelli.

«Non importa dove va» gli risponde la Meringa accarezzandolo con la mano sotto la maglia, «l’importante è che continui a viaggiare. Le ferite si rimarginano più in fretta mentre si è in viaggio.»

Fuggono a fianco dei finestrini le forme luminose delle insegne pubblicitarie lontane, le sagome dei segnali abbagliate di tanto in tanto dai fari. Il Matto gira la testa, nella corriera in penombra. Scorge la sagoma della ragazza seduta al suo fianco, dall’altra parte del corridoio. Respira piano, tranquillamente, nel sonno, eppure i lineamenti del suo volto sono attraversati da rapide contrazioni nervose che li fanno improvvisamente trasalire.

«E chi sarà mai quella ragazza?» si chiede ancora il Matto. «Dove starà andando anche lei?»

Canto di Nervina

Non lo so dove mi sta portando questa corriera, mentre sono sprofondata nel sonno e sul mio volto, a mia insaputa, si continuano a scatenare queste tempeste elettriche che mi alterano i lineamenti. Non so da dove hanno origine, da quali traumi, da quale punto del sistema nervoso, dell’encefalo, da quali aree del cervello, della memoria, questi impulsi che scatenano le contrazioni dei muscoli, che mi sfuocano improvvisamente una parte o l’altra del volto, mentre sono in mezzo alle altre persone, alla folla. Una zona del mio volto parte per conto proprio, esce di fuoco, si sottrae allo sguardo, come dipinta su uno stendardo messo in movimento all’improvviso dal vento. Chi mi sta di fronte strizza gli occhi, riposiziona due o tre volte la traiettoria del suo sguardo, per cercare di mettere a fuoco il mio volto, tira fuori di tasca il fazzoletto, si stacca gli occhiali dal volto, comincia ad alitare sopra le lenti per pulirle, pensando che si tratti solo di qualche zona della lente appannata, di uno di quegli aloni che si formano continuamente sopra le lenti, su cui vanno ad appiccicarsi e a proliferare microrganismi portati dal vento attraverso lo spazio, polveri cosmiche venute da enormi corpi in sfarinamento, inglobate nella colla vivente della nostra atmosfera. Mi parte il labbro superiore, di colpo, tutta la mia bocca si espande galvanicamente, più volte. L’intero mio volto viene quasi raschiato dal movimento tellurico di un sopracciglio che si alza e si abbassa a velocità esponenziale, mentre la zona bassa del muso si sposta da una parte e dall’altra come per una masticazione intrauterina affiorata di colpo dalle zone più remote della memoria cerebrale sulla sindone del mio volto. Un’intera guancia mi parte, trascina con sé anche un moto speculare di una delle mie orecchie tempestate di minuscoli orecchini di onice, come un tessuto neuromuscolare sfiorato da un arco elettroconduttore. La maschera della mia faccia attraversata da compulsioni si sottrae al ricordo, sento il cuoio capelluto spostarsi tettonicamente da una zona all’altra slittando sulle ossa craniche, mentre anche intorno a me ogni cosa e ogni volto vengono raschiati via dalla superficie del mondo, abrogati, come quando entrano in azione gli organi elettrici della torpedine che paralizza la preda. I filamenti dei nervi si contraggono nei miei tessuti, un numero incalcolabile di neuroni cerebrali va in tumulto, nella sella dell’osso sfenoide la ghiandola dell’ipofisi entra in relazione tellurica con la tiroide e la corteccia surrenale attraverso le cellule neurosecretrici, le fibre nervose, i capillari dell’ipotalamo, il plesso inferiore, mentre mi sposto trasfigurata fino all’irriconoscibilità in mezzo alla folla o dormo tranquillamente su questa corriera che ci sta portando tutti quanti chissà dove, col mio volto in tensione verso un altro volto e un’altra forma che si divincola nel tessuto in disintegrazione della mia vecchia forma. I miei lineamenti scattano come le zone fratturate di faglia. Prendono forma al loro interno nuovi progetti incalcolati di continenti emersi, nello sfracellamento della forma liquida sulla placenta prenatale degli oceani che si solleva nella bolla gravida dell’atmosfera...

«E quella giovane coppia che non smette di tenersi con una mano la fronte, le tempie...?» si chiede ancora il Matto girando il busto di lato, verso altre zone della corriera in penombra. «Stanno seduti uno vicino all’altra e con una mano si tengono abbracciati, con l’altra si serrano la parte superiore della testa, si passano le dita sui globi chiusi degli occhi, sulle ossa degli zigomi, del mento, mentre la loro espressione è in totale sofferenza, in tormento, come se fossero tutti e due in preda a una tremenda emicrania.»

Canto degli emicranici

La notte è scesa di nuovo. Abbiamo lasciato gli spazi chiusi delle associazioni per emicranici, dove ci siamo incontrati per la prima volta, ci siamo venuti incontro in mezzo ad altre persone in preda a vertigini, esterrefatte, gettate qua e là sulle sdraio, sul pavimento, con i lineamenti stravolti da cefalee a grappolo, le bocche spalancate per i conati di vomito, i rumori cavernosi delle contrazioni che salgono dagli esofagi, gli occhi bombardati da disturbi visivi e pieni di lacrime. Siamo saliti sulla prima corriera che abbiamo incontrato, ci siamo messi in viaggio. Sbandando per gli attacchi improvvisi di vertigini, la gola serrata dalla nausea, il cervello disattivato, in deliquio. Durante il giorno, nel sonno. La luce che diventa di colpo nera, nel cielo, come se i nostri occhi si connettessero con lo sbalorditivo buio del cosmo che è appena al di là della sottile particola luminosa dell’atmosfera dove viviamo tutti ammassati. Non sappiamo cosa avviene, e perché, dentro le nostre masse cerebrali, nervose, nei buchi degli occhi, nelle strutture intracraniche dentro i seni paranasali, nella chiocciola dell’orecchio, nei canali semicircolari, nel nervo vestibolare. Mentre giaciamo supini uno vicino all’altra continuando a tenerci per mano, in preda a nausea, vomito, scotomi scintillanti, acufeni. Restiamo in preda a fotofobia, sonnolenza, nei brevi intervalli tra un attacco e l’altro, il più lieve rumore ci massacra, ci strazia, mentre sosteniamo l’urto della vasodilatazione dolorosa che segue gli attacchi e tutta la nostra testa e la nostra massa cerebrale pulsa violentemente per l’allentarsi improvviso e violento della miriade di minuscoli capillari. Il sangue si scaraventa in mezzo ai neuroni, nella gelatina dell’encefalo, del cervelletto, sposta in avanti tutto il tessuto della visione. Ci siamo strappati dalle nostre stanze oscurate, dalle nostre brande macchiate di vomito, muco, lacrimazioni. Abbiamo cominciato a camminare barcollando giù per le scale, passando attraverso l’onda nera degli altri emicranici che risalivano con le mani contro i lineamenti del volto, le dita tra i capelli irrigiditi sopra le teste. Abbiamo mosso i primi passi nelle strade ancora buie, incrociando di tanto in tanto qua e là sopra i marciapiedi altri emicranici che si spostavano con gli occhi fissi, sbarrati, dopo una notte insonne, tra le altre persone e le altre forme che uscivano dalle case per iniziare la loro giornata. Ci siamo buttati su due sedili appaiati di questa corriera ancora fredda, semideserta, che non sappiamo dove va, dove andrà, in mezzo ai primi passeggeri che cominciavano già a salire, non si sa perché, non si sa per andare dove. Abbiamo collocato i globi in sofferenza delle nostre teste dentro la traiettoria di questa visione e di questo viaggio. Stiamo attraversando sigillati nella nostra separatezza la voragine ascensionale di questo sogno. Stiamo solcando il fiore di questa esplosione con i nostri tessuti cerebrali in preda a tempeste ematiche. Sentiamo già le nostre onde neuronali in dilatazione modificare le circonvoluzioni dei nostri cervelli proiettati verso strutture di pensiero non ancora pensate, tutti chiusi nella nostra sofferenza vivente, in questa pace.

Mi alzai da sedere, di colpo, come lanciato per aria da una molla.

«Ma dove cazzo sta andando questa corriera?» dissi buttando indietro la testa. «Dove vi siete messi in testa di farla andare? Dove cazzo stanno andando tutti quanti, qui dentro? Dove vi siete messi in testa di andare?»

L’account rise, dall’altra parte del tavolo, buttando indietro a sua volta, simmetricamente, la testa.

«Oh, questo è solo l’inizio!»

«Stia tranquillo!» gli dissi. «Io la tengo d’occhio!»

Ci guardammo a lungo, in silenzio.

«E dove stanno andando il Matto, la Meringa, Principessa, il traslocatore, e questa donna che non smette di depilarsi, questi emicranici?» continuai, esasperato.

Anche la mia Musa si alzò di colpo, si stirò le braccia, buttando in fuori la massa calda e borchiata delle tette nude sotto il trasparente tessuto di garza.

E saltarono su dalle loro poltroncine anche il copy e l’art, la ragazza non c’è assorbente che tenga e quella con l’acne. E anche dalle altre parti dell’agenzia la gente doveva essere saltata su di colpo qua e là dalle sedie, dalle poltroncine, dalle ciambelle dei water, perché si sentiva venire da tutte le parti un rumore improvviso di sollevazione di corpi e di spostamenti forti d’aria, di luce.

«Che cosa ci prende?» disse l’account alzandosi a sua volta di scatto, allarmato. «Non è suonata la campanella! Il brief non è ancora finito, è appena cominciato!»

Ma stavano ancora tutti quanti in piedi, incollati al muro, con gli occhi sbarrati, ridendo. Il copy e l’art con le braccia attorno alla carne delle loro ragazze, la Musa che mi era venuta ancora più vicino col suo corpo sessuato.

La luce in alto faceva la luce, cancellava.

«La ricreazione è finita!» gridò l’account rimettendosi per primo a sedere. «Il brief riparte! Si potrebbe dire comincia.»

Ci rimettemmo a sedere anche noi, io e la mia Musa, fianco a fianco. Aspettammo che si rimettessero a sedere anche gli altri quattro, e che dal resto dell’agenzia si esaurisse il rumore di tutti quei corpi in elevazione che grandinavano giù sulla massa molle delle loro natiche, degli sfinteri. Rumori di sciacquoni tirati, di passi di nuovo in movimento sulle scale di vetro, pulviscoli e polveri in sospensione nello spazio che ridiscendevano nuovamente a terra, nell’aria gremita, nella luce, con i loro microrganismi dalle dentature gommate, onde luminose e sonore in sfaldamento, i bolidi delle teste dentro le matasse scorporate dell’arialuce.

L’account mi fissò ancora, prima di ricominciare a parlare.

«Bene!» disse di nuovo. «Si comincia!»

E afferrò, chissà per quale ragione, una manciata di fogli, abbozzi di storyboard, relazioni di testi, indagini di mercato e li gettò tutti quanti irresistibilmente nell’aria, una volta, due volte.

«Si ricomincia!» riprese. «Allora... il punto della situazione, prima di tutto! L’Interfaccia, sfuggita allo stupratore di donne gravide, sta portando a termine la sua gravidanza. È lei la testimonial di questa campagna. Lei, o meglio il brandello di carne che è ancora contenuto nella sua pancia, quella piccola fica che sguazza ancora in mezzo al suo liquido amniotico pubblicitario e che stiamo tutti aspettando che spacchi la fica più grande in cui è contenuta per dare inizio a questo salto nel vuoto. Il viaggio è iniziato, la corriera sta andando non si sa verso dove, con le creature in tensione che ci sono dentro. Tutti questi corpi che stanno andando verso uno squarciamento amoroso all’interno di quest’altro squarciamento più grande. Il Matto e la Meringa, tutti gli altri. Principessa e quell’altro. Si sono messi in traslocazione, non in semplice viaggio, ma in un viaggio che scardina le fondamenta del viaggio. E ci sono altri corpi e altre forme che si stanno preparando a fare irruzione a loro volta qui dentro, con le loro teste in fermentazione, in fiore. Tutti i nostri schemi di strategia pubblicitaria sono saltati: definizione del prodotto, del mercato, target, fattori psicografici, campionature, USP, positioning, identità, GRP, pesi di marketing. Impossibile, in questo caso, la creazione di una banca di case history, perché non esistono precedenti per una simile campagna pubblicitaria. Strategie di sviluppo? Non ce ne frega un cazzo, perché quando e se questa campagna raggiungerà il suo obiettivo non sarà più possibile concepire un moto che si perpetui attraverso la messinscena statica dello sviluppo. Strategie di fidelizzazione? Un cazzo anche quelle! Tecniche pubblicitarie da usare per questa campagna? Dimostrazione o metafora? Ci viene da ridere! Qui sono state annientate fin dall’inizio, alla radice, le possibilità stesse che si possano dare dimostrazioni o duplicarle mediante l’esercizio compunto della metafora. Il paradosso, le altre tecniche per enfatizzare le caratteristiche del prodotto creando situazioni irreali? Polverizzate! Abbiamo scippato al paradosso la sua stupida maschera funzionale! Il lavoro pubblicitario sulle aspirazioni, gli stili di vita? Disintegrato in partenza! Il monitoring? Neanche pensarci! Qui, quando è fatta, è fatta! Quello che succederà dopo non è mai successo prima. A noi interessa solo correre con l’acceleratore a tavoletta, in piena notte, verso il punto di fuga di questo schianto. Ci attrezzeremo, mentre questo brief andrà avanti senza soluzione di continuità fino al suo punto di smottamento e al suo balzo. Figure sempre nuove irromperanno senza preavviso qui dentro. Abbiamo già creato una rete di portali e di siti per raccogliere le prime offerte che cominceranno inevitabilmente ad arrivare, quando questa campagna avrà preso forma o addirittura sarà ancora in corso di formazione. Mentre il brief continuerà, esploderà, si andranno a creare le condizioni per la sua esplosione...»

Si interruppe un istante, con gli occhi fuori dalla testa.

«Mi sono incontrato un’altra volta col nostro cliente!» concluse.

«Vuole dire con Dio?» gli chiesi, temperando distrattamente una matita che avevo trovato sul tavolo.

«Sì, certo! Con Dio!» mi rispose, allungando la testa verso di me, a denti stretti, con aria di sfida. «Perché? La cosa non le va? La disturba?»

«No di certo! Cos’ha capito? Chi più di me può essere arrapato per questo, qui dentro! Anzi: ne sono estasiato!»

«Abbiamo discusso sulla scelta del media mix. Ma all’inizio il cliente era come via con la testa, non prendeva parte a questo tipo di decisioni. Mi sembrava stanco, dietro la sua maschera di porcellana, svuotato...»

«Stanco quello? Non se la beva!» interruppi l’account. «Fa sempre così, fa così da sempre. Io lo conosco bene!»

«Mi manderete a casa anche quello?» lo interruppe a sua volta la Musa, la mia Musa.

Risate.

«Poi però si è improvvisamente ripreso» continuò l’account corrugando la fronte, senza mostrare di avere sentito le interruzioni, «abbiamo optato senz’altro per la televisione!»

Si bloccò un istante, girando gli occhi su tutti noi, prima di riprendere a parlare continuando a scrutarci.

«Sarà dal video che prepareremo l’opinione pubblica e poi daremo l’annuncio di questa nascita, quando sarà venuto il momento di dare inizio pubblicamente a tutta questa campagna. Annunceremo in diretta dalla tv la nascita di questa creatura di redenzione, stavolta, per una valorizzazione totale della merce prima di aprire la campagna di vendita di questo pianeta-prodotto dal quale siamo stati prodotti, tutti in fuga verso questo passaggio di concentrazione ed esplosione, questo buco nero che non sappiamo neppure se si riaprirà dall’altra parte, con le sue cose intatte, illuminate, increate, forme, figure, gli altri spazi che ci sono al di là degli spazi, le nuove forme ancora indistinguibili dalla loro stessa visione. Mi sono dovuto far forza prima di avere l’ardire di domandargli la disponibilità a intervenire direttamente, in prima persona, all’interno di questa campagna, quando arriverà il momento cruciale dell’annuncio, una specie di incarnazione in video, stavolta. “Lo so, è una cosa mai successa...” ho provato a balbettargli “ma il messaggio avrebbe una carica inimmaginabile se si vedesse direttamente lei, di persona, nel video, per la prima volta dalla notte dei tempi, che ne dà direttamente l’annuncio. Quale campagna pubblicitaria ha mai avuto uno speaker così?”»

«Si potrebbe parlare addirittura di invideazione!» provai a suggerire dall’altra parte del tavolo, come se niente fosse.

Ci fu un breve silenzio. L’account sollevò un po’ di più la testa, per fissarmi.

«Sì, certo! Che idea!» si animò il copy. «Lei mi ruba il mestiere!»

La ragazza con l’acne si strinse di più a lui, con la tetta. Anche la ragazza non c’è assorbente che tenga si strinse di più al suo art, con la tetta.

Capii, da un movimento furtivo della sua mano al di sotto della linea del tavolo, che aveva fatto un rapido controllo sotto il velo delle mutande.

«No, no!» le dissi in un soffio, passandomi comicamente la mano sopra la fronte. «Mi dica che è no!»

«È no!» mi sorrise lei. «Non ancora!»

«Certo, certo! Invideazione... Perché no!» si riprese l’account. «Potremmo usare esattamente questo termine nello storyboard!»

Io avevo finito di temperare la mia matita. La passai alla Musa, che se la mise scherzosamente dietro l’orecchio.

«Il cliente è rimasto in silenzio per qualche istante» continuò l’account, «si sentiva solo lo sferragliare del treno nella curva della galleria, perché questa volta mi aveva dato appuntamento su una vettura di testa della metropolitana vuota, durante l’ultima corsa. Aveva voluto che mi sedessi sul sedile di fronte al suo, uno da una parte e l’altro dall’altra del corridoio. Non al suo fianco. Non so perché. Guardavo la chiazza abbagliante della sua maschera nella vettura deserta, in silenzio, mentre anche lui non diceva niente. Ci siamo arrestati a una fermata, poi a un’altra, mentre il cliente continuava a rimanere in silenzio. Le porte si sono riaperte di nuovo. È salita una donna, un secondo dopo è uscita, immediatamente, atterrita, non appena ha alzato gli occhi e ha visto di fronte a sé la maschera di porcellana del mio cliente nella vettura deserta. Non è neppure salita una vettura dopo, è rimasta immobile sulla banchina, impietrita, anche se quella era l’ultima corsa. Il treno ha ripreso ad andare nelle gallerie nere, deserte, lasciando dietro di sé, uno dopo l’altro, quegli spazi gommati delle stazioni con i pochi passeggeri in attesa sulle banchine, silenziosi, un po’ addormentati, in quella luce che c’è sotto terra. “Non esiste misura!” ha detto d’un tratto la voce afona del cliente, come se durante tutto il tempo in cui era rimasto in silenzio fosse stato da tutt’altra parte, avesse pensato ad altro. Poi ha concluso: “D’accordo, apparirò in video! Se proprio devo apparire, è evidente che non posso apparire che lì, in questa epoca!”. Ho tirato un sospiro di sollievo. Un secondo dopo il cliente si è alzato. “Io scendo qui!” ha detto avviandosi verso una delle porte. “Perché proprio qui?” non sono riuscito a impedirmi di domandare. “Perché non esiste misura” mi ha detto “ma la misura è colma!” Sono sceso anch’io, ho camminato per un po’ al suo fianco, sui pavimenti che attutivano il rumore dei passi, guardando di fronte a me, senza girare la testa dalla sua parte. E poi su per le scale mobili parallele, uno da una parte e l’altro dall’altra, appaiati. Lo vedevo confusamente, con la coda dell’occhio, mentre saliva immobile, dietro la sua maschera, nella luce abbagliante che c’è sotto terra. “Ma qui non si vede niente!” lo sentii esclamare d’un tratto, afono, mentre le scale mobili continuavano a salire verso la linea delle strade. “Che luce è questa! Come fate a vederci?” Non sono riuscito a rispondere. Il mio cuore aveva cominciato a battere forte, incontrollabilmente, mentre le scale mobili erano ormai quasi arrivate in cima. Il cliente ha incespicato un po’, al momento di mettere il piede sul piano fisso. Abbiamo attraversato la stazione sotterranea deserta, passando di fronte all’edicola dalla saracinesca abbassata, le macchinette automatiche dei biglietti, la fila immobile dei telefoni. Sentivo il leggero rumore dei suoi passi vicino a me, mentre salivamo le scale che portavano alla linea dell’orizzonte, passando attraverso la saracinesca di cui era aperta soltanto una fessura per permettere l’uscita degli ultimi passeggeri. “La prossima volta mi porti anche il softwarista!” mi ha detto improvvisamente, quando siamo arrivati in superficie. “Voglio parlargli!” Ho fatto di sì con la testa, perché non riuscivo ancora ad aprire bocca. Ma prima di lasciarlo sul marciapiede ai lati di quella grande strada deserta, ho buttato lì, stupidamente, tirando fuori di tasca il cellulare: “Vuole che le chiami un taxi per portarla a casa?”. “Lei pensi solo a girarmi la schiena!” mi ha detto. “Io non ho casa.”»

Il viaggio continua

La corriera intanto continua ad andare. Il guidatore ha acceso la radio, mentre guida nelle strade notturne, seguendo sempre nuovi segnali. Si è levata una musica lontana, attutita, di quelle che trasmettono in piena notte, per non disturbare i passeggeri che stanno dormendo.

«E quella ragazza seduta quasi a fianco del guidatore...» continua a fantasticare il Matto mentre viaggia così, tra la veglia e il sonno, con la bocca contro la testa profumata della sua Meringa che continua a masticare lentissimamente la cicca durante il sonno, abbandonata sulla sua spalla «di cui si vede il volto nel grande specchio retrovisore che c’è al centro del parabrezza, e che gira continuamente la testa verso quella del guidatore e lo guarda sorridendogli con le sole gengive, mentre l’uomo tiene la testa immobile verso la strada, le mani sulla grande ruota orizzontale del volante. Sembra che canticchi qualcosa tra sé, sottovoce, a fior di labbra... C’è qualcosa di strano in quella ragazza. Ma sì, adesso ho capito... non ha i denti! E anche quell’altra donna così bella che vedo di tanto in tanto nella penombra quando gira la testa per sistemarla meglio sullo schienale e che sta seduta proprio dietro la mia Meringa. Il suo viso è talmente bello... eppure c’è qualcosa in lei che incute spavento. Cosa sarà mai? Non capisco! Oh... certo, sì! Ma non è possibile! Non avevo mai visto prima una cosa simile! La sua testa è molto più grande del normale: è espansa!»

Canto della ragazza dalle sole gengive

Mi vedranno venire avanti per un istante dietro lo schermo di questo grande parabrezza, di notte, nella patina di questa luce così leggera per non disturbare il sonno dei viaggiatori, le altre persone in viaggio, i segnali, tutte quelle creature alate in sospensione tra cielo e terra, le polveri dello spazio, i pianeti. Vedranno venire avanti nel buio il foro della mia bocca privo di denti, mentre canta tra sé accompagnando la musica lieve della filodiffusione, su questa corriera che non si sa dove andrà, seduta vicino al suo guidatore silenzioso, tranquillo, all’inizio di questo viaggio. Apparirà per un istante la forma della mia giovane bocca nella quale non è mai iniziata la dentizione, le mucose delle gengive prive di alveoli che si aprono e si chiudono dietro la schiuma di carne delle mie dolci labbra. Passerà di fronte ai loro occhi la leggera gelatina di luce della mia cavità orale inumidita dalla sua saliva lucente. Vedranno balenare nel buio della mia bocca priva di quelle paurose schegge d’osso dentate mediante le quali le altre persone avanzano per masticazione nella materia cieca del mondo la luce che scaturisce dall’apertura della mia testa che continua sommessamente a cantare. Immagineranno o sogneranno in queste ore di notte i suoni liquidi, primordiali che scaturiranno dalle sue cavità nude, facendosi largo attraverso il palato, la massa molle e forte della lingua che si muove liberamente senza incontrare la barriera dei denti, come un organismo elementare in fondo all’oceano. Io sono la voce prenatale di questo scollamento e di questo viaggio. Io sono la voce breve che deve solo riaprire la porta liquida di questo viaggio e poi scomparire.

Canto della donna dalla testa espansa

Ci sono anch’io, sono qui anch’io, su questa corriera in viaggio per chissà dove. Tutta la massa della mia testa si è messa in viaggio per chissà dove. Sono stata finalmente snidata, individuata. Sono salita anch’io come gli altri su questa corriera ferma a motore acceso sulle superfici di quella piazza, sollevando nell’aria il macigno del mio cranio collocato sui muscoli in tensione delle spalle, del collo, dopo avere camminato da sola per le strade, di notte, vicino all’ombra spropositata della mia bella testa che si spostava sui muri delle case, al mio fianco, quando passavo contro le zone di luce dei lampioni. Cos’è successo al suo interno? Perché non ha accettato i limiti di specie della sua crescita? Cos’è avvenuto nelle sue ossa, nelle sue cartilagini? Perché sono andate avanti occupando una zona orbitale così estesa all’interno dell’aria, dello spazio, mentre tutte le altre teste sono rimaste ferme al loro posto, rimpicciolite, man mano che la mia testa continuava a espandersi seguendo le sue dinamiche d’esplosione, alla cuspide dei filamenti dei lori piccoli colli, collegate ai grovigli di vene, di arterie, di capillari? Dove si fermerà? Perché non ha smesso di occupare spazi sempre più estesi all’interno dello spazio, in mezzo alle altre masse cellulari in gravitazione? Le mie ossa craniche non cessano di generarsi. Le parietali, occipitali, semisfenoidali, temporali, zigomatiche. Le suture non smettono di modificarsi sotto la pressione tellurica delle placche ossee in deflagrazione, coronale, lambdoidea, la sutura squamosa, si aprono sempre nuove suture per far fronte all’espansione di sempre nuovi tessuti ossei, come quei crepacci che si spalancano serpeggianti lungo la crosta terrestre sotto l’azione delle faglie che attraversano la litosfera quando due zolle si rimettono in movimento e smottano l’una contro l’altra nelle viscere della terra. Il sangue dilata la sua rete, la mascella si espande, il forame, la chiostra dei denti, le mie labbra si allungano, vanno a collocare in punti sempre più lontani l’uno dall’altro gli angoli della mia bella bocca in esorbitazione, gli occhi si proporzionalizzano continuamente con il big bang delle mie ossa craniche in dilatazione, si espandono sempre più al loro interno i tessuti della visione. I muscoli del collo si stratificano sempre più, il tubo dell’esofago si espande progressivamente man mano che si connette alla cavità sempre più larga della bocca, la vena si ingrossa continuamente per portare sempre più sangue alla mia massa cerebrale in crescita esponenziale, tutta la mia struttura ossea, muscolare, si modifica per l’incombente presenza di questa parte in creazione, la pelle liscia della mia faccia si estende continuamente per riuscire a tenere in qualche modo racchiusa questa esplosione e farle assumere ancora una riconoscibile forma di testa, da quando ho sbaragliato i mille, millecinquecento striminziti centimetri cubici che sono stati assegnati come limite alla capacità cranica della femmina umana su questo pianeta, e ho sbaragliato da tempo persino gli angusti confini della macrocefalia, mentre gli spilli delle altre teste rimanevano fermi così, irrealizzati, sempre più miniaturizzati man mano che la mia testa andava a conquistare una porzione più vasta di spazio. Le vedo spostarsi a fianco della mia testa in lievitazione, con i loro piccoli cervelli blindati, i lineamenti bloccati, imprigionati, si rassegnano a riconoscersi l’un l’altro come sulle superfici di palloncini per metà sgonfiati oppure su quelle microscopiche teste tagliate e poi disossate che gli uomini issavano alla sommità delle loro capanne o appendevano alla cintura mediante la seta dei lunghi capelli, in altre zone del mondo, in altri tempi, mentre mi sposto attraverso questo universo bloccato, tra queste microscopiche stilizzazioni di volti immobilizzati, arginati. Si muovono nelle città, sui marciapiedi, le strade, con le loro piccole teste normalizzate che spuntano dalle povere aperture dei loro vestiti, dalle giacche, dalle camicie. Si vedono i loro piccoli globi accessoriati stamparsi contro i parabrezza delle auto, dietro gli oblò degli aerei, nello spazio, mentre copulano uno di fronte all’altra e possono specchiarsi solo in quelle loro piccole teste di serpe, devono stringere gli occhi per riuscire a individuare ciascuno i lineamenti dell’altro. Hanno riempito enormi edifici a più piani con altre microscopiche teste canonizzate nelle quali potersi specchiare, dipinte sulle tele, scolpite. Ma provate un po’ a immaginare! Come sarebbero infinitamente più emozionanti le vostre veneri, le vostre gioconde se, al posto di quella piccola porzione di spazio dipinta, inalberassero alla sommità dei loro colli una grande massa di macrocefala materia pittorica che va a rasentare e poi a frantumare i margini fissi della tela, della cornice! Come sarebbero più amorevoli le vostre madri dipinte se potessero guardare con infinita dolcezza i loro neonati attaccati al seno per l’allattamento con tutta la massa vivente delle loro teste espanse! Come sarebbero più pietose le vostre madonne se potessero stare in piedi sotto la croce col meteorite delle loro teste tutte bagnate di lacrime! Come sarebbero più credibili i vostri apolli e i vostri david se una vasta massa di marmo proporzionata proiettasse tutte le strutture dei loro corpi verso un nuovo sfondamento di specie! Il bagliore della mia testa si sposta tra le loro piccole teste sottodimensionate. Li vedo scantonare sui marciapiedi, quando spalanco di fronte a loro la voragine del mio sbadiglio, e migrare da una parte all’altra della sala oscurata di un cinematografo quando scorgono improvvisamente di fronte a sé la massa espansa della mia testa nel buio, mentre sono intenta a guardare le altre grandi teste gemelle in primo piano sopra lo schermo. Si bloccano ai margini delle strade, su quei marciapiedi gommati, quando mi vedono apparire dietro i finestrini di una vettura della metropolitana oppure di un taxi. «Signorina, signora, mi scusi...» prova a balbettare l’autista guardandomi con gli occhi sbarrati nello specchietto retrovisore col suo moncherino di testa. «Non riesco a vedere niente dietro!» «Allora guardi davanti!» gli rispondo accendendomi una sigaretta. Oppure dietro i finestrini di questa corriera che viaggia di notte con le luci abbassate, non si sa perché, non si sa verso dove, e trasporta anche il carico della mia testa disincagliata. Mi sposterò in questa notte spaccata, porterò la mia testa in cerca di nuovi spazi nelle zone rovesciate di spazio dove prende vita una nuova produzione di spazio. Sentirò in ogni tessuto vivente e in ogni fibra della mia testa il formarsi delle nuove suture in modificazione per l’irruzione della massa in sofferenza della mia testa. Uscirò dall’altra parte dai percorsi cavi delle memorie mentali, prenatali. Raggiungerò una nuova zona di spazio che è ancora imprigionata dentro lo spazio. Andrò a collocare il mastodonte della mia testa nella culla di un nuovo spazio. Vedrò un giorno venirmi incontro un altro corpo vivente ricollocato. Lo riconoscerò anche da lontano, perché la sua testa coprirà più vaste zone dell’orizzonte, del cielo, come una stella esplosa. Ci porremo una di fronte all’altro con i nostri lineamenti evasi dalla gabbia dei lineamenti. Ci baceremo con le nostre grandi bocche strappate allo spazio. Potrò infine posare la mia testa sopra un altro corpo disteso al mio fianco, che respira, potrò abbandonare tutto il peso della mia testa sul suo torace proporzionato, senza paura di scardinargli le costole.

Principessa e il traslocatore arrivano al mare

Principessa intanto sta continuando il suo viaggio a fianco del traslocatore, di notte, sul camion. Si sono già installati in altre due nuove case da cui hanno traslocato fulmineamente, gettandosi fuori dai varchi delle finestre con gli infissi appena strappati. Ma prima hanno mangiato qualcosa seduti uno vicino all’altra, senza parlare, col fiatone che piano piano rallentava, tranquilli, girati verso la finestra dai vetri aperti, verso le luci lontane di una città mai vista, chissà dove, chissà in quale punto del mondo, rumori di macchine che si spostano nella notte, chissà per andare dove, mentre tutti gli uomini sono sprofondati nel sonno dentro le loro case, coi loro corpi bagnati, abbandonati, tutti quegli altri corpi e quelle altre luci che non smettono di spostarsi attraverso lo spazio scollato, abbacinato. Si sono puliti la bocca col dorso della mano, per non sporcare i tovaglioli piegati, a fianco del piatto. Si sono baciati. Si sono spogliati, lavati. Si sono coricati sul letto abbracciati.

«Mi vuoi portare?» le ha chiesto il traslocatore.

«Sì, mi piace portarti!» le ha risposto lei mettendosi sulla schiena e aprendogli le sue gambe nere, le braccia.

Il traslocatore l’ha scopata piano, a lungo, in crescendo, con le labbra contro il fiore delle sue labbra, la lingua nella melma vivente della sua bocca che aveva appena mangiato. E intanto le ha accarezzato con la mano il buco nero del culo, tra le sue grandi cosce sollevate sempre di più nell’aria nuova di quel nuovo spazio. Le ha spinto un dito dentro, lentamente, nella sua calda merda africana. E intanto sentiva l’interno della sua pancia e il suo utero contrarsi attorno al suo cazzo che stava saltando ciecamente dentro il suo corpo durante l’orgasmo. Sono rimasti fianco a fianco, abbracciati.

«Adesso mi vuoi portare tu?» gli ha chiesto lei, dopo un po’.

«Vienimi sopra!» le ha risposto lui. «A me piace portarti.»

Principessa gli è salita sopra, a gambe larghe. Ha guardato piegata in due il suo cazzo bianco che si faceva largo nella sua pancia nera, tagliata. È rimasta per qualche istante così, col busto eretto, impalata. Il traslocatore vedeva dal basso la sua testa gettata all’indietro nei movimenti lenti e solenni della monta, mentre le teneva nelle due mani le masse calde delle sue tette nere, slanciate. La finestra era aperta, entravano da quella parte quei suoni che vanno per conto proprio attraverso la notte nelle zone di luce. Il traslocatore e la sua Principessa guardavano con le teste inclinate il fiore dove i loro corpi erano attaccati, mentre si muovevano tutti e due sempre più forte l’uno contro l’altra. Lui le ha accarezzato bene lo spacco del culo, lentamente, da dietro, quella cosa densa in mezzo alla sua paglia di ferro bagnata che continuava ad andare sempre più forte, tenuta aperta dal suo tubo di carne tutto pieno di sangue, traslocatore. Lei si è piegata sul suo corpo, per scoparlo più inclinata, più stretta, ha sollevato sempre più dall’altra parte, nell’aria, il suo culo aperto, spaccato, mentre cominciavano già a venire dalla sua grande bocca quei suoni rauchi, strozzati, che salivano dalla sua gola nera, sessuata. E intanto, poco per volta, sentivano tutti e due venire sempre più dall’appartamento vicino altri rumori disarticolati, sessuati, segno che un’altra coppia si era svegliata improvvisamente durante la notte a causa dei loro versi, e aveva cominciato a sua volta a scopare.

«Sono stata fortunata a incontrarti» gli ha detto Principessa alla fine, coricata al suo fianco con la faccia e gli occhi bagnati.

«Anch’io sono stato fortunato a incontrarti» le ha risposto il traslocatore con la bocca contro il suo volto, accarezzandole uno per uno con la lingua i tagli della scarificazione rituale.

Sono rimasti così per un po’. Anche l’altra coppia aveva finito ormai di scopare. Si era sentito un piccolo grido prolungato, a due voci, poi una voce sola, di donna, che aveva cominciato a piangere piano, tranquilla. Principessa e il traslocatore hanno tirato su le ginocchia, appaiati. Lei ha sollevato subito dopo anche i piedi. È rimasta a guardarseli sorridendo, e intanto muoveva nell’aria le dita dalle unghie smaltate, in quella casa nuova da cui si preparavano a traslocare.

Sono saltati tutti e due giù dal letto, una da una parte e l’altro dall’altra, senza dirsi una sola parola, di colpo. Sono andati fulmineamente a lavarsi, a gambe larghe, nel cesso. Hanno ricominciato a staccare i quadri, svellere i sanitari dove avevano appena orinato, gli infissi, trascinare giù l’armadio, sradicare la cucina, strappare chiodi a espansione, i comodini, la rete del letto. Intanto è uscita d’un tratto dal suo appartamento anche l’altra coppia. Stavano tutti e due in piedi sul pianerottolo, lei con una camicia da notte trasparente che le arrivava a coprire a malapena la fica bagnata, lui nudo con una coperta buttata sulle spalle e tenuta chiusa sul davanti con una sola mano. Sbadigliavano, con gli occhi pesti, le bocche molto baciate, spiegazzate.

«Cosa state facendo?» ha chiesto lei, senza smettere di sbadigliare.

«Stiamo traslocando» le hanno risposto.

«A quest’ora di notte?» ha chiesto ancora la donna. «Perché? Siete appena arrivati!»

«Perché siamo dei traslocatori!» le ha risposto Principessa senza fermarsi.

«Ma allora possiamo darvi una mano!» si è offerto l’uomo.

Balenava di tanto in tanto, mentre gesticolava e parlava, fra i due lembi della coperta che si aprivano e si richiudevano, la forma del suo cazzo ancora congestionato.

«Buona idea! Perché no?» gli hanno risposto.

I due hanno cominciato immediatamente ad aiutarli a staccare i pensili della cucina, a sradicare i tubi dello scaldabagno, i rubinetti, il piano della doccia, lo specchio, correndo anche loro su e giù per le scale, nella casa in silenzio, addormentata, spenzolandosi dalla finestra col rotolo del materasso da gettare sul camion, ancora bagnato qua e là, profumato.

«Avete dimenticato il termosifone del bagno!» gli ha gridato l’uomo correndogli dietro mentre erano già tutti e due nella cabina del camion, reggendo con tutte e due le mani sopra la testa il calorifero ancora gocciolante d’acqua, mentre il suo cazzo rosso, congestionato, gli ballava tra i due lembi della coperta aperta, nella corsa.

«Ah, sì, butti anche quello sul camion. La ringrazio!» gli ha gridato il traslocatore con la testa fuori dal finestrino abbassato, mentre stava già scaldando il motore.

«E anche il cesto delle mollette per il bucato!» li ha rincorsi la donna, mentre le ruote del camion stavano già cominciando a girare. «E anche la cyclette!»

«Ma noi non abbiamo cyclette!» le ha gridato il traslocatore dal finestrino. «L’avrà presa per sbaglio dalla sua casa!»

«Non importa!» gli ha gridato la donna. «Portate in viaggio anche questa!»

«Allora la butti sul camion!» ha fatto ancora in tempo a gridarle il traslocatore mentre cominciavano già ad allontanarsi da quella casa, sulle loro grandi ruote.

Nello specchietto retrovisore ha visto per un po’ l’uomo e la donna che li salutavano davanti alla casa, tutti e due con un braccio levato, saltando un po’ nell’aria fresca e buia della notte che stava finendo, nello spazio, l’uomo col suo tubo congestionato che sobbalzava, la donna con le sue bianche tette che ballavano sotto la camicia da notte, appena godute, ancora craterizzate. Il camion ha cominciato a spostarsi sempre più velocemente verso il nastro di una strada più grande. Al suo interno Principessa e il traslocatore stanno adesso in silenzio una vicina all’altro, hanno ripreso il viaggio. La luce a poco a poco riprende a salire, i fari del camion galleggiano qua e là nella materia ancora buia ma già un po’ più dolce, scollata. Volano dalle parti quei suoni ancora un po’ scollegati che vanno sempre nell’aria che precede l’alba nei posti dove non siamo mai stati, le forme appena inventate dei segnali. Oltre il parabrezza passano le poltiglie in volo vivente nel magma della luce nuova in trepidazione. Il traslocatore guida tranquillamente, anche la sua Principessa guarda tranquillamente di fronte a sé, coi piedi sopra il cruscotto. Si massaggia di tanto in tanto le palme delle mani, più chiare.

«Sei stanca?» le chiede il traslocatore. «Ti fanno male le mani?»

«No» gli risponde lei, «le mie mani stanno dormendo.»

Lui le mette un braccio attorno alla spalla. Lei entra con gli occhi chiusi nell’incavo della sua ascella. Ci resta dentro così, girata dalla sua parte, raccolta. Gli infila una mano dormiente sotto la cintura, gli cerca il cazzo tranquillo, che prende appena un po’ più di volume nella sua mano dalla palma più chiara. Viaggiano ancora per molto così. Lui ogni tanto si gira per baciarla sopra una tempia, sugli occhi, lei ogni tanto gli accarezza le palle rugose, con la sua mano dormiente, mentre si levano dall’asfalto le sagome di sempre nuovi segnali nella luce appena inventata. Il rumore del motore li fa di tanto in tanto cantare piano, a fior di labbra. La luce sale, addormenta. Sul parabrezza del camion si comincia a stagliare una lontana superficie più chiara, abbagliata.

«Cosa c’è là in fondo?» domanda Principessa tirandosi su di colpo dallo schienale.

«Quello è il mare!» si rende conto improvvisamente il traslocatore tirandosi su a sua volta dallo schienale.

«Il mare?» dice ancora Principessa con gli occhi sbarrati. «Ma allora dove siamo arrivati?»

«Chi lo sa!» ride il traslocatore cominciando ad addentrarsi nelle vie rischiarate di una città di mare.

Il camion si muove sempre più piano nell’intrico delle strade gremite, col suo carico traballante. L’aria è tranquilla, il muso del camion fende tranquillamente la poltiglia di colori e di voci umane e di uccelli che provano le nuove ali per un nuovo volo. Arriva infine in un punto dove la terra finisce e comincia il mare. Si guardano attorno, nel cratere di un porto pieno di bagliori bianchi di navi. Spalancano tutti e due le portiere del camion.

«Dove siamo finiti?» chiede ancora Principessa con gli occhi sbarrati. «Non c’è più niente davanti a noi. Solo il mare.»

Balzano tutti e due a terra. Il traslocatore la prende per la vita e la solleva nell’aria, nello spazio.

«Allora andremo per mare!»

«Che cosa le è successo alla faccia?» domandai a bruciapelo all’account, perché non mi sembrava esattamente la stessa di prima.

«Non lo so che cosa è avvenuto alle mie spalle, quando mi sono voltato» disse l’account assestandosi sulla sua poltroncina per alleviare il peso sulle emorroidi, senza guardarci, senza guardare neanche me, che gli stavo di fronte e gli avevo appena parlato, e mi stavo passando le dita sulla carne protuberante del collo, con la testa gettata all’indietro, mentre gli altri partecipanti al brief continuavano a stare in silenzio, abbracciati, con le zucche contro le zucche, si scambiavano ogni tanto solo rumori acquatici, preverbali. «Non lo so dove è andato, cosa è diventato il cliente. Ho continuato a camminare lungo quel marciapiede, da solo, di notte. Non sapevo neanche se si era fermato alle mie spalle a guardarmi mentre mi allontanavo, con gli occhi dietro quelle due fessure della maschera di porcellana, oppure chissà dove, dietro altri occhi che non avevano neanche bisogno di occhi per dare vita alla catastrofe della visione. La strada era larga, i marciapiedi erano gremiti qua e là di puttane slave, bambine, dalla pelle diafana, i menti appuntiti. Di travestiti con le facce tirate dai lifting, scintillanti qua e là per i piercing. Fantasticavo di avvicinare una di quelle puttane bambine dalle scarpe di due misure più grandi e dagli alti tacchi, senza mutande, oppure uno di quei travestiti, e di incularlo così, a cazzo nudo, coi calzoni abbassati a fisarmonica attorno alle caviglie, in piedi dietro il suo corpo piegato ad angolo retto tra una macchina e l’altra parcheggiata, e un momento prima di venire dentro il suo culo depilato e pieno di muscoli tirare fuori il cazzo dal suo buco spanato e di sparare masturbandomi in piedi sul marciapiede, girato verso la strada, muovendo sempre più forte la mano sulla pelle impiastricciata di merda, e di liberare verso l’asfalto della strada lunghi schizzi midollari, bianchi, shakerati, roventi, mentre il cliente mi stava guardando dal suo punto prospettico di quell’imbuto di strada, se non si era ancora girato, da dietro la sua maschera di porcellana. E intanto di dirgli mentalmente, tanto lui sente tutto, sa tutto: “To’, guarda qui!”. Continuavo a camminare sul marciapiede, senza respirare, estraneo a me stesso. Mi sembrava a tratti, per brevissimi istanti, di vedermi perfettamente dall’esterno mentre camminavo da solo su quella stessa strada, e andavo a capofitto in qualcosa di oltrepassato e accecato, come se la mia visione non riuscisse più a stare dentro se stessa, stesse traslocando da se stessa per stare più indissolubilmente dentro se stessa. Passava ogni tanto qualche raro taxi del turno di notte. Ma non riuscivo nemmeno ad alzare la mano nell’aria per chiamarlo. “Continuerò a camminare così” mi dicevo, “lungo questa strada che non sembra finire, con la schiena girata verso il cliente o verso il punto dove aveva accettato di collocarsi poco fa il mio cliente, come un corpo lanciato alla cieca nello spazio all’inizio della sua orbita sterminata.” Ho cominciato a incrociare qualche strada che riuscivo a riconoscere meglio, dopo un po’, qualche piazza. Ho costeggiato una rotatoria grande, nel vento delle macchine che ci giravano attorno oscurate. Scorgevo appena nella penombra che si allargava dietro i parabrezza i bagliori degli occhi dei loro guidatori arrapati, addormentati. La strada cominciava a salire. Ho continuato a spostarmi sopra una sopraelevata che oltrepassava un groviglio di altre strade che correvano in basso, sulle strade. Respiravo sempre meno, non respiravo quasi, man mano che la strada saliva e l’aria si rarefaceva, mentre le macchine mi sfrecciavano di tanto in tanto dalle parti, suonando all’impazzata quando mi vedevano apparire di colpo al loro fianco su una strada dove non era prevista la presenza di account che si spostavano a piedi, in piena notte. “Chissà dove sarà adesso il cliente?” mi dicevo. “Se sarà ancora là in quel punto a guardarmi mentre tutta la mia persona si solleva enormemente nell’aria col pretesto di questa struttura stradale sopraelevata?” Poi la strada ha cominciato a scendere, a inabissarsi. Si è immessa in altre strade che correvano in basso. Ho cominciato a seguirne una, addentrandomi sempre più in zone che non erano completamente nuove ai miei occhi. Ho continuato a camminare per molto, senza pensare, fino alla mia casa. Era notte fonda. Ho aperto piano il portone, contro la facciata spenta, in silenzio. Ho sentito il rumore della serratura che scattava da qualche parte, da lontano, mentre già spingevo macchinalmente con la spalla l’anta del portone che sprofondava inclinato. Ho fatto qualche passo nell’androne buio, infilato il budello del corridoio che conduceva alla mia scala, senza accendere la luce, con le spalle incassate, senza pensare a niente, senza respirare, come se stessi per entrare da un momento all’altro in qualcosa che mi strappava via da me stesso, mi increava...»

«Perché non ha acceso la luce?» si chiese in quello stesso identico istante il softwarista, solo nella sua casa, di notte, immobile di fronte alle bolle dei video, cercando qualcosa alla cieca in mezzo a tutto quel turbinare di pixel neri e privi di forma, con la tavoletta digitizer che si spostava sotto gli scatti continui della sua mano, come nel vortice ascensionale e pieno di detriti scagliati di un uragano. «Perché proprio adesso si è gettato in quel cono d’ombra che lo sottrae al mio sguardo, a ogni sguardo, spostandosi nel corridoio di quella casa buia sprofondata nel sonno, proprio adesso che le nostre strade, a detta di quel cliente, si devono inevitabilmente incontrare? Eppure lui non conosce il mio indirizzo, nessuno conosce il mio indirizzo, qui dentro, neanche la Musa. Come potrebbe fare a mettersi in contatto con me per portarmi da quel cliente che ha chiesto espressamente e chissà per quale ragione di incontrarmi? Nessuno sa dove sono collocato, qui dentro. Sono sempre io a trovarli!»

Accostò ancora di più la testa a uno dei video, scrutando con gli occhi arrossati per il sonno, in quella melma scura e informe di pixel. Si sentiva solo il rumore dei passi dell’account che si spostavano nel corridoio buio. Solo quegli interruttori con le loro lucine di segnalazione sempre accese palpitavano nel buio qua e là. L’account avanzò ancora un po’, invisibile, a passi lenti, nel magma escrementizio di quella materia magnetizzata. «Come farò a intercettarlo» si chiese il softwarista «se adesso sale anche le scale così, al buio, nella casa sprofondata nel sonno, a quest’ora di notte, e poi apre le porte senza accendere la luce all’interno, facendo scivolare dentro la mano prima di entrare per premere al buio l’interruttore, senza lasciarmi la possibilità di cliccarlo in quel brevissimo istante in cui si staglierà in quella lama di luce, e poi di memorizzarlo, stanarlo...?»

Invece, qualche istante dopo, si sentì il rumore di una mano che faceva scattare qualcosa. Ma non era il tasto di un interruttore, era quello di un ascensore. «È molto stanco» si disse il softwarista, «ha camminato a lungo, non ce la fa a salire le scale a piedi. Vuole solo andare così per un po’, desintonizzato, senza vedere niente, nel buio, cercarsi anche lui uno spazio al di fuori di ogni altro spazio, qui dentro, collocarsi almeno per qualche istante in questo interregno al di fuori dei processi che si sono attivati irresistibilmente, nei quali lui stesso si è gettato così a capofitto. È strano, qui ogni tanto qualcuno o qualcosa si sottrae all’ambito stesso della visione, va a occupare qualche altro spazio che non sono ancora riuscito a intercettare... Ma adesso cosa succede? Mi pare che tutto lo schermo si stia rischiarando come per un bagliore che arriva da qualche parte, dall’alto.»

L’ascensore arrivò a pianterreno. Si sentì lo scatto della cabina che si arrestava. Un istante dopo la mano dell’account spalancò la porta. L’interno della cabina era illuminato intensamente, nel buio, e c’era per di più anche un grande specchio che duplicava la luce. L’account rimase tranquillamente così, per alcuni istanti, immobile nella sua luce, con la testa girata. Il softwarista mosse la mano sulla tavoletta, andò a collocare la freccetta del puntatore sopra la sua figura, prima di fermarsi sul volto, lo cliccò un paio di volte sulla fronte, tra gli occhi, distendendo tutta la sua persona sulla seggiola girevole e allargando finalmente le braccia per uno sbadiglio.

«È fatta!» si disse.

Continuò a seguire l’account che saliva con l’ascensore, guardando direttamente dalla sua parte, tranquillo. Ne approfittò per allungargli un po’ la linea delle sopracciglia, gli infoltì i capelli, gli scolpì meglio la linea del mento, gli angoli della bocca. Quando l’ascensore arrivò al suo piano, lo seguì ancora mentre usciva dalla cabina, e poi entrava nel piccolo appartamento dove viveva da solo, accendendo tranquillamente tutte le luci, si muoveva senza saperlo qua e là nelle sue nuove stanze col suo nuovo volto. Continuò a seguirlo mentre si sfilava la cravatta, con la testa gettata di lato, gli occhi chiusi per la stanchezza, e poi mentre stava chinato sul lavabo del bagno e si passava l’acqua con tutte e due le mani sui suoi nuovi lineamenti appena tagliati.

Il softwarista fece ancora qualche ritocco qua e là, mentre l’account continuava a farsi scorrere l’acqua sul volto, lo rimodellò ancora un po’ mentre i polpastrelli delle sue dita se lo rimodellavano a loro volta sulla maschera vivente dell’acqua che continuava a fluire. Lo seguì ancora mentre si preparava per andare a letto, e poi ancora mentre entrava sotto le coperte dopo avere appoggiato il cellulare sul comodino, vicino alla sveglia. Posizionò il puntatore sul telefonino, un secondo prima che l’account spegnesse la luce. Poi anche la bolla del video ridiventò completamente buia. Il softwarista rimase per un po’ con la mano inerte sopra la tavoletta, senza spostare di un millimetro la freccetta, tranquillo. «Adesso sono rimasto solo qui dentro, in questa casa» pensava, «da quando Pericle e Grazia se ne sono andati chiusi nei loro cascomaschera da combattimento, nelle loro tute da vento. Stanno filando verso la zona nevralgica di questo appuntamento di guerra e di questo sogno, che nessuno sa dove sia, cosa sia, ma verso il quale stiamo irresistibilmente convergendo tutti quanti, qui dentro. Volando sui loro roller, in cima alle loro sbarre fosforescenti, nel vento leggero e crescente che si è levato da un po’ di tempo, qui dentro, che poi non è vento, non sembra neanche vento, non si capisce ancora cos’è, da cosa è prodotto. Mentre i viaggiatori di quella corriera stanno cambiando mezzo di trasporto per continuare il viaggio. Hanno raggiunto un treno fermo in una piccola stazione con le portelle aperte solo per loro, in attesa, camminando per un po’ in fila lungo la linea di un argine basso, quasi a pelo con l’acqua. E gli uomini dalle labbra dipinte sono tranquillamente in attesa affacciati alle finestre del loro piccolo albergo, e la donna che urla sta gettando liturgicamente sempre più indietro la testa, immette ed emette aria, rovescia gli occhi, li chiude, per preparare i polmoni al momento sempre più vicino dell’annuncio, e l’uomo che pesta le merde è tornato ancora una volta accanto a quell’edicola profumata, ondeggiando sulle sue zeppe, mentre la ragazza con le stampelle lo guarda dal rettangolo della sua gabbiola, e quella bambina sta sempre affacciata alla sua finestra, di notte, guarda l’aria che sembra diventare di tanto in tanto più luminosa e più bianca, all’improvviso, senza che si capisca perché, senza nessuna ragione, e il sacerdote sta dormendo castamente abbracciato alla sua donna amputata, stanno tutti e due sognando uno di quei sogni che si possono fare solo alla fine dei sogni, nel punto dove cominciano i sogni.»

Il softwarista non spostò di un millimetro la sua mano che teneva posizionata la freccetta, neanche quando cominciò a sentire il rumore regolare e pesante del respiro dell’account che era piombato improvvisamente nel sonno per la stanchezza. Sbadigliò a sua volta, prima di cliccare nel buio, alla cieca, nel punto dove c’era il telefonino, che cominciò immediatamente a suonare.

L’account accese la luce di colpo, si girò sul fianco, afferrò il cellulare, premette il tasto della ricezione, con gli occhi sbarrati di chi è stato svegliato all’improvviso dopo un brevissimo sonno.

«Mi scusi se la disturbo» disse una voce afona, bassa.

L’account balzò a sedere sul letto.

«No, no, non disturba!» farfugliò con la bocca impastata.

Dall’altra parte ci fu un breve silenzio.

«Che ore sono? Da dove chiama?» chiese ancora l’account, a caso.

«Da dove chiamo...» disse il cliente «è una parola risponderle!»

Ci fu un lungo silenzio.

«È ancora lì?» chiese l’account.

«Ci può giurare!»

E non si poteva dire se stava ridendo oppure no solo perché l’impostazione sonora della sua voce non permetteva che lo si potesse capire.

«L’ho chiamata soltanto» riprese «per ricordarle il nostro appuntamento a tre con quel softwarista.»

«Vuole stringere i tempi?» buttò ancora lì l’account.

«Stringere i tempi?» ripeté il cliente. «Io stringere i tempi?»

Rimase ancora in silenzio per alcuni istanti. Non si capiva se respirava profondamente o rideva.

«Lei usa delle espressioni che mi lasciano, come dite voi, senza fiato. Diciamo, per stare su un terreno più operativo, che vorrei vedervi domani sera, tutti e due, lei e quel softwarista. Non si può più rimandare questo incontro. Lo passi a prendere lei, con la macchina, e me lo porti.»

«Ma io non so il suo indirizzo!»

«Glielo darò io» disse il cliente.

Glielo diede, ripetendolo un paio di volte per sicurezza, con la sua voce afona.

«E dove devo portarlo?» chiese l’account, «dove ci dobbiamo incontrare, stavolta?»

«Non se ne dia pensiero. Glielo farò sapere a suo tempo, mi metterò io in contatto con lei, quando sarete in macchina. Adesso la lascio al suo sonno, a quello che crede ancora il suo sonno.»

La comunicazione si interruppe di colpo. L’account rimase ancora per qualche istante seduto sul letto, con gli occhi sbarrati. Poi si lasciò calare giù, di schianto, di schiena. Rimase ancora per qualche istante così, prima di spegnere di nuovo la luce.

Anche il softwarista spense le bolle dei video, si preparò ad andare a letto a sua volta. Ma prima aprì l’armadio, scelse i vestiti per l’appuntamento del giorno dopo con il cliente, li distese sulla poltroncina ai piedi del letto. Si spogliò, andò a farsi una doccia, tornò in camera, indossò un pigiama pulito, si infilò sotto le coperte, spense la luce, chiuse gli occhi, cominciò a respirare piano, profondamente, senza pensare a niente, prima di scivolare nel suo ultimo sonno prima dell’incontro.

«Insomma!» interruppi. «Quel cliente incontra tutti quanti, qui dentro. Meno che il sottoscritto!»

«Non so cosa farci!» rispose l’account, dall’altro lato del tavolo.

«Ma non le sembra un’enormità che non incontri me, proprio me, a questo punto?»

«L’incontrerà, prima o poi, quando sarà venuto il momento! Ma adesso stia tranquillo. Mi lasci andare avanti.»

L’account e il softwarista incontrano Dio

L’indomani, dopo avere cenato a casa, da solo, con la tuta da jogging per stare più in libertà, ed essermi fatto la barba lentamente, di fronte allo specchio, ho indossato il migliore dei miei vestiti interi, le scarpe. Ho controllato di avere in tasca le chiavi della macchina, il telefonino. Mi sono chiuso la porta alle spalle. Ho cominciato a discendere le scale a piedi, perché non avevo voglia di vedermi a figura intera nello specchio dell’ascensore. In strada, ho camminato per un po’ fino al garage dove tengo la macchina.

Sono entrato, imboccando lo scivolo in discesa che porta nel ventre dell’autosilo, poi l’ascensore per scendere di altri tre piani sotto terra, dove c’è il mio posto macchina. Mi sono avvicinato a una delle file di auto disposte a lisca di pesce. Ho azionato l’apriporte a distanza, suscitando un piccolo verso elettronico nelle viscere dell’auto. Mi è sembrato, per un istante, provenire da una bestia che si facesse beffe del suo padrone simulando obbedienza. Ho afferrato la maniglia, aperto la portiera, ma prima di salire e di sedermi al posto di guida ho sferrato un calcio violento al copertone di una delle ruote davanti, irresistibilmente, non so perché, senza alcuna ragione, negli spazi sotterranei dell’autosilo deserto, solo per farmi venire da piangere.

Ho acceso il motore. Ho cominciato a manovrare la macchina, muovendo dolorosamente il piede sopra il pedale dell’acceleratore. Ho cominciato a risalire uno dopo l’altro i piani dell’autosilo. Ho infilato la scheda magnetizzata nella macchinetta, all’uscita. La sbarra si è alzata. Sono balzato fuori, ho cominciato a guidare con le lacrime agli occhi per il dolore, nelle strade piene di luci sfuocate. Ho raggiunto l’indirizzo del softwarista, in una zona della città dove non ero mai stato. «In che posto fuori mano abita questo softwarista!» mi sono detto. «Eppure è partito da qui il seme che ha dato vita a tutto quanto, qui dentro!» Mi sono avvicinato a un condominio isolato. Credevo di dover faticare a trovare quell’uomo, decifrando i nomi scarabocchiati sui campanelli, e poi di dover aspettare per molto in piedi sotto quel casamento illuminato qua e là, in quella zona semideserta della città. Invece era già in piedi di fronte alla porta, tranquillo, che mi aspettava. Ma non era solo. Al suo fianco c’erano dei grandi scatoloni sigillati con del nastro adesivo per imballaggio, uno sopra l’altro.

Sono sceso dalla macchina, zoppicando un po’ per il dolore.

«Finalmente ci conosciamo!» gli ho detto.

Mi ha dato la mano, come se niente fosse, tranquillo.

«Cos’è quella roba?» gli ho chiesto.

«Ho imballato il computer, quello su cui sto lavorando a quel videogame.»

«Ma perché?»

«Il cliente ha telefonato anche a me!» mi ha risposto soltanto, con gentilezza.

Ho aperto il bagagliaio dell’auto.

«Speriamo che ci stia tutto quanto!» ho borbottato cominciando a caricare uno dopo l’altro gli scatoloni.

«Li posi piano, faccia attenzione!» si preoccupava di tanto in tanto il softwarista, aiutandomi a caricarli. «Queste apparecchiature non bisognerebbe mai spostarle.»

Abbiamo finito di caricare. Ho chiuso il portellone di dietro. Siamo saliti uno vicino all’altro sull’auto. Ci siamo guardati in faccia ancora una volta, per un istante.

«Forza» ho detto avviando il motore, «si parte! Anche se non so ancora per dove. Prenderò una direzione qualsiasi, in attesa che il cellulare cominci a suonare nella mia tasca.»

Ho imboccato una strada, guidando per un po’ a caso, in silenzio, a fianco del nostro donatore di seme e softwarista che taceva a sua volta, stava con la testa girata verso l’asfalto, gli occhi chiusi.

«Dove staremo andando?» ho detto senza girarmi, dopo un po’. «Chissà perché ha chiesto di incontrare anche lei, questa volta?»

Non ha risposto, è arrossito di colpo, mi è parso, guardandolo con la coda dell’occhio. Un istante dopo il cellulare ha cominciato finalmente a squillare nella mia tasca. Me lo sono portato all’orecchio. Era il cliente. Ma non si capiva bene quello che diceva, perché la sua voce era coperta da altre voci e suoni alterati.

«Non capisco niente!» ho gridato.

«Lo so!» ha risposto il cliente.

«Non sento!» ho gridato ancora.

«Qui dove mi trovo c’è il finimondo, è il caso di dire...»

«Ma dov’è adesso? Dove dobbiamo venire?» ho chiesto alzando istintivamente la voce per farmi sentire.

Me l’ha detto, sillabando bene le parole e poi ripetendolo una seconda volta, per sicurezza.

«Ma in quel posto ci sono delle sfilate di moda!» ho esclamato.

«Ha indovinato!» ha detto la voce afona del cliente, mentre saliva dal sottofondo un boato musicale incontrollato, improvviso.

«Ma come faremo a trovarci, in quella bolgia?» ho provato a chiedere ancora.

«Stia tranquillo» mi ha detto, «questo è l’ultimo dei problemi!»

La comunicazione si è interrotta di colpo. Sono rimasto per un po’ con il cellulare incollato all’orecchio, continuando a guidare nelle strade sempre più gremite di luci man mano che ci avvicinavamo al centro della città. Il softwarista ha emesso un sospiro improvviso, tremando, e allora ho capito che durante tutto il tempo della telefonata aveva trattenuto il respiro.

Mi sono girato a guardarlo.

«Tiri pure indietro il sedile!» gli ho detto, perché solo in quel momento mi sono reso conto che teneva le lunghe gambe tutte ripiegate, e il busto e la testa proiettati in avanti contro il vetro del parabrezza. «Non mi ero reso conto che fosse così alto!»

Ha tirato indietro il sedile, ho visto le sue ginocchia abbassarsi un po’ nell’abitacolo della macchina. Poi nessuno dei due ha detto più niente. Abbiamo imboccato una via più grande, incolonnandoci in una fila di auto che sembravano lucidate da poco. Sporgevano dai finestrini pezzi di volti e di braccia disarticolate, mentre guidavo sotto le enormi strutture espositive che attraversavano da parte a parte la strada, e mi incolonnavo nella fila di macchine che entravano a passo d’uomo negli sterminati posteggi a cielo aperto che circondavano i padiglioni.

Ho trovato un posto. Siamo scesi dall’auto. Mi sono girato verso il softwarista.

«Dobbiamo scaricare tutta quella roba?» gli ho chiesto allarmato.

«No, no» mi ha risposto, «non è qui che devo portarla!»

L’ho guardato per un istante, corrugando la fronte, in mezzo al fiume delle persone che si spostavano lentamente verso l’ingresso. Ci siamo incolonnati anche noi. Il piede mi faceva male, zoppicavo.

«Cosa fa? Adesso si mette a zoppicare anche lei?» ha chiesto all’improvviso una voce al mio fianco, afona.

Mi sono girato di scatto: era il cliente. Stava camminando al mio fianco in mezzo alla ressa, tranquillo, con la sua maschera di porcellana, il suo toupet di nylon.

Ci siamo arrestati.

«Finalmente la incontro!» ha detto il cliente rivolgendosi al softwarista, che era rimasto immobile, scontornato, in mezzo alla folla.

Io li guardavo.

«Da questa parte!» ha detto ancora cerimoniosamente il cliente, mettendosi tra noi due e prendendoci sottobraccio. «Ho qui gli inviti.»

Ci siamo diretti verso un secondo ingresso. Veniva da tutte le parti il rumore di quei tacchi filiformi delle signore che facevano cantare la ghiaia, mentre avanzavano impennate sulle ossa dei loro piedi arcuati, deformati.

«Eccoci qui!» ha detto il cliente. «Applaudiremo qualcuna delle collezioni, poi ci andremo a ficcare in una delle salette dei buyer, per stare un po’ in pace.»

«Ma perché ci ha dato appuntamento in un posto così, questa volta» non sono riuscito a impedirmi di domandare, «in mezzo a questo finimondo? Non si riesce neanche a parlare!»

«Non c’è bisogno di parlare, stavolta!» si è limitato a dire.

Una ragazza in parrucca argentata ci ha consegnato il programma. Siamo entrati in uno spazio abbagliato, siamo andati a sederci ai bordi di una passerella a specchio.

«Sì, ma perché proprio qui?» ho insistito, girandomi verso il cliente, che si era seduto in mezzo a noi due.

«Qui nessuno fa caso a questa mia stupida maschera di porcellana» ha risposto.

Le sfilate

La musica è salita di colpo. La passerella a specchio si è illuminata ancora di più, mentre il resto della sala è piombato in penombra. Si indovinavano appena la fila di rotule degli spettatori seduti, le chiazze delle loro mani dalle dita allargate, pronte a scattare improvvisamente nell’applauso. Hanno cominciato ad arrivare le indossatrici, a ondate, in corazzette d’acciaio e cuoio, pantaloni stracciati, cinture a cartucciera. Poi altre ondate dinoccolate, sui tacchi di quindici centimetri di cristallo e acciaio. Le mani nella penombra sono scattate irresistibilmente ad applaudire. È arrivata un’altra ondata, su zeppe di legno laccato che battevano contro il pavimento a specchio della pedana. Capivo che il cliente si girava ogni tanto verso il softwarista, con la scusa di commentare con lui l’ultima collezione durante l’applauso. Non riuscivo a sentire che cosa gli stava dicendo. Mi spingevo un po’ in avanti col gancio della testa e del collo, tutto girato da quella parte. Riuscivo a scorgere solo il softwarista che ascoltava impallidendo, con gli occhi chiusi, e la sua testa vibrava, forse tremava. «Chissà cosa gli starà dicendo» pensavo «che non dice a me, che sono l’account!»

Poi sono arrivate altre ondate in pecari grigio polvere, in boa di ruche, décolleté con cavigliera stretch, cloche turbante in testa, tailleur bouclé rifiniti in pelle oppure gessati con maniche di lupo. Il softwarista si teneva la fronte con una mano, mi è parso, mentre continuava ad ascoltare quello che gli diceva il cliente, con gli occhi chiusi, bianco come uno straccio. Il cliente aveva addirittura posato una mano su quella del softwarista, a un certo punto, mi è parso, come per tranquillizzarlo.

Hanno fatto irruzione altre ondate di indossatrici, in stivali di raso stretch, alla coscia, in cappotti con la redingote alta, i grandi bordi di castorino spitz e la linea svasata – come recitava il programma –, in abito da sera in cannotiglia argento e nero e la fusciacca di pelle black con fibbia scaldamani, in completi di nappa montati a strisce oblique, puntine di metallo usate come borchie sui pantaloni, in abiti graffiti, in cappotti a corolla stretti allo spasimo con la cinta, in sandali con le zeppe di legno, d’acciaio, in pantaloni militari super over alla zuava oppure a vita bassa con profili di pelle fluo di nappa stracciata. Il cliente parlava sempre più fitto, a bassa voce, col softwarista, avvicinandosi con la testa alla testa dell’altro, che oscillava in silenzio impallidendo sempre di più, mentre sulla passerella stavano passando gli scheletri di altre indossatrici dinoccolate e abbagliate. Hanno abbassato improvvisamente le luci, sbalzavano nella penombra le masse dei loro capelli sagomati come cervelli. Le luci sono calate ancora di più, mentre la musica, al contrario, continuava a salire. Nessuno in sala fiatava. Anche il cliente ha smesso di parlottare col softwarista. Ha girato finalmente la chiazza chiara della sua maschera verso la voragine a specchio della passerella in penombra, mentre facevano il loro ingresso un gruppo di indossatrici dal naso fosforescente.

Hanno cominciato ad avanzare nel buio. Si sentiva il vento leggero delle loro vesti che ci passavano davanti nella penombra, si scorgeva solo il bagliore dei loro nasi che galleggiavano al buio. «Hanno tirato su così tanto prima di entrare» mi dicevo confusamente, «che si distingue ancora tutta quella roba bianca all’interno dei loro nasi!» Sono arrivate in fondo alla passerella, sono tornate indietro ripassando davanti a noi. Le loro teste gettate all’indietro erano rischiarate appena nel buio dal bagliore dei loro nasi bucati che si riflettevano sul pavimento a specchio, come quelle cose che si spostano al buio attraverso lo spazio, di notte, con la testa gettata con arroganza all’indietro nella melma del cosmo, nel gelo.

Canto delle indossatrici dal naso pieno di merda

Ci spostiamo al buio, su questa passerella a specchio così sottile che ci sembra di essere delle equilibriste che camminano in piena notte su una lama di luce. Coi nostri pantaloni di pelle nera e pitone grigio, gli stivali in calza d’argento, i bustier di cuoio. Gettiamo indietro le nostre teste nel buio, snodate, avanzando senza fiatare coi nostri nasi ancora pieni di merda fresca appena tirata, negli alberghi, negli appartamenti, fin negli spogliatoi, in mezzo alle altre ragazze che girano in mutandine, e si vede l’osso del pube scheletrizzato e quasi completamente depilato che sbalza sotto il velo trasparente, dietro i paraventi dove le sarte danno gli ultimi ritocchi ai nostri vestiti già indossati, gettandoci a capofitto sopra le piste disegnate da dépliant, carte di credito, che corrono sopra i tavoli, sui pavimenti, una volta, due volte, tre volte, negli stanzini segreti durante i party, ai cocktail, durante le inaugurazioni, rinfreschi, special evening gremiti di top e hairstylist, bianche come la neve, lunghe, sempre più lunghe, passano da una sala all’altra, scendono per le scale, gli scaloni dai soffitti affrescati, in mezzo alle passatoie, imboccano i marciapiedi, le strade, salgono sulle macchine dai finestrini oscurati, sui taxi, le metropolitane, le loro scie luminose corrono attraverso la città, nella notte. Scorgiamo nel buio il bagliore dei nostri nasi bambini foderati di cristalli bianchi, mentre buttiamo avanti le ossa del bacino, le gambe, le braccia, tutti i nostri corpi pieni di fibre nervose semiparalizzate. Il bagliore che filtra dagli astucci dei nostri nasi si riflette contro la striscia di specchio dove posiamo le zeppe dei nostri stivali, vediamo oscillare nel buio le traiettorie orbitali delle nostre cartilagini attraversate da parte a parte dalla luce, come quei corpi che vanno attraverso lo spazio con la loro massa incendiata, trasognata. Perché siamo state messe qui? Perché noi? Perché proprio noi? Perché siamo state scelte proprio noi, questa notte, qui dentro? Fatte marce, imbottite di anfetamine. Eppure noi sappiamo di fronte a chi stiamo sfilando in questo momento, abbiamo coscienza di chi ci sta guardando dai bordi di questa passerella a specchio, nel buio profondo di questa sala. Perché siamo state scelte proprio noi per sfilare di fronte a Dio? Nessuno ci aveva detto niente, quando siamo state chiamate, e abbiamo sentito i nostri cellulari squillare all’improvviso nelle nostre città lontane, al di là degli oceani, delle montagne, e le voci dei nostri agenti comunicarci le date delle sfilate, i termini dei contratti, mentre ci stavamo spostando attraverso prospettive vertiginose di strade, in altri spazi deserti, sui fuoristrada, o stavamo lavando sotto la doccia le nostre fiche infantili rasate o stavamo scopando dopo avere tirato su un po’ di piste, stavamo guardando gli enormi cazzi sproporzionati sparire nelle nostre bocche truccate, nei tagli delle nostre fiche bambine che si aprono in mezzo alle ossa delle nostre gambe, o eravamo con due dita in gola, nel cesso, o stavamo sfilando da un’altra parte del mondo, tra un’uscita e l’altra, mentre ci tagliavamo le unghie dei piedi dipinte o ci stavamo infilando con l’aiuto di un inserviente pantaloni di cristallo, spencer di camoscio verde smeraldo, mantelli di cuoio e metallo, giacche di breitschwanz, scarpe lunari, pantaloni scultura in cuoio metallizzato, con impronte di pneumatico sulla faccia. Nessuno ci ha detto niente di un simile evento. Siamo salite sugli aerei, sui treni, abbiamo riconosciuto tra la massa dei passeggeri le altre indossatrici che convergevano fin qui assieme a noi, per le ossa delle loro facce, le alte stature, le lunghe zampe da locuste griffate che avanzavano su alte zeppe nelle sale degli aeroporti, con gli zaini in spalla, sulle scale mobili dei grandi magazzini, nelle vetture delle metropolitane, nelle discoteche, durante i party, lungo le strade, coi roller ai piedi per distendere i nostri corpi dopo la tensione tremenda delle sfilate, teste scolpite, crani etiopi, pelli bianche, abbagliate, spalle tranciate, come una nuova razza in oscillazione attraverso lo spazio dopo milioni e milioni di anni da quando si è cominciata ad alzare su due sole delle sue grandi zampe pelose, tutta buttata in avanti, ingobbita, quasi a filo con la linea dell’orizzonte, in equilibrio antigravitazionale sopra le nostre zeppe fracassatrici di specchi. Le nostre teste ricollocate si spostano in questo nuovo spazio tagliato. La notte è tutta dentro la notte. Perché ci ha chiamate? Perché ha chiamato proprio noi, le più scentrate, le più sbarellate? Perché ha messo gli occhi proprio su di noi, ha voluto dare uno spazio anche a noi in questo nuovo spazio in cataclisma, in esordio?

Le modelle sono uscite. Le luci si sono alzate.

«Qui fra un po’ ci sarà un megaparty» ha sillabato il cliente nel boato musicale, mentre scattava da tutte le parti un nuovo applauso.

L’ho guardato. Ho guardato anche il softwarista, che stava ancora con gli occhi sbarrati, pallido in volto, stremato.

«Usciamo di qui» ho provato a dire, «andiamo in una di quelle salette dei buyer!»

Ci siamo fatti largo in mezzo alla calca, tutti e tre, prendendoci macchinalmente la mano per non venire divisi dalle ondate di folla, mi è parso persino, a un certo punto.

Abbiamo raggiunto una porticina tagliata nella parete, l’abbiamo oltrepassata. E sembrava, dal silenzio improvviso in cui siamo piombati un istante dopo, di essere penetrati in una bolla insonorizzata.

Ci siamo guardati attorno. C’erano solo un paio di signorine che stavano mandando delle e-mail, in un angolo della piccola sala felpata.

Eravamo tutti e tre in piedi. Il softwarista aveva ancora gli occhi sbarrati, non parlava.

«Ecco! Noi siamo qui» ho detto al cliente, per rompere quel tremendo silenzio, «ho portato con me anche il softwarista, come mi aveva chiesto. Adesso può parlare. Cosa voleva dirci?»

Il cliente ha scosso la testa, così forte che la sua maschera si è sfuocata per un istante, mi è parso.

«L’incontro è già avvenuto» ha detto solo il cliente, «ho già avuto modo di dire al softwarista tutto quello che dovevo dirgli.»

L’ho guardato con gli occhi sbarrati.

«Ma io devo sapere! Sono io l’account di questa campagna!»

«Avremo modo di rivederci!» ha detto solo la voce del cliente, afona.

Il softwarista continuava a tacere.

La maschera del cliente ha fatto un piccolo inchino, per congedarci.

Gli abbiamo girato la schiena, abbiamo cominciato a camminare verso la porticina, in silenzio, appaiati. Ma alcuni secondi dopo abbiamo sentito che la sua voce aveva ricominciato improvvisamente a parlare, alle nostre spalle.

Ci siamo girati.

«Perché io non posso smettere di vedere?» stava dicendo il cliente, con un tono di voce per la prima volta più alto. «Perché sono il solo a non poter interrompere la visione, qui dentro?»

Siamo rimasti impietriti, io e il softwarista, anche perché il cliente non aveva ancora finito di parlare: «Perché non ho anch’io quei due spilli che si possono conficcare in due microscopici punti della polpa del mondo coi quali credete di vedere il mondo?».

«Io ho rotto tutti i ponti, qui dentro» gli ho ribattuto quasi con le lacrime agli occhi, «mi sono gettato nel rischio di questa campagna senza guardarmi indietro, senza chiedere niente in cambio!»

Le due signorine che stavano mandando e-mail si sono girate a guardare.

«Che cosa mi è stato messo, quella notte, dentro la testa?» ho gridato ancora.

Il cliente mi è venuto vicino, mi ha accarezzato improvvisamente la nuca.

«Io non posso dirle niente, non posso parlare con lei» mi ha risposto, «lei non è la stessa persona con la quale ho avuto a che fare finora.»

Sono rimasto impietrito.

«Andiamocene via di qui» mi ha sussurrato il softwarista. «Non si disperi così. Non serve a niente.»

Mi ha preso per un braccio, mi ha accompagnato con dolcezza verso la porta.

Non mi sono girato indietro, siamo usciti senza sapere cosa stava avvenendo alle nostre spalle, se il cliente ci stava guardando, se c’era ancora, se c’erano ancora quelle due signorine che mandavano e-mail chissà a chi, se c’erano davvero delle signorine che mandavano e-mail. «Chi saranno state in realtà quelle due puttane?» ho pensato con rabbia, mentre il softwarista mi conduceva fuori dalla ressa delle sfilate. «Cosa ci saranno state a fare per tutto il tempo quelle due puttane, là dentro? Cosa saranno diventate adesso?»

Siamo usciti da quella bolgia attraverso le fiumane delle indossatrici e degli invitati che si erano confusi liberamente tra loro, e le sagome attillate dei camerieri che giravano già in mezzo alla folla coi cabaret pieni di calici. Abbiamo trovato la mia macchina, siamo saliti. Ho acceso il motore, ingranando la retromarcia e sgommando con forza per sganciarci dalla massa delle altre macchine parcheggiate. Siamo usciti. Guidavo senza quasi badare alle strade, in silenzio. Anche il softwarista stava seduto in silenzio, al mio fianco.

«Che cosa le ha detto il cliente?» non ho potuto impedirmi di domandargli dopo un po’, esasperato.

Non ha risposto.

«Cosa le ha detto per tutto il tempo, durante le sfilate?»

È rimasto ancora in silenzio.

«Le ha detto come andrà a finire?» ho incalzato. «Le ha detto per caso come andrà a finire tutto quanto, qui dentro?»

Continuava a restare in silenzio.

«Io la guardavo con la coda dell’occhio, nel buio, che cosa crede? Venendo avanti con tutta la testa, il collo, le spalle, come un gancio... Che cosa le ha detto, che è impallidito di colpo?»

Il softwarista continuava a tacere.

«Adesso so quello che farò» ha risposto soltanto, d’un tratto.

Ho continuato a guidare, nella città di notte, in silenzio, tra le sue luci.

«E adesso dove bisogna portarla tutta quella roba che abbiamo messo nel bagagliaio?» ho chiesto ancora girandomi di scatto verso il softwarista.

Me l’ha detto.

«Ma non l’ha detto a noi!» interruppi di colpo, alzando la voce, al fianco della mia Musa che stava masticando un chewing-gum con la testa appoggiata alla mia spalla, gli occhi chiusi. «E non sappiamo neanche che cosa ha detto per tutto il tempo il cliente al nostro softwarista. Se mai lo sapremo! E – quel che è peggio – non lo so neanch’io! Ne sono tenuto all’oscuro anch’io, persino io, che ho avuto l’ardire di prendere in mano tutto questo deragliamento. Io resto qui, al mio posto, mentre sempre nuove forze pretendono di scardinarmi dal baricentro rovente di questo viaggio senza ritorno che è cominciato, che non è mai finito. E quel softwarista dove cazzo sta andando? Cosa ci fa con tutta quella attrezzatura stivata nel bagagliaio della sua macchina? Io credevo che l’avrebbe scaricata là, che l’avrebbe portata in quella saletta, che avrebbe attaccato le molte spine e che si sarebbe messo a lavorare sul videogame assieme al cliente, tutti e due vicini, con le due testine appaiate, la testina e la mascherina, lavorando sui confini, i destini, in quel piccolo ruolo cui è ormai condannato quello là, quel cliente, da quando l’abbiamo tirato qui dentro, a forza di non riuscire a stare dentro se stesso mentre si espande esplosivamente dentro se stesso, con le loro piccole dita su quei loro piccoli tasti del cazzo, i loro piccoli mouse, le loro tavolette del cazzo. Che grande cosa essere cresciuto a tal punto da essere costretto a quel piccolo ruolo del cazzo! Io invece qui, in cominciamento, in tormento, vicino alla carne della mia Musa strappata con le unghie e coi denti all’intero universo. Perché non l’ha scaricata là? Da quanto tempo state viaggiando? In quale tempo e in quale spazio vi state spostando, qui dentro? Dove la sta portando quel softwarista in questo momento?»

«Qui!» disse l’account, dall’altra parte del tavolo.

«Qui?»

«Sì, qui!»

«Qui? Il softwarista sta arrivando qui?»

«Sì. D’ora in avanti parteciperà anche lui a questo brief!»

«Ma non era notte? Per quanto tempo avete viaggiato? Dove siete stati? E poi non eravate in due in quella macchina?»

«Sì, stiamo arrivando tutti e due qui!»

«Ma lei è già qui!»

Mi guardò con gli occhi sbarrati.

«Cosa vorrebbe dire?»

Mi alzai di colpo. Anche tutti gli altri si alzarono da sedere di colpo, l’account, la mia Musa, il copy e l’art, la ragazza con l’acne e quella non c’è assorbente che tenga, perché si sentivano dei rumori forti venire dal corridoio, suoni di passi e cigolare di piccole ruote che si avvicinavano sempre più alla porta dell’ufficio dove si stava tenendo il brief.

Stavamo tutti in piedi, a corolla, incollati al muro.

La porta si aprì.

Tutte le teste erano girate da quella parte.

Spingendo di fronte a sé un carrello a ruote a due piani carico di apparecchiature elettroniche, video, memorie e grovigli di cavi, fecero il loro ingresso il softwarista e l’account.

Il softwarista e l’altro account arrivano al brief

Si sentì qualcosa cadere a terra, forse un portacenere colpito da una mano sul piano riflettente del tavolo.

Guardavamo tutti i due che erano entrati, con le teste puntate.

«Benvenuti, ragazzi!» buttò lì la mia Musa continuando a masticare la cicca, mentre allungava la mano per fare una carezza al softwarista.

Guardai l’account, in piedi dall’altra parte del tavolo, annichilito, che fissava il softwarista e l’altro account, con gli occhi fuori dalla testa, impietrito.

«Ha visto?» gli dissi con un sorriso, facendogli un piccolo inchino.

Il softwarista e l’altro account stavano ancora fermi in piedi vicino alla porta, senza riuscire a parlare per l’emozione.

«Vieni qui! Siediti vicino a me!» disse la Musa al softwarista, per rompere il ghiaccio. «Da una parte il mio Gatto, dall’altra il mio donatore di seme e mio softwarista!»

Il copy e l’art stavano con le teste girate da due parti opposte, uno guardava l’account, l’altro l’altro account, che guardava a sua volta, con gli occhi sbarrati, l’account.

Le due ragazze invece non avevano occhi che per il softwarista.

«D’accordo, d’accordo!» provai a dire. «Mi rendo conto di quello che è successo qui dentro. Ma adesso cerchiamo tutti quanti di riprenderci dalla sorpresa. Il brief continua! Anzi, è appena all’inizio. Non sballate per così poco. Ne vedremo ben altre, qui dentro!»

Il softwarista cominciò a sollevare dal carrello le sue apparecchiature. Depose sul tavolo video, memorie, cominciò a inserire le prese in un distributore di corrente, srotolò il cavo, lo andò a collegare a un’altra presa più grande che c’era al lato opposto della sala.

«Bene, bene!» gli dissi alla fine. «Si venga a sedere qui, vicino a me e alla mia Musa. Così, mentre il brief prosegue, potremo buttare l’occhio di tanto in tanto sui video, vedere in tempo reale come vanno avanti questa campagna pubblicitaria e il suo videogame.»

«E poi fra un po’ cominceranno anche ad arrivare le prime offerte!» aprì bocca per la prima volta l’altro account.

L’account lo guardava senza fiatare, non staccava gli occhi dal suo volto, dalla sua testa.

«Vada a prendere posto anche lei» esortai l’altro account, «là in fondo, vicino all’account!»

L’altro account andò a sedersi vicino all’account.

Tutti gli occhi si girarono sulle due facce quasi identiche dell’account e dell’altro account appaiati.

Non si sentiva volare una mosca, nessuno fiatava.

L’account stava a testa bassa. L’altro account si passava le dita sulle linee delle sopracciglia da poco allungate, sul mento, sugli angoli della bocca appena scolpiti, sui capelli gettati all’indietro, infoltiti.

«Oh, cazzo» balbettò il copy. «I miei storyboard!»

«Oh, cazzo! Le mie icone!» balbettò l’art.

Ci fu un lungo silenzio.

«Sempre meglio due che uno!» esclamò la mia Musa, passandosi oscenamente la lingua sulle labbra, per alleggerire un po’ la tensione.

L’account e l’altro account stavano ancora seduti uno vicino all’altro, impalati.

«Be’, non potete andare avanti per tutto il tempo così!» dissi agli account. «Dovete farvene una ragione! Interloquire tra voi! Si sapeva che questa campagna avrebbe portato il ruolo di account a un punto di divaricazione mai visto prima... Non l’aveva detto proprio lei?»

L’account e l’altro account girarono per un istante le teste l’uno verso l’altro.

«Bene! Anche questa è fatta! Si riparte! Si parte!» dissi girandomi verso il softwarista, che stava finendo di prepararsi, e si sentivano nel generale silenzio gli impercettibili rumori dei file che si stavano aprendo.

«E io?» disse all’improvviso la ragazza con l’acne, quasi gridando. «Cosa ci sto a fare, qui dentro? Quando verrà il mio momento?»

Ci girammo tutti dalla sua parte.

«Sì, perché tutti quanti l’hanno avuto» disse ancora, «ma io no!»

Si era impennata sulla schiena, tremava.

«Lei? Adesso ci si mette anche lei?» riaprì finalmente bocca l’account, esasperato. «Ma lei chi è? Da dove salta fuori? Non si sa neanche cosa ci sta a fare, qui dentro, a quale titolo partecipa a questo brief! Solo perché ha preso parte a qualche ammucchiata con qualcuno dei presenti! A un certo punto è scomparsa e poi è ricomparsa. Cos’era successo? Dov’era stata? Non è stato detto, nessuno l’ha capito, qui dentro! Abbiamo visto il nostro copy abbattuto per la sua improvvisa scomparsa e un secondo dopo allegro perché è ricomparsa. Tutto qui! E sulla base di questo lei si alza in piedi, pretende! Ma si rende conto di quello che è successo a me solo pochi istanti fa?»

Si interruppe di colpo. Teneva gli occhi bassi, respirava male.

La ragazza con l’acne si alzò in piedi di colpo. Tremava.

«Lei non sa attraverso quali vicende sono passata, dopo che ho finito di interpretare quel movie pubblicitario su un prodotto antiacne! Lei non riesce neanche lontanamente a immaginare attraverso cosa il mio giovane corpo è dovuto passare per poter arrivare fin qui!»

Anche il copy si alzò in piedi, al suo fianco, le aveva preso la mano nella sua, che tremava.

La Musa si era inclinata un po’ da una parte, le aveva toccato incontrollabilmente una spalla, con la mano.

«Bene, allora...» dissi come se niente fosse «era ora! Sentiamo!»

L’altro account si agitò sulla sua poltroncina. Si raschiò la gola, prima di mettere nuovamente alla prova la sua nuova voce.

«E io» disse alzando per la prima volta lo sguardo su di me, «a quale scopo sono stato messo qui?»

L’ho fermato immediatamente, con gli occhi.

«È tutto dentro, qui dentro! Non c’è niente che non sia dentro. Che campagna sarebbe se non riuscisse a portare a moltiplicazione ogni cosa, qui dentro? Quale misero prezzo attribuisce mai a questa transazione e a questo pianeta? Noi siamo qui per andare in pezzi, per sconfinare!»

Ci fu un lungo silenzio. Anche la mano del softwarista aveva smesso di digitare.

«Forza, ragazzi!» ho esortato ancora, girandomi verso la ragazza con l’acne e il suo copy.

«Io adesso sono qui» disse la ragazza con l’acne, «faccio parte del team che sta preparando le condizioni per questa transazione epocale, con la mia faccia massacrata da comedoni e pustole acneiche al limite delle lesioni da lebbra lepromatosa. Eppure per arrivare qui, anch’io proiettata verso la voragine di questo salto nel vuoto o di questo varco, in attesa della mia parte di guarigione, di salvazione, voi non avete idea attraverso quali prove sono passata!»

«Oh, sì! Io lo so! Lo so bene!» disse il copy stringendole ancora di più la mano, in piedi vicino a lei, mentre anche l’art aveva preso a sua volta la mano della sua ragazza non c’è assorbente che tenga, simmetricamente.

«Stia tranquilla» disse alla ragazza con l’acne, con dolcezza, la Musa, «si sieda. Ci racconti che cosa è successo. Noi siamo qui, attorno a lei. L’ascoltiamo.»

La ragazza con l’acne stava ancora in piedi, col suo bel corpo eretto sormontato dalla maschera lebbrosa del volto.

«Forza» le disse ancora la Musa, «il suo momento è arrivato!»

La ragazza si sedette piano, in silenzio. Ci guardò tutti per un istante, girando i suoi occhi lucenti.

Non si sentiva volare una mosca.

«Avevo appena finito quel movie» cominciò a dire la ragazza con l’acne, «erano già apparse le gigantografie del mio volto sopra i ponteggi dei palazzi in ristrutturazione, nelle grandi rotatorie che portano alle autostrade. Il mio telefono continuava a squillare. Mediatori, agenzie di fotomodelle, tutti mi volevano per i loro film, le loro sfilate. Servizi fotografici, con gli abiti, nuda, per le riviste. Perché io sono molto bella senza i vestiti, bella come voi non riuscite neanche a immaginare...»

«Oh, sì, vi assicuro!» interloquì il copy. «Bella da togliere il fiato!»

«Lo possiamo confermare anche noi!» interloquirono l’art e la ragazza non c’è assorbente che tenga.

«Non ci credete? Volete vedere?» disse ancora la ragazza con l’acne gettando indietro la testa con aria di sfida.

Nessuno aprì bocca.

«Mi cercavano non solo per i soliti film porno» continuò la ragazza, «perché volevano utilizzare il tremendo contrasto tra il mio bel corpo con la sua pelle liscia, perfetta e la maschera della mia faccia, volevano far vedere gli schizzi di sperma che andavano a incollarsi alla cancrena del volto.»

Stavano tutti girati verso di lei, anche l’account e l’altro account, con le due teste appaiate.

«Oh, sì, io li conosco quelli!» esclamò la ragazza non c’è assorbente che tenga. «Lo so cosa sono capaci di combinare quando gli frulla!»

La ragazza con l’acne

Ma mi cercavano anche per altre cose, servizi di moda per le riviste, sfilate. C’era uno stilista, in particolare, di nome Lupus, che mi telefonava tre volte al giorno, mi assediava. Mi faceva proposte economiche da capogiro, mi supplicava di non perdere l’occasione, perché stava lavorando a una nuova linea, a una nuova dimensione della moda, addirittura, diceva, e aveva bisogno di una ragazza come me, che aveva il coraggio di mostrare il suo vero volto così com’è, in mezzo a tutte quelle faccine lisce che si spostano senza fare attrito attraverso lo spazio, senza coagulo di materia, sulle quali la luce scivola via senza lasciare traccia.

Alla fine ho ceduto. Ho accettato di incontrarlo.

«Perché si chiama Lupus?» gli ho chiesto prima di congedarmi. «È il suo nome d’arte?»

«Perché sono affetto da lupus» ha risposto dopo un breve silenzio.

La mattina dopo sono andata all’appuntamento. Ho suonato al cancello di ferro. Mi hanno aperto. «Come mi manca in questo momento il mio copy!» pensavo cominciando a salire le scale. «Lui mi avrebbe messo una mano sul culo, me lo avrebbe accarezzato attraverso il velo della gonna leggera, mi avrebbe toccato spudoratamente il buco andandoci dentro col dito, per portarmi fortuna.» Intanto sentivo il rumore di molte unghie che battevano contro i parquet lucidati a specchio.

Mi sono arrestata, irrigidita per lo spavento, perché avevano fatto irruzione un gran numero di cani altissimi, enormi, che correvano a branco verso di me. Ho sentito uno strano rumore di passi umani che venivano avanti da qualche stanza lontana.

«Non abbia paura!» ha gridato una voce stridula, esausta. «Non le faranno del male. Ci sono qua io.»

I cani intanto mi si erano stretti attorno dimenando le code, abbaiando. Qualcuno si era rizzato sulle zampe di dietro per appoggiare quelle davanti al mio corpo. Le loro teste superavano in altezza la mia testa, gli stracci delle loro lingue bagnate sventolavano di fronte ai miei occhi.

«Buoni, buoni!» ha detto l’uomo schioccando le dita, mentre svoltava per l’ultima porta e mi veniva incontro.

L’ho guardato. Indossava una calzamaglia nera, scarpe bianche da ballerino, un gilet di pelo nero, lungo, di cane. Teneva in mano un bastone bianco per ciechi.

«Non tragga conclusioni affrettate» ha riso con quella voce stridula, acuta. «Lo porto solo per vezzo. Non sono cieco.»

Ho provato ad allungare la mano, ma non me l’ha presa.

Ho alzato per la prima volta gli occhi direttamente sul suo volto: era tutto devastato, ulcerato.

Ci siamo guardati per qualche istante, faccia a faccia, negli occhi.

«Venga, venga» mi ha detto. «Come sono contento che sia venuta qui! L’aspettavo.»

Mi ha fatto strada camminando verso una sala grande, mentre i cani camminavano a branco alle nostre spalle e si slanciavano ogni tanto in avanti scivolando e sbandando con le loro unghie sui parquet lucidati a specchio.

«Cara amica...» ha cominciato a dire Lupus quando ci siamo seduti uno di fronte all’altra, al centro dell’anello dei cani in respirazione «sorella... lei adesso capisce perché l’ho così tenacemente voluta! Lei con la bella cancrena del suo volto, io col mio volto devastato da questa affezione tubercolare, lupomi cicatrizzati o ulcerati che mi stanno distruggendo le parti molli di naso, palpebre, orecchie, hanno ormai invaso persino i miei arti, le mani... Le guardi! È per questo che poco fa non le ho dato la mano. Sta rendendo sempre più difficile il mio lavoro di stilista che cerca di abbattere la barriera che tiene imprigionati gli stilisti della moda da migliaia di anni, da sempre. Un’infezione penetrata inizialmente attraverso impercettibili lesioni cutanee o propagata da linfoghiandole infette contro la quale ogni terapia sembra inerme: antibiotici, irradiazioni, diatermocoagulazioni... Proprio adesso... Mi sento a pezzi, mi assalgono febbri, astenie, sudorazioni. La mia voce sta cambiando, segno che anche trachea ed esofago sono invasi. Proprio adesso che sto preparando questo nuovo assalto al concetto stesso di stile, di moda. Io non sono uno di quegli stupidi sarti asserviti che si limitano a fare vestiti, io lavoro sulla pelle, io incido direttamente su questa misera idea di diaframma tra il nostro corpo e il resto del cosmo...»

Si è interrotto per qualche istante. Respirava a fatica, esausto. Anche i cani avevano smesso di abbaiare, muovevano da tutte le parti gli archi delle schiene, le code.

«Si spogli!» mi ha detto improvvisamente.

Mi sono irrigidita un po’.

«Che cosa ha capito?» ha sorriso. «Stia tranquilla. Ho rotto i ponti con la mia specie. Io mi accoppio solo coi miei animali.»

Ho esitato ancora un po’. Mi guardava.

«Come può pretendere di fare l’indossatrice, se ha problemi a spogliarsi?» mi ha detto ancora. «Io devo sapere com’è il resto del suo corpo!»

L’ho guardato negli occhi, un secondo prima di alzarmi, e di lasciar cadere uno dopo l’altro di fronte a lui i miei vestiti, la biancheria, e di rimanere così, ritta in piedi, nuda, sulle mie alte scarpe viola, coi tacchi.

«Che meraviglia!» ha mormorato Lupus. «Lo immaginavo.»

Anche i cani erano rimasti immobili attorno al mio corpo nudo, ad anello. Uggiolavano un po’, facendo oscillare le grosse teste pesanti, le lingue.

Un istante dopo Lupus ha sollevato il suo bastone per ciechi verso di me. Sentivo la sua punta fredda sfiorarmi la linea delle spalle, dei fianchi, la curva delle tette, le labbra della fica, discretamente, senza spingere.

«Che meraviglia!» ha ripetuto a bassa voce. «Un simile contrasto tra lo splendore del suo corpo intatto e la cancrena del volto! Sembra che sia stata posta sopra il suo corpo un’altra testa ancora allo stato fluido, esplosivo, o che al contrario sia il resto del suo corpo a essere stato rinchiuso in una guaina di pelle liscia, aderente, perfetta. Ma quale delle due parti è più bella?»

Mi ha fatto un piccolo inchino, con la sola testa, socchiudendo gli occhi per dirmi che mi potevo rivestire.

Mi sono infilata piano la biancheria, i vestiti, le calze.

«Bene» ha detto Lupus, quando mi sono seduta di nuovo di fronte a lui, «adesso possiamo cominciare a parlare.»

Tutti i cani si erano accucciati di colpo attorno alle poltrone di pelle dove eravamo seduti. Io guardavo dall’alto le loro groppe lucide, lisce, dal pelo rasato, il disegno in rilievo delle spine dorsali e delle costole che si muovevano un po’ per la respirazione. Ce n’era uno leggermente più piccolo degli altri, ma dal pelo più lungo, spettinato, selvaggio, che mi guardava.

«Che cane è quello?» ho domandato a Lupus.

«Quello non è un cane, è un lupo!» ha risposto.

Siamo rimasti in silenzio, mentre Lupus sfiorava con la punta del suo bastone, una dopo l’altra, le groppe dei cani accucciati a branco sul pavimento, e le bestie giravano tutte quante le teste per annusarla.

«Perché usa quel bastone per ciechi, se non è cieco?» gli ho chiesto.

«Piace ai cani» ha risposto, «lo vedono bene anche al buio, mentre li scopo con quello, maschi e femmine, quando non posso accontentarli tutti di persona.»

Mi guardava, intanto, tranquillamente.

«Spero almeno che lo lavi, alla fine!» gli ho detto con una smorfia.

L’ho visto ridere a lungo, per la prima volta, buttando indietro la testa, senza quasi emettere suoni.

«Lei mi piace!» ha detto infine, asciugandosi macchinalmente le lacrime con la mano. «Eccoci qui, finalmente, uno di fronte all’altra, io e lei, la mia sorella cosmica che stavo cercando. Adesso possiamo cominciare davvero a parlare. Cercherò di cominciare a spiegarle che cosa ho in mente, perché l’ho voluta tra noi... Io non sono un sarto, un salsicciaio, come le ho detto, uno che taglia e cuce insaccati separati artificialmente dal resto dell’aria, dello spazio. Non ho un’idea così infima del nostro rapporto col magma che ci contiene, non lavoro sui diaframmi, le intercapedini. Io sono piombato come un meteorite sullo stupido mondo della moda per abbattere le barriere piuttosto che per crearne. Io sono fuori dai piccoli cicli che operano sugli stupidi innesti e sui processi inerti di identificazione e differenziazione, da questo piccolo, stupido gioco sincopato di moda e morte. Io non sfoglio riviste con le fotografie delle piccole deiezioni dei sarti, libri d’arte con gli stupidi spurghi sartoriali dei corpi dipinti dagli artisti. Io non vado in giro per strada a sbirciare le persone collocate nell’asfissia stratificata di materiali inerti immagazzinati, i poveri travestimenti che ricoprono organi genitali, apparati digerenti, escretori e che portano su di sé tutto il peso della macchina della moda e della morte, la miriade dei viventi inscatolati nei loro travestimenti, per strada, nei consigli di amministrazione, negli uffici dei progettisti, sui set, dietro le vetrine dove sono esposti i risultati finali di questo misero rapporto tra la nostra specie e il resto del cosmo, rivestimenti flosci, povere armature molli per indossatori lombrichi. No, no, cara amica, sorella, non guardi me in questo momento, non guardi come sono vestito. La mia calzamaglia, le mie scarpe da ballerino annodate alle caviglie e ai polpacci coi nastri... Ero un ballerino, una volta! Ma si nasconde ben altro dietro questo travestimento. Io ho fatto davvero i conti con tutto quello che sta succedendo, qui dentro, ne ho tratto fino in fondo le conclusioni. Io sono parte di questa tensione e di questo annuncio, porterò la mia persona e la mia figura fin dentro la polpa increata di questo annuncio.»

Si è alzato in piedi. Ha mosso alcuni passi avanti e indietro attraverso la sala, posando la punta delle sue scarpette da ballerino nei varchi aperti tra le masse dei cani in respirazione. Ha dato un calcio a un paio di loro, con la punta di ferro, per farli spostare. Si è levato un guaito.

Ha continuato a spostarsi nella zona libera della stanza, nervosamente, con rumori secchi, camminando sopra le punte, prima di tornare a sedersi di fronte a me.

«Ah...» l’ho sentito sospirare d’un tratto.

Uno dei nastri gli si era allentato, quando aveva colpito i cani. L’ha slacciato del tutto, ha ricominciato ad annodarlo con cura, giro dopo giro, rifacendo la legatura attorno alla gamba.

«Sto morendo» ha detto alla fine, «io sono un guerriero che sta morendo.»

Ci siamo guardati negli occhi, uno di fronte all’altra, attraverso le maschere dei nostri volti ulcerati.

«Ma prima voglio compiere questo gesto finale» ha ripreso, «noi non siamo come gli altri. Per noi è immediatamente evidente quello che gli altri non vogliono vedere: che noi non indossiamo vestiti, che i nostri rivestimenti non sono quegli stupidi diaframmi finti dei vestiti che un debosciato couturier disegna in uno stato di similtrance, in mezzo ai suoi divanetti, alle sue ottomane, nella fucina del suo atelier, tra sartine piene di piercing inginocchiate sopra il parquet, le première in doppiopetto e scarpe da football. Noi indossiamo il sangue, il fuoco! Noi stiamo coi nostri corpi direttamente dentro questo sangue e questo fuoco. Noi stiamo dentro questo fuoco per tutto il tempo che ci vorrà per bruciare. Sui nostri volti è passata la carezza del fuoco!»

I cani stavano adesso in assoluto silenzio, con le grosse teste adagiate sul pavimento. Ci guardavano con gli occhi rotondi, dal basso.

«Noi siamo i soli ad avere la responsabilità di un volto, qui dentro!» ha detto passandosi una mano sulla fronte ulcerata. «In noi la materia organica si affaccia direttamente al resto del cosmo. Non abbiamo accettato di mascherare i nostri volti dietro quella povera calza di nylon della cute. I nostri volti sono usciti dalle intelaiature dei volti, si sono fatti avanti.»

C’era una leggera musica in sottofondo, così leggera che l’avevo scambiata fino a quel momento per l’ansimare silenzioso dei cani.

«Io sono qui» gli ho detto improvvisamente, «ho risposto alla sua chiamata. Sono venuta. Che cosa vuole da me?»

Ha accavallato una gamba, si è massaggiato una caviglia passandosi la mano ulcerata sopra i nastri intrecciati delle scarpette.

«Non abbia fretta. C’è tempo» ha risposto con un filo di voce stridula, esausta, «le dirò un po’ alla volta che cosa sto preparando. Le farò conoscere anche le altre...»

«Le altre?»

«Tutte ragazze come lei, come noi... Le vedrà! Ma lei è la prima. Sarà la prima tra le mie indossatrici!»

Un cane si era alzato, aveva fatto un giro attraverso la sala slittando un po’ sulle unghie. Era tornato ad accovacciarsi vicino a Lupus, aveva sbadigliato prima di appoggiare la sua grossa testa su una delle sue scarpette.

«Lei è dei nostri!» ha sorriso Lupus. «Le preparerò un contratto all’altezza di quello che mi aspetto da lei. Le farò conoscere anche gli altri miei collaboratori. Ma ci tenevo comunque a vederla io a tu per tu, la prima volta. Dimentichi tutto quello che sa del mestiere di indossatrice e fotomodella, quelle piccole cose che forse ha immaginato, fantasticato. Noi andremo infinitamente più in là. Noi abbatteremo la barriera tra il nostro corpo e lo spazio, tra una parvenza di specie e l’altra. Faremo saltare il piccolo gioco dei diaframmi, dei movimenti. Andremo verso una concentrazione totale che sfonderà ciò che si pone tra tutto quanto esiste e l’annuncio. Non le dico altro, per ora. Il resto a suo tempo.»

Si è alzato all’improvviso. Anche i cani si sono sollevati da tutte le parti, di scatto. Tutte le loro groppe si sono alzate improvvisamente nell’aria, da ogni parte.

«Le faccio strada, sorella» ha detto continuando a camminare davanti a me verso l’uscita della sala, e interrompeva di tanto in tanto i suoi passi normali per fare qualche passo sopra le punte.

Arrivati all’imbocco dello scalone, ci siamo fermati tutti e due, faccia a faccia, ci siamo guardati negli occhi.

«Buona fortuna, sorella!» mi ha detto.

Un istante dopo ha passato la punta del bastone per ciechi lungo tutto il filo delle mie belle labbra, con dolcezza.

Mi sono girata, rabbrividendo. Ho cominciato a discendere le larghe scale di marmo e cuoio, e intanto sentivo che Lupus mi stava guardando da dietro, in piedi sulle punte, con la sua testa ulcerata, in mezzo alla ressa dei cani a quattro zampe sul pavimento.

«Quando l’ho rivista era silenziosa, assente» continuò il copy. «“Cosa c’è? Come è andata?” le ho chiesto. Non ha risposto. Eravamo in piedi uno di fronte all’altra, nell’anticamera della mia piccola casa. Mi è venuta vicino, mi ha abbracciato. È rimasta incollata a me per molto, in silenzio, con la guancia contro il mio petto. Ho chiuso la porta alle sue spalle. “Che cosa c’è?” le ho chiesto ancora. “Vieni dentro. Racconta.” Ma non ha aperto bocca. Ha infilato tutte e due le mani sotto la mia felpa, mi ha accarezzato a lungo il torace, la schiena, le anche, andando sotto la cintura elastica dei calzoni, con gli occhi chiusi, assente, come se venisse da un altro mondo. L’ho presa in braccio, l’ho portata così attraverso la casa, fino alla camera da letto.

È rimasta ancora per molto in silenzio. Poi ha aperto bocca.

“Ho bisogno di lavarmi!” mi ha detto.

È andata in bagno. Ho sentito dopo un po’ il rumore dell’acqua della doccia che scrosciava, il suono forte del suo respiro e altri versi che faceva per liberarsi il naso, mentre stava con la testa gettata all’indietro sotto il getto e l’acqua scorreva sopra la maschera terremotata della sua faccia.

È uscita dal bagno, nuda, camminando sulle sue belle gambe di carne, verso di me, col suo corpo spaccato. L’ho abbracciata, abbiamo sentito per un po’ tra i nostri due corpi incollati l’ingombro caldo delle sue tette e del mio cazzo e delle mie palle, immobili, senza fare nient’altro. Lei stava con gli occhi chiusi, come se non volesse o potesse guardarmi. E anche dopo, mentre scopavamo sul solo materasso buttato per terra, non apriva mai gli occhi per guardarmi. Neanche quando abbiamo cominciato a venire. Stavo un po’ sollevato con la parte superiore del corpo, puntato sui gomiti. Sbatteva da una parte all’altra la testa, vedevo sotto di me la bella cancrena del suo volto trasfigurato dal piacere.

Non si è fatta più viva per un po’ di giorni. La cercavo e non la trovavo. Mi è piombata in casa di nuovo, una notte. Era chiusa in se stessa, silenziosa, ma mi sembrava sconvolta. “Che cosa ti sta succedendo? Dove sei stata?” le ho chiesto. “Sono stata da Lupus!” “Che cosa è successo?” ho provato a incalzarla. Nessuna risposta. “Ho visto il contratto...” ha bisbigliato dopo un po’, a fior di labbra. Si è fermata. Mi ha guardato. Aveva gli occhi persi, sbarrati. Tremava. “Il contratto?” mi sono allarmato. “Che contratto era? L’hai firmato?” “Sì!” mi ha risposto.

È stato il nostro ultimo incontro. Subito dopo è scomparsa. La cercavo e non la trovavo. A casa sua, sul cellulare. “Starà facendo delle sfilate” pensavo, “sarà in trasferta.” Non sapevo dove sbattere la testa. Nessuno che sapesse niente di quel Lupus, nell’ambiente della moda. “Sarà una collezione coperta! Sarà un nome fittizio!” congetturavo. “Non vorrà far filtrare niente prima della presentazione... Ma perché è scomparsa così, senza dirmi niente?” Ero abbattuto.

È proprio in uno di quei giorni che mi avete visto, quella volta, seduto alla mia scrivania, di fronte all’art che aveva invece appena ritrovato la sua ragazza, tutto incerottato, contento...»

Io intanto avevo già rivisto un paio di volte Lupus. Mi aveva fatto conoscere qualcuna delle ragazze. Tutte col volto devastato da macule, acne, eritemi, risipole, zone infettate, aperte. Siamo state convocate per le prime prove. Ma non abbiamo trovato vestiti. «Dove sono i vestiti?» ha provato a domandare qualcuna. Lupus si è preso la testa tra le mani. «I vestiti? Quali vestiti? Ma per chi mi avete preso? Voi non siete dei manichini, e io non sono un sarto. Io non vi ho chiamate per indossare vestiti, per entrare e uscire dalle scatole cinesi dei vestiti, mentre sostenete senza saperlo un peso di 15.500 kg di materiale atmosferico che gravita sulle vostre scatole craniche e sui vostri corpi. È venuto il momento che qualcuno si collochi in modo diverso dentro lo spazio. I nostri sistemi organici sono solo una zona impercettibilmente più densa all’interno di questa massa in gravitazione, da cui spuntano come da un foro aperto nel buio cosmico le nostre facce accarezzate dal fuoco dell’inizio... E voi mi venite a parlare ancora di vestiti con cui sfilare?»

Si spostava qua e là nella sala, alzandosi di tanto in tanto sulle punte. C’erano anche alcune collaboratrici con le teste calve, ustionate, le bocche gonfiate dal silicone. Ma da questo momento tutto si confonde un po’ nella mia mente, mi rendo conto, non sono sicura di avere davvero visto quello che ho visto. Non ci drogavano, credo... Sì, certo, molte di noi tiravano roba dal naso, si impasticcavano. Ma non era solo questo. Ancora adesso non mi so spiegare cos’è successo per tutto quel tempo, se c’è stato un tempo, in quale dimensione sono davvero finita. Certe volte penso a qualcosa che forse c’era veramente, perché si sentiva sempre un profumo innaturale e leggero, in quelle sale, come se qualcuno da qualche parte pompasse delle sostanze nell’aria. A meno che non fossero i cani, che Lupus profumava personalmente, uno a uno.

All’inizio qualche lacerto di vestito lo trovavamo ancora, magari tutto pieno di strappi e di squarci trattenuti da spille da balia, stivali tutti segnati da tagli verticali, da crepe. Poi sempre meno. Anche i nostri movimenti diventavano via via più contratti. «Dovete ritornare dentro voi stesse» diceva Lupus, «enuclearvi! Più accorciate i movimenti e più vi enucleate dentro lo spazio. Più limitate i movimenti vuoti, apparenti delle leve del vostro corpo e più spostate assieme a voi volume di spazio, entrandoci dentro col perno abrasivo delle vostre facce che non mollano per un istante la presa. Allora, stando immobili all’interno del cosmo, vi basterà far oscillare impercettibilmente la testa perché tutto l’universo cosmico vi segua nel movimento uscendo dalle sue sedi. E voi mi chiedete il prêt-à-porter, dei vestiti? Il vostro vestito è il cosmo!»

I cani stavano tutti seduti sul pavimento, si vedeva la punta rossa del cazzo di qualcuno di loro, scaturita dalla sua guaina di pelo.

Eppure ci portavano qualche volta a fare delle piccole sfilate, all’inizio. Pochi passi soltanto, nel buio totale. Non so cosa riuscivano a vedere di noi gli spettatori, se c’erano degli spettatori. Arrivavano soltanto alle nostre orecchie dei brusii attutiti, spostamenti d’aria leggeri e rumori di corpi in respirazione, come se andassimo a occhi chiusi dentro una polpa alveare piena di organismi viventi in sonno. Le cene di notte. Le hall degli alberghi in giro per il mondo. Entravamo tutte insieme con le nostre teste abrase dallo spazio in rivoluzione. Ci capitava a volte di incontrare, nei padiglioni dove avvenivano le sfilate, negli hotel, altre indossatrici che sfilavano per altri stilisti, ragazze ossute che parlavano altre lingue, con patchwork di pelle ai piedi, oppure prive di denti, che ridevano con le sole gengive, o che si depilavano continuamente, nei camerini, in attesa di sfilare, persino durante la notte, durante tutta la notte, una volta che mi è capitata la stanza vicino. Sentivo il rumore della macchinetta che non smetteva un istante di andare, durante il sonno, tra la veglia e il sonno. Un’altra coi lineamenti del volto attraversati continuamente da tremiti nervosi, sfuocamenti. Una donna dalla testa espansa, le palpebre nere ricoperte di polvere iridescente.

«Ma voi chi siete?» ho chiesto una notte, mentre stavano tutte sedute al bar dell’hotel coi bicchieri pieni di liquore e di cubetti di ghiaccio.

«Siamo le donne dei canti!» mi hanno risposto. «Questa è la nostra ultima sfilata. Dopo ci metteremo in viaggio.»

«In viaggio? Ma non siete già in viaggio? E per dove?» ho chiesto buttando giù in un solo sorso una vodka ghiacciata, con la testa gettata all’indietro.

«Non lo sappiamo ancora» hanno risposto, «sappiamo solo che è venuto per noi il momento di metterci in viaggio!»

Voli di notte. Città straniere piene di luci, viste dall’alto, avviluppate nelle nostre cinture di sicurezza, nei plaid, per il freddo che c’è là in alto, nello spazio, ancora un po’ addormentate, tante belle teste sfigurate dal fuoco che si aprivano per uno sbadiglio e si mettevano a guardare fuori dagli oblò, in piena notte, il tappeto di luci delle grandi città frantumate. Scorgevo appena le indossatrici degli altri stilisti che si preparavano a sfilare, in giro per i camerini, in mutande e assorbente interno, la ressa delle sarte e delle organizzatrici e di quelle altre degli uffici stampa. Ci intercettavano a loro volta durante le nostre sfilate infinitamente brevi, compresse, non staccavano gli occhi dalle nostre teste ancora in fusione.

«Ma voi chi siete?» ci chiedevano senza fiatare.

«Siamo le ragazze di Lupus!» rispondevamo sprezzanti, prima di uscire al buio, di notte, su una fessura di spazio che poteva anche essere una passerella.

Qualche volta uscivano anche i cani assieme a noi. Sentivamo alle nostre spalle e al nostro fianco le masse calde delle loro schiene in respirazione. Avvertivamo sotto le nostre dita le loro spine in rilievo, piene di anelli, di bozzi, se allungavamo una mano nel buio verso le loro alte groppe animali, prima che venissero fuori altre ondate di indossatrici nella notte, nel buio, con occhiali a maschera, foulard di metallo, scarpe di due misure più grandi, stivali a punta cattiva, col naso ancora pieno di merda fosforescente. Certe volte non uscivamo neppure sulla presunta passerella, o facevamo solo un paio di passi densi, frenati, con gli occhi chiusi, la testa in fiamme.

«Perché siamo qui, se non sfiliamo?» qualcuna domandava a Lupus che stava buttato su un divanetto, accasciato, respirando a fatica, i piedi e la parte inferiore delle gambe serrate nei lacci bianchi delle sue scarpe da ballerino.

«Noi fronteggiamo lo spazio!» rispondeva con un filo di voce. «Noi ci poniamo da pari a pari di fronte allo spazio. Sfilare? Noi facciamo sfilare all’incontrario lo spazio. Stiamo uscendo dal progetto, dal gioco fermo della moda e del tempo, dalla piccola commedia della piccola morte collocata nel tempo.»

«Ma perché nessuno parla mai di noi?» provava a chiedere un’altra appena arrivata. «Noi sfogliamo i giornali, con gli occhi che si chiudono per il sonno, da qualche parte, negli alberghi, di notte. Mai un cenno di noi, delle nostre sfilate. Mai una fotografia, una notizia, a differenza delle altre collezioni che sfilano prima e dopo di noi. È come se non esistessimo! Com’è possibile? E perché?»

Lupus ascoltava con gli occhi sbarrati, provava a tirarsi su dal divano, per risponderle a tono. Ma un istante dopo cominciava a tossire convulsamente, perché l’infiammazione gli aveva serrato le zone della trachea, dei polmoni.

Ci spostavamo in luoghi sempre più lontani, addirittura semideserti, mi pareva, su mezzi di trasporto sempre diversi che ci portavano in giro come sotto narcosi, in trance. Sentivamo sotto le parti morbide dei nostri corpi grandi groppe pachidermiche di animali che si sollevavano nello spazio per portarci chissà dove, in piena notte. Ci sembrava addirittura di uscire denudate su quella cosa sottile che forse era una passerella, neanche più quei lacerti intorno al collo, alle reni, quelle scarpe di vinile, pesanti come zolle, per rallentarci al massimo nei movimenti, con le suole imbottite di piombo, e di avanzare così in quegli accenni di sfilate compresse, enucleate dentro lo spazio, di fronte a niente, a nessuno, in piena notte, come su una pedana gettata da qualche parte in mezzo a una zona aperta, deserta. Eppure ci sembrava a volte di avvertire come dei lontani echi di applausi provenienti da chissà dove, forse solo echi di rumori lontani, notturni, di animali, oppure quei rumori di rami e di foglie che sbattono per il vento, di quegli alberi che sembrano fatti di ferro che ci sono in certe zone del mondo, lontani rumori di acqua oceanica buia che si abbatte sulle rive delle terre emerse di questo pianeta in rotazione nel silenzio, nel vuoto. A meno che non fossero solo rumori indotti dai movimenti del sangue nelle zone molli delle nostre orecchie, spinto con violenza nel vicolo cieco delle nostre arterie allagate, dei capillari, dall’urto di sostanze tossiche di ogni tipo sparate nel nostro corpo, masticate a bocca piena, inalate, strappate a brani dall’atmosfera dal mantice della respirazione. Oppure l’abbaiare dei cani, continuo, attutito, altre cose ascoltate all’interno delle nostre teste racchiuse nella conchiglia del fuoco.

Canto della ragazza con l’acne

Voi forse credete ancora che noi pensiamo, ci illudiamo di sfilare tra due ali di spettatori allineati a fianco della lama della passerella illuminata nel buio, e che percepiamo la presenza delle vostre teste e dei vostri grugni nelle sale e nei padiglioni gremiti, pieni di invitati che si fanno vento col cartoncino tagliente del programma, i fotografi che cercano l’inquadratura migliore spostandosi tutti piegati come grosse scimmie nella penombra, con quelle collane di macchine fotografiche al collo, gettandosi a terra per riprendere la ragazza keniota con la sua tunica masai, oppure del Minnesota, che viene avanti con le sue scarpe di pelle di karung, tacco in plexiglas, a piramide oppure zeppato, ondeggiando su un paio di scarpe di metallo, le mutandine asimmetriche con uno dei bordi del cavallo che entra letteralmente nella piega della fica mentre l’altro le arriva fin quasi a mezza coscia. E i vostri occhi che osservano ciò che resta dei nostri vestiti svolazzanti attorno ai nostri corpi dagli scheletri eretti, mentre veniamo avanti sprezzanti su quella lama di luce, le teste gettate all’indietro, le ossa della mascella e del mento abbagliate, inalberate, e passano una dopo l’altra di fronte a voi le ondate delle indossatrici dal naso pieno di merda fosforescente, gli abiti di vernice e lucertola coi profili borchiati, le borse in shantung, le scarpe in rettile, coi loro corpi depilati, in tremore, e quell’indossatrice che viene avanti sulla lama di luce della passerella sostenendo il macigno della sua testa espansa sfigurata dalla melma del kajal oppure con gli occhi allungati a dismisura da righe grafiche, movimenti telecomandati di arti ricoperti appena di tessuto muscolare innervato, di pelle, pompe cardiache accelerate da droghe, psicofarmaci, alcol, ossa snodate, articolazioni, falangi, circoli sanguigni sotto pressione, tessuti molli in essudazione, fiche rasate, cazzi disarticolati, snodati, materia cerebrale abbagliata, bombardata, nelle poltiglie dell’aria abbagliata, bombardata.

Noi invece, da tanto che siamo fatte, crediamo di andare avanti in piena notte, nel buio, e che non ci sia niente e nessuno tutt’intorno, nessun occhio che ci possa vedere, come se stessimo sfilando su una passerella gettata sopra le dune di un deserto nell’oscurità più profonda, più nera. Non persone, animali, nessun occhio vivente che ci possa inquadrare mentre spingiamo avanti la massa dello spazio con le nostre facce sfondate sotto la catastrofe della volta celeste massacrata di luci, tutto lo spazio vuoto, svuotato, i corpi allontanati, le strutture intime della materia e del cosmo sempre più allontanate l’una dall’altra per la fuga espansiva dell’universo. Nessuno in sala, o qualsiasi cosa sia quello spazio dentro il quale ci spostiamo abrasivamente, solo Dio che ci sta guardando in silenzio ai bordi della lama di luce della passerella gettata da qualche parte nel buio. Ci sembra, nelle poltiglie delle nostre teste collocate dentro la fiamma, di sfilare di fronte a Dio, solo di fronte a Dio. I nostri movimenti si accorciano sempre di più, le nostre facce collassano a forza di andare contro il muro dell’aria e dello spazio senza l’intercapedine apparente dei vestiti. I nostri corpi nudi prendono di petto lo spazio. Andiamo avanti depilate e tagliate, consacrate. I nostri volti si sfracellano contro lo spazio in retrocessione, esplodono sempre più sulle loro superfici noduli, macchie, placche ipocromiche, eritematose, tutte le colonie dei nostri corpi si spostano sempre più esplosivamente in avanti, controspazio. L’urto è tale che perdiamo ogni sensibilità tattile, i nostri volti configurati vanno a fare un tutt’uno con l’aria resa rovente dall’attrito nella zona di impatto, mentre muoviamo appena le leve dei nostri corpi in paralisi motoria. Avvertiamo appena, sulla lama di luce della passerella, il passaggio di forme vertiginose volanti a fianco dei nostri corpi anestetizzati. Cose tutte lanciate, puntate, che vanno avanti volando su molte file di roller fosforescenti, nel buio, le cuspidi dei loro corpi ricoperti da cascomaschera colorati deformati da un rostro, alle spalle di un’altra di loro che corre su quel filo di luce con una lunga coda di capelli rossi, incendiati, sfuggiti al casco nel vento della corsa. E subito dopo altre forme smisuratamente allungate che si muovono all’inseguimento su altissimi trampoli fosforescenti, anche i loro corpi serrati in tute da vento qua e là insanguinate da colpi di rostro, in nappa e viscosa, cinture bustier, caftani svolazzanti per il vento che si scatena sempre nella corsa, là in alto, suscitando da qualche parte qualcosa come l’eco di un applauso cosmico. Poi anche quelle figure passano oltre, oltrepassano persino i limiti estremi della lama di luce della pedana e continuano ad andare, a imperversare. Perché si continuano a inseguire in quel modo attraverso il muro dello spazio semimmobilizzato dai magli dei nostri volti sfondati? Dove saranno diretti? Dove andranno a finire? Dove andremo a finire tutti quanti, qui dentro?

Certe volte, mentre andiamo così anesteticamente tra la veglia e il sonno, indoviniamo la forma fosforescente del bastone per ciechi che si muove in qualche punto della passerella, segno che è uscito anche Lupus assieme a noi, sulle sue scarpette da ballo, oppure che è uscito solo lui, nel silenzio, nel buio, o che ha mandato fuori il branco di cani, a sfilare. Vanno avanti e indietro lungo la lama della passerella, si sente solo l’ansimare dei loro respiri nel buio. Anche quando stiamo a luce spenta, senza vestiti, in silenzio, e ci prepariamo a uscire coi nostri corpi enucleati sulla lama di luce, da qualche parte, in qualche sala di cui non immaginiamo neppure i contorni, in qualche contenitore saturato di quell’aria profumata, infestata, che respiriamo con gli occhi rovesciati all’indietro, bianchi. Avvertiamo la presenza dei loro corpi mobili che respirano al buio, ci sentiamo sfiorare dalle loro groppe e dai loro corpi sessuati compressi dentro le strutture in rilievo delle costole. Sentiamo le loro teste che si avvicinano al buio, da dietro, e poi il contatto della mucosa di quei loro nasi bagnati che si insinuano nello spacco delle nostre natiche per annusarci il buco del culo, la fica, se ci siamo piegate in due su noi stesse per annodarci attorno ai polpacci i lacci alla schiava delle nostre scarpe coi tacchi, le sole cose che portiamo certe volte sul nostro corpo nudo che fronteggia lo spazio. Anche quell’altra cosa rigida, fetida, che ci passa a volte sulle linee del corpo e le segue fin dentro lo spacco del culo e nelle altre zone segrete e tagliate, forse il bastone bianco fosforescente di Lupus, ci pare, perché lo vediamo subito dopo annusato da ogni parte dai musi dei cani nel buio. Leccano la sua punta da ogni parte con le loro lingue bagnate, e subito dopo lo si vede scomparire da qualche parte, la sua linea fosforescente allungarsi, accorciarsi, allungarsi di nuovo, segno che Lupus l’ha conficcato nel retto di qualcuno dei cani che se lo contendevano, rimasto con gli occhi chiusi, impalato, nella ressa degli altri cani che aspettano il loro turno, nel buio. «Mie dolci ragazze dal volto in fiamme, mie care amiche per la vita e la morte, sorelle» sentiamo che sta dicendo la voce di Lupus, stridula, esausta, «faccio fatica a parlare per l’emozione. Siamo tutti qui, indistinguibili, al buio, in questo spazio definito da questa massa di particelle pompate. Le nostre facce collassano a forza di andare contro la barriera dell’aria, coi nostri movimenti sempre più accorciati, potenti, per scardinare e spostare una massa di spazio sempre più grande facendo leva con le nostre teste collocate nelle loro nicchie del cosmo. Non si parlerà più di vestiti, d’ora in poi, anche la nostra mente si sta liberando dai suoi travestimenti mentali. Andrete a collocare sempre più le vostre teste incendiate nelle loro nicchie di scatto, nel cosmo. Noi siamo quelli che stanno spostando lo spazio. Io sto morendo, ma morirò perlomeno in uno spazio immobilizzato, affrontato!»