Non diceva più niente, non si sentiva più niente. Solo l’ansimare dei cani che si gonfiavano e sgonfiavano nella gabbia elastica delle costole, i gemiti di qualcuno impalato, il rumore sordo di quelle altre ragazze che cominciavano a scartavetrarsi da tutte le parti, nel silenzio, nel buio.

Canto delle ragazze scartavetrate

Chiudiamo gli occhi tutte assieme, nel buio, prima di strappare con le mani grandi fogli di carta vetrata, prima in due, poi in quattro, poi ancora in otto, se necessario. Ne teniamo sempre delle grandi pile a portata di mano, le carichiamo di persona nei bagagliai delle macchine, sui furgoni, durante gli spostamenti. Le facciamo imbarcare sugli aerei, quando dobbiamo trasferirci in zone molto lontane. Molte pile di carta abrasiva di grana diversa, le une vicino alle altre, a seconda se una ha appena cominciato e ha bisogno di una carta con polvere di vetro più fine per i primi passaggi sopra la pelle, oppure di grana più grossa, sempre più grossa, vere e proprie schegge di vetro per devastare più a fondo i contorni dei nostri corpi dentro lo spazio.

Cominciamo con fogli di grana fine. Ne stacchiamo un pezzo, lo appoggiamo al rivestimento del nostro corpo, iniziamo a ruotarlo contro la pelle, senza forzare, sentiamo le superfici del nostro corpo che cominciano naturalmente a scollarsi, a fare un tutt’uno con le parti più interne, i tessuti muscolari, ghiandolari, adiposi. Ce la passiamo sulle gambe, sul collo del piede, sulle bianche cosce, i glutei, le anche, la pancia, le zone molli delle tette. Ogni cosa comincia a poco a poco ad aprirsi, a squarciarsi. E poi anche sopra le costole, la spina dorsale, la schiena, piazzando il pezzo di carta vetrata sul dorso della mano o facendoci aiutare da un’altra ragazza. Saliamo alle spalle, al collo, poi fino alle prime zone della faccia già preparate dalle dermatiti, dall’acne. Passiamo indistintamente anche sopra quelle, lavoriamo sui padiglioni delle orecchie, la fronte, le guance, le labbra. La carta vetrata si macchia sempre più di sangue. Dobbiamo buttarla e strappare continuamente dei pezzi nuovi per riprendere a sfregarla sui nostri corpi, sentiamo il rumore delle lingue dei cani che cominciano a leccare nel buio i pezzi di carta insanguinata caduti sul pavimento. Riprendiamo a lavorare sulla parte interna delle braccia, la passiamo sulla pelle morbida delle ascelle, abradendo i peli, i follicoli, sulla cute delicata dell’interno dei gomiti, delle ginocchia, tra le dita delle mani, dei piedi. Entriamo all’interno delle natiche, la passiamo e ripassiamo sul buco del culo, sulle fiche. Vediamo polverizzarsi il tappeto di peli già accorciati e rasati, finché resta allo scoperto solo il taglio tutto spellato. Torniamo più su, andiamo a toccare direttamente i tendini del collo, ripassiamo abrasivamente sopra le labbra, sui globi degli occhi, lavoriamo sopra le palpebre, asportiamo assieme alla cute anche i peli delle ciglia, delle sopracciglia, amalgamate nel sangue che si coagula sempre più sulla carta vetrata, tiriamo fuori tutta la lingua, cominciamo a lavorare anche quella. Avvertiamo i nasi dei cani che cominciano ad annusarci irresistibilmente nel buio, prima di muovere i primi passi sempre più abrasivi e compressi sulla lama di luce della passerella. Sentiamo distintamente l’aria contro i nostri corpi scartavetrati, percepiamo la presenza di ciascuna sua singola parte nella melma rovente dell’atmosfera. I nostri occhi scartavetrati scorgono appena nella luce abbagliata le indossatrici degli altri stilisti che ci passano a fianco per uscire a ondate nelle bolle dei loro rivestimenti cutanei. Sentiamo il vento del loro passaggio sulle superfici scorticate dei nostri corpi, mentre balzano con gli occhi sbarrati sulla passerella, i nasi fosforescenti, le giacche avvitate, le tuniche in garza, le cinture di metallo, i caftani, scollature verticali, paillettes a pastiglia, giacche di pitone, slip di satin, scarpe con tacco a cono, gonne asimmetriche, bracciali in osso, tuniche bustier. I nostri corpi bruciano al passaggio dell’aria, dello spazio, fanno a loro volta bruciare il calco dell’aria, dello spazio.

Passiamo a carte vetrate di grana leggermente più grossa, ripassiamo con quelle sui contorni devastati dei nostri corpi, senza dargli il tempo di rientrare nei loro confini, di rimarginarsi. Sentiamo riaprirsi eruttivamente le zone dove il sangue tendeva già a coagularsi, facciamo volare via le zone che stavano per diventare croste. Il sangue riprende a fare un tutt’uno col resto del nostro corpo e dei suoi confini, il tessuto muscolare viene sempre più allo scoperto, i tendini, i legamenti, le zone di confine tempestate di ghiandole, le zone sierose. I cani ci vengono a leccare nel buio, sentiamo le loro lingue roventi passare contro i nostri corpi collocati esplosivamente dentro lo spazio. Passiamo a polveri di vetro di grana ancora più consistente, calcando sempre di più con la mano scorticata che impugna la carta, andiamo ancora più a fondo, draghiamo sempre più i nostri confini, li iniettiamo eruttivamente dentro lo spazio, cominciamo a sentire le miriadi di fili di zampette sfrenate degli insetti dell’aria che vengono ad appiccicarsi ai contorni dei nostri corpi in scorticamento. Ci ficcano dentro i musi, le spiritrombe, quei lunghi becchi attraverso i quali sparano dall’esterno miriadi di uova. Le nostre carni diventano terreno di coltura di un’infinità di altri corpi che si cominciano a formare dentro i nostri tessuti, nelle zone adipose, nei sieri. Ci stanno dentro con gli occhi chiusi che si vanno formando nei muscoli, nelle mucose, i fili delle zampe, i dorsi carenati, le loro piccole ali in attesa di scrollarsi di dosso i nostri liquidi organici, le croste, prima di cominciare a librarsi dalle portaerei scorticate dei nostri corpi ancora insanguinati e bagnati, verso lo spazio esploso. Fanno nuvola attorno al vivaio delle nostre carni, avvertiamo all’interno del nostro flusso sanguigno il canto dei loro microscopici corpi che spaccano una a una le uova dove erano imprigionati, mentre le colonie dei nostri corpi stanno immobili, in piedi, chissà in quale punto del mondo, in piena notte, oppure cerchiamo di addormentarci stando coricate su un semplice lenzuolo di cotone tutto lordato di sangue e materia che scaturiscono dai nostri corpi privi di pelle e divorati dalle infezioni, perdite di muco, di feci, di orina, se siamo andate così a fondo da devastare il retto, l’uretra. Dobbiamo strapparci di forza le sindoni dei lenzuoli, quando ci alziamo di nuovo, rimangono incollati alle loro fibre i calchi dei nostri corpi portati allo scoperto. Arriva alle nostre orecchie il rumore dei cani che cominciano a leccare nel buio inghiottendo saliva, con la bava alla bocca, guaendo, mentre siamo già in piedi e riprendiamo ad andare coi contorni dei nostri corpi che bruciano nello spazio come le stelle. I corpi bruciano! Solo noi lo sappiamo in ogni istante della nostra vita, da quando abbiamo aggredito per la prima volta quella cuticola di raffreddamento che ci tiene separati dal resto del cosmo.

Ricominciamo a scartavetrarci con polvere di vetro di dimensioni ancora più devastanti. Strappiamo via da noi stesse le croste che si erano formate qua e là sopra i contorni dei nostri corpi, i nidi alati, le zone crivellate di insetti loricati, di favi, rimane sulla carta di vetro una massa sempre più densa, insanguinata e vischiosa, piena di globuli, croste riportate alla dimensione liquida, minuscole forme alate ormai maciullate, corpi in formazione dalle piccole teste liquefatte, altre forme vegetali che vanno attraverso l’aria, lo spazio, polveri, spore, semi alati trasportati dal vento, pelle indurita che cerca di crostificarsi di nuovo per difendere gli involucri dei nostri corpi dalla massa infuocata dell’atmosfera. Avvertiamo appena la voce di Lupus buttato su un divano, che sta cantando e morendo, sempre più stridulo, esausto, perché la sua gola e l’esofago e la trachea e le sue zone respiratorie sono sempre più devastate dalla fiamma dell’infezione. «Il mondo è in fiamme, sorelle!» ci sembra di sentirlo gridare da qualche parte, nel buio. Avvertiamo, se fosse ancora possibile avvertire qualcos’altro oltre lo spaventoso bruciore dei nostri corpi arati all’interno della massa di fuoco del cosmo, che qualcuno dei cani ci sta leccando irresistibilmente il volto scorticato, le vene qua e là macinate da cui cola il sangue, i tendini allo scoperto, con la bava alla bocca, uggiolando. E anche gli occhi ormai quasi completamente privi di palpebra, i capezzoli dal cratere scoppiato, il buco del culo, il taglio della fica impresso direttamente nella polpa del pube scuoiato. E che qualcuno ci sta cominciando a coprire, da dietro, con le pesanti zampe di pelo sopra le nostre schiene spellate, la colonna vertebrale ormai allo scoperto, che ce lo sta già infilando nella fica, nel culo, se il loro cazzo riesce a trovarli in mezzo a quella massa senza contorni, se fosse possibile percepire ancora qualcosa proveniente dalle piaghe della fica e del retto portati telluricamente allo scoperto. Sentiamo esplodere nella piaga dei nostri retti il loro cazzo ingroppato al termine della monta, mentre stanno ancora attaccati ai nostri corpi senza riuscire a staccarsi, per un po’, e la voce di Lupus continua ad agonizzare e cantare, da qualche parte, nel buio. Qualcosa erompe dai nostri corpi, si porta dietro materiali vischiosi ancora più interni, getti di materia indistinguibile, densa, polpa d’aria infestata, spazio in esplosione, in defecazione, liquami di stelle collassate e incendiate nello scolatoio del cosmo in tensione verso una nuova materia. Ci solleviamo di nuovo coi nostri corpi che fanno tutt’uno con lo spazio. Riprendiamo a muovere le masse vive di gambe e braccia nello spazio in fiore. Ritorna indietro sui nostri corpi ogni impercettibile spostamento dello spazio che rimettiamo in movimento standoci dentro senza diaframma, in una sola fiamma. Imprimiamo ancora di più i lacerti pesanti di carta vetrata contro i confini dei nostri corpi in iniezione attraverso lo spazio, entriamo in zone ancora più profonde e viventi, ci giriamo dentro mettendo in liquefazione strati diversi del nostro corpo che si apre magmaticamente, come un tuorlo d’uovo. Sentiamo collassare uno dopo l’altro i diaframmi biologici che stratificano i nostri corpi, mentre ci nuotiamo dentro abrasivamente come in un tuorlo incendiato. Affondiamo le nostre mani incendiate nei tuorli dei nostri corpi incendiati, vediamo levarsi nel buio cosmico spruzzi di materia organica che sfonda le linee di definizione dei nostri organismi viventi, mentre lo spazio fa irruzione a sua volta nelle nostre zone molecolari scoppiate. Tutta la massa dei nostri corpi si va a collocare abrasivamente dentro lo spazio, sbaraglia gli artificiali confini che vengono stabiliti tra corpi e spazio, lo spazio penetra dentro le nostre spugne di carne mentre noi a nostra volta penetriamo dentro lo spazio coi nostri bordi frastagliati, roventi, come quelle esplosioni solari che si levano dalle linee di contorno della nostra stella incendiata e sbaragliano il suo disegno costitutivo con le loro colonne acustiche di fuoco e magma iniettate dentro lo spazio nella voragine rovesciata dell’universo. Noi non offriamo contorni netti all’aria, alla luce. Non abbiamo accettato di essere disegni di corpi, figure. Le spugne incendiate dei nostri corpi emettono facole, macchie, getti di materiale tormentato e incendiato, in devastazione, in rigenerazione, protuberanze esplosive, brillamenti, strati di gas liberato che assorbono radiazioni. Gli aloni dei nostri corpi stellari in dissanguamento attraverso lo spazio scatenano correnti connettive ascendenti nel magma della fotosfera incendiata. I tuorli stellari dei nostri corpi incendiati si distinguono a enormi distanze nell’oscurità dello spazio cosmico. La nostra luce cresce esplosivamente dentro se stessa, sprigiona un’enorme quantità di atomi concentrati capaci di assorbire flussi immani di radiazioni. Stiamo immobili esplosivamente dentro lo spazio, incendiate. Le stelle dei nostri corpi alonati di fotosfere e di cromosfere hanno creato esplosivamente attorno a sé un nuovo spazio e un nuovo cosmo. Andremo avanti tendendo sempre più il nuovo spazio verso un nuovo spazio. Ci staremo dentro nelle tempeste geomagnetiche delle nostre zone focolari brillanti. Si scateneranno dai nostri corpi dai rivestimenti saltati emissioni di idrogeno, plasma di ioni e di elettroni, spicole, filamenti di luce, aurore, colonne gassose originate dalle zone cromosferiche basse, masse enormi di gas, brillamenti, fulminei aumenti di splendore nel buio, fiumi di energia e particelle atomiche sparate nello spazio, eruzioni di gas e plasma, onde di perturbazione, emissioni radioelettriche parossistiche, radiorumori, venti solari, fughe di elettroni e protoni dai brillamenti. La nostra corolla solare emanerà sempre più radiazioni viventi dalla sua fotosfera. Le correnti ascensionali che generano la granulazione solare produrranno onde acustiche mai sentite prima che aumenteranno le loro velocità fino a raggiungere quella del suono. Emaneranno dai nostri corpi stellari in combustione totale onde d’urto cariche di energia, tempeste magnetiche, mentre qualcosa di noi sta ancora serrato esplosivamente dentro il tuorlo dei nostri corpi dai confini scoppiati, in questo nuovo spazio di spazio che si è creato, in questa nuova luce.

Lupus moriva, sempre più, di giorno in giorno, se c’erano ancora giorni, là dentro. E non solo densità di spazio e di tempo fronteggiati, radiazioni viscerali di corpi in controdinamica lungo la linea di controspinta del cosmo. Stavamo al buio, in movimenti sempre più corti, agganciati, nel calore dei volti e dei corpi in escoriazione totale, le teste dragate e incendiate nella resina drogata dell’aria chiusa, pompata, piena fino a scoppiare di respiri umani, particelle in sospensione, visceralizzate, infettate. La voce di Lupus usciva sempre più strozzata dalla sua gola. Si alzava sempre più raramente dal divano dove giaceva, per tentare di fare ancora qualche passo liberamente sulla punta delle sue scarpette da ballo, in mezzo ai cani in respirazione nel buio. Si sentiva guaire da qualche parte, poi l’ansimare di qualcuno degli animali che stava leccando una o l’altra delle ragazze scartavetrate. Le coprivano completamente, si sentiva dopo un po’ che le stavano montando in silenzio, nel buio, nella piaga della fica o del culo, a seconda di quello che i loro cazzi infoiati riuscivano a trovare in quei crateri scartavetrati. E qualche volta si alzavano in piedi e uscivano così in passerella per quei pochi movimenti enucleati dentro lo spazio, con i corpi dei cani ancora attaccati a ventosa ai loro culi o alle loro fiche, sollevati da terra, da dietro, aggrappati alle loro carni scuoiate con le zampe stecchite, i tappi dei cazzi usciti dalle loro sedi, dal glande scoppiato. Muovevano qualche passo senza avvertire la presenza dei cani che continuavano a montarle da dietro, sollevati da terra, o se ne stavano fermi e come paralizzati, ingroppati, sulla lama di luce della passerella o di qualsiasi altra cosa fosse quella fessura opalescente su cui avanzavamo nel buio cosmico, con le nostre facce collassate a forza di andare abrasivamente contro l’aria, lo spazio. Scorgevamo certe volte nel buio anche la forma fosforescente del bastone per ciechi conficcato nei loro retti animali. Si muoveva disarticolatamente a ogni affondo della bestia impalata, non si riusciva neanche a vedere se c’era ancora la mano di Lupus a manovrarlo o se invece Lupus era da tutt’altra parte, coricato sul suo divano, stremato, e il bastone si era staccato dalla sua mano dalle dita incendiate. Avvertivo anch’io, qualche volta, la presenza minerale del cazzo scappellato di qualcuno dei cani che si accostava al fiore della mia carne, da dietro, nel buio, nella sua guaina di pelo. E anche altri cazzi e altre forme baluginanti nel buio, durante gli spostamenti, qua e là sulla terra, di fronte a certe città tumultuose, turrite, attraverso le quali correvamo coi fuoristrada, in mezzo alle esplosioni dei corpi, tutta quella materia separata, vivente, che pullula nell’intercapedine del piano di spazio fronteggiato, le maschere ottuse dei volti, dentature in corsa, turbanti, quelle fessure cieche degli occhi che crivellano tutto lo spazio, arti in movimento sulla linea gravitazionale dell’orizzonte, apparizioni di città improvvise, di notte, controspazio, mura merlate di fango e d’acqua di fronte alle quali indovinavamo le forme ingigantite degli sbandieratori in movimento contro la tumultuosa volta celeste, mentre passavamo oltre, ci gettavamo tra la veglia e il sonno nelle tundre, nelle savane. Città mai viste, posti quasi immaginati e sognati, se mettevamo fuori dai finestrini i nostri volti scoperchiati, incendiati, sentivamo l’aria della notte tutta pullulante di polveri di luce stellare senza ritorno attraverso lo spazio passare contro i nostri volti in esorbitazione. I rumori dei motori lanciati, l’abbaiare convulso del branco profumato dei cani in libera corsa attorno ai fuoristrada, alle auto, quando Lupus li slegava in piena notte e li lasciava correre a fianco della carovana, nella nuvola di polvere rossa che si levava dalle grandi ruote in corsa attraverso territori deserti. Saliva sempre più anche all’interno delle auto il rumore delle ragazze che continuavano a scartavetrare i tuorli dei loro corpi semiaddormentati sopra i sedili, sbadigliavano con quanto restava delle loro bocche e delle loro lingue in iniezione dentro lo spazio. E poi ancora altri spostamenti e altri viaggi, in corsa cieca in uno spazio affrontato, indietreggiato. Altre città in tumulto, altri cieli, mentre eravamo in volo attraverso la cavità dello spazio vertiginoso, vivente. Altri corpi sbandierati contro le strutture notturne di altre città di vetro, d’acciaio. Corpi che si snodavano al nostro passaggio, ci accoglievano sventolando le loro sbalorditive bandiere dispiegate nella notte, nel vento, contro lo sfondo di altri cieli indietreggiati, sfondati, getti di materia scorticata, scartavetrata, stelle incendiate, nebulose in viaggio senza ritorno nella materia massacrata dell’universo affrontato, coi loro movimenti orbitali, le forme intraviste nel vento suscitato dalle bandiere, dagli sbandieratori. I loro gesti silenziosi, concentrati, solenni. Non c’era nessun altro a guardarli oltre a noi, nella notte. Le loro bandiere intraviste nel buio sembravano fare un tutt’uno con la muscolatura dei loro corpi in sbandieramento. Ma che bandiere saranno quelle? Chi saranno quegli sbandieratori?

Canto degli sbandieratori

Che bandiere sono queste? Chi siamo? Noi siamo quelli che fanno ala al vostro passaggio, mentre vi spostate sulla linea dell’orizzonte seguendo i segnali. Vi accogliamo di fronte alle città addormentate, intraviste, di notte, ai villaggi modellati a colpi di mano con fango e sterco, alle barriere dei grattacieli con le loro nervature lanciate attraverso lo spazio. Ci mettiamo lungo le vostre strade e le vostre piste, mentre passate sui furgoni, sui fuoristrada, sui dorsi di grandi animali sollevati, notturni, sui camion, battiamo le piste segnate solo per voi nei deserti, nelle savane, avvertiamo il passaggio dei vostri corpi dall’aumento improvviso della temperatura dell’aria provocato dai vostri volti e dai vostri corpi scuoiati surriscaldati dalle febbri, dalle infezioni. Ci facciamo avanti arditamente, nella notte, nel buio, impugniamo uno dopo l’altro le nostre palpitanti bandiere, le cominciamo a disossare e a scollare dalla poltiglia buia dell’aria, dello spazio, come abbiamo imparato a fare esercitandoci per giorni e giorni in attesa del vostro passaggio sulle nostre strade, durante certi pomeriggi separati, assolati, sotto quelle nuvole basse e nere e gonfie come escrementi. Oppure di notte, al termine del lavoro, in certe piccole piazze selciate dove rimbomba l’eco dei nostri versi, degli ordini lanciati a occhi chiusi dal nostro istruttore che dà la cadenza dei gesti e dei tempi, del vento spostato dalle bandiere. Giorno dopo giorno, in attesa del vostro passaggio, anche se magari non riuscite neppure a vederci, dietro i vostri finestrini oscurati, nel buio, mentre guardate fuori con le fessure dei vostri occhi lucenti in mezzo ai crateri dei vostri volti. Proviamo mille volte i gesti, le figurazioni, sentiamo solo lo strappo delle nostre bandiere nella capsula dell’atmosfera, in quei piccoli cortili ciechi, di fronte ai castelli, nelle bidonville maciullate e incendiate, i forti comandi del nostro capo sbandieratore che si confondono con i versi degli uccelli rapaci in volo lacerante attraverso lo spazio. Ci spogliamo dei nostri abiti di tutti i giorni, ci disponiamo uno vicino all’altro, coi nostri corpi nudi e solenni di sbandieratori. Il tamburo comincia improvvisamente a rullare, nel silenzio, nel buio. Impugniamo le nostre bandiere, cominciamo a divincolarle nell’aria, ci scaldiamo la muscolatura di gambe e braccia, compiendo alcuni gesti disarticolati, alla cieca, come quei suoni degli orchestrali prima dell’inizio di una serata musicale, nel golfo mistico oppure direttamente sul palco, in piena luce. Le nostre bandiere ingigantiscono poco per volta per la manipolazione. Cominciano a sollevarsi più distesamente nell’aria, a dispiegarsi. Possiamo già compiere quei movimenti lenti, ascensionali, solenni che fanno salire le bandiere nell’aria, nello spazio. Le facciamo oscillare sempre di più, ingigantite. Torciamo con le nostre mani esperte i loro corpi cavernosi pieni di sangue. Le facciamo ruotare su se stesse, sventolare. Le lanciamo di lato, simmetricamente, tutte assieme, sempre più silenziose e solenni, scappellate. Si sente solo il fragore del vento che fa attrito contro le loro cuspidi allo scoperto. Le loro forme si gonfiano sempre di più, tendono a fissarsi nell’aria di fronte alla muscolatura dei nostri corpi, sempre più sollevate, contro i nostri ventri e poi i nostri petti e poi i nostri volti, sempre più in alto, al di sopra delle nostre teste concentrate nel silenzio, nel buio, molto al di sopra delle prospettive dei nostri corpi in sbandieramento. Abbiamo imparato a farle ondeggiare e ruotare completamente nell’aria, snodate, e a staccarle addirittura per qualche istante dalle loro sedi per lanciarle tutti assieme più in alto, con quel suono forte che fanno le bandiere quando si strappano via da se stesse, molto più in alto della barriera delle nostre menti tutte concentrate su quest’unico gesto e questo sogno. E poi a riprenderle al volo tutti assieme al termine della loro evoluzione nell’aria e a continuare a farle sventolare così, di nuovo saldate al resto della muscolatura dei nostri corpi. Sentiamo il nostro sangue scattare con fragore verso l’alto dentro lo spazio iniettato. Riprendiamo al volo la nostra bandiera, tra le altre che scendono tutte inclinate nell’aria senza mai scontrarsi. La riportiamo al suo punto di origine muscolare. La impugniamo di nuovo alla radice, innestata sul nostro osso pubico spinto in avanti dalla torsione della nostra spina dorsale, con la testa gettata all’indietro, gli occhi chiusi. La sentiamo crescere sempre di più, ingigantire. Le rilanciamo di nuovo tutti assieme verso l’alto, le nostre gambe elastiche scattano sulla linea dell’orizzonte per riposizionare tutto il nostro corpo quando ritornano in basso, verso le nostre mani rapide che le afferrano all’impugnatura. Certe volte si uniscono a noi anche altre forme viventi sbandieratrici, non solo cani randagi che si spostano a piccoli branchi nelle zone semideserte delle città, delle tundre, anche altri animali irsuti più grandi, in bilico su due sole zampe nel buio. Sentiamo la muscolatura delle nostre bandiere occupare uno spazio sempre più grande dentro lo spazio. Le nostre uretre si torcono come fruste, i corpi cavernosi pieni di sangue pulsano in punti sempre diversi dello spazio tutto ricanalizzato e inventato, mentre passa finalmente di fronte a noi, al suono dei nostri tamburi, la putredine luminosa di quel carico di corpi iniettati e abbagliati. E sempre nuovi sbandieratori si dispiegano lungo il percorso di questa carovana scuoiata, sentiamo il rumore dei loro tamburi lontani, il suono forte del vento sollevato dalle loro bandiere lanciate, che disegna il percorso di questo viaggio sulla curvatura dell’orizzonte e di questo sogno, anche quando la carovana è ormai passata da molto, è già lontana, come a loro dovrà in qualche modo arrivare qualcosa del suono dalle nostre bandiere lanciate oltre la curvatura di questo pianeta in rotazione nel silenzio, nel buio. Lanciamo sempre più in alto nell’aria queste bandiere indistinguibili dalla nostra muscolatura corporea, entriamo disarticolati nella muscolatura dello spazio in iniezione, in annuncio. Ci facciamo avanti con i nostri vessilli nel rialzo termico provocato dal loro passaggio, tenuti a distanza dai cani che corrono ringhiando ai lati della carovana e difendono le loro prede sessuali. I nostri corpi nudi sventolano a due mani le nostre bandiere termiche, le piante dei nostri piedi nudi serrano in una morsa il terreno, per non essere strappati via dalla forza del vento che fa vela nelle nostre bandiere, là in alto. Le guardiamo con gli occhi socchiusi, i denti serrati nello sforzo, da qui in fondo, dal basso, come altri sbandieratori prima di noi nel corso del tempo, su questo pianeta, avranno guardato le loro bandiere muscolari nel cielo, egizi, assiro-babilonesi, greci, persiani, quelli dei popoli delle steppe dell’Asia con le loro insegne ondeggianti, i popoli cavalieri che si spostavano sui loro cavalli nei mari d’erba profumata e piena di sangue, gli irani del Caucaso e delle pianure sarmatiche, i goti, i germani, i romani con i loro vessilli e i loro labari di lana purpurea, le bandiere bianche degli omayyadi e quelle nere degli abbasidi, i banditori medievali ai quali inalberare una bandiera dava il diritto di bando, esattamente come a noi che stiamo lanciando il bando di questa transazione epocale che non era mai stata prima d’ora neanche lontanamente sognata, e ci prepariamo a dare e ne stiamo dando adesso, proprio adesso, l’annuncio.

Le leve dei nostri corpi si enucleavano sempre più, l’apertura a compasso delle nostre gambe si richiudeva. Ormai non uscivamo neanche più in passerella, o qualsiasi cosa fosse quella lama di luce che ci pareva di avere di fronte agli occhi, all’inizio, spostandoci da una parte all’altra della terra, di notte, e sentivamo quei rumori di tamburi lontani e il rumore del vento suscitato nell’aria dagli sbandieratori, lungo la linea incendiata del nostro passaggio segnato da fuochi. Forse non ci spostavamo neanche più, chi può dire. Ma ci pareva ogni tanto che qualcosa di noi fosse posto in ostensione da qualche parte, di fronte a chi o a che cosa non si capiva, non stava a noi capire. Intanto da qualche parte vicino a noi Lupus stava morendo, era forse già morto, arrivavo certe volte a pensare, se quei lampi che passavano di tanto in tanto nelle mie gelatine mentali potevano ancora definirsi un pensare. Ma forse non era ancora morto del tutto perché si sentiva a tratti quel rumore secco delle punte delle sue scarpette da ballo che sbattevano le une contro le altre mentre stava forse coricato da qualche parte, soffocava. A meno che non fosse il rumore che fanno certe volte i corpi quando collassano all’improvviso dentro lo spazio, e si vede solo la corolla luminosa della loro esplosione che risucchia dentro di sé il baricentro del cosmo. Non ci spostavamo più, non camminavamo più, mi pareva. Neppure più quei segmenti compressi di sfilate che facevano immobilizzare lo spazio. Adesso stavamo immobili contro lo spazio, a quattro zampe, da qualche parte del mondo, in qualche zona deserta, di notte, mi pareva. Nessuno dall’altra parte, soltanto lo spazio immobilizzato dai nostri volti che fuoriuscivano dal foro aperto in una pesante lastra di metallo che veniva posta perpendicolarmente alla linea dell’orizzonte. Restavamo così, al buio, di notte, in ostensione, in enucleazione, contro lo spazio affrontato. Sentivo appena contro il cratere del mio volto il calco rovente dello spazio immobilizzato, mentre venivano da qualche parte, lontani, i rumori dei tamburi e del vento degli sbandieratori, e qualcosa di insignificante mi montava o mi sodomizzava da dietro, forse uno dei cani, forse il lupo, perché sentivo delle zampe contro la schiena mentre mi copriva e spingeva. Lo sentivo ancora per un po’, irrigidito, bloccato, alla fine, col suo cazzo animale esploso dentro il mio corpo incuneato a sua volta dentro lo spazio. La terra continuava a ruotare, il mio volto in ostensione forava il piano verticale dello spazio metallizzato. Ci passavano sopra i movimenti in attrito dell’aria spostata dai corpi cosmici, tutta piena di quelle particelle di luce che viaggiano anche dentro il buio terrestre raffreddato, perché non abbiamo neppure idea, non possiamo neanche lontanamente arrivare a concepire, a immaginare cosa sia il buio davvero totale che forse esiste in qualche zona infinitamente remota dell’universo, ma forse neppure là, forse da nessuna parte, oppure esiste da qualche parte, fuori dal suo stesso asse, da ogni asse, un’assenza così totale di luce da non poter essere neppure più percepita come assenza di luce, solo una massa che polverizza i contorni e fa scattare magneticamente fuori di sé ogni particella di luce dalla macina fotoelettrica dei corpi aspirati. A meno che non fosse solo la voce di Lupus che continuava a cantare mentre soffocava, e io stavo con la testa e col volto conficcati nella notte, in ostensione, in enucleazione, in attesa.

Io intanto la cercavo, mi disperavo. Non sapevo più dove sbattere la testa, da quando lei era scomparsa dalla mia vita senza lasciare traccia. La sua casa deserta. Al telefono non rispondeva nessuno. Il suo cellulare muto, continuava a suonare a distesa, non era neanche inserita la segreteria per tentare di lasciare un messaggio. In qualsiasi ora della notte, del giorno. «Dove sarà finito il suo cellulare?» mi dicevo. «In quale punto del mondo si troverà in questo momento? Sprofondato nella sua borsetta, imbozzolato in vari strati che ne attutiscono il suono, su qualche aereo che vola da qualche parte, di notte, a luci spente, mentre tutti dormono abbandonati sopra i sedili, il pilota automatico che continua a lavorare per conto proprio nella cabina di pilotaggio in sfondamento dentro lo spazio, solo il fruscio magnetico delle operazioni di volo telecomandate a distanza nella notte, nel buio, da qualche altra emissione di impulsi programmati che sta a sua volta operando ciecamente per conto proprio, separata. Oppure sarà finito per sbaglio nel bidone della biancheria da lavare, in mezzo ad altri indumenti che ne soffocano il suono, o dentro la lavatrice, o addirittura in mare assieme all’aereo precipitato, vicino al suo corpo morto nell’acqua nera, notturna, tutta gremita di organismi gelatinosi, microscopiche particelle viventi che trattengono un po’ della luce che si muove persino là sotto, nelle saccature cieche che ci sono in fondo ai mari, agli oceani. Ma non può essere dentro l’acqua, mi pare, perché allora non suonerebbe neppure. Scenderebbe piano piano in quel liquido nero e vivente, guardato solo da tutte quelle pupille gelate che si spostano in silenzio là in fondo, stanno sempre aperte e sbarrate anche durante il sonno, ci passa sopra quell’involucro freddo dell’acqua piena di forme pulviscolari vaganti serrate da ogni parte nella morsa liquida in rotazione attraverso lo spazio. Eppure solo io la posso trovare, la posso salvare, qui dentro. Sono io il suo copy!»

Di notte non riuscivo a dormire. Mi ero messo a bere. Non riuscivo neanche a parlare con l’art, che invece era sempre sorridente, disteso, perché aveva trovato la sua ragazza. Andavo alle sfilate di moda, sperando di vederla in mezzo alla ressa delle indossatrici che venivano avanti a barriera sulla passerella che rimbombava, le teste gettate di lato, sprezzanti. Mi intrufolavo dietro le quinte, nei camerini. Andavo a parlare con qualcuna delle ragazze o delle sarte che davano gli ultimi ritocchi ai vestiti un secondo prima delle sfilate, con qualcuna degli uffici stampa. «Come ha detto che si chiama?» rispondevano alzando la voce per farsi sentire nel boato musicale. «Si chiama Lupus!» gridavo a mia volta. «È uno stilista! Ha messo sotto contratto la mia ragazza!» Mi guardavano con gli occhi sbarrati. «Lupus? Mai sentito nominare!» dicevano scuotendo la testa, prima di girarsi di nuovo a parlare tra loro, a contrattare.

Oppure mi mischiavo al giro di giornalisti e operatori che seguivano le sfilate. Ascoltavo i loro discorsi, quando si gettavano in avanti tutti assieme con le braccia che reggevano i registratori, le camere. Mi sedevo vicino a loro ai bordi delle passerelle, nel buio. Seguivo le indossatrici nei locali bar, nella baraonda dei party. Vedevo mulinare di fronte ai miei occhi quella miriade di mani che reggevano i calici, dentature che scintillavano da tutte le parti sotto i cristalli della saliva. Sfogliavo febbrilmente i giornali di moda che mi capitavano sottomano, per vedere se trovavo da qualche parte una foto della mia ragazza, qualche servizio su questo stilista che si fa chiamare Lupus. Nessuna traccia! Niente di niente, da nessuna parte!

Un giorno, mentre mi spostavo tra la ressa di un party, dopo aver buttato giù ogni cosa liquida che incontravo sulla mia strada arraffandola dai calici allineati sui cabaret che si spostavano tra la folla inalberati dai camerieri coi guanti bianchi, ho notato una fotomodella dal viso lappone che si aggirava in calzamaglia in mezzo alla folla trangugiando un calice dopo l’altro. Mi passava vicino, ogni tanto, urtandomi perché non riusciva più a camminare diritta sulla ghiaia. Mi guardava.

«Perché mi guarda?» le ho chiesto, con voce alterata.

«Perché ho occhi!» ha risposto.

Abbiamo riso tutti e due, spruzzando in giro il sorso di champagne appena bevuto, sui vestiti degli altri invitati che hanno fatto un salto all’indietro per non farsi bagnare.

Ci siamo appoggiati l’uno all’altra con la fronte, per non cadere a terra. Abbiamo sentito il rumore delle nostre zucche che sbattevano.

Pochi minuti dopo eravamo tutti e due in uno degli stanzini dei bagni, inginocchiati uno di fronte all’altra, mentre la ragazza preparava una pista sull’asse abbassato del water.

L’abbiamo tirata su venendo avanti uno da una parte e l’altra dall’altra e, quando siamo arrivati al punto d’incontro, abbiamo sentito le nostre due zucche cozzare ancora più forte.

«Testarotta!» ha farfugliato la ragazza con gli occhi rovesciati, massaggiandosi comicamente la fronte.

Abbiamo fatto sparire ogni cosa, ci siamo alzati, siamo usciti dal cesso, abbiamo raggiunto di nuovo la ressa degli invitati.

Ci siamo seduti su un divanetto di cuoio, sull’erba pressata.

«Lei è chi?» mi ha chiesto la ragazza, ondeggiando un po’ con la testa.

«Sono un copywriter!» le ho risposto. «E lei chi è?»

«Io testarotta!» ha risposto.

Stavamo dentro quella poltiglia di luci e di voci, fatti marci, con gli occhi sbarrati, tranquilli.

Si è tirata via le scarpe, ha mosso il ventaglio delle dita dei suoi piedi lapponi nell’aria, per un po’.

«Visto?» mi ha chiesto.

«Che cosa?»

«Piccole unghie!» ha risposto.

Ha continuato a divincolare le piccole dita bianche dalle unghie smaltate.

«Ha mai visto un’indossatrice con la lebbra?» le ho chiesto.

«Tutte indossatrici hanno lebbra!» ha risposto.

Continuava a sventolare le dita dei suoi piccoli piedi lapponi.

«Togli scarpe anche tu!» mi ha detto d’un tratto.

Mi sono tolto le scarpe, ho cominciato anch’io a far sventolare le dita delle zampe, vicino alle sue.

«Io testarotta!» ha detto ancora.

Un cameriere stava passando, col suo cabaret carico di calici pieni.

La ragazza l’ha bloccato, placcandogli la patta dei calzoni con le dita dei piedi.

Il cameriere si è bloccato di colpo, il cabaret col suo carico di calici ha oscillato violentemente nell’aria.

«Mie dita prensili, come scimia!» ha detto la ragazza, continuando a tenere il pacco del cameriere serrato nella morsa delle sue dita.

Il cameriere ci ha allungato un calice a testa, con gli occhi sbarrati. La ragazza ha mollato la presa, l’ha lasciato andare.

«Conosci uno stilista che si fa chiamare Lupus?» sono tornato alla carica.

È diventata improvvisamente seria.

«Tu scherzare?» ha risposto, con voce arrochita.

«Perché?»

«Non possibile parlare di Lupus!»

«Perché?»

«Tutti qui dentro sa che c’è Lupus, ma nessuno parla!»

«Perché?»

Ha bevuto un sorso, ha buttato da una parte quanto restava nel calice, sull’erba pressata, lontano.

«Ma allora esiste!» ho incalzato.

«No che non esiste» ha risposto, parlando per la prima e unica volta correttamente. «Se no si potrebbe parlarne!»

Sono rimasto senza parole, per un po’.

«Io testarotta!» ha detto ancora, corrugando la fronte.

La guardavo, con la testa girata. Mi sono avvicinato irresistibilmente a lei, con la testa, le ho baciato una guancia prima di alzarmi.

Il suo esofago si è contratto, ha emesso un singulto.

«Tu resta qui» mi ha detto senza girarsi, «se no io vomita.»

Le sono rimasto vicino, senza parlare, per molto, finché la folla degli invitati ha cominciato un po’ a diradarsi.

«Ma non ci sarà qualcuno che sa tutto, qui dentro?» le ho detto dopo un po’, esasperato.

«Sì, c’è qualcuni» ha risposto controvoglia, con la voce impastata.

Un istante dopo si è raggomitolata sul divano, ha appoggiato la guancia sopra le mie ginocchia, ha chiuso gli occhi e si è addormentata.

Respirava pesantemente, tremava un po’, un filo di saliva le usciva dalle labbra aperte. Mi sono tolto la giacca, gliel’ho messa sopra le spalle, perché l’umidità era sempre più forte, ed era notte.

Qualche cameriere girava ancora tra gli altri invitati che parlavano tra di loro con gli occhi socchiusi, le narici orlate di rosso, piene di merda, indefinibili forme umane racchiuse dentro scialli nichelati, argentati, indossatori dalle alte stature e grandi facce ossute sormontate da ciuffi metallizzati, ragazze in piedi, semiaddormentate, che si tenevano le ossa delle spalle con le braccia incrociate, le dita dei piedi piene di anelli.

Testarotta ha tremato più forte, si è svegliata.

«Adesso noi viaggia!» mi ha detto.

Si è alzata in piedi. Si è rimessa le scarpe. Si è pulita la bocca, si è soffiata il naso con un fazzoletto di carta.

La guardavo.

«Tu machina?» mi ha chiesto.

Le ho fatto segno di sì con la testa.

Mi ha preso il braccio, abbiamo lasciato il party spostandoci in mezzo alle coppie semiaddormentate e drogate, fino alla zona dei parcheggi.

L’asfalto luccicava un po’ per l’umidità. Ho visto la macchina, ho sentito da lontano il suo verso, mentre manovravo l’apriporta a distanza. Testarotta camminava in silenzio al mio fianco, stringendosi nella mia giacca.

Le ho aperto la portiera dell’auto, si è buttata dentro. Sono salito a mia volta. Ho messo in moto. Sono uscito dal posteggio, manovrando piano. Ho infilato la strada.

Abbiamo viaggiato per molto, nella città addormentata, deserta, ritornando più volte nelle stesse strade perché Testarotta ogni tanto si addormentava e poi si svegliava di soprassalto e si allarmava.

«Ma tu dove va?» mi diceva.

Mi faceva cambiare improvvisamente direzione. Si assopiva di nuovo. Si svegliava.

Siamo arrivati finalmente di fronte a un palazzo. Alto, buio, dalle grandi finestre chiuse, sfuocate.

Testarotta ha suonato. Ha risposto una voce alterata, dopo un po’.

«Merda!» ha bisbigliato Testarotta, con la bocca contro la griglia del citofono, come una parola d’ordine.

L’apriporta è scattato all’istante. Testarotta è entrata, ha imboccato il largo androne dal pavimento lucidato a specchio. Si è diretta verso uno degli ascensori appaiati. Ma, un istante prima di premere il pulsante, si è piegata improvvisamente su se stessa. Una volta, due volte. Non capivo cosa stesse facendo, poi ho sentito dei rumori violenti. Ha cominciato a vomitare sul pavimento, piegata in due, a getti lunghi, viola, mentre le salivano dalle zone più interne del corpo, dal suo esofago e dallo stomaco, suoni di contrazioni sempre più cavernose, più interne.

Le ho messo una mano sulla fronte, perché non cadesse a terra quando si gettava in avanti a ogni conato. Dopo un po’ ha smesso, le usciva solo ancora un po’ di bava rovente e la sua faccia era tutta bagnata di lacrime.

Si è messa diritta. Tremava un po’ sulle gambe. Ho tirato fuori il fazzoletto, le ho asciugato il volto, la bocca.

«Adesso meglio» mi ha detto, con una voce che non si capiva da dove veniva, da ventriloqua.

Ho chiamato l’ascensore, siamo entrati. Mi guardava, in piedi di fronte a me, nella luce irreale, con gli occhi rossi, la faccia bianca come uno straccio. Le ho fatto una carezza, lunga, lenta, dolce, sopra una guancia. Mi ha sorriso un po’, con le labbra tirate, bianche.

L’ascensore è arrivato. Mi ha preso la mano.

«Viene!» mi ha detto.

Ha suonato a una porta. Si è aperta. C’era buio all’interno. Non proprio buio, penombra. Tutto il piano del pavimento si muoveva in silenzio, orbitava. Mi sono appoggiato a una delle pareti, per sostenermi, perché mi pareva che tutta la base della casa oscillasse come per una serie di scosse sismiche.

Ma non era il pavimento che si muoveva. Mi sono guardato attorno, nel buio. C’erano corpi nudi, dappertutto, per terra, sopra i divani, nel buio, che si muovevano.

Mi spostavo senza fiatare, là in mezzo, piano, sollevando molto i piedi per non pestarli.

«Viene! Viene!» mi mormorava Testarotta tenendomi sempre per mano. «Adesso ti porta da lei!»

Siamo entrati in un’altra sala, più grande, più calda, perché un gran numero di corpi nudi intenti a penetrarsi nella penombra alzava la temperatura dell’aria. Si sentivano solo i colpi sordi delle carni che sbattevano le une contro le altre in silenzio, nel buio. Adesso che i miei occhi si erano abituati un po’ all’oscurità, riuscivo a distinguere qua e là dei culi dal solco nero, peloso, che martellavano altri corpi a quattro zampe sul pavimento, altre caverne di bocche nere, scoppiate, che si aprivano e si chiudevano al buio come quelle dei pesci che boccheggiano in fondo all’oceano nero, gelato. Un corpo maschile sedeva da solo su una poltrona, con gli occhi aperti, sbarrati, il cazzo ancora un po’ gonfio, scuro, quasi nero, per la patina di feci che ci si era seccata sopra. Una vecchia a quattro zampe sul pavimento, di culo, da sola, in attesa. Stava con la testa tutta ruotata su se stessa per guardarsi alle spalle, sorridendo con la bocca nera priva di denti, scoppiata. Non si capiva se ciò che tingeva così violentemente il suo buco del culo offerto nel buio era rossetto oppure sangue.

Testarotta si è tolta le scarpe, per camminare tra i corpi senza bucarli coi tacchi. Il pavimento vibrava. Abbiamo oltrepassato un uomo che si stava eiaculando in bocca, mi è parso, piegato in due su se stesso mentre si masturbava elettricamente, in silenzio. Testarotta mi aveva ridato la giacca, capivo che si stava liberando uno dopo l’altro dei suoi indumenti, li lasciava cadere a caso per terra, tra i corpi.

«Ma non si vede niente, qui dentro!» le dicevo sottovoce, in mezzo a tutto quel silenzio e a quel buio che ansimava. «Chi è che stai cercando? Dove siamo?»

«Io cerca bocca» mi ha risposto.

Mi aveva ripreso la mano. Scorgevo il bagliore delle sue carni diafane che riverberavano al buio. Il pavimento vibrava sempre di più. Tutt’intorno solo versi rauchi, respirazione, tutto lo spazio era mosso da corpi ciechi che sfracellavano l’uno contro l’altro nel buio.

«Lei là!» ha detto Testarotta d’un tratto.

Ci siamo avvicinati a una donna nuda, seduta a gambe larghe su un corpo, che stava contemporaneamente masturbando con la bocca il cazzo di un altro uomo ritto di fronte a lei, con un piede sul pavimento, l’altro su un piano diverso, molto più in alto della linea dell’orizzonte.

Ci siamo fermati al di sopra della sua testa, in piedi, in silenzio. La donna continuava a muoversi sopra il cazzo dell’uomo coricato, mentre l’altro cazzo le martellava la faccia.

Ha rovesciato di colpo gli occhi per guardarci, mi è parso, nel buio.

«Lui copywriter!» le ha detto Testarotta chinandosi con la testa all’altezza dell’altra testa che continuava a lavorare il cazzo, nel buio.

La donna ha rovesciato ancora di più gli occhi nella penombra, per guardarmi continuando a inghiottire il cazzo, mentre la testa dell’uomo guardava altrove, lontano, come se si fosse gettato da un’altra parte, nello spazio, di notte.

Ho guardato meglio la testa della donna, nel buio, senza fiatare, rabbrividendo. La sua bocca era esplosa, uno squarcio le attraversava diagonalmente tutta la guancia salendo verso l’alto, da una parte sola, come se gliel’avessero aperta con un rasoio.

Ho stretto istintivamente la mano di Testarotta, mi sono puntellato meglio sul pavimento che sismicamente slittava.

«Cosa c’è? Di cosa ha paura? Guarda me come sono bella!» mi ha risposto lei sussurrando, mentre si girava dalla mia parte e allargava le braccia per mostrarmi tutto il suo corpo bianco nel buio.

La donna con la bocca squarciata continuava a scendere e a salire nell’aria, mentre mi guardava e inghiottiva l’altro cazzo dell’uomo con la testa girata, che le entrava e usciva da uno degli angoli della sua enorme bocca squartata.

Ho chiuso gli occhi, in quello spazio buio indistinguibile dai corpi lanciati, addormentati.

«Lui cerca Lupus!» le ha detto Testarotta alzando la voce. «Tu aiuta a trovarlo!»

La donna ha staccato finalmente la testa dal cazzo, ha smesso di scopare anche l’altro. È rimasta ferma a gambe aperte, seduta.

«Ma Lupus non c’è!» ha risposto con voce roca, guardando con gli occhi sfavillanti, nel buio.

«Lo so» le ho risposto, «ma io voglio trovarlo lo stesso!»

«Ma non esiste! Non c’è!» mi ha risposto.

«Per questo voglio trovarlo!»

Continuava a fissarmi. Teneva con una mano il cazzo irrigidito nell’aria, scappellato, mentre l’uomo restava con la testa girata dall’altra parte, non si riusciva a vedergli il volto.

La donna ha fatto un verso di gola, lungo, rauco, infantile. Ha sospirato. Un secondo dopo si è alzata lentamente da sedere, e si sentiva il rumore liquido del cazzo che sgusciava fuori dalla sua fica bagnata in mezzo alla ressa dei corpi, nel buio.

«Tienili in caldo tu, questi due, prima che si raffreddino!» ha sussurrato a Testarotta con la sua voce roca.

La mano dell’uomo coricato per terra ha cominciato a muoversi elettricamente sulla pelle del cazzo, mi è parso, per tenerlo duro. Testarotta gli è andata a sedersi sopra, allargata. Si è sentito il suono liquido del suo corpo che lo risucchiava nel buio, mentre si avvicinava all’altro con la testa, per prenderlo in bocca.

«Io arrivata!» mi ha detto, a bocca piena.

Ho rabbrividito un istante, perché l’altra donna mi aveva preso improvvisamente la mano, mi stava già guidando verso l’uscita, passando in mezzo ai corpi che si animavano in punti sempre diversi nel buio.

La donna stava adesso cercando i suoi vestiti in un ripostiglio nero, alla cieca. La sentivo imprecare, mentre palpava con la mano tra la massa degli abiti allineati sopra le grucce.

«Ma non si può accendere la luce?» ho provato a dirle.

Si è irrigidita.

«No, no!» mi ha risposto sottovoce, venendomi vicino nel buio con la sua enorme bocca squarciata. «Non ci si deve vedere in faccia, qui dentro! Usciamo uno per volta! Non sappiamo neanche chi siamo! Non ci riconosciamo neanche, se ci incontriamo per strada!»

La sua testa mi è venuta ancora più vicino nel buio, con la sua bocca squarciata.

Ma non era squarciata, perché quando siamo usciti dalla casa, e abbiamo mosso i primi passi sul pianerottolo illuminato, verso la cabina già spalancata dell’ascensore, dopo che aveva trovato i suoi vestiti nel buio, le scarpe dalla punta acuminata e dagli alti tacchi, ed eravamo già tutti e due dentro l’ascensore, uno di fronte all’altra, nella luce abbagliante, ho visto che era soltanto deformata dal colore violento del rossetto che partiva dalla parte centrale delle labbra e proseguiva diagonalmente sopra una sola delle guance, fino allo zigomo e all’orecchio.

«Così la mia faccia è irriconoscibile» mi ha detto, «anche al buio, là in mezzo, quando gli occhi si sono abituati all’oscurità... Sono io la regina, là dentro!»

L’ascensore scendeva. Le guardavo il volto di tanto in tanto, sembrava stravolto dall’ictus di una risata fissa, scentrata.

«Cos’era andato a pensare?» mi ha detto ancora, con la sua voce roca.

Siamo arrivati a pianterreno. Le porte si sono aperte. Siamo usciti. Abbiamo fatto alcuni passi nel vasto androne sfigurato per troppa luce, in piena notte.

La donna l’ha attraversato, ondeggiando un po’ sulle scarpe disarticolate dagli alti tacchi. Io la seguivo. È arrivata fino a una piccola porta, l’ha aperta, l’ha spalancata andandole contro con la spalla, perché offriva resistenza.

«Questa merda di luce non funziona, stanotte!» ha detto colpendo due o tre volte coi pugni un interruttore schermato.

Mi ha preso la mano. Abbiamo cominciato a scendere un paio di rampe buie di scale, e salivano dal basso zaffate d’aria umida, fredda.

«Sirio!» ha gridato di colpo la donna, quando siamo arrivati in fondo alle scale, nella luce improvvisa che aveva acceso prendendo a pugni un nuovo interruttore schermato. «Dove sei, scherzo di natura, merda vivente? Perché non sei qui ad accogliermi, non mi vieni incontro? Ti stai facendo una sega? Hai gli occhi fuori dalla testa? Non riesci a fermarti?»

E intanto avanzava in un corridoio del sotterraneo continuando a gridare, nell’eco che si produceva in quel piccolo spazio compresso attraversato da un numero enorme di tubi che correvano contro il soffitto.

«Sirio!» continuava a gridare mentre mi trascinava per quei corridoi tenendomi per mano. «Dove cazzo sei? Non hai sentito l’odore della mia fica? Lo sai perché sono venuta a cercarti? Lo sai chi c’è qui con me? Un copywriter! Oh, sì, cazzo, hai capito bene! Nientemeno che un copywriter!»

Mi aspettavo di veder uscire da un momento all’altro da uno di quei cunicoli sotterranei qualche essere umano deforme, oppure un cane o qualche altro animale. Invece è apparso un uomo malinconico, alto, in un abito nero di buon taglio.

Ha scosso la testa.

«Quante volte glielo devo dire! Io non sono Sirio!» ha mormorato l’uomo alla donna dalla bocca scentrata.

«Lo so, ma dovresti esserlo!» gli ha risposto lei con la voce rauca, sprezzante.

Abbiamo fatto ancora qualche passo in avanti, lungo il cunicolo, fino a una piccola stanza con le pareti intonacate soltanto, dove c’erano un lavandino, un fornello, alcuni computer in un groviglio di prese e di fili.

«Prepara il fuoristrada» gli ha detto la donna, «vuole andare da Lupus!»

L’uomo mi ha guardato per la prima volta, di colpo.

«Da Lupus?» ha detto con gli occhi sbarrati. «Ma non esiste Lupus!»

«Appunto» ha risposto la donna, «per questo dobbiamo portarlo là!»

L’uomo si è avvicinato a uno dei computer, l’ha spento.

«Con chi eri collegato?» gli ha chiesto la donna.

«Col brief.»

Ci siamo guardati in faccia per un istante, tutti e tre.

«Col brief?» ho esclamato improvvisamente. «Quale brief? Ma non c’è ancora il brief!»

La donna ha chiuso gli occhi, il suo volto immobilizzato dalla freccia obliqua della sua bocca dipinta è rimasto fermo così.

Un istante dopo ha cominciato a colpire l’uomo sulla testa, sul volto, mentre lui stava in piedi di fronte a lei, con le mani lungo i fianchi, e la guardava malinconico, assorto.

Sembrava che la donna avesse finito di colpirlo, perché si era girata su se stessa per uscire dallo stanzino massaggiandosi le nocche delle mani. Invece si è girata di nuovo verso di lui, improvvisamente. Ha ripreso a colpirlo ancora più forte, a graffiarlo con le unghie lunghe, dipinte, mentre l’uomo continuava a guardarla malinconicamente, senza reagire. Ha cominciato a colpirlo anche al basso ventre, con le ginocchia, e poi sulle gambe, con le scarpe dalla punta dura, tagliente, finché l’uomo è crollato. Non ha smesso di tempestarlo di calci anche mentre stava a terra, raccolto sul fianco, con la bocca spalancata per cercare di respirare. Ha continuato a colpirlo sulle spalle, sul volto, sul collo. Ho sentito il rumore sordo della punta di una delle sue scarpe che si conficcava nell’imbuto della sua bocca aperta. L’ha tirata fuori tutta sporca di sangue, una volta, due volte. L’uomo sputava sangue, tossiva. L’ha colpito un’ultima volta, con enorme violenza, al di sotto del mento. La testa dell’uomo è volata indietro snodata, in una scia di sangue.

Si è fermata. Nello stanzino era piombato un improvviso silenzio, solo il rumore del respiro della donna che ansimava un po’ per lo sforzo.

Io stavo con gli occhi fissi, impietrito.

«Perché l’ha pestato così?» ho provato a dirle.

«Lui lo sa!» mi ha risposto.

C’è stato un lungo silenzio. L’uomo per terra ansimava nello sforzo di respirare, cercava di rimettersi in piedi. Io guardavo la testa della donna, la freccia rossa della sua bocca che le tagliava da una parte tutta la faccia smottata.

Finalmente l’uomo è riuscito ad alzarsi. È andato verso un piccolo secchiaio camminando a fatica sulle ossa peste, gemendo. Ha aperto il rubinetto, ha cominciato a lavarsi via il sangue dal volto.

«Bene» ha detto la donna alla fine, «il nostro viaggio comincia! Si parte!»

L’uomo ha alzato gli occhi su di lei, l’ha guardata.

«Perché? Viene anche lei?» le ha domandato muovendo a fatica la bocca dalle labbra tagliate.

«Ci puoi giurare!» ha detto la donna muovendo lo squarcio della sua bocca. «Forza, prepara le piste!»

L’uomo ha oscillato un po’ sulle gambe, prima di girarsi verso un pensile di lamiera. L’ha aperto. Ha tirato fuori la roba, l’ha lavorata un po’. Ha separato tre lunghe piste sul piano del secchiaio, col taglio della mano.

Abbiamo cominciato a tirare. Si sentiva solo il rumore dei nostri nasi che dragavano le strisce di merda con le teste buttate sopra il secchiaio.

La donna se ne è sfregata un po’ sopra le gengive e persino sui denti digrignati, tirando su bene lo squarcio della bocca che le tagliava la faccia. Anche l’uomo ha digrignato un po’ i denti ancora bagnati di sangue, se l’è sfregata sulle gengive rosse, impastate. Ha tirato su ancora un paio di volte, premendosi tra due dita il naso tutto pieno di sangue e di merda.

Siamo rimasti tutti e tre buttati contro una parete, alla fine, per un po’, come proiettati. Ci guardavamo con gli occhi sbarrati, sentivo solo il mio cuore pulsare, non vedevo.

«Forza» ha detto ancora la donna, «si parte! Siamo partiti!»

Siamo usciti dalla stanza. Ma un secondo dopo l’uomo è andato ad afferrare una cuffia acustica, dal tavolo dei computer, se l’è messa in testa, l’ha calzata bene sopra le orecchie.

Ci spostavamo lungo i cunicoli, sbattendo contro le pareti con le spalle, col volto.

Siamo arrivati dentro un garage. La luce era bassa, velata. O forse ero io che non vedevo bene. C’era una grande macchina fuoristrada, mi è parso, appena lavata, lucente. Ci siamo saliti sopra, mettendoci tutti e tre sui sedili davanti, io vicino al finestrino di destra, la donna al centro, con la freccia della bocca girata dalla mia parte, l’uomo al posto di guida.

«C’è il martello pneumatico?» gli ha domandato improvvisamente la donna, con la sua grande bocca.

L’uomo si è sollevato un po’ la cuffia sopra un orecchio, per riuscire a sentire. Ha fatto di sì con la testa.

Ha acceso il motore, ha premuto un tasto di un comando a distanza, mi è parso, con una mano buttata in avanti contro il parabrezza. Si è sollevata improvvisamente di fronte ai miei occhi l’ala di metallo di una saracinesca.

Ci siamo buttati fuori, con le ruote sollevate per l’accelerazione che era stata impressa al motore da fermo, e poi ancora per il dislivello d’uscita.

L’uomo guidava a velocità pazzesca, in silenzio, per le strade deserte. Guardava fuori dal finestrino con gli occhi sbarrati.

«Si respira meglio di notte!» ha detto la donna muovendo lo sbrego della bocca che saliva dalla mia parte, e gettando indietro la testa sull’alto schienale, mentre si stringeva macchinalmente la fica con tutte e due le mani in mezzo alle gambe.

L’uomo continuava a guidare all’impazzata nelle strade deserte, in silenzio, con la testa gettata in avanti contro il parabrezza, piena di ferite, di sangue. Ha inserito un cd. Era ancora notte. Buia, nera, profonda.

«Com’è lunga questa notte!» ho pensato.

Non si sentiva nient’altro che la musica erompere a tutto volume nell’abitacolo della macchina che andava per le strade nere, drogate. Non le vedevo neppure, mentre stavo con la fronte appoggiata al finestrino e l’uomo che non era Sirio guidava con la testa vibrante, puntata. Pensavo solo alla mia ragazza che stava in qualche punto della notte e del cosmo. «Dove sarà in questo momento?» mi dicevo. «Lo saprà che ci sono anch’io da qualche parte, che mi sono gettato per lei allo sbaraglio? Che la sto cercando? Da lei separato, amputato, eppure dentro le stesse fibre dell’universo, in fuga attraverso i cunicoli aperti dentro i suoi corpi, nelle sue fenditure di luce. I miei arti corrono nella notte verso un punto dove forse incontreranno i tuoi arti, tutto intero il tuo corpo vivente sormontato dalla bella testa abrasa che sta fronteggiando lo spazio. Arriverò fino a te. Tutta la macchina del mio corpo amputato si ricongiungerà ai suoi arti collocati sopra la tua persona, ai suoi organi interni che stanno in questo momento palpitando dentro il tuo corpo collocato in un altro corpo. I tuoi organi interni stanno palpitando all’interno dei miei, separati, sono in corsa verso i miei organi interni collocati all’interno del tuo corpo di carne. Ma adesso dove sei? Dove sei?»

Non lo so dov’ero. Non saprei dire dov’ero, in questo momento. In qualche sotterraneo del cosmo, mi pare, a pensarci, perché mi pareva di essere capofitta in una massa nera d’aria incendiata, e che si vedessero anche delle luci forse solamente pensate, in quel punto dove può darsi che mi trovassi. Che forse non erano neanche stelle, neanche luci, ma solo quelle microscopiche tempeste magnetiche che riescono persino a scatenarsi nell’aria immobilizzata dove non c’è più niente, in quelle zone oltrepassate che riescono ancora a liberarsi nelle falde della luce precipitata. Forse era notte, forse stavo fronteggiando lo spazio con la faccia immobile dentro il foro ovale praticato in una spessa lastra di metallo brunito, a quattro zampe, nuda, accucciata, in quella dimensione immobile e nera che si allarga quando si è consumata ogni particella d’ossigeno all’interno dell’aria, della luce. Non mi sembrava di sentire più movimenti ciechi dentro il mio corpo, nelle sue zone lontane, separate, amputate. Solo qualcosa come una concentrazione di spazio che saturava ogni cosa fino all’interno del mio corpo, le sue strutture, le sue aperture. Stavo immobile, mi percepivo immobile. Non sentivo più neanche i rumori lontani dei tamburi, non sapevo neanche se ero sola o se c’era qualcun altro o qualcos’altro, da qualche parte, se ero in uno scantinato oppure oltre la curvatura dell’orizzonte, direttamente dentro lo spazio cosmico. Eppure ogni tanto mi pareva di sentire, o di ricordare, un leggero spostamento d’aria che veniva da qualche parte, da sopra, come se un’altalena oscillasse altissima sulla mia testa, agganciata chissà dove, nella notte, nel buio, a qualche soffitto lontano oppure direttamente allo spazio. E che qualcuno ci dondolasse sopra in silenzio. Forse Lupus che stava morendo in oscillazione là sopra, e impiegava le sue ultime forze nel lanciare in avanti le sue gambe serrate dai nastri, le sue scarpe da ballerino. Forse stava morendo su quell’altalena, nel buio, forse era già morto e oscillava ancora per sola forza d’inerzia, sempre più piano, più piano, nello spazio contrastato che si stava immobilizzando. L’altalena oscillava sempre più lentamente, in quanto restava della nostra falda di spazio immobilizzato. Venivano da qualche parte piccoli versi di esaltazione indistinguibili dal silenzio, dal buio. Di qualche essere umano, animale, come se non fosse neanche più Lupus in agonia oppure già morto a dondolare là sopra, ma qualcuno dei suoi cani, se c’erano ancora dei cani, da qualche parte, e stesse oscillando seduto là sopra nel buio, semiparalizzato, fissato, emettendo versi leggeri, latrati, con la bocca aperta, dentata, gli occhi chiusi...

«Da quanto tempo stiamo correndo?» ho provato a domandare alla donna con la bocca scentrata, alzando la voce nel fragore musicale. «Perché non viene mai giorno? È sempre notte!»

«Perché lo spazio si sta immobilizzando sempre di più attorno a noi» mi ha risposto senza girarsi, con la forma della sua bocca impennata, «e allora vuol dire che stiamo andando nella direzione giusta, ci stiamo avvicinando a quel punto!»

L’uomo che avrebbe dovuto essere Sirio continuava a guidare nelle strade deserte. Pullulavano di tanto in tanto di fronte al parabrezza forme di animali mai visti che attraversavano la strada girando per un istante le teste abbagliate.

«Che animali sono quelli?» ho provato a domandare ancora alla donna. «Non avevo mai visto animali così!»

Non mi ha risposto. Ha cominciato a ridere forte, con la testa gettata all’indietro, la bocca squarciata.

La musica era finita. Si sentiva solo il fragore della risata della donna mentre la macchina continuava a correre nella notte, sempre più forte eppure sempre più lentamente, dentro lo spazio.

Poi anche la risata della donna si è spenta. L’uomo continuava a guidare con la testa puntata contro il parabrezza che fendeva lo spazio sempre più immobilizzato.

Mi sono girato verso la donna.

«Perché quell’uomo porta una cuffia acustica?» le ho chiesto.

«Perché non obbedisce a noi, è collegato a qualcun altro, prende ordini da qualcun altro!» ha risposto.

Ci siamo guardati in silenzio.

Poi la donna, senza dire niente, si è inclinata verso l’uomo, ha allungato il braccio per sbloccare la maniglia della sua portiera. Un istante dopo l’ha scaraventato fuori dalla macchina in corsa andandogli contro di colpo col peso di tutto il corpo.

Mi sono girato, con gli occhi sbarrati. La portiera si era spalancata, l’uomo era volato fuori nella notte con la sua cuffia acustica, senza un verso, un rumore. Solo il suono sordo del suo corpo che rotolava per un po’ sull’asfalto della strada deserta, mentre la donna aveva afferrato improvvisamente i comandi della macchina che sbandava paurosamente qua e là.

«Bene» ha detto infine riportando l’auto sulla sua rotta, «abbiamo gettato fuori un po’ di zavorra! Così riusciamo a riacquistare velocità nello spazio sempre più immobilizzato!»

La macchina aveva infatti preso davvero un po’ più di velocità, contro il muro di spazio. La donna guidava con gli occhi socchiusi, la piccola bocca serrata dentro lo squarcio ascensionale della bocca più grande.

Non saprei dire da quanto tempo stavamo viaggiando perché era sempre buio, e anche il tempo si immobilizzava sempre più, era sempre notte.

Passavano dalle parti prospettive serrate di strade interrotte da spazi aperti, altre immagini che sembravano appartenere a continenti mai visti, improvvisi segnali piegati in due nello sforzo di avanzare nel crescente attrito dell’aria. Si sentivano solo, nel silenzio, rumori lontani come di tamburi e bandiere immobilizzate in qualche punto dell’aria, dello spazio.

«Che cosa sono questi tamburi?» ho domandato alla donna.

«Non sono tamburi» ha risposto, «è solo l’aria che si scarica della luce mentre si ferma.»

La macchina rallentava sempre più la sua corsa, eppure capivo che la donna stava pigiando l’acceleratore a tavoletta. Il suo corpo, le sue braccia e le sue mani serrate attorno al volante vibravano mentre la macchina andava a tutta velocità eppure sempre più ferma contro il muro dello spazio che si arrestava.

«Che cosa succede?» le ho chiesto senza fiatare.

«Le ruote stanno girando, ma la macchina è quasi ferma, bloccata!» ha risposto gridando. «Le ruote girano così forte che non riescono più a fare attrito sopra l’asfalto!»

Poi il parabrezza è esploso, di colpo.

«Ecco!» ha sussurrato la donna. «Siamo arrivati!»

La macchina si è arrestata del tutto. La donna ha spento il motore. Si sentiva solo, nel silenzio, il suono sordo, potente, dello spazio che si ricollocava dentro se stesso.

«Forza» ha detto la donna, «prendi il martello pneumatico!»

«Perché?»

«Per spaccare lo spazio!»

Si è girata verso il sedile di dietro. Ha cominciato a frugare a due mani sul pavimento dell’auto. Mi ha gettato tra le mani un pesante attrezzo.

L’ho afferrato. Siamo usciti dall’auto, lentamente, nell’aria ferma. Abbiamo fatto alcuni passi rallentati verso qualcosa che appariva come la lama di una facciata rimasta in piedi mentre tutto il resto del caseggiato non aveva retto l’urto, era crollato.

«C’è solo la facciata!» ho provato a dire.

«Non è una facciata» ha risposto la donna, «è l’intero caseggiato compresso nell’urto contro lo spazio immobilizzato.»

Ho guardato la donna, nel buio profondo, scorgevo appena la forma smottata della sua faccia attraversata da parte a parte dalla bocca, mentre andavamo verso la grande lama del caseggiato immobilizzato contro lo spazio.

L’abbiamo attraversata passando per la feritoia di una possibile porta, camminando piegati in due per contrastare la violenza dello spazio bloccato.

C’era una piccola scala quasi verticale che scendeva sotto terra, mi è parso, in uno spazio che era stato forse il sotterraneo di una casa scoperchiata e compressa.

La donna si è gettata da quella parte, lentamente, con sforzo, piegata in due contro il muro della notte schiacciata.

«Ma non può essere lì!» le ho gridato.

«Invece sono lì» mi ha risposto gridando, «sotto terra! Perché da questa parte lo spazio si sta immobilizzando! Sono nel punto dove lo spazio rallenta sempre di più, è quasi fermo. Crederanno di essere chissà dove, sotto il cielo aperto, in qualche zona deserta, immobili, sotto la catastrofe dello spazio pieno di materia incendiata e di luci, e di sentire rumori molto lontani, attutiti, potenti, come di bandiere e tamburi. Invece saranno in qualche buco spaventoso sotto la linea dell’orizzonte, con gli occhi aperti, sbarrati, nel buio, nel punto di massima concentrazione dello spazio contrastato. Io lo so com’è Lupus!»

Le andavo vicino con la testa, per sentirla, perché anche le sue parole uscivano sempre più compresse nell’aria che si fermava.

Siamo scesi sotto il filo della terra, con la testa tutta puntata per riuscire ancora ad avanzare. Finché abbiamo sbattuto di colpo contro un muro.

«Non si può più andare avanti!» ho gridato alla donna, nel buio. «C’è un muro!»

«Non è un muro!» ha risposto. «È lo spazio!»

Si sentivano solo i rumori del mantice dei nostri respiri nello sforzo di avanzare.

«Aziona il martello pneumatico!» mi ha gridato.

«Dove posso attaccarlo? Ci vorrebbe una presa!»

«Non ce n’è bisogno!»

Eravamo immobili, contro la muscolatura dell’aria ferma.

«Qui non c’è più la luce!» continuava a gridare la donna, con la bocca vicinissima alla mia testa per farsi sentire. «Non c’è più elettricità, conduttori di elettricità, arialuce! Non c’è più niente, qui dentro! Solo buio, nero, silenzio! Siamo arrivati all’inferno, copywriter!»

Ho azionato il martello pneumatico, col suo rombo assordante. L’ho inalberato di fronte alla mia testa serrandolo con due mani. Ho cominciato a conficcare la sua punta vibrante dentro il muro dello spazio, per avanzare là dentro. Sentivo appena la voce della donna che continuava a gridare nel buio con la sua bocca scentrata, alle mie spalle, avanzando carponi nella falda di spaziotempo sempre più bloccato, e il diaframma dei miei vestiti accartocciarsi sempre più attorno alla macchina del mio corpo che avanzava.

«E crederanno di stare in una zona diversa, in una stagione diversa» continuava a gridare la donna alle mie spalle, mentre anche le sue parole si immobilizzavano sempre più, filtravano appena nella spaccatura che aprivo col martello pneumatico nell’aria immobilizzata, «di quelle che ci sono in altri paesi, in altri continenti, a spingere la faccia ancora più avanti oltre la linea dell’orizzonte, negli sciami profumati e profondi dell’arialuce immobilizzata, e di portare sulla maschera dei loro volti tutto il calco dell’universo immobilizzato!»

Continuavo ad avanzare spaccando lo spazio col martello pneumatico. Mi tornava indietro con violenza contro la faccia, come un pestacarne.

Poi le mie gambe hanno urtato improvvisamente contro qualcosa.

«C’è qualcosa! Ho urtato contro qualcosa!» ho provato a gridare alla donna facendo ruotare la testa nel calco dell’aria immobilizzata.

«Sono qui!» mi ha risposto gridando. «Siamo arrivati!»

Ho allungato un braccio, una mano, cercando di conficcarla dentro la parete di spazio, mi pareva di averla intinta in qualcosa come lo spacco nero di un corpo umano a quattro zampe, allagato...

Mi è difficile, da qui in avanti, raccontare quello che ho visto, intravisto, forse soltanto intravisto, in quella massa d’aria buia, bloccata.

«Sono qui!» mi pare che continuasse a gridare la donna dalla bocca dipinta, alle mie spalle. «Siamo arrivati! Li abbiamo trovati! Sono tutti in fila a quattro zampe, stanno fronteggiando lo spazio!»

Sono riuscito a fare un altro passo in avanti, mi è parso. Ho cominciato a spaccare col martello pneumatico il calco dello spazio immobilizzato attorno ai corpi accucciati. Sentivo confusamente il suono dei suoi cocci che piombavano con fragore sulla linea del pavimento o dell’orizzonte.

«Che fetore! Che orrore!» mi è parso di avere gridato nello spazio che si era aperto improvvisamente attorno ai corpi, lavorandoci dentro col martello pneumatico per lasciarlo così, spalancato, perché non si chiudesse. «Non ho mai sentito in vita mia un simile fetore! Cosa è successo, cosa sta succedendo, qui dentro, che non si respira?»

«Putrefazione, escrementi» mi è parso di aver sentito gridare la donna, «solo perché hai aperto questo piccolo varco nello spazio saldato! Qualcuno è già morto, qui dentro! C’è della gente che sta crepando! Persone, animali...»

Non si sentiva altro rumore, altro suono, altra voce, là dentro, oltre alle nostre due che gridavano semimmobilizzate nel buio.

«Non c’è una luce? Non si può accendere neanche una luce?» ho gridato. «Non si respira!»

«No!» ha gridato la donna in risposta. «Nessuna luce! Ho provato con l’accendino. Niente da fare! Qui lo spazio è così compresso che si è mangiato quasi tutto l’ossigeno. La fiamma non può alimentarsi! E dove lo spazio s’è rotto c’è il vuoto, solo il vuoto, non più ossigeno, anidride carbonica, vapore acqueo, idrogeno, argo, pulviscolo, tempo, arialuce, solo lo spazio che si apre nel cuore nero dello spazio sfondato!»

Ho cominciato a toccare i corpi, nel buio, nell’assenza di spazio, con le mani. Sono riuscito a intuire da che parte erano girati. Ho cominciato a tastare con le dita le spugne dei corpi scartavetrati, le maschere di volti umani che scaturivano dai varchi di un’unica lastra di metallo e di spazio.

«Che cosa c’è là in alto?» ho gridato improvvisamente, perché mi era parso di avere intravisto la presenza di qualcosa di enorme che ci sovrastava.

«Un cane morto!» ha gridato la donna da qualche parte. «Sarà un cane morto, stecchito. Si starà putrefacendo mentre è ancora seduto sull’asse di un’altalena fissata in un punto alto del soffitto e dello spazio blindato, con le zampe morte ancora uncinate alle corde. Saranno caduti per terra pezzi del suo corpo in decomposizione dentro lo spazio fermo!»

«E qui per terra cosa c’è?» ho continuato a gridare, mentre tastavo uno a uno i volti che scaturivano dalla lastra di spazio, e sentivo sotto le dita i loro lineamenti scartavetrati e scoppiati. «Sono andato dentro qualcosa di spaventoso e di molle, come quando si cammina in un’acqua ferma, infestata, tutta piena di microrganismi scartavetrati, bagnati, la testa dentro la poltiglia calda dello spazio suppurato, stellato...»

«Sarà Lupus!» ha gridato la donna. «Sarà coricato per terra sulla linea dell’orizzonte, si sarà già decomposto. Si sarà allungato sul pavimento, sul filo dello spazio. Ci vado dentro anch’io come in una membrana che si è lacerata, i miei passi accorciati sollevano spruzzi di materia organica iridescente, come quando si cammina in un’acqua calda, primordiale, non ancora attraversata dalle prime scariche elettriche dei primi organismi unicellulari in anticipazione nel silenzio, nel buio!»

Mi sono arrestato improvvisamente su uno dei volti, con le mani. Le mie dita hanno cominciato a tremare più forte, perché mi è parso di sentir palpitare i lineamenti della mia ragazza con l’acne che stava fronteggiando in silenzio lo spazio.

Ho fatto aderire completamente le mie palme al calco del volto. Respiravo sempre più forte, perché le mie dita stavano già riconoscendo la sua faccia devastata dall’acne, in piena notte, nel buio, in quel posto dove finiva lo spazio.

«Sono qui! Sono arrivato!» le ho sussurrato con la bocca vicinissima alla sua testa. «È tutto finito. Io sono qui.»

Ho sentito all’improvviso il vapore caldo del suo respiro che usciva dalle narici, contro le mie mani gelate.

«È viva!» ho gridato alla donna. «Lei almeno è viva!»

Ho posato le mani oltre la lastra dello spazio spaccato, seguendo la linea del suo corpo completamente nudo, accucciato.

Poi, d’un tratto, ho avvertito, sotto le dita, là in fondo... Ho tastato un po’, sentivo che mi si stava rizzando sopra la testa tutta la massa cieca dei capelli fradici per il gel... Non lo so, non lo so, è difficile arrivare alla fine di questo racconto... C’era qualcosa, una massa enorme che gravava sul suo corpo catatonico, qualcosa come una montagna di pelo immobile, morta.

Devo aver fatto un verso, inintelligibile, perché un istante dopo ho sentito vicino alle mie altre mani intente a ispezionare, a tastare, quelle della donna, visto che non c’era nessun’altra persona ancora eretta, là sotto. Respirava affannosamente da qualche parte vicino alla mia faccia, al mio collo, con la sua bocca scentrata.

«È un lupo!» mi è parso di sentire la sua voce gridare, in qualche falda dello spazio spaccato. «Le è morto sopra dopo averla coperta. Sono tutti morti, qui dentro, solo lei sembra ancora viva, respira!»

Non ho una nozione esatta di cosa è successo dopo. Porto dentro di me il suono dei nostri respiri cavernosi, concavi, l’immagine quasi raggiante di porzioni del volto della donna dalla bocca scentrata che staccava il corpo putrefatto del lupo dal corpo accucciato della mia ragazza, con gesti furibondi, nel buio. La sensazione di una delle mie mani che stava confusamente rumando nell’apertura del suo corpo caldo per buttare fuori dall’utero il cazzo necrotizzato, che si era staccato dal resto del corpo della bestia ed era rimasto dentro quando la donna l’aveva spiccato, e gettato via da una parte mentre stava ancora irrigidito, uncinato, come quando si ficca tutto un braccio nella sabbia bagnata, sulla riva dei mari, di notte, e si sprofonda sempre più con la mano oltre la linea dell’orizzonte e si sentono contro le dita e le unghie grumi di materia biologica in digestione, corpi organici ancora avvolti nella loro nube gastrica, materiali fracassati, detriti, residui calcarei di spazio e frammenti di stelle calcinate, accucciati sulla curva liquida del pianeta in rotazione attraverso la melma nera di spazio pieno di tempeste cosmiche e materia eruttata e luci senza ritorno e schianti musicali di corpi focalizzati e rumori di bandiere lanciate e di nane bianche e tamburi.

Poi più niente. Il volto della mia ragazza che veniva staccato dalla sua nicchia di spazio. Mi sono caricato il peso del suo corpo sopra le braccia. Mi è caduto addosso pesante, come piombo. Ho cominciato a respirarle sul volto, e poi a baciarla, nel buio, sentivo sotto le mie labbra la superficie eruttata del suo volto che aveva fronteggiato lo spazio. Mi sembrava che la sostenesse da qualche parte anche la donna con la bocca scentrata, perché non cadesse a terra mentre cercavo di uscire da quel cono di spazio camminando all’incontrario nell’aria sempre meno densa, meno immobilizzata. E mentre percorrevamo all’incontrario la stessa strada per cui eravamo venuti, e salivamo i gradini verticali che portavano sul filo dell’orizzonte, e poi attraverso il varco d’uscita di quella lama di casa compressa dalla violenza dello spazio schiacciato, e muovevamo i primi passi sopra la strada, verso la forma lontana della macchina che scintillava nella notte che non finiva, il corpo della mia ragazza cominciava a prendere vita tra le mie braccia, sentivo che le sue mani tentavano di muoversi un po’, di stringermi il collo per alleggerire il peso del suo corpo ancora in stato di enorme concentrazione, e anche le sue gambe nude si erano mosse un po’, avevano cominciato ad aggrapparsi e ad attorcigliarsi attorno alla mia schiena, alle reni, mentre mi avvicinavo sempre più all’auto, e le sue braccia diventavano sempre più calde contro la radice del mio collo. Continuavo a trasportarla, adesso da solo, verso la macchina dalle portiere spalancate, e anche l’aria diventava sempre meno immobile, meno densa, man mano che ci allontanavamo da quel luogo e dalla zona di massima concentrazione di spazio e tempo. Si rarefaceva impercettibilmente sempre più, a ogni passo. E poi quando siamo saliti sulla macchina dalle strutture in tensione sotto l’urto della massa di spazio concentrato che premeva sulle sue superfici di metallo, e poi mi sono seduto col corpo della mia ragazza ancora tutto raccolto, abbracciato. E quando la donna con la bocca scentrata ha acceso con un rombo il motore e le ruote hanno cominciato lentamente a girare e la macchina a spostarsi con enorme fatica e poi ha cominciato ad andare per la stessa strada da dove eravamo venuti, all’incontrario, sempre più veloce, più forte, man mano che l’aria diventava meno densa, sempre meno densa. Andava sempre più forte, nelle strade che correvano attraverso zone metropolitane semideserte, mi pareva, a meno che le masse abrase che si vedevano correre ai lati non fossero strutture minerali plasmate dall’azione erosiva dei venti che continuavano a venire dallo spazio, dal tempo, e il corpo della mia ragazza si rianimava sempre più contro il mio. Continuavo a tenerla abbracciata, perché non sentisse freddo, per l’aria che entrava con violenza dal cratere del parabrezza esploso, e anche le sue braccia di carne e le sue mani si animavano sempre più contro il mio corpo e il mio volto. Cominciava a socchiudere gli occhi, di tanto in tanto, si vedeva il bianco dei suoi occhi nel filo che traspariva tra le palpebre ancora pesanti. La sua bocca prendeva colore mentre la continuavo a toccare con le mie labbra. La macchina correva sempre più forte, più forte, nell’aria che diventava sempre meno densa, più rarefatta, così forte man mano che ci allontanavamo da quella zona di orrore che la donna dalla bocca scentrata scoppiava a ridere senza ragione, di tanto in tanto, per l’esaltazione, l’ebbrezza, doveva addirittura frenare perché la macchina non venisse proiettata con troppa forza in avanti, e i nostri corpi risucchiati fuori dal parabrezza scoppiato. Teneva forte il volante con tutte e due le mani, la schiena schiacciata contro il sedile, le braccia diritte, puntate, per fare più forza, nella luce che aveva trovato lo spazio per ricominciare finalmente a salire.

Il copy si fermò all’improvviso, per l’emozione. Ansimava.

Eravamo tutti muti, impietriti, io e la mia Musa, l’account e l’altro account, l’art e la sua ragazza non c’è assorbente che tenga, il softwarista con tutte e due le mani su tavoletta e mouse, la ragazza con l’acne che era rimasta per tutto il tempo con la testa bassa, i begli occhi sbarrati.

Il copy respirò ancora un paio di volte più forte, si passò il dorso di una mano sulle labbra bagnate, come se avesse bevuto.

Nessuno muoveva un muscolo, nessuno fiatava.

«Immobilizzato lo spazio anche qui!» ho buttato lì, per alleggerire un po’ la tensione. «Siamo paralizzati anche noi!»

Nessuno disse niente, nessuno rise.

Eravamo ancora tutti inchiodati agli schienali.

Poi l’altro account si mosse appena un po’ sulla sua poltroncina, vicino all’account. Si schiarì improvvisamente la voce.

«Chi avrebbe pensato!» cominciò a dire girandosi verso la ragazza con l’acne. «Chi avrebbe mai immaginato che lei aveva alle spalle una storia simile! Sembrava che fosse finita qui per caso, che non si sapesse bene perché, cosa farle fare, qui dentro. A che titolo fosse stata ammessa a fare parte di questo brief decisivo. Che fosse qui solo perché è la ragazza del copy di questa campagna!»

L’account si girò a guardarlo, col volto quasi identico, al suo fianco.

«Che cosa ne sa lei» disse con la voce che gli tremava, «che è appena arrivato qui? Lei sì non si sa come, perché!»

Ci fu un nuovo silenzio lungo, impietrito.

Sembrava che dovesse durare all’infinito. Invece la ragazza con l’acne si staccò di colpo dal suo schienale. Veniva su ascensionalmente con tutto il suo giovane corpo, la testa gettata all’indietro nello slancio, le tette in fuori per l’enorme quantità d’aria che aveva incamerato nei polmoni prima di tuffarsi così all’incontrario verso l’alto.

«E adesso?» cominciò a dire e quasi a gridare. «Sono entrata qui dentro in punta di piedi, col ridicolo pretesto di quel provino per la ricerca di una testimonial per la pubblicità di quel prodotto antiacne. Sono rimasta al mio posto, in silenzio, sono stata al gioco. Ho compiuto solo i gesti che mi erano stati richiesti, col mio copy e con gli altri, nei nostri letti, di notte, in questo brief dove si stanno preparando le condizioni per questa transazione epocale e per questo annuncio. Io sono la sola, qui dentro, che ha avuto il coraggio di mostrarsi col suo vero volto. Ma adesso voglio sapere se c’è anche per me una chance! Quando cadrà dal mio volto questa maschera che mi è stata imposta e con la quale ho fronteggiato lo spazio, anche per tutti gli altri, anche per voi? C’è un altro volto sotto questo mio volto, che aspetta di venire allo scoperto! Qual è il volto che c’è sotto il mio volto? Qual è il mio volto, il mio nuovo volto? Quando verrà l’annuncio? Ci sarà anche per me un annuncio?»

E guardava me, solo me, mentre gridava e piangeva, con le vene azzurre in rilievo sotto la pelle bianca e liscia del collo.

Nessuno fiatava.

Mi scossi.

«Perché si rivolge a me, proprio a me?» cominciai a dire tremando un po’ per l’indignazione. «Cosa fa? Lei mi sfida? Ha così tanta fretta? Vuole passare immediatamente all’incasso? D’accordo, d’accordo! Che problema c’è! Cosa ci vuole!»

Gettai un’occhiata al softwarista, che stava immobile di fronte ai suoi video. Solo un’occhiata.

Il softwarista si mosse all’istante, cominciò a operare.

Adesso guardavano tutti dalla sua parte in un impressionante silenzio. Io vedevo con la coda dell’occhio che, nella bolla del video, il softwarista stava lavorando sull’icona della ragazza con l’acne, in silenzio, concentrato, assorto.

«Ecco fatto!» disse soltanto, alla fine, tranquillamente.

Sul video il volto della ragazza con l’acne era adesso assolutamente liscio, abbagliante.

Anche il volto della ragazza con l’acne seduta in mezzo a noi era diventato altrettanto liscio, abbagliante.

La ragazza se lo toccò con tutte e due le mani.

Non riusciva neanche a parlare, non fiatava.

«Ha visto com’era semplice?» sibilai sorridendo, con disprezzo. «Cosa ci vuole! Sono capace anch’io, siamo capaci anche noi di fare miracoli, qui dentro, che cosa crede! Ha visto? E questo è solo l’inizio! Vedrà cosa succederà, d’ora in poi!»

La ragazza con l’acne stava ancora immobile, in piedi, in mezzo agli altri seduti. Continuava a passarsi le mani sulla pelle opalescente del volto, del suo nuovo volto.

Non si capiva cosa stava succedendo nel resto dell’agenzia, perché veniva un suono come di persone che si spostavano in una bolla d’aria accecata, irrespirata.

La mia Musa si passava la mano piena di piccoli anelli sui capelli tagliati corti, senza parlare, faceva tra sé delle piccole smorfie, sorrideva. L’art e la sua ragazza non c’è assorbente che tenga si guardavano negli occhi tenendosi per mano senza fiatare. L’account guardava con gli occhi sbarrati l’altro account che si stava ostentatamente stirando, con le braccia allargate, e intanto aveva la bocca tirata da un orecchio all’altro in un silenzioso sorriso. Il copy si era alzato improvvisamente in piedi a sua volta, a fianco della sua ragazza senz’acne, le aveva preso il bel volto tra le mani, non proprio preso perché teneva le dita a distanza di alcuni centimetri dalla sua nuova pelle, e le muoveva seguendo le linee palpitanti dei suoi lineamenti, come se tra queste e le dita delle sue mani ci fosse uno strato d’aria impenetrabile, denso, che emanava luce.

Si chinò a baciarla, a occhi chiusi, più volte, sul suo nuovo volto.

Mi sono messo a ridere piano, infilandomi una sigaretta tra le labbra tirate.

«Però, mi scusi il puntiglio...» mi scappò da dire rivolgendomi al copy e alla sua ragazza senz’acne, mentre ancora tentavo di accendermi la punta della sigaretta conficcata tra le labbra, che sobbalzava, «volevo dire... dopo una storia come quella che abbiamo appena ascoltato, dopo tutto quello che avete passato per ritrovarvi, lei e il suo copy... quel repentino cambio di coppia in seguito a una sega su un ascensore...»

La ragazza senz’acne mi guardò all’improvviso, con gli occhi accesi.

«Cosa c’entra!» rispose di colpo girandosi dalla mia parte, come scottata.

Scoppiai a ridere ancora più forte, ravvivando la brace della sigaretta accesa da una sola parte, di striscio.

«Ma certo! Ma certo! Io lo so!» le risposi gesticolando, e buttando fuori una boccata di fumo non ancora respirato, per un nuovo e più forte scoppio di risa. «Lo dice a me? Proprio a me? Io lo so! Non gliel’ho detto perché me ne freghi qualcosa. Proprio io... Si figuri! Signorina, vuole che proprio io non capisca! Lo viene a dire a me! Ma... sa com’è... io mantengo pur sempre un occhio professionale su tutto quanto succede qui dentro, mi è richiesto di mantenere un occhio professionale, nonostante tutto quello che è successo, succederà... Che cosa crede! Lo so anch’io che non c’entra niente! Ma lo vada a dire a quegli altri! Cosa crede... ci sarà qualcuno che in questo momento nella sua testolina starà già pensando quello che le ho detto io... Al tempo! Al tempo! Qui non c’è continuità nei personaggi, diranno, non c’è coerenza nel plot! I personaggi devono fare la loro piccola parte di personaggi!»

Buttai fuori una boccata di fumo in due o tre colpi di tosse, per un nuovo scoppio di risa.

«Sì! Sì! Così!» sentii che stava dicendo senza ragione qualcuno da qualche parte, con esaltazione, non saprei dire chi, né perché.

Poi l’account si schiarì la voce, all’improvviso.

L’altro account lo guardava fisso, con la testa girata, da vicino, col suo viso dai lineamenti rielaborati.

«Ma non si poteva fare niente per salvare quell’uomo?» disse di colpo l’account, esasperato.

Ci girammo tutti a guardarlo.

«Quale uomo?» domandò il softwarista.

«Quello con la cuffia acustica! Quello che avrebbe dovuto chiamarsi Sirio!»

Il softwarista allargò le braccia.

«Con quale computer era collegato il suo computer? Con chi era collegato in cuffia?» incalzò l’account.

«Con questo, naturalmente! Col nostro brief! L’ha sentito anche lei!» disse il softwarista indicando il suo, il nostro computer.

«Ma questo brief non era ancora iniziato!»

Il softwarista chiuse gli occhi per un istante.

Si girarono tutti a guardarlo.

«E allora?» incalzò ancora l’account. «Non si poteva salvarlo?»

Ci fu un lungo silenzio.

«Mi scusi...» dissi girandomi verso la sua testa «ma a lei cosa gliene frega?»

Poi mi girai verso il softwarista, che stava ancora concentrato, in silenzio, e si preparava a rispondere a sua volta all’account.

«Io faccio quello che devo fare» disse infatti d’un tratto, tranquillamente, «io non prendo ordini da lei.»

«Da chi li prende, allora?»

Il softwarista lo guardò a lungo in silenzio, non rispose.

Nessuno fiatava. Anche la ragazza senz’acne e il suo copy si erano ormai seduti come gli altri, in silenzio.

La mia Musa mi prese all’improvviso la mano, per un istante, sul piano del tavolo, me la strinse con la sua, morbida e calda e piena di piccoli anelli.

Mi alzai in piedi, incontrollabilmente, di slancio.

«Il suo stato è cambiato, qui dentro!» dissi all’account. «Non l’ha ancora capito? Lei è stato duplicato, annientato! Lei ci ha consentito di arrivare fin qui, nel cuore stesso di questo passaggio e di questo annuncio, dove sono finito anch’io, proprio io, persino io, per la prima volta da quando ha preso corpo la materia del mondo, e hanno cominciato a divincolarsi e a formarsi le sue figure cieche, trapassate da parte a parte da quegli impulsi elettrici imprigionati che sono stati chiamati illusioni, pensieri, e sono andati a forare le strutture fluide dell’atmosfera. Ci sto dentro anch’io, sono stato ficcato dentro anch’io, mi sono ficcato persino io nell’azzardo di questo annuncio che sarà d’ora in poi indistinguibile anche da me, persino da me. Sono anch’io dentro la polpa di questo annuncio. Le nostre membra si sono finalmente agganciate, al termine di questo gigantesco conflitto e di questa era. Sono ormai indistinguibili le une dalle altre proprio perché si sono finalmente agganciate, non sono più separate. Lottano tra di loro nella massa in tensione di questa campagna pubblicitaria e di questo azzardo. Hanno trovato il loro punto d’innesto nella voragine di questo annuncio. Ci siamo finalmente agganciati, io e Dio! D’ora in poi ci sarà solo il movimento muscolare delle nostre due forme avvinghiate, qui dentro, solo il passaggio dei tessuti muscolari in quest’unico enorme corpo avvinghiato in questa lotta mai vista prima, in questo tentativo di scardinamento, di abbraccio!»

Mi arrestai, perché non riuscivo più a respirare.

Stavano tutti in silenzio. Scorgevo confusamente gli altri volti riflessi nel piano del tavolo, dilatati, in fiamme.

Ci fu un piccolo verso.

Mi girai di scatto.

L’account aveva alzato con ostinazione la mano per prendere la parola. Un secondo dopo l’altro account alzò simmetricamente la sua.

«Basta così, per adesso!» dissi senza lasciarli parlare. «Non crediate di poter trasformare questo brief ormai lanciato verso la sua fase finale in un teatrino per le vostre schermaglie sui vostri piccoli problemi di identità personale! Certo. Mi rendo conto... voi siete lì, in due corpi diversi. Ma non so cosa farci! Capisco il problema. Lo venite a dire a me! Accidenti! E allora io cosa dovrei dire! Ma non mi sono dato per vinto. D’altronde questa situazione non durerà ancora per molto, state tranquilli! Verrà messo all’incanto anche questo, sarà messo nel pacchetto anche questo, assieme a tutto il resto, qui dentro. Ho anch’io il mio tornaconto, che cosa credete? Ma adesso andiamo avanti, riprendiamo il viaggio!»

Qualcuno si mosse sulla sua poltroncina, qua e là, si sentiva quel rumore delle membra che si distendono irresistibilmente nella massa senza ritorno dell’aria, dello spazio.

«Allora» ripresi, «a che punto siamo? Ammesso che ci siano ancora dei punti, qui dentro!»

Mi girai verso il softwarista.

«In questo momento vedo solo dei corpi in fuga» rispose con gli occhi fissi su uno dei video, «a testa bassa, lanciati. Non la smettono di andare avanti inclinati aerodinamicamente dentro lo spazio. Non si sono mai fermati, mentre noi stavamo qui a portare a compimento questo brief, anche noi in fuga verso l’annuncio di questa massa vivente che si è creata in questa bolla del cosmo, e nel ventre dell’Interfaccia cresce sempre più ciò che è nato dall’incontro del mio spermatozoo con il suo ovocita, anche quello in rotazione, in annuncio. Non la smettono di rasoiare le strade, volare, nello spazio che si è di nuovo rimesso in movimento, sfondato, ci vanno dentro come in un gorgo che li risucchia, li chiama, le loro gambe si gettano dalle parti, vanno avanti col busto tutto inclinato, rasoterra con l’asfalto delle strade, le luci, le teste serrate nei cascomaschera, con le poltiglie dei loro pensieri mai pensati, le tute da vento, e dietro di loro, o davanti a loro, per degli scavalcamenti improvvisi che si verificano certe volte nella rete delle strade, le alte torri dinoccolate dei trampolieri issati sulle loro sbarre di luce, anche loro con le teste serrate nei cascomaschera, e io so che all’interno di due di questi ci sono le teste di Pericle e Grazia, la ragazza in fuga che mi è sorella, e credo anche di sapere chi sono, per le insegne colorate che mi pare di distinguere su due di quei cascomaschera, nonostante siano come sfuocati dalla corsa e dal vento, e anche tra gli altri si sta verificando qualcosa nei loro confronti, adesso che non si spostano più da soli ma si sono connessi ad altri gruppi di roller e di trampolieri che vanno avanti convergenti, a ondate. Tutti quanti si stringono sempre di più attorno ai loro due corpi lanciati, rasoterra col suolo, oppure alti sulle prospettive delle strade, vicino ai cornicioni delle case, nel vento che c’è sempre in quelle zone più alte. Nessuno ha fatto un gesto, non è successo niente eppure, come per un tacito accordo, o forse neppure per quello, si stanno sempre più serrando attorno ai loro due corpi come le componenti di un unico branco, a quelli che chissà per quale ragione vengono percepiti poco per volta come capibranco, senza essersi detti niente, senza pensare a niente, nel vento della corsa che fa vibrare impercettibilmente tutta la linea dell’orizzonte, mentre me ne sto qui, anch’io fuori dalla mia casa, separato, eppure anch’io dentro lo stesso annuncio e lo stesso sogno. Cosa succederà quando ci sarà la battaglia finale tra i due gruppi e tra i due capi e i due cascomaschera si spalancheranno l’uno di fronte all’altro, e i trampolieri si renderanno conto d’un tratto di aver seguito come capo una giovane roller e i giovani roller un trampoliere?»

Per mare

Principessa intanto sta andando per mare. L’avevamo lasciata ai limiti delle terre emerse, col suo traslocatore, in piedi vicino al loro camion, allacciati. Adesso sono già su una nave. Hanno portato il camion fin dentro le sue viscere, entrandoci assieme alle altre colonne di macchine e camion che penetravano in fila nella sua bocca spalancata sulla banchina del porto. Sono saliti sul ponte, stanno appoggiati alla ringhiera, girati verso la terra lontana, sempre più lontana, e la scia fracassata del mare su cui piombano grandi uccelli marini in cerca di preda, corpi luccicanti di pesci portati allo scoperto dall’elica enorme che sta capovolgendo l’ordine delle acque. Stanno uno vicino all’altra, abbracciati. Salgono dalle viscere della nave i rumori delle auto e dei camion bloccati che rumoreggiano per il beccheggio. Scendono ogni tanto a controllare il carico, nel ventre della nave, passando per quelle piccole porte a tenuta stagna, e poi in fila uno dietro l’altra per quei corridoi di metallo, e certe volte devono abbracciarsi anche così, irresistibilmente, il traslocatore la prende con un braccio da dietro, per i fianchi, le tette, la rallenta, camminando per qualche passo attaccato a lei, col cazzo contro il suo bel culo africano, e anche Principessa allunga le braccia all’indietro, gli stringe all’incontrario i fianchi, il culo, la schiena, e il traslocatore le prende il volto da dietro, con tutte e due le mani, le appoggia le dita sulla fronte, sugli occhi dalle palpebre chiuse, sul naso dalle grandi narici da cui esce il suo respiro caldo di giovane donna bantu, sulle sue scarificazioni rituali, mentre continuano a spostarsi lungo quei corridoi di metallo, ne infilano un altro, imboccano nuove rampe di scale che scendono sempre più verso il ventre della nave che sta spaccando le acque. Aprono l’ultima pesante porta, forzandola con la spalla, fanno qualche passo nel grande ventre in penombra pieno di auto e di camion affondati nell’elemento liquido. Si sentono i tonfi delle acque primordiali che cozzano contro l’involucro della nave, venendo su in controspinta dal basso, dalle zone fluide, segrete che coprono la crosta minerale raffreddata, sopra i suoi strati tellurici interni, le onde elastiche collocate a strati attorno al mantello, ai suoi nuclei pieni di metalli allo stato liquido, zone interne cristallizzate e campi magnetici in esplosione fluida.

Principessa e il traslocatore si spostano tra le file delle auto appaiate, i grandi camion internazionali con le loro torri frigorifero sigillate, sollevando molto i piedi nell’aria su quell’intrico di scanalature e puntelli incuneati sotto le ruote e catene per tenere ancorata tutta la massa trasportata sul fondo vibrante della nave che tiene fuori, dall’altra parte, l’intera massa liquida del pianeta. Si guardano attorno in cerca del loro camion, nel vento della nave in penombra, in mezzo al luccicare delle lamiere nella poca luce che arriva anche là, persino là, in quell’involucro in movimento dentro le acque.

«È là!» dice Principessa di colpo, con la sua voce roca.

Il traslocatore sbatte gli occhi, si guarda attorno.

«Là dove? Non lo vedo!»

«Là! Là!»

Adesso anche il traslocatore lo vede, in una delle file lontane, in penombra.

«Come hai fatto a vederlo?» le chiede.

«Sono abituata a vedere al buio.»

Si dirigono verso il loro camion. Il traslocatore si issa su una delle sue grandi ruote, per controllare il carico. Principessa dall’altra parte. Si guardano per un po’ così, con gli occhi accesi, nella penombra, issati sopra le ruote. Il traslocatore indovina la sua grande bocca che gli sorride silenziosamente nel buio, anche Principessa indovina la sua bocca che le sorride silenziosamente nel buio, traslocatrice.

Scavalcano tutti e due la fiancata del camion, vanno a cercare un piccolo spazio dove poter stare coricati uno vicino all’altra.

«L’ho trovato! Vieni qui, Principessa!» sussurra il traslocatore nel buio, nel ventre della nave.

Si coricano tutti e due in una nicchia, tra cucina a gas, frigorifero, radiatori divelti, su uno strato di lenzuola e coperte sprimacciate. Restano per un po’ uno contro l’altra, abbracciati, con le teste appaiate. Ascoltano solo lo sciabordio dell’acqua che sbatte ascensionalmente dal basso. Il traslocatore le prende in mano una tetta, bella, calda, vivente, infilandole una mano sotto la maglietta, Principessa gli accarezza il torace, le anche, poi il ventre, i peli del cazzo, le palle, scivolando con la sua bella mano nera dalle palme più chiare sotto la cintura dei suoi calzoni, l’elastico delle mutande un po’ sollevato per l’erezione. Comincia a togliersi la maglietta, a sfilarsi i jeans, aggrovigliandosi con le gambe in quegli spazi ristretti. Si abbracciano ancora più forte, nudi, coricati sul fianco. Principessa sente il cazzo premuto contro il suo ventre, caldo, traslocatore. Lui la paglia di ferro della sua fica calda, bagnata, traslocatrice. Lei gli si mette sotto, gli apre le belle gambe, nere, lunghe, lisce come la seta. Lui si tiene sollevato sui gomiti, unisce le gambe, le va dentro dall’alto, semplicemente, così, senza cercare altro, senza curarsi d’altro. Si sentono solo i loro versi nuziali nelle viscere deserte della nave, mischiati ai rumori dei colpi della massa d’acqua che viene su dal basso, al cigolare di macchine e camion che si spostano impercettibilmente qua e là sulle loro ruote bloccate, mentre la nave continua a segare e a capovolgere il mare. Vengono su eruttivamente dal basso i suoi organismi viventi, unicellulari, complessi, infusioni batteriche primordiali in sospensione proiettate verso le zone esterne dell’aria, della luce, fin dove la materia liquida si fa schiuma e anche oltre, e diventano un tutt’uno con l’aria, la luce e le polveri cosmiche dell’aria, della luce.

Rimangono per un po’ l’uno dentro il corpo dell’altra, congestionati. Il traslocatore si lascia cadere sopra il corpo di Principessa che lo tiene abbracciato, la grande bocca contro la fronte, irrorata. Si addormentano persino, per un po’ oppure per molto, tutti e due, uno dentro l’altra. Si svegliano tutti e due nello stesso istante, di soprassalto.

«Accidenti!» dice il traslocatore.

«Accidenti!» dice Principessa con la bocca contro i suoi occhi. «Quanto abbiamo dormito?»

Nessuno dei due riesce a capirlo, se solamente pochi istanti o se un giorno intero, perché quando il traslocatore si solleva dalla sua Principessa, e lo tira fuori dal suo corpo, ancora un po’ gonfio, bagnato, e si asciugano col lembo di uno stesso lenzuolo appallottolato lì a fianco, tutti e due a gambe aperte, e si issano in piedi sul piano del camion che si inclina un po’ da una parte per il beccheggio, e scendono a terra scavalcando la fiancata col piede sulla grande ruota di gomma, e muovono i primi passi nell’immenso garage silenzioso e deserto, e ritrovano la porta di metallo da cui erano entrati e ripercorrono gli stessi corridoi all’incontrario, uno dietro l’altra, sbandando un po’ per le gambe molli, il beccheggio, e sbattono di tanto in tanto contro le bombole antincendio disseminate qua e là contro le pareti, ed escono finalmente fuori, su uno dei fianchi della nave, all’aperto, c’è ancora la stessa luce, nello spazio, sulla massa in movimento nel mare.

«Quanto tempo è passato?» domanda il traslocatore alla sua Principessa. «Non si capisce se è ancora lo stesso giorno o se è un altro giorno!»

«Eravamo tutti e due arretrati di sonno!» dice Principessa allungando le braccia nell’aria per stirarsi.

Restano per un po’ appoggiati alla ringhiera, uno vicino all’altra, a guardare il mare, prima di mettersi in cerca della loro cabina. La trovano, in uno dei corridoi, spalancano la sua porta blindata. Ci buttano dentro lo zaino. Si vanno a gettare tutti e due su uno solo dei due letti. Restano così per chissà quanto, semiaddormentati, abbracciati. Si svegliano di nuovo, di soprassalto.

«Accidenti! Da quanto tempo siamo qui?» si domanda il traslocatore. «Cosa ci facciamo ancora qui dentro?»

«Hai ragione» dice Principessa gettandosi giù a sua volta dal letto, «è venuto di nuovo il momento di traslocare!»

Afferrano immediatamente lo zaino, si gettano tutti e due fuori dalla cabina, si lanciano quasi di corsa lungo il corridoio, per mano.

«Eccola! È la nostra nuova cabina!» esclama il traslocatore indicando una delle porte.

Fanno per aprirla. Ma la porta non si apre. Si gettano contro tutti e due con la spalla una volta, due volte.

«Che cosa succede? Chi siete?» grida una voce dall’interno.

«Veniamo a occupare la sua cabina!» gli gridano da fuori. «Siamo traslocatori!»

Qualche istante dopo la porta della cabina si spalanca di colpo. Si affaccia una donna in reggipetto e mutande.

«Ma questa cabina è mia! È stata assegnata a me!» dice continuando a tingersi i capelli lungo la scriminatura, con un batuffolo imbevuto di tintura. «Guardi qui sul biglietto! È il numero di questa cabina!»

«Non importa che numero le hanno assegnato!» le dice il traslocatore. «Adesso qui dentro ci traslochiamo noi!»

«E io dove vado? E poi mi stavo tingendo i capelli! Ho già vuotato la valigia, sistemato sulla mensola del lavandino il dentifricio, le pinzette per i peli, lo spazzolino, il pacco degli assorbenti, il profumo, le forbicine, le creme...»

«Non importa» le dice anche Principessa. «Faccia anche lei come noi! Traslochi anche lei in un’altra cabina!»

La donna resta immobile per qualche istante.

«D’accordo!» dice improvvisamente.

Si gira su se stessa. Comincia a ramazzare tutte le sue cose disseminate nella cabina, le butta in valigia, le schiaccia giù per riuscire a chiudere la cerniera. Fa un piccolo salto, girata di schiena, ci si siede sopra. Finalmente la chiude.

Balza fuori dalla cabina, tutta inclinata dal peso della valigia. Si lancia lungo il corridoio in cerca della sua nuova cabina, in reggipetto e mutande. Si vede da dietro lo spacco del culo che si muove sotto il trasparente tessuto, mentre la donna percorre a grandi falcate il corridoio.

Principessa e il traslocatore entrano nella loro nuova cabina. Buttano dentro lo zaino. Fanno in tempo a sentire, prima di chiudere alle proprie spalle la porta blindata, che la donna ha bussato a un’altra cabina in fondo al corridoio, lontano, e che la voce dell’uomo che le è andato ad aprire sta dicendo: «Ma questa cabina è mia! È stata assegnata a me! Avevo già tirato fuori tutte le mie cose, il rasoio, la pomata per le emorroidi, il sapone. Stavo dando un’occhiata a una rivista porno, mi stavo rilassando ascoltando musica in cuffia, mi stavo facendo una sega!».

«Non importa» risponde la voce della donna, «traslocherà anche la sua sega in un’altra cabina!»

L’uomo rimane per qualche istante in silenzio.

«Perché no!» le risponde animato, dopo un po’.

E poi i rumori delle porte di metallo che si aprono e chiudono, dei nuovi passi dell’uomo che percorre il corridoio continuando a farsi la sega. Il rumore dell’altra sua mano che bussa a una nuova porta, la voce della persona che apre.

«Che cosa sta combinando?» gli dice. «Che cosa vuole?»

«Non lo vede! Sto traslocando!» risponde l’uomo continuando a farsi la sega.

C’è un trambusto crescente lungo i corridoi, mentre tutti si spostano a occupare sempre nuove cabine, a catena. Si sentono dappertutto voci nuove, animate, porte che sbattono da tutte le parti, rumori di culi sempre nuovi che si gettano su nuovi letti.

Erompe all’improvviso la voce del comandante, che è sceso a vedere: «Cosa sta succedendo, qui dentro? Nessuno sta più al suo posto! Traslocano tutti da una cabina all’altra, i corridoi della mia nave sono attraversati da tutte le parti da persone che si spostano con i loro bagagli, le assegnazioni sono tutte saltate, i passaggi intasati, le scalette vibrano sotto i passi che si spostano da un piano all’altro, facce sempre nuove si affacciano agli stessi oblò, disorientano gli uccelli marini che scendono a strapiombo dall’alto, i pesci che mettono fuori di tanto in tanto la testa dall’acqua, le ali, mentre la massa lanciata della mia nave continua a capovolgere il mare!».

«Non si preoccupi! Lo spazio sta fermentando!» gli grida Principessa mettendo fuori per un istante la testa dalla cabina. «Ci sarà un annuncio, qui dentro!»

Tutta la nave risuona di rumori di passi che si spostano da tutte le parti lungo i pavimenti di metallo, i ponti, le scale, traslocatori. La luce sale, poi scende, risale di nuovo. Di notte, uscendo da una cabina ancora diversa dove hanno traslocato da poco, Principessa e il traslocatore vanno insieme all’aperto, sul ponte. Il tetto scoperchiato, le stelle. Stanno uno vicino all’altra a guardare tutti quei corpi illuminati, incendiati, che precipitano all’incontrario nello spazio esploso, con la testa rovesciata all’indietro sul filo liquido dell’orizzonte che continua a sua volta a precipitare, a ruotare. Salgono di tanto in tanto spruzzi d’acqua nebulizzata, sulle loro facce, le braccia, quando arriva l’onda e si staccano zone aeree di schiuma. Tutto il fondo è bagnato. Anche il ponte è deserto, è piena notte. No, non proprio deserto, a guardar bene, perché si indovinano le sagome di tre persone ritte in piedi sul punto più impennato del ponte, dove si può vedere dall’alto la scheggia metallica della prua che fende la massa atomica liquida.

Si avvicinano di più a quei tre, che continuano a restare ritti in piedi, in silenzio, ma non girati l’uno verso l’altro, e neppure tutti e tre contro la spalletta, voltati dalla stessa parte, di schiena, a guardare il mare nero e la poltiglia allucinata del cosmo.

«Voi chi siete?» prova a domandare il traslocatore.

Nessuno risponde. Stanno sempre in piedi, diritti, impalati, a poca distanza l’uno dall’altro, però collocati asimmetricamente l’uno rispetto all’altro dentro lo spazio, perché uno sta girato di profilo, l’altro di fronte e l’altro di schiena.

Principessa e il traslocatore si avvicinano sempre più. I tre stanno fermi, immobili da chissà quanto tempo. I loro corpi dagli abiti leggeri incollati sono modellati dall’umidità e dagli spruzzi nebulizzati dell’acqua che continua a salire dal mare. Le loro maschere immobili sono luccicanti, bagnate.

«Ma voi chi siete?» domanda ancora il traslocatore. «Cosa ci fate qui, in piena notte, da soli, mentre tutti gli altri stanno dormendo nelle loro cabine? Perché siete posti in modo che nessuno riesca a vedere l’altro? Perché guardate da tre parti così diverse, non vi guardate in faccia?»

Adesso Principessa e il traslocatore sono vicinissimi ai tre uomini che stanno fermi, impalati, a strapiombo sulla prua della nave che affonda e poi riemerge dal mare.

Si sentono solo i boati del carico su ruote che si sposta rumoreggiando nelle viscere della nave.

Poi i tre, uno dopo l’altro, cominciano improvvisamente a cantare.

Canto di profilo

Sono qui immobile, a strapiombo sull’elemento liquido, collocato di profilo in questo punto esatto di questa avventura e di questo viaggio e di questo sogno. Se avessi gli occhi di lato, come gli uccelli, le serpi, potrei seguire ogni cosa che si sposta lungo la sua traiettoria, la vedrei venire da lontano cogliendola persino dal suo punto d’origine, e poi mentre ingigantirebbe sempre di più man mano che si avvicina ai miei occhi incastrati nella scatola d’osso della mia testa, potrei seguire il formarsi dei suoi corpi viventi, delle sue masse in espansione, in tensione, potrei intercettare il momento esatto delle sue collisioni, lo scatenarsi improvviso dalle sue zone d’impatto delle meteoriti appena nate che vengono avanti come proiettili sempre più ingigantiti nelle prospettive sfondate. E poi, non appena avessero attraversato in un istante il punto cieco della visione frontale, potrei vederle di nuovo fuggire dall’altra parte della mia scatola cranica, potrei vedere il proiettile della visione trascinare con sé la sua stessa visione, mentre me ne sto sempre qui, immobile, fisso, corpo e testa bagnati dalla materia liquida che sale eruttivamente dal filo dell’orizzonte, portata in alto dai suoi movimenti ciechi e dalle masse d’aria che si scatenano all’interno dell’atmosfera. Potrei vedere il formarsi di ogni singola onda, dal suo punto d’origine dove il mare si comincia a gonfiare, potrei inventarmi una ragione quando poi la vedrei passare oltre il punto cieco della visione, tutta bianca di schiuma, sfigurata, trasfigurata per lo scatenamento vertiginoso delle sue particelle interne che non smettono di cozzare esplosivamente le une contro le altre, si connettono con nuove masse di materia liquida sbudellata correndo alla cieca verso i bordi infinitamente lontani delle terre emerse.

Invece io non so nulla, non so darmi una ragione, una spiegazione del perché vedo passare continuamente di fronte ai miei occhi queste sempre nuove muraglie d’acqua. Da dove vengono? Perché ci sono? Come si sono formate? Dove vanno a finire? Io non so nulla di cosa è successo prima, qui dentro, di cosa succederà. Colgo solo l’attimo del presente frontale, coi miei due occhi puntati in un’unica dimensione. Non ho bisogno di sapere che cosa è stato, cosa sarà, per inventarmi un’illusoria traiettoria del movimento dei corpi dentro lo spazio. Io sto qui, fermo qui, mi avete collocato esattamente qui, proprio adesso, in questo punto, immobile, al centro, senza connessioni, senza consolazioni. Vedo sfrecciare per una frazione d’istante di fronte ai miei occhi le meteore di queste figure in esplosione, in annuncio, mentre la prua della nave dove sono infisso sprofonda e poi riemerge impennata dalla massa in movimento del mare, lontana da ogni piano solido emerso, senza curarmi di sapere da dove venga tutto questo, dove starà andando, in questa zona in fusione dell’universo e dei corpi cosmici che continuano a imperversare e bruciare. Come questi due che sono usciti in piena notte sul ponte di questa nave in viaggio verso chissà dove. Il traslocatore e la sua Principessa. Passano anche loro per un istante di fronte alle traiettorie focali dei miei occhi che attraversano immobili questo viaggio. Ogni cosa è passata, passa e passerà di fronte ai miei occhi per un solo istante. Io non so niente, non voglio sapere niente, non le vincolo alla consolatoria catena delle connessioni, delle interpretazioni. Ogni cosa e ogni forma imprime nella mia corteccia cerebrale l’istantanea della sua presenza strappata alla rete delle correlazioni. Tutta la massa di corpi che sono passati galvanicamente di fronte ai miei occhi, qui dentro, con i loro movimenti separati, irrelati, tutte quelle apparizioni denudate, figure martoriate, genitali esplosi, voragini di bocche scoppiate colte per un istante nel punto più allargato della rosa dell’esplosione. Da dove vengono tutte queste esplosioni? Dove vanno a finire? Dove si sono formate? E anche tutte quelle altre figure che mi passano continuamente davanti trasfigurate, bloccate, quei messaggeri dalle labbra dipinte, quei segnali, quell’investitore al suo posto di guida... Da dove viene? Dove va? Passerà ancora di fronte ai miei occhi, qui dentro? E quell’uomo che pesta le merde, quel Matto, quel Gatto, quell’altro che mi è passato davanti con quella maschera di porcellana sul volto, quel softwarista, quelle indossatrici dal naso pieno di merda, quella bambina immobile alla sua finestra di fronte al cielo bianco, sempre più bianco, di notte, quella grande bolla del ventre dell’Interfaccia e lo stupratore, quella donna avvolta nella carta stagnola, quell’altra che urla, tutti gli altri... Da dove viene questo finimondo di figure che mi passano per un istante di fronte agli occhi? Dove vanno a finire? Quante altre ne vedrò passare, qui dentro? Venute da dove? Per andare dove? Perché? C’è qualcuno nel mondo, nell’universo, che lo sa? Che si è creato una rete di illusioni, di proiezioni in cui collocare tutte queste figure e queste esplosioni? Mentre io sto qui, sono qui, al buio, di notte, a strapiombo su questa prua a strapiombo sul mare, e sento arrivarmi contro il volto quegli spruzzi d’acqua fredda, salata, salire dagli abissi tutti pieni di particelle cieche, innestate. Non muovo di un millimetro la mia testa per cercare di vedere da dove viene tutto questo, dove va, non faccio ruotare di un solo grado la colonna vertebrale che si innesta nella scatola cranica dove sono incastonati i miei occhi, al solo scopo di permettere al mio raggio visivo di intercettare un frammento infinitamente piccolo dei movimenti del mondo e dei suoi destini.

Canto di schiena

Come nasce un’onda? Da cosa nasce? Come si forma? Cosa succederà, cosa sta succedendo in questo momento alle mie spalle nella enorme massa liquida nella quale ci conficchiamo e avanziamo? Qualcosa di enorme, presumo, dal momento che vedo dispiegarsi di fronte ai miei occhi questi strascichi spropositati di acque e di schiume che corrono a perdita d’occhio verso le terre emerse. Se avessi gli occhi anche dietro la testa, o uno davanti e uno di dietro, potrei riuscire a cogliere il momento esatto di origine delle onde, vedere tutto il fronte di materia liquida che si gonfia sempre più lungo la linea dell’orizzonte e poi esplode e comincia a correre fracassato sopra altri piani d’acqua che smottano a loro volta in direzione opposta, ammesso che sia questo che avvenga alle mie spalle e non succeda invece una cosa assolutamente diversa che io non riesco neanche lontanamente a immaginare. Le potrei inscrivere, oltrepassato il punto morto della visione di lato e del tempo cosiddetto presente, nel più generale movimento di cui avrei in mano la tenaglia del cosiddetto passato e del cosiddetto futuro. Io invece vedo solo lo strascico delle cose, tutte queste figure e queste strutture che vanno verso il loro punto di fuga. Le posso seguire a lungo, fino a quando diventano microscopiche sulla linea dell’orizzonte, fino al punto della loro indistinguibilità e della loro esplosione. Ma chi è che trascina lo strascico? C’è qualcosa o qualcuno che trascina lo strascico, dall’altra parte della mia schiena girata contro la direzione di rotta di questa nave e di questo viaggio? O c’è solo questo scatenamento senza origine né fondamento, da sempre, per sempre? Sono qui, immobile, con la schiena e la testa e le spalle bagnate, i capelli e i vestiti incollati per gli spruzzi d’acqua che mi arrivano continuamente da dietro, dal basso, e avvolgono tutto il mio corpo eretto in una nube iridata di schiuma, quando è giorno e i raggi del sole abbagliano la prua della nave dove sono infisso, per la rotazione di questo microscopico pianeta attorno alla sua stella incendiata. O in un bagliore di luce nera, fracassata, salata, quando è notte e sono collocato sulla faccia in ombra di questo pianeta ricoperto di mari liquidi. Da dove vengono tutte queste figure? Come si sono generate nella zona in ombra della visione? Cosa nascerà ancora di nuovo alle mie spalle? Cosa farà ancora irruzione, qui dentro, balzando dalla zona cieca che c’è alle mie spalle? Sono collocato qui, in questo punto di questa avventura e di questo viaggio e di questo sogno, vedo allontanarsi sempre più di fronte ai miei occhi le grandi onde delle figure lanciate che si accavallano le une sulle altre lungo tutta la linea dell’orizzonte. Posso seguire il loro movimento per molto, a perdita d’occhio. Tutte queste figure e queste tensioni eruttate da qualche punto al di fuori della portata della mia visione, dietro la mia testa, le spalle, e alle quali non so dare ragioni, spiegazioni. Come sono nate? Perché? Dov’è collocato il cratere della creazione e della visione? Esiste un punto, una dimensione da cui esplodono i nuovi mondi? O non ci sarà anche dietro la mia testa qualche altra testa girata che contempla a sua volta le figure e le cose e gli eventi e le loro strutture fantasticate e inventate che fuggono a perdita d’occhio sulla circonferenza liquida del pianeta e del tempo? E non ci saranno forse altre figure girate di schiena di fronte ai miei occhi, lontane, che non vedono me che sto guardando da dietro le loro schiene mentre sto girato a mia volta di schiena e intanto, come me, fantasticano su cosa starà mai avvenendo dietro le loro spalle? Da dove nasce il proiettile della visione?

Canto di fronte

Io lo so come nasce un’onda, io lo so come nascono i mondi. Me ne sto qui, immobile, a strapiombo su questa prua a strapiombo sul mare, la mia faccia è girata verso il punto dove si fracassa lo spazio. Io vedo solo come nasce un’onda e come nascono i mondi. Senza muovere un muscolo, mentre sono investito dalla materia lanciata che si sprigiona dalle giovani onde e dai giovani mondi appena inventati. Le superfici lucenti della mia faccia sono infradiciate dai liquidi della materia organica lacerata e dei mondi che rompono continuamente le acque di fronte ai miei occhi. I miei occhi sono perennemente spalancati e bagnati dalla rottura delle acque della visione. Se avessi gli occhi anche dietro la testa potrei vedere dove vanno a finire le onde, se vanno poi davvero a finire in qualche posto, o non c’è invece solo questo continuo fracassarsi di tempo e spazio sotto l’urto del proiettile della visione. Dove andrà a finire il proiettile della visione? Che ne sarà di tutte quelle figure e quelle tensioni e quegli annunci di forme che vedo sgorgare continuamente dal cratere della visione? Dove vanno a finire quelle voci in tumulto e quelle strutture violentate e inventate che prendono vita e irrompono continuamente qui dentro? Dove sono andate a finire quelle donne dalle bocche scoppiate, ad esempio, e quell’uomo con la paresi masturbatoria e quello stupratore di donne gravide e di videogame e quella ragazza con gambe e braccia amputate e quella con le stampelle profumate e quel sacerdote e l’account dalla cui matrice ha preso vita quell’altro account alle prese con questa sbalorditiva campagna mai vista prima? Che ne sarà di questa transazione epocale, di questo brief che continua ad andare avanti telluricamente e di tutto quello che si è scatenato eruttivamente, qui dentro? Non ne so nulla, non me ne importa nulla. Mi sono gettato dietro le spalle le metastasi dei destini. Sto con gli occhi fissi nel cratere della creazione e della visione. Io vedo solo il proiettile della visione che fracassa lo spazio amniotico della visione. La mia figura si impenna, ritta in piedi su questa cuspide di metallo impennato, su queste muraglie d’acqua appena nate che mandano in pezzi il piano inclinato della visione. Mi sollevo e inabisso e poi di nuovo mi sollevo sulle onde increate di questa creazione e di questa visione. La mia testa luccicante e bagnata si va a conficcare amnioticamente nella putredine di questo spazio e di questa luce, mentre respiro come si respira nelle zone pulviscolari dove acqua e luce diventano una cosa sola nel cratere in annuncio della visione. Colgo solo l’istante germinale della materia in eruzione, in annuncio. Il proiettile della mia testa esplode concentricamente nel proiettile appena sparato della visione. Sto con gli occhi chiusi, là dentro, in totale fusione, in visione, fuori dai cardini della visione, nell’occhio del ciclone della visione.

«Da quanto tempo siamo in viaggio?» si domandano il traslocatore e la sua Principessa, affacciati al nuovo oblò di una nuova cabina dove hanno traslocato da poco, con gli occhi appena riaperti, ancora imbastiti, dopo essere rimasti per un po’ a stirarsi l’uno contro l’altra in una sola cuccetta del letto a castello, ed essersi toccati l’un l’altra le tette nere appena svegliate, la grande curva delle reni prima del culo nero, spaccato, la fica ancora un po’ addormentata, le ossa delle costole, una per una, sotto la pelle del torace stirato, arrovesciato, e poi le ossa delle anche, del pube, i peli delle palle, del cazzo, del culo, e poi l’interno delle ascelle rasate, la curva del collo, della testa, le grandi labbra sbocciate, le orecchie, e poi ancora l’interno delle ginocchia, le lunghe gambe lisce, possenti, le cosce calde, bagnate, profumate, e il cazzo appena svegliato, già un po’ scappellato, e poi le schiene, con le mani piene di dita al termine delle braccia, lungo la spina che parte dalla bella testa nera, dal cervelletto, coi suoi anelli d’osso snodati fino allo spacco del culo, e anche le ruote d’osso delle ginocchia, i polpacci, i tendini elastici delle caviglie, il calcagno, e anche i piedi, le dita dei piedi che si muovono le une contro le altre sotto il lenzuolo, nel movimento liquido della nave che continua ad avanzare sprofondata nell’orizzonte liquido.

«Da quanto tempo siamo in viaggio?» si domandano ancora, dopo un po’, in piedi contro la spalletta della nave, sul ponte, con lo zaino in spalla, mentre salgono dal basso gli schizzi d’acqua salata e il mare sta cambiando colore e si sentono sempre più quelle grida di grandi uccelli marini che vengono giù a strapiombo dall’alto, dallo spazio.

La luce continua a salire, ci sono sempre più passeggeri che guardano appoggiati alla ringhiera del ponte, a corolla, traslocatori. Il mare diventa sempre più basso, più chiaro. La nave ci affonda dentro e riemerge, come da un tuorlo d’uovo.

Poi la terra appare, in un solo punto, lontana.

«L’Africa!» dice Principessa al traslocatore. «Siamo arrivati in Africa!»

La nave continua ad andare, verso la piccola striscia della terra emersa che si allarga sempre più sul filo dell’orizzonte. Sul ponte tutte le teste sono girate da quella parte, in silenzio, mentre l’acqua comincia sempre più a ricoprirsi di detriti viventi, a suppurare.

Principessa e il traslocatore restano ancora un po’ immobili sopra il ponte, in mezzo agli altri corpi disposti a corolla attorno alla ringhiera di ferro. Il traslocatore tiene una mano sulla schiena e sul collo della sua Principessa, da dietro, mentre lei gli tiene una mano sulla spalla più vicina. Guardano tutti e due in silenzio la terra emersa che viene avanti sempre di più dall’orizzonte liquido.

Una voce all’altoparlante comincia a parlare. Si sente il rombo dei potenti motori della nave che rallentano sempre più.

«Forza!» dice il traslocatore alla sua Principessa. «Andiamo sul camion!»

Si staccano dal parapetto, si infilano in una delle porte blindate, mentre altri viaggiatori si stanno dirigendo a loro volta verso i corridoi, le scalette, ammassati. Un numero enorme di passi rimbombano sul fondo di metallo delle scale, dei corridoi, verso il ventre della nave piena di vetture ancorate.

Principessa e il traslocatore si stanno già spostando sul fondo vibrante, verso il loro camion. Saltano sulla cabina di guida, dalle due parti, mentre altri entrano nelle loro macchine e nei loro grandi bilichi e Tir ancora a motore spento nella penombra. Si girano nello stesso tempo a guardarsi, con gli occhi lucenti, seduti sui loro sedili, sorridenti, tranquilli. Si sente il fondo della nave vibrare per i passi che vanno da tutte le parti, gente che si chiama, lamiere sbattute.

La nave è quasi arrivata nel porto, perché il suo fondo oscilla sempre meno, si sta muovendo più piano, affondata.

Finalmente si ferma.

Qualcuno accende il motore prima del tempo. Lo spegne.

Rumori forti, fuori dalla bolla di metallo della nave sospesa sull’acqua.

Poi il portellone levatoio comincia a venire giù piano piano, dall’alto. Irrompe una striscia di luce forte, accecante, nel ventre della nave.

La prima macchina vicina all’uscita si comincia a spostare.

Sempre più motori si accendono. Anche il traslocatore accende il motore del camion. Principessa si lascia andare sopra il sedile, si stacca i sandali, appoggia tutti e due i piedi nudi sopra il cruscotto, segno che il viaggio è ricominciato.

«Si riparte!» esclama il traslocatore mettendo in movimento tutta la massa del camion.

Si sente solo il fragore di tutte le ruote di macchine e camion incolonnate verso il bagliore dell’uscita lontana. Principessa si sgranchisce le braccia, muove le dita dei piedi, per sgranchirsi anche quelle. Le fa ruotare contro lo schermo del parabrezza sempre più investito dalla luce esterna man mano che il camion si avvicina all’uscita. Se le guarda mentre si muovono una per una, controluce. Se le continua a guardare mentre il camion balza fuori dal ventre della nave, sulla banchina brulicante del grande porto lanciato sull’ultimo lembo della terra emersa, e poi continua a spostarsi a passo d’uomo lungo le vie gremite piene di case ammassate e grandi moschee ricamate, e poi aumenta un po’ la velocità aprendosi un varco nelle strade che cominciano a diventare più deserte, più grandi, corre poco per volta più forte. Le fa ruotare staccandole bene le une dalle altre su quei nuovi sfondi africani.

Adesso il camion corre ancora più forte. Si sente il carico sobbalzare mentre volano su quei fondi stradali pieni di buche.

Il traslocatore improvvisamente rallenta, si ferma. Tira il freno a mano. Principessa lo guarda.

«Che cosa succede?» domanda.

«Buttiamo fuori il carico!» le risponde lui. «Basta con la farragine dei mobili, dei frigoriferi, degli infissi, dei rubinetti, dei quadri, dei lampadari... D’ora in avanti traslocheremo soltanto noi stessi!»

Saltano giù tutti e due dal camion, si inerpicano sulle sue grandi ruote, uno da una parte e l’altra dall’altra. Abbassano le fiancate, cominciano a buttare giù i mobili, il frigorifero, la lavatrice. Volano a terra uno dopo l’altro, scassati. La luce è alta, la giornata rovente. Si asciugano il sudore sul volto prima di riprendere a buttare giù il resto del carico, i comodini, il grande letto un po’ sbarellato, il tavolo di cucina, il portaombrelli, le sedie, la cyclette...

«No, la cyclette no!» lo ferma Principessa.

Il traslocatore si ferma. Rimette la cyclette in piedi al suo posto, al centro del piano del camion tutto aperto e svuotato.

Tirano su la fiancata, la bloccano con i ganci. Mettono tutti e due un piede dall’altra parte, sopra la gomma. Scendono a terra, risalgono sulla cabina.

«Abbiamo buttato via la zavorra!» esclama il traslocatore.

«Così andremo ancora più forte!» gli risponde Principessa ridendo.

Il traslocatore accende il motore, ingrana la marcia. Il camion ricomincia a spostarsi leggero, più leggero, nella strada che a poco a poco diventa una pista.

Principessa sbadiglia. Accende la radio, la mette piano. Si gira dalla parte del traslocatore, sul fianco, per poterlo guardare ancora per un po’ con gli occhi che si cominciano a chiudere per il sonno, mentre continuano a scendere sempre più verso l’Africa nera.

La bolla

Il softwarista allargò improvvisamente le braccia.

Stava a bocca spalancata di fronte alle bolle dei video, con gli occhi sbarrati.

«Che cosa sta succedendo?» domandai.

«È partita!» rispose.

Non si sentiva volare una mosca, nessuno fiatava.

«Che cosa?»

«Si sta formando!» balbettò ancora, con la voce alterata.

«Che cosa? Che cosa?»

Guardava come ipnotizzato nei video.

«La bolla!»

L’account si agitò sulla sua poltroncina. L’altro account si agitò a sua volta, sulla poltroncina vicina.

«Quale bolla?» incalzai.

«La bolla! La bolla! Si sta formando la bolla! Si sta cominciando a mettere in moto tutta la valanga! Le prime società di brokeraggio hanno già drizzato le orecchie. I primi trader hanno già annusato la pista. Stanno acquattati nel fango dei network informatici ad alta velocità, nelle comunicazioni satellitari, come pesci siluro. Enormi masse di denaro che comperano tutto quello che c’è da comprare hanno già scandagliato questa transazione epocale...»

Il copywriter si proiettò di colpo in avanti.

«Ma non c’è ancora tutto questo nello storyboard! La vendita non è stata ancora formalizzata! Il redentore non è ancora nato! Non ne è stato ancora dato l’annuncio!»

Il softwarista scosse la testa.

«Lo storyboard, il redentore, l’annuncio... Ormai il mercato è tutto giocato su potenzialità, aspettative! E che aspettativa ci può essere più grande di quella che noi abbiamo messo in gioco qui dentro? Qualcosa sarà sicuramente filtrato, siamo on line. Sarà bastato questo per scatenare i primi sussulti nelle sale trading!»

«Ma come fanno a capire che esiste davvero la possibilità di questa transazione?» esclamò il copywriter. «Non esiste una stima. Non è stato fatto un report da parte di una società terza. Non è neanche possibile ipotizzare un report, in una vendita simile, non è neanche possibile immaginare che possa esistere una società terza, che possa qualificarsi estranea alla totalità di una simile vendita e alla valanga d’acquisto che si deve mettere necessariamente in moto per poter arrivare anche solo a immaginare l’acquisto, in questo caso... E come fanno ad avere poi la certezza che chi vende disponga veramente del possesso della merce che dice di mettere in vendita? Che possa veramente e totalmente disporre di una merce che, in questo caso, viene a coincidere con la totalità di tutte le merci e col contenitore cosmico di tutte le merci? Insomma, chi gli dà la certezza che questo qui sia veramente Dio?»

Sogghignai un po’, facendo sobbalzare le spalle: «Ah, non c’è mai la certezza! Altrimenti che fede sarebbe!».

Ci fu un breve silenzio. Mi accesi una sigaretta.

«Sì, sì, d’accordo» obiettò l’art, «ma si deve pur fondare su qualcosa una qualsiasi transazione, una fede... Tanto più una di simili proporzioni!»

«Mi sta dicendo che per attuare questa operazione economica si deve credere in Dio?» gli sorrisi, facendomi uscire il fumo dalle narici, a occhi chiusi.

«Be’, sì, certo, in un certo senso! Per forza! Se no come fanno a fidarsi? Chi gli dà la certezza di avere a che fare veramente con Dio?»

«Il mercato!» interloquì il softwarista.

Mi girai a mia volta verso di lui.

«Ci faccia capire...» dissi tenendo la sigaretta sollevata nell’aria, incendiata.

«È semplice!» rispose il softwarista tranquillamente. «Se non fosse Dio come potrebbe avere la facoltà di vendere?»

«Sì, ma qui si rovesciano i termini della questione, mi pare!» incalzò il copywriter.

Il softwarista allargò le braccia.

«Messa giù così il problema è insolubile. Se non vogliono crederlo all’inizio, ci crederanno per forza alla fine! Quando sarà avvenuta la transazione per forza dovranno credere che non può che essere stato Dio a fare una simile offerta!»

Lo guardammo tutti. Anche la ragazza senza più l’acne lo guardava col suo nuovo volto, raggiante.

«Perfetto!» dissi portandomi la sigaretta alle labbra. «Così l’economia è diventata teologia!»

Ci fu un lungo silenzio. Io tenevo la sigaretta con una mano, con l’altra tastavo con noncuranza una tetta della mia Musa, che abbracciavo dietro la schiena. L’account e l’altro account erano fissi uno vicino all’altro, impietriti.

«Dirò di più!» proseguii. «Noi qui ci stiamo ponendo il problema del mercato che deve per forza credere in Dio per poter andare a un simile acquisto. Ma perché non ci poniamo anche il problema inverso? Perché nessuno si interroga sull’enorme gesto di fiducia che deve compiere Dio nei confronti del mercato? Perché non è solo il mercato che deve credere in Dio. È ancora più enorme quello che si chiede a Dio: di credere nel mercato, che esista il mercato. Altrimenti a chi vende? Non so se vi rendete conto! Deve credere che il mercato sia solvibile nei confronti della totalità di se stesso! Deve credere che il mercato possa comperare se stesso!»

«Ma come può il mercato comperare se stesso?» mi interruppe l’account, quello che era stato l’account.

Tirai una boccata lunga, lenta, con gli occhi chiusi, senza scompormi, tenendomi con l’altra mano la mia antica testa.

«Che mercato sarebbe se non potesse arrivare a comperare se stesso?» sentii che lo stava mettendo al suo posto il softwarista. «Il mercato vende anche se stesso. Vende e compra nello stesso tempo se stesso. È solo vendendo se stesso che può comperare se stesso! Il mercato può solo comperare se stesso!»

Guardai per alcuni istanti l’account, che era rimasto teso in volto, sdoppiato, vicino all’altro account.

«Lei aveva ragione!» infierii all’improvviso. «Alla fine qualcuno è venuto veramente a sedersi al suo fianco!»

L’altro account stava irrigidito vicino a lui, sorrideva tra sé coi suoi nuovi lineamenti rimodellati, come si può sorridere andando in motocicletta controvento a duecento all’ora senza casco di protezione.

Adesso si sentiva solo il rumore del softwarista che cliccava muovendo fulmineamente la mano sopra la tavoletta, sfuocata.

«Ragazzi» ripresi a dire, «noi stiamo portando ogni cosa al punto di non ritorno. Stiamo avvicinandoci al punto limite. Della pubblicità, dell’economia, della teologia e delle sue narrazioni. Dopo che abbiamo messo fuori gioco quel povero Matto con la sua piccola, disperata, totalitaria finzione. Adesso sta viaggiando scoordinato chissà dove, abbracciato alla sua Meringa, a quella che crede ancora la sua Meringa. È apparso finalmente il cliente, qui dentro. E che cliente! Il cliente di tutto quanto, il mio vecchio Dio, finalmente, che credevo perduto per sempre, che forse avevo soltanto immaginato, evocato, che mi stavo chiedendo da sempre se non l’avevo per caso soltanto inventato, per dare una qualche forma alla mia proiezione vivente, al mio sogno. Adesso siamo finalmente avvinghiati, io e lui, ma chi è che avvinghia l’altro, chi imprime sul mutante dei nostri corpi avvinghiati i movimenti orbitali più decisivi e più forti? Mentre esplodono ed esploderanno sempre più le nostre storie di invenzione e d’amore, per valorizzare sempre più la merce che stiamo trattando. Gli facciamo annusare un po’ di paradiso. Cazzo, che paradiso potrebbe mai essere questo mondo! E vendere al meglio tutta la frittata che stiamo cuocendo e noi stessi dentro la nostra stessa frittata. Se il gioco è poi davvero questo alla fine, alla fin fine. In attesa che venga dato l’annuncio con l’invideazione... Anche se, a ben vedere, tutto è ormai basato su potenzialità, aspettative, come ci ha spiegato poco fa il nostro softwarista...»

«Cosa vorrebbe dire?» si allarmò qualcuno, non saprei dire chi, tanto ero sprofondato in me stesso e nel mio sogno.

«Mah...» buttai lì «se ormai il gioco è questo, se tutto ormai si gioca sull’anticipazione e sull’irrelazione, se l’e-business e l’e-commerce funzionano ormai così, be’, insomma... che bisogno c’è di farlo veramente nascere questo cazzo di redentore di tipo nuovo, con tanto di fica, stavolta, per poi farlo inutilmente soffrire e morire, come l’altra volta? Non è sufficiente che sia stato, come suol dirsi... concepito?»

Tutti gli occhi si erano girati verso di me. Persino la mia Musa respirava più forte, lo sentivo dalla tetta che si gonfiava e sgonfiava sotto i terminali delle mie dita e della mia mano, che la teneva ancora abbracciata da una parte, da dietro.

«D’accordo, d’accordo...» mi corressi tempestivamente «forse mi sono spinto un po’ troppo oltre, mi sono scoperto troppo. Forse qualcuno, da qualche parte, avrà creduto di indovinare chissà quale mio gioco, nella sua testolina... Cosa andate a pensare? Certo! Ci sarà questo annuncio! E allora tutta la ruota comincerà a girare ancora più forte, così forte che sembrerà immobilizzarsi. La valanga si staccherà, si libererà da se stessa, verrà giù prendendo sempre più nel suo fronte tutto quanto, persino ciò che in un primo tempo appariva come il suo piano di scorrimento...»

«Banche di investimento» si animò galvanicamente l’account, «tecnologie cellulari, set top box, comunicazioni satellitari, commodity...»

«Broker, tribù, trader guerrieri» si animò specularmente l’altro account, «upgrading, expertise, mainframe, shopping on line, processori di ordini, sistemi client server, tutto l’ecosistema in tensione, in fibrillazione, mission statement sul piede di guerra, asset, valanghe azionarie con gli intestini fuori, moltiplicazioni azionarie, proliferazione incontrollabile di sempre nuovi siti, sfondamento finanziario di specie...»

«B2B, B2C, C2C, C2B, B2A...» ripartì alla carica l’account.

«B2E, A2B, A2E, A2C, A2A...» contrattaccò l’altro account.

«Altolà!» li bloccai. «Che cazzo state dicendo, voi due?»

La bambina intanto è ancora dove era stata lasciata, alla finestra. L’uomo che pesta le merde è passato. È arrivato, camminando a lunghissimi passi nella città addormentata, di notte, e poi nelle prime luci, dove c’è quell’edicola così profumata. L’ha già scavalcata una volta, è tornato indietro, l’ha scavalcata di nuovo. Mentre quella ragazza dalle stampelle profumate ha sollevato improvvisamente le braccia, nel vederlo di nuovo, in un gesto di esaltazione e abbandono.

«Ma non ti togli mai quelle scarpe?» gli gridai.

«E tu non ti togli mai quelle stampelle?» le grida di rimando l’uomo che pesta le merde.

«Non sono stampelle qualsiasi. Sono profumate!» gli grida la ragazza ridendo. «Non riuscirebbero a sostenermi se non fossero profumate!»

E il grafico di copertine è di nuovo in viaggio per rivedere la sua Copertina, nel residence ancora tutto deserto, perché quella comitiva non è ancora arrivata. E il sacerdote sta dormendo nella sua canonica, castamente abbracciato al corpo di Aminah, che respira tranquillamente nel sonno.

La bambina si sta stringendo nella sua mantellina. Trema un po’ per l’umidità della notte, per il freddo, nella sua piccola vestaglia appena lavata e che sa di bucato. È a piedi nudi, sta un po’ sollevata sulle punte, per vedere meglio fuori. Anche se è notte, le continua a sembrare che il cielo stia diventando più bianco, sempre più bianco. Eppure non è l’alba, non può essere l’alba perché l’orologino che ha al polso segna che è notte, e la città è ancora quasi completamente deserta, le strade vuote, adesso che è passato quell’uomo lungo, e poi quella macchina silenziosa, e poi quei due corpi che si rincorrevano uno su quegli alti trampoli e l’altro tutto piegato sui roller, con le teste serrate nei cascomaschera colorati. Dove staranno andando così di corsa, di notte, dove staranno convergendo tutti quanti, qui dentro? Perché altre figure escono di tanto in tanto dai portoni e si mettono in marcia a loro volta verso chissà dove, piegate in due per il vento che si sta levando sempre più forte, se è un vento, tutte un po’ irrigidite e persino un po’ piegate all’indietro per contrastare la sua forza e continuare così ad avanzare? Il cielo è sempre più terso. La notte è nera, eppure ogni cosa si sta accendendo al suo interno, la strada diventa sempre più soffice, bianca, le linee dei marciapiedi, le case ancora sprofondate nel sonno, le superfici dei tetti. «Da dove verrà questa luce» si domanda la bambina «che forse vedo solo io, che sembra esserci solo per me, che forse non ci sarebbe se non ci fossi io che la guardo, da sola, affacciata alla mia finestra, dopo la giornata tremenda che ho appena trascorso, e l’altra che mi aspetta appena nascerà il nuovo giorno, e saliranno tutte quelle luci che non sono più neanche luci, che cancellano tutte le luci? Ci sarà qualcuno, da qualche parte, che riesce a vedermi, che sa che esisto?»

L’uomo che incendia le spore

Sì, qualcuno c’è. Io ci sono. So che esisti, ti ho sentita. Io ti vedo ogni notte, anche se tu non mi vedi, quando ti affacci alla tua finestra. Vedo il bagliore della tua piccola camicia da notte nel buio, mentre stai coi gomiti sul davanzale, la testa incassata nelle piccole spalle, a guardare fuori, da sola, la città buia, piena di persone abbandonate al sonno. E ti sembra certe volte che qualcosa nell’aria nera della notte si accenda, proprio da dentro, dall’interno. Che tutto diventi a poco a poco bianco, più bianco, sempre più bianco, e non capisci se si tratta veramente di luce o se non sono invece quei bagliori che si accendono qua e là dentro la visione, quando i tuoi occhi sono tutti bagnati dalle lacrime che vengono giù senza freno, mentre sei sola, nessuno ti vede, mentre credi che nessuno ti veda, e anche le tue guance e tutto il tuo piccolo volto dimenticato e la tua piccola bocca sono fasciate da quella carezza dove si riflettono i bagliori vaganti sopra la retina, venuti dallo spazio buio e pieno di corpi luminosi e deserti, dalle piccole luci che ci sono nelle strade vuote, da quelle altre che si accendono all’interno stesso dell’aria, per te, solo per te, che sai che cos’è la luce. Non ti sei sbagliata. Tutto lo spazio si accende. Io mi sposto per la città, anch’io da solo, di notte. Com’è strana la notte! mi dico. Tutte queste case e questi grattacieli e questi palazzi, tutti innervati di cavi e piccoli fili che trasportano la corrente, e di mille tubi e radiatori e canali pieni d’acqua calda e fredda, a seconda della stagione e della collocazione della nostra stella di gas incendiato rispetto all’angolo di gravitazione del nostro pianeta, riscaldata o raffreddata dai gas incamerati che attraversano da parte a parte lo spazio, strappati alle scaturigini della terra. Quegli aloni operativi mentali a cui sono stati dati i nomi di ere, di civiltà, con i loro deliri e i loro sogni guerrieri. E tutte queste antenne e questi ripetitori che captano da ogni parte le onde gravide di immagini e suoni. E canaline che corrono interrate nei marciapiedi, per alimentare tutte queste strutture in tensione, coi loro universi di pixel. Eppure... eppure... Eppure tutti, qui dentro, quasi tutti, esattamente come milioni e milioni di anni fa, quando va via la luce, viene notte, quando la faccia del pianeta su cui viviamo piomba nell’ombra, e la stella che ci dà luce passa dall’altra parte, sprofondano insieme nel sonno. Le luci si spengono dappertutto, nelle case. Uomini e donne cominciano a sbadigliare. Si spogliano dei loro vestiti, si coricano qua e là su quelle superfici orizzontali imbottite che hanno chiamato letti. Le loro palpebre cominciano a farsi pesanti, la respirazione rallenta. I loro muscoli si rilassano, la vista e l’udito diminuiscono, cessano quasi del tutto, i tessuti nervosi che regolano le loro attività, tutte le funzioni organiche si riducono al minimo, il metabolismo rallenta. Le loro attività mentali entrano in confusione, perdono conoscenza. Le città si trasformano in grandi stelle piene di massa vivente separata, in sonno. Corpi nudi raggomitolati, in stato di totale abbandono, nelle cui poltiglie cerebrali fanno irruzione i sogni. Io cammino da solo, in mezzo a tutta questa massa cieca in respirazione. Sento distintamente il rumore del loro sonno quando rasento le case. Chi mi ha mandato? Chi sono? mi chiedo certe volte mentre mi sposto così per la città deserta. Che sia io stesso un sogno?

Mi avvicino alla tua casa. Mi fermo a guardarti, da un cono d’ombra proiettato dallo spigolo di un palazzo, non visto. Ti contemplo in silenzio, immobile, senza respirare. Mi allontano un po’, quasi in punta di piedi, per non fare rumore. Torno ancora a guardarti, a contemplarti. Nell’aria tersa galleggiano pollini, spore. Il vento li trasporta qua e là nella notte, sgranati. Si staccano dalle chiome degli alberi silenziosi, dagli ovari, dalle antere dei fiori, con le loro ciglia trasparenti in respirazione nell’aria. Tiro fuori improvvisamente di tasca il mio piccolo accendino. Incendio qualche spora qua e là. Le vedo palpitare per alcuni istanti nel buio prima di scomparire. Non si capisce neppure se sono effetti ottici o zone elettrizzate dell’aria che vanno in combustione da sole e si rendono visibili per un istante in qualche improvvisa smagliatura di luce. Ne incendio ancora qualcuna, spostandomi nella notte con la fiammella dell’accendino levata. Vado in zone dove le spore sono più agglutinate e più fitte, muovo la fiamma dentro le loro matasse incagliate che si accendono all’improvviso. La faccio girare con la mano sollevata nei suoi reticoli che si connettono l’un l’altro per il propagarsi del fuoco. Fanno palpitare per un istante piccole porzioni di spazio. Seguo i loro flussi che attraversano la città, levandosi dagli apici vegetativi immobili e silenziosi nel buio, dai talami, dalle cellule uovo, le zone dove le correnti messe in movimento dall’aria si incontrano e si attraversano, trasportando con sé tutta la massa elettrizzata e incendiata. Muovo la mano alla cieca, là dentro, sento il crepitare dei batuffoli germinali che bruciano la loro massa, ma che un istante prima di spegnersi si connettono con altre spore vaganti. Tutta la ragnatela si incendia, tutte le strade sono attraversate qua e là da bagliori sempre più fitti man mano che entro con la mia fiamma nelle zone più agglutinate che si raccolgono attorno ai tronchi degli alberi, sui marciapiedi dove grandi matasse si sollevano al solo spostarsi d’aria del mio passaggio, e si incollano alle mie gambe, ai miei piedi. Tutto il reticolo si accende sempre più, riprende a palpitare dalle zone più fitte a quelle più lontane e sgranate. Torno di corsa di fronte alla tua casa, se mi ero allontanato di molto seguendo le nubi delle spore vaganti, per poter contemplare non visto il tuo volto che si illumina nella notte vedendo il cielo accendersi sempre più, diventare bianco, sempre più bianco, anche la strada, sempre più soffice e bianca. Vedo che chiudi gli occhi, tutto il tuo volto è luminoso e lucente per le lacrime. Non ti sei sbagliata. È per questo che vedi il cielo diventare così bianco, sempre più bianco. Sono io che accendo il cielo per te!

Mi allontano di nuovo dalla tua finestra, seguo gli sciami che si spostano qua e là nelle vie. Li incendio nelle zone dove sono più fitti, per innestare la loro trama elettrizzata di luce nelle masse vaganti delle altre spore che si spostano a sciami anche in zone lontane, fin nei punti più remoti dove è rimasta a palpitare una sola spora incendiata, fin dentro la narice di un passante notturno. Si stropiccia per un istante la punta del naso, senza capire che cosa è successo, a cosa la massa del suo corpo si è collegata, riprende a camminare con le mani in tasca, gli occhi quasi chiusi per un improvviso sbadiglio. I cofani delle rare auto in circolazione cominciano a palpitare nel loro bozzolo di spore incendiate, i fili aerei dei tram, gli spigoli delle case, dei tetti, tutta la città è avvolta in una garza germinale incendiata. Si accendono sempre nuovi bagliori anche in alto, più in alto. Anche il cielo notturno diventa qua e là bianco, sempre più bianco, tutto lo spazio è in bagliore. Vedo passare uccelli semiaddormentati nel loro alone di luce, mentre torno di corsa a guardarti. Anche i contorni del mio corpo palpitano nella matassa di luce, si connettono alle altre metastasi della luce spostate dalla mia corsa. Ti contemplo ancora dal basso, in silenzio, coi contorni incendiati, nella mia garza di luce.

Canto dell’uomo che incendia le spore

Accenderò la città, il cielo, lo spazio, farò palpitare e bruciare i loro contorni nell’amalgama della luce. Ogni cosa diventerà luce di fronte ai tuoi occhi. Il tuo piccolo volto verrà fasciato dall’utero della luce. Ci starai dentro con gli occhi chiusi, nella luce che si sta inventando la luce. Susciterò la luce che c’è dentro la luce. Ti porterò ogni cosa e ogni luce nello scrigno della sua luce. Spingerò le matasse di luce verso l’origine della luce. Correrò tutto fasciato di luce dentro i fiumi di luce. Li sospingerò verso la tua strada, la tua finestra, lambirò con la mia luce le correnti di luce che ancora non sanno di essere luce. Scatenerò le reazioni morbide della luce in movimento dentro la luce. Entrerò con la mia scintilla di luce dentro le matasse vegetali pullulanti di luce. Vedrò passare sulla mia testa abbagliata i fiumi che fa la luce. Distinguerò all’interno delle poltiglie molecolari in dissolvimento dentro la luce le ciglia mobili della luce che si connettono con altre ciglia di luce, i pori germinativi da cui erompono le metastasi soffici della luce che divora la luce. Orienterò le onde di luce tutte gravide di cellule batteriche trasfigurate e citoplasmi incendiati verso l’origine della luce. Lancerò le onde sgranate di luce le une contro le altre per sospingere verso di te tutto il mare che fa la luce. Potrò restare finalmente immobile, abbagliato, a guardarti, a contemplarti, per sempre, immobile nella mia luce, nel diapason della luce. Non mi distinguerai neanche più mentre farò un tutt’uno col resto della luce. Potrò contemplare con gli occhi bendati di luce il tuo piccolo volto dimenticato reso trasparente dalla sua luce dentro l’aureola amniotica della luce.

«Da dove verrà tutta questa luce?» si domanda la bambina affacciata al vano della finestra verso la quale si spostano ondate di luce. «Ma allora non mi ero sbagliata! La strada sta diventando bianca, sempre più bianca, anche il cielo sta diventando sempre più bianco. Tutta la città si sta rischiarando, eppure è notte, mi pare, non si vede niente, nessuno, solo la luce. Che cosa sarà tutta questa luce? E io dove sono? In che mondo sono? Che sia in paradiso? Allora forse sono già morta, finalmente! Oppure non sono ancora nata, sono ancora dentro la pancia della mia mamma. Qualcuno mi sta tenendo tra le sue braccia di luce, da sempre, anche se ancora non lo sapevo. Qui nessuno mi può più fare del male. Io non lo so chi è, che cos’è, ma voglio stare tra le sue braccia per sempre, per sempre. Io e lui solamente, in questa luce.»

Aminah intanto si è svegliata tra le braccia del sacerdote.

«Da quanto tempo eri sveglio?» gli domanda aprendo gli occhi di colpo, nel vedere la sua testa di fronte, che la guarda con dolcezza, in silenzio, con la nuvola dei capelli sparata.

«Preferivo guardarti» le risponde il sacerdote accarezzandole il volto.

«Che cosa c’è?» gli chiede ancora Aminah.

«Questa è l’ultima notte che passiamo insieme, io e te. Non volevo sprecare il tempo dormendo.»

«Perché? Che cos’è successo?»

«Mi ha telefonato la Musa, stanotte, mentre dormivi» le risponde il sacerdote senza smettere di accarezzarla, «ti devo portare da un’altra parte. Ti aspetta un destino diverso, un’altra vita.»

Aminah piange un po’, accostando il suo volto a quello del sacerdote che la tiene abbracciata nella piccola branda. Le loro guance sono bagnate, non si capisce se sta piangendo anche il sacerdote o se sono solo le lacrime di Aminah che bagnano entrambi.

Il sacerdote le bacia il volto nero, lucente. Anche Aminah gli bacia il volto, con le sue labbra bagnate. Restano così per un po’, senza la nozione del tempo. La luce sale, comincia a rischiarare la piccola stanza entrando dai listelli sconnessi delle ante.

«È ora di dire la messa» sussurra il sacerdote contro il suo volto. «Dobbiamo alzarci!»

Mette i piedi giù dal letto, prende Aminah tra le braccia, la solleva, la porta nel bagno, la lava, la veste, la imbocca per l’ultima volta. Si lava a sua volta, si infila la veste.

«Eppure è ancora notte!» si dice il sacerdote guardando per la prima volta la sveglia. «Come mai c’è già tutta questa luce? Il tempo è stato spostato, qui dentro, non sta più dentro il tempo.»

Scendono nella chiesa. Il sacerdote issa per l’ultima volta il corpo di Aminah sopra le tovaglie dell’altare. Anche i fedeli si sono alzati prima del tempo, per via della luce, perché ci sono già diverse persone inginocchiate nella piccola chiesa, nonostante sia notte. Il sacerdote comincia a celebrare la messa, pronunciando le parole a fior di labbra, raccolto. La testa di Aminah canta per l’ultima volta, dopo la consacrazione, mentre il sacerdote sta annientato di fronte al tabernacolo spalancato, tanto che si è dimenticato di staccarsi la siringa che gli penzola dal braccio libero dai paramenti tirati su quasi all’altezza della spalla, anche se è un giorno come tutti gli altri, non sarebbe messa cantata.

Escono assieme dalla chiesa, stringendo un po’ gli occhi, abbagliati. Il sacerdote tiene tra le braccia Aminah, nella luce appena inventata. Camminano per un po’ in quella garza di luce. Il sacerdote viene avanti sorridendo, in silenzio, con le pupille sbarrate. Aminah tiene gli occhi chiusi, tutta la sua testa e i suoi capelli sono evidenziati da quell’ovatta di luce. Le strade sono deserte, abbagliate. Non si sente un suono, una voce. Solo, a tendere l’orecchio in quel microscopico crepitare di luce, qualcosa che non sembra neanche un suono ma anche quello un suono di luce, un suono che si propaga attraverso la luce con la sua onda di luce. Si avvicina sempre più. Il sacerdote rallenta, si ferma. Qualche istante dopo, da un movimento impercettibile nei vortici della luce, vede affiorare la sagoma di una bicicletta dal telaio di luce. Anche l’uomo che la guida si ferma, si stacca dalle labbra la trombetta che stava suonando, mette un piede a terra. Lui e il sacerdote rimangono per qualche istante a guardarsi sorridendo, in silenzio. Anche Aminah apre gli occhi, guarda l’uomo con la bicicletta, immobile, come radiografato nella sua porzione di luce.

«E tu chi sei?» gli domanda.

«Sono il suonatore di prepuzio» le risponde l’uomo senza staccare gli occhi da lei, sorridendo, «vorrei portarti con me.»

Aminah gira la testa verso il sacerdote.

«Cosa sta succedendo?» gli domanda.

«Mi hai fatto dono della tua presenza nella mia povera casa» le risponde il sacerdote con emozione, «io dovevo solo portarti qui, dove eri aspettata.»

«Chi canterà per te durante la messa?» gli domanda Aminah.

«Canterai ancora tu, anche se sei lontana, e io sentirò la tua voce.»

«Non potevo rimanere con te?» gli domanda ancora Aminah.

«Tu rimani con me» le risponde il sacerdote baciandola per l’ultima volta sugli occhi.

«E allora perché?» chiede ancora Aminah.

«Io ho fatto una promessa» le risponde il sacerdote con le lacrime agli occhi.

Aminah avvicina la sua testa a quella del sacerdote, lo bacia sulle labbra per l’ultima volta, con le sue labbra che palpitano per la luce.

Si guardano ancora a lungo negli occhi, dalle profondità della luce.

Poi il sacerdote allunga le braccia, avvicina il suo carico dolce a quelle del suonatore, che si sono allungate a loro volta per ricevere il carico di Aminah.

«Io sono sempre vissuto da solo» dice ad Aminah, «mi sposto su questa povera bicicletta. La mia casa è questa. Mi dispiace, non posso offrirti altro.»

«Va bene così» gli risponde con dolcezza Aminah, «come casa va bene. Io so stare in bilico sulla canna di una bicicletta!»

Il suonatore di prepuzio la mette di fronte a sé, sulla canna.

«Sei pronta?» le dice prima di muovere la prima pedalata nella massa soffice della luce.

«Sono pronta!» gli risponde Aminah.

La bicicletta si stacca dal ciglio della strada. Il sacerdote si volta. Fa ancora in tempo a sentire, mentre si allontana con le lacrime agli occhi in quella poltiglia di luce, che Aminah si è fatta coraggio, e sta dicendo al suo suonatore: «La bocca ce l’ho. La posso suonare io quella trombetta, così tu pensi a guidare!».

E che, dopo un po’, la trombetta riprende a suonare, da lontano, sempre più da lontano, col suo suono afono, in mezzo alle altre onde di luce, mentre Aminah sta andando chissà dove con il suo suonatore, verso una nuova vita.

Verso l’Africa nera

Principessa e il traslocatore stanno intanto scendendo sempre più verso l’Africa nera. Il camion corre sopra le piste, in una nube di polvere, si solleva da una parte, di colpo, quando una delle sue grandi ruote non riesce a evitare una pietra. Principessa si gira a controllare che non sia volata fuori la cyclette.

«Perché hai voluto tenerla?» le chiede il traslocatore continuando a guidare.

«Perché così posso pedalare un po’, mentre viaggio» gli risponde.

Le piste si confondono sempre più, la terra diventa sempre più polverosa, più chiara, comincia a poco a poco il deserto. Nessuno dei due parla. Il traslocatore tiene il volante con una sola mano, tanto tutt’intorno è solo vuoto, silenzio, con l’altra mano tiene la mano della sua Principessa. Cominciano a correre dalle parti le prime dune. Il rumore del motore si espande nell’immensità dello spazio deserto. Si fermano alla prima oasi, fanno provvista di benzina, d’acqua, mangiano seduti per terra una manciata di datteri sporchi di sabbia, prima di ripartire. Smarriscono ogni tanto la pista. Corrono per ore e ore e poi tornano indietro per ritrovarla. Si perdono ancora.

«Dove siamo finiti?» si domanda il traslocatore scendendo dal camion, guardandosi tutt’intorno nello spazio deserto. «Da che parte andiamo?»

Anche Principessa scende, si guarda attorno.

«Non ne ho la minima idea» dice allargando le braccia, «vorrà dire che pedalerò un po’ sulla cyclette!»

Tira la cyclette giù dal camion, ci sale sopra. Si guarda attorno, negli spazi deserti, tranquilla. Comincia a pedalare ridendo, di fronte al traslocatore che la guarda sorridendo tranquillamente a sua volta, in mezzo al deserto.

La giornata è rovente. Principessa si toglie la maglietta senza smettere di pedalare, con le braccia sollevate e incrociate nello spazio pieno di dune. Libera le sue belle tette che dondolano per i movimenti delle gambe e dei fianchi. Si toglie con un unico gesto anche jeans e mutande, sollevando per un istante il culo dal sellino della cyclette. Riprende a pedalare con le braccia lungo le linee dei fianchi.

«Accidenti, che caldo!» si accorge anche il traslocatore, mentre si toglie a sua volta i vestiti.

Rimane a contemplarla così per un po’, nudo, tranquillo. Principessa solleva le braccia, le allarga continuando a pedalare, in mezzo al deserto.

«Che meraviglia» esclama il traslocatore, «avere di fronte agli occhi la tua bella Principessa che pedala nuda su una cyclette!»

«E che meraviglia» gli dice Principessa di rimando, «avere di fronte agli occhi il tuo ganzo traslocatore tutto nudo che si rifà gli occhi mentre tu pedali nuda sulla cyclette!»

«E che meraviglia» dice ancora il traslocatore, «avere davanti agli occhi il taglio della sua bella fica nera che si muove tra le sue belle cosce a ogni sua pedalata africana!»

«E che meraviglia» dice ancora Principessa ridendo, «avere davanti agli occhi il cazzo del tuo ganzo bianco che diventa sempre più tosto mentre ti guarda, si alza sempre di più, si scappella, sempre più diritto, più duro, traslocatore!»

Si rimettono in viaggio prendendo una direzione a caso. Vedono da lontano tavolati rocciosi, contrafforti, piramidi e guglie, distese di rocce cristalline oltre il mare di dune vive. La luce cala, il cielo diventa sempre più luminoso, poi scuro. Sta scendendo la notte. Si indovinano a grandi distanze carovane lontane punteggiate sopra i crinali, rovine di castelli berberi.

«Non si vede più niente» dice il traslocatore alla sua Principessa, «fra un po’ sarà notte. Andiamo a dormire là, in quel castello!»

Fanno ancora qualche centinaio di metri, si avvicinano con il camion a ciò che resta di un castello, lo fermano contro una delle sue mura perché non venga ricoperto dalla sabbia durante la notte. Scendono piano piano dal camion, intorpiditi. Entrano con gli occhi sbarrati nel castello deserto, andando a tentoni tra le sue mura diroccate e fasciate di sabbia. Si lasciano cadere in una nicchia morbida, incassata tra due strette pareti, alla base di una piccola scala dai gradini stretti arrotondati dalle tempeste di sabbia. Stanno per un po’ coricati sul fianco, uno di fronte all’altra, abbracciati. Il traslocatore sente contro il volto il respiro caldo della sua Principessa, Principessa quello del suo traslocatore. Il soffitto è sfondato, si vede nel suo varco la volta celeste tutta piena di ammassi sfavillanti di stelle nello spazio deserto. Principessa lo bacia piano, sul volto, con la sua vasta bocca. Anche il traslocatore le accarezza la schiena, la testa.

«Non mi hai ancora inculata!» gli dice sorridendo Principessa dopo un po’, sottovoce, perché non capisce se è ancora sveglio o se si è già addormentato per la stanchezza e la sta accarezzando e baciando nel sonno.

«Tu mi inviti a nozze, ragazza» le risponde il traslocatore ridendo, tra la veglia e il sonno, «a una nuova notte di nozze!»

Si tengono abbracciati così, per un po’. Poi Principessa si mette a quattro zampe, sui gomiti e sulle ginocchia, si lascia cadere in avanti fino a sfiorare con la guancia il pavimento del castello ricoperto di sabbia, solleva più in alto il culo inarcando le reni nel leggero bagliore che viene dalla volta celeste tutta piena di galassie e di stelle. Il traslocatore si inginocchia dietro di lei, le accarezza la schiena, le reni, il taglio del culo, mentre lei allarga le gambe puntellata sulle ginocchia. Le accarezza ancora l’interno dello spacco del culo, la fica aperta, le bacia il buco del culo, glielo bagna con la saliva, glielo lecca, aspetta che si dilati un po’ prima di accostare la punta del cazzo scappellato, lo spinge dentro tenendolo per la radice, inginocchiato dietro di lei, nel suo retto allargato, lo sente sprofondare nella sua calda merda africana. Principessa geme un po’, mentre lui si inoltra sempre più nel suo corpo inarcato, offerto. Anche il traslocatore geme, getta indietro la testa sfigurata dall’onda ancestrale del piacere, contro l’ancestrale volta celeste sfavillante.

«Allargami ancora di più!» gli sussurra Principessa gemendo. «Voglio aprirmi completamente al tuo corpo. Io sono una ragazza berbera che si apre al corpo del suo cavaliere, nel suo castello, in piena notte, in mezzo al deserto. Sento il tuo corpo che mi riempie, mi forza. Sono piena di te. Io sono piena di te e sono la tua pienezza!»

Il traslocatore getta ancora più indietro la testa, per l’ultima volta, come un arco, mentre sente partire getti roventi dalle zone più segrete del suo corpo dentro lo scrigno principesco della sua Principessa, traslocatori. Geme a lungo, emette dei versi, mentre trasloca eruttivamente nel corpo della sua Principessa. Anche lei geme un po’, fa dei versi, nel silenzio rotondo che c’è in mezzo al deserto. Il traslocatore si abbatte con la testa sulla schiena della sua Principessa, che geme ancora piano, con la faccia dentro il calco di sabbia. Resta ancora così, per dare il tempo al traslocatore di decongestionarsi dentro il suo corpo. Le sue gambe piegate al ginocchio tremano forte. Anche il traslocatore trema. L’abbraccia da sotto, la tiene abbracciata per le tette, mentre la schiena in respirazione di Principessa lo tiene sopra di sé, sollevato da terra.

Si staccano l’uno dall’altra. Piombano a terra. Si addormentano tutti e due dopo pochi istanti, di schianto.

Si svegliano di soprassalto, per la luce. È giorno. Il deserto è già pieno di luce. Escono da quel che resta del loro castello. Si avvicinano al camion. Rimangono tutti e due impalati, uno vicino all’altra.

«Che cosa vedo?» chiede sbalordito il traslocatore alla sua Principessa. «Esiste veramente quello che sto vedendo oppure è un miraggio?»

«No» gli dice Principessa ridendo, «non è un miraggio. C’è veramente un guerriero tuareg sulla cyclette!»

Principessa e il traslocatore sono immobili, senza fiato. Un cavaliere tuareg tutto vestito di blu e con un grande turbante sta pedalando in mezzo al deserto sulla cyclette, dopo averla evidentemente tirata giù dal camion, mentre lì vicino il suo dromedario è accucciato sopra la sabbia e lo guarda con gli occhi socchiusi, biascicando, paziente.

Il tuareg pedala ancora un po’. Poi si ferma. Scende dalla cyclette, la rimette sul camion, china il capo di fronte a Principessa e al traslocatore, impercettibilmente, in un gesto di ringraziamento e di omaggio. Si avvicina al dromedario, ci sale sopra. Il dromedario comincia a sollevarsi disarticolatamente dal basso. Il cavaliere si sistema meglio sulla sua gobba, libera alcuni lembi di stoffa del burnus, fa cadere meglio di lato le sue pieghe. Il dromedario si mette in marcia, con gli occhi socchiusi, dinoccolato, lento, poi sempre più forte, più forte. Il cavaliere comincia improvvisamente a incitarlo. Il dromedario comincia a correre ancora più forte, a trottare. Principessa e il traslocatore sentono venire da sempre più lontano le lunghe grida guerriere del cavaliere che incita il suo dromedario ormai lanciato sulla distesa del deserto solcato dalle prime dune di luce.

La cyclette

Si fermano nelle oasi. Si creano capannelli attorno al loro camion, mentre vanno a estrarre acqua da un pozzo o a riempire due taniche di benzina, o mangiano qualcosa seduti per terra uno vicino all’altra all’ombra di una palma. Qualcuno balza irresistibilmente sul camion per vedere da vicino la cyclette. Ci sale sopra, comincia a pedalare ridendo e gridando, con la bocca sdentata, a piedi nudi. Vecchi capi tribù, bambini che si contendono l’un l’altro la cyclette. Non si decidono a scendere neanche quando il traslocatore ha già riacceso il motore per riprendere il viaggio, neanche quando le ruote del camion stanno già cominciando a girare, qualcuno resta sopra anche quando il camion comincia già a spostarsi verso lo spazio deserto. Saltano giù un momento prima che esca dall’oasi, o restano addirittura a pedalare sulla cyclette mentre è già uscito, aspettano persino il momento in cui l’oasi è già lontana ma non è completamente scomparsa, per saltare giù e correre indietro nella sabbia, ridendo. Oppure restano su per una parte del viaggio, fino all’oasi successiva, dove si decidono finalmente a scendere, si uniscono a una carovana diretta verso la loro oasi, per fare ritorno a casa. Ci salgono sopra persino sultani, quando la voce si sparge nelle zone toccate dal loro viaggio. Arrivano col seguito di notabili serrati nei loro mantelli e turbanti. Cominciano a pedalare anche loro sulla cyclette, dopo essere stati issati sul camion. Capi tuareg, con le vesti svolazzanti per la velocità crescente della loro pedalata in mezzo alle sfocature improvvise dei miraggi. E poi in mezzo alle savane, quando il deserto a poco a poco finisce e cominciano a vedersi le prime zone vegetali secche, trasfigurate da sabbia e polvere. E poi ancora mentre scendono sempre di più verso l’Africa nera, e vedono passare dalle parti moschee e castelli di fango, città abbandonate e modellate dal vento e palazzi di polvere di conchiglia e di sterco. Stanno attraversando già il Mali, la Guinea, la Costa d’Avorio. Salgono sulla cyclette uomini e donne delle tribù animiste del Nord, i Malinké, i Lobi, i Senufo, quando si sparge la voce del loro passaggio. Arrivano da tutte le parti, a piedi, a cavallo di piccoli animali dalle forme mai viste, sulle piroghe in legno di samba. Il camion continua ad andare, sulle strade di terra secca, di polvere, su vecchi ponti di ferro che scavalcano gallerie vegetali, lungo le piste che si fanno largo attraverso foreste fluviali gremite di scimmie che balzano urlando nell’intrico di liane. Si fermano nei villaggi, salgono sulla cyclette sempre nuove tribù, Diola, Fanti, Yacuba, le donne coi grandi dischi d’osso o metallo inseriti dentro le labbra. Si sentono le loro voci eccitate mentre continuano a pedalare, i rumori dei dischi che sbattono gli uni contro gli altri mentre ridono con le altre donne in piedi in attesa del loro turno. Pedalano sempre più forte, quando scorgono il contagiri e capiscono che segna la velocità della loro corsa. Il camion riprende ad andare. Principessa e il traslocatore ascoltano il fragore dell’oceano lontano, per un po’, mentre corrono verso il Ghana e passano dietro i finestrini del camion vecchi forti, laghi, foreste, improvvisi feticci ai bordi delle strade, delle piste. Arrivano nelle favolose regioni degli Ashanti. Salgono sulla cyclette donne con il cranio rasato dipinto di nero, drappeggiate nei kente, col parasole, guerrieri. Si sentono tintinnare i gioielli d’oro di cui sono ricoperti mentre pedalano sempre più forte per spingere avanti la lancetta del contagiri, anelli, borchie, spade, collane, quando arrivano a Kumasi e le strade sono tutte gremite per la cerimonia imminente dell’Akwasidaekese e tutti aspettano l’uscita del sovrano con lo scranno custodito nel palazzo reale. La processione comincia. Il re esce dal palazzo reale. Tutte le strade sono gremite di folla. Rumori di corni e tamburi portati sopra le teste. Il traslocatore e la sua Principessa fermano il camion in mezzo al fiume di folla, perché non è più possibile proseguire fino al termine della cerimonia. Salgono sulla cyclette dignitari, ballerine, sacerdoti, un uomo con un parafulmine, tutti ricoperti di gioielli d’oro, mentre avanzano già sullo sfondo della piazza coperti da enormi parasole le regine madri, il sovrano seduto sopra lo scranno che racchiude il Sunsun, lo spirito e l’anima della nazione. Anche le regine madri salgono una dopo l’altra sulla cyclette. Anche il sovrano, alla fine, alzandosi dalla sua portantina tutto ricoperto di gioielli d’oro sotto il suo parasole, in mezzo ai dignitari dai copricapi di pelle coperti di lamine d’oro e alla schiera di donne che sollevano nell’aria i loro bastoni. Il sovrano si accomoda sulla cyclette, fa un cenno a Principessa perché vada a sedersi al suo posto, sopra il suo trono. Principessa sale, occupa il posto di principessa sopra il suo trono, mentre due regine madri le si avvicinano per ricoprirla d’oro. La processione prosegue. Il sovrano continua a pedalare sulla cyclette, che viene sollevata dal camion e portata in processione in mezzo alla folla, mentre si levano ancora più forte nell’aria i rumori dei tamburi e dei corni. Pedala sempre più forte, sotto il parasole sollevato sulla sua testa da uno dei dignitari che cammina col busto eretto al suo fianco, senza toccare con le mani il manubrio, con gli occhi chiusi sotto i grandi occhiali neri da sole.

Canto del sovrano sulla cyclette

Sei finalmente arrivata! Ci siamo incontrati! Ci siamo scambiati i troni! Tu sul tuo trono di principessa che ti spetta fin dall’inizio, da sempre, qui dentro, portato fuori a braccia vicino allo scranno che esce dalla mia reggia solo una volta ogni sette anni, disceso dal cielo tra le braccia dell’antico re Osei Tutu, per opera del grande sacerdote Okomko Anokyie. Io sulla tua cyclette, che mi hai portato fin qui con le tue mani dalla terra lontana da dove sei arrivata, traslocatrice. Ci siamo intercettati, finalmente, nel momento culminante di questa cerimonia e di questo sogno. Abbiamo intersecato le nostre strade e le nostre vite nel momento focale di questa avventura senza ritorno e di questo viaggio. Sei arrivata finalmente nel tuo continente, siete arrivati finalmente nella culla del continente da dove siete venuti tutti quanti, qui dentro. Tutti i fili sono confluiti da tutte le parti nel punto centrale di questa cerimonia che ha atteso esattamente questo momento per anni, per poter cominciare. Li tengo in mano io, io ne sono il sovrano, seduto su questo trono a pedali che mi è stato portato attraverso un lunghissimo viaggio, forse proprio e solo per questo, qui dentro. Mentre pedalo all’interno dell’aria sulle spalle dei portatori che tengono sollevata sulle loro groppe lucenti la cyclette, questo mio nuovo trono, spostandomi a fianco dell’altro trono su cui siede adesso Principessa al centro del fiume delle mie spose, come una nuova sposa, la prima. Ci spostiamo nell’aria, appaiati, tu immobile sul tuo trono, io mulinando in modo sempre più vorticoso le gambe sotto le pieghe regali del mio kente dai mille colori. La velocità della mia corsa cresce, vedo la freccia del contagiri spostarsi sotto la pressione della mia pedalata. I muscoli delle mie gambe si scaldano sempre più, le ossa di piedi, ossicini, falangi, fanno sempre più presa sopra i pedali. La velocità cresce, cresce. Copro grandi distanze attraverso le enormi estensioni del mio continente emerso. Raggiungo uno dopo l’altro i suoi estremi confini, Capo Verde, Capo Agulhas, Capo Hafun, Capo Bianco, attraverso le sue fosse tettoniche, i suoi grandi laghi, i suoi fiumi, Niger, Zambesi, Limpopo, Kagera, vedo passare dalle parti i suoi enormi, monumentali rilievi, Ahaggar, Tibesti, Fouta Djalon, Camerun, le Serras dell’Angola, i Monti dei Draghi, le grandi cime del Kilimangiaro e del Ruwenzori, gli scrigni delle sue montagne piene d’oro e diamanti, mentre sfreccio attraverso lo spazio del mio continente emerso prima di ogni altro più di tre miliardi di anni fa dalle masse liquide del pianeta. Attraverso le sabbie del Sahara, del Kalahari, le sue foreste, le sterminate savane dove corrono grandi animali inventati, le sue grandi città, Accra, Yamoussoukro, Conakry, Abuja, Ouagadougou, Lomé, Yaoundé, Libreville, Kinshasa, Luanda, con le loro vaste razze umane nere, inventate, le sue bidonville piene di sterco, disperate, impestate. Mi sposto sempre più velocemente nello spazio e nel tempo, attraverso gli imperi carovanieri, quelli del Mali, del Ghana, l’impero Songhai, i regni schiavisti, le catene di città-stato bantu, persiane. Aumento ancora di più la velocità della mia pedalata, arrivo fino a quattro milioni di anni fa, all’inizio dell’era quaternaria, passo attraverso le prime forme umane che si sono alzate in piedi, ingobbite, sulle superfici emerse del continente di cui io sono il sovrano. Ritorno in pochi istanti nella bidonville di una grande città nera, con le sue abitazioni di lamiere ondulate roventi come fornaci, piene di corpi in sofferenza e miliardi di forme nuove che si fanno largo dentro le loro carni, geni, batteri, virus, con le loro molecole di acido nucleico che penetrano dentro le cellule aggredite, iniettano il loro patrimonio genetico fino alla rottura esplosiva delle cellule, nei tabernacoli primordiali delle nostre grandi città infettate a cielo aperto sotto la volta delle stelle australi. Miliardi e miliardi di forme che hanno eletto le nostre forme e le nostre carni per scaraventare le loro nuove presenze nella piaga nera dell’universo, per bussare alle porte di questo cosmo e di questo caos. Dalle enormi microscopiche teste unicellulari che si aprono un varco nella fanghiglia dei corpi abbandonati sopra la polvere, legioni e legioni di nuove forme che si strappano dai fondali delle altre forme e rimettono in marcia i loro nuovi imperi impensati, carovanieri. Africa mia, culla nostra, nostro destino, il continente più massacrato, più cancellato, impestato, il continente più amato. Il continente senza futuro dove dormono le metastasi del futuro. Io passo come una freccia sulle tue terre e sulle tue acque, su questo trono a pedali che mi è stato portato fin qui attraverso città mai viste, spazi immensi, deserti, al culmine di un lungo viaggio che sembrava indirizzato verso altre mete, per tensioni diverse, per caso. Io tengo nelle mie mani e nella mia mente e nella traiettoria della mia corsa vivente il manubrio di questo azzardo e di questo annuncio e di questo pianeta, collocato qui, fin dall’inizio, quando ancora nessuno mi conosceva ed ero ancora in invisibile attesa nella mia reggia. Tutto il mio corpo in movimento regale su questa nuova cavalcatura a pedali che mi è stata consegnata e serbata è in traslocazione dentro la faglia di questo tempo e di questo spazio senza ritorno dentro tempo e spazio. Io sono il sovrano nero della catastrofe di questo annuncio. Io sono la voce nera del biancore di questo annuncio. Ho accettato di collocarmi qui, di visibilizzarmi qui, in ostensione, in pedalazione, in annuncio.

La processione continua. La cuspide del sovrano continua a pedalare sempre più forte nel punto nevralgico del corteo che ha compiuto il suo arco e fa ritorno verso la reggia. Principessa è ancora seduta sul trono. Il traslocatore cammina ai lati del corteo, non stacca gli occhi dalla testa della sua Principessa coperta d’oro, sollevata nell’aria sotto un parasole. La contempla ancora per un po’, nel fragore dei tamburi e dei bastoni fatti mulinare nell’aria, delle grida.

Il corteo è quasi arrivato all’ingresso del palazzo reale. Principessa apre gli occhi, fa un cenno ai portatori, che piegano le loro schiene sotto le stanghe che sorreggono il trono. Si alza, si toglie la cascata di gioielli, li distende sul trono. Scende a terra, posando i piedi nudi sulle spalle nere dei portatori. Anche il sovrano fa un cenno, senza smettere di pedalare. Tutto il corteo si ferma per un istante. Cessano anche i colpi di tamburo, le grida.

«Sono stata per un momento sul trono» dice Principessa al sovrano, «ma adesso devo traslocare anche dal trono, dal mio stesso trono. Devo continuare il viaggio. Le regalo il mio trono!»

Anche il sovrano fa un piccolo cenno a Principessa, senza smettere di pedalare, dall’alto del suo nuovo trono, mentre la testa del corteo regale riprende a muoversi, e i primi tra i dignitari stanno già entrando dentro le porte della reggia. Principessa allunga la mano verso quella del suo traslocatore, che gliela stringe, riprendono a camminare uno vicino all’altra, con emozione, verso il punto della città dove è rimasto il camion.

Lo raggiungono, ci saltano sopra, uno da una parte e l’altra dall’altra. Il traslocatore rimette in moto. Le grandi ruote cominciano piano piano a girare. Principessa e il traslocatore si guardano negli occhi per un istante. Lei gli abbandona una mano sopra un ginocchio, lui le mette un braccio attorno alle spalle.

«Ci siamo ancora» dice Principessa al suo traslocatore, «siamo ancora in viaggio!»

Attraversano il Togo, il Benin, la Nigeria, il Camerun, arrivano finalmente nella Repubblica Centroafricana.

«Sei arrivata, Principessa!» le dice il traslocatore. «Ti ho portata a casa, nella tua tribù!»

«Io non ho più casa, non ho più tribù!» gli risponde Principessa senza neppure girarsi.

Riprendono a traslocare verso l’Uganda, poi ancora su, verso il Sudan, il Ciad...

La porta si spalancò all’improvviso.

Apparve Lanza.

Rimanemmo tutti immobili, senza fiato.

«Lei qui?» farfugliai con la mascella girata un po’ da una parte, bloccata. «Non si era detto che lei era uscito di scena?»

«Sì, ma sono tornato!»

«Avevo il sospetto che fosse opera sua tutto questo, che ci fosse il suo zampino in tutto quanto sta succedendo da un po’ di tempo qui dentro!»

Lanza fece qualcosa come un piccolo inchino, ancora nel vano della porta.

«Posso entrare?» chiese con un filo di voce, arrossendo.

«Ma certo!» gli dissi alzandomi in piedi. «Certo, certo! Dovevo immaginarlo che sarebbe arrivato lei, a questo punto!»

Lanza esitò ancora un istante, prima di muovere i primi passi all’interno. Camminava rasente il muro, sui suoi tacchi alti, mentre tutti gli altri partecipanti al brief erano balzati in piedi per salutarlo.

«Anche lei qui?» si emozionò Lanza vedendo la Musa.

Le baciò la mano. La Musa gli accarezzò i capelli ricciuti con l’altra mano piena di piccoli anelli.

«E anche lei!» si animò ancora Lanza. «La signorina di quella pubblicità di assorbenti! Accidenti! A vederla dal vivo...»

Baciò la mano anche a lei. Ma un istante dopo scorse la ragazza che aveva l’acne.

Si precipitò a baciarle la mano.

«Lei invece non l’avevo mai vista prima...» le disse arrossendo, «che viso splendente, signorina!»

«Il mio volto è stato rigenerato!» gli rispose lei sorridendo.

Mi girai verso Lanza.

«Non crederà di riportarci ancora a quel punto! A tutte quelle moine, quei baciamano» lo aggredii a freddo, «qui ormai siamo già da tutt’altra parte!»

«Oh, anch’io adesso sono da tutt’altra parte! Non si preoccupi, non sono più lo stesso. Sono qui per altro!» ribatté Lanza con la voce alterata, arrossendo.

«Ah, sì?» gli chiesi a bruciapelo ancora una volta. «Per che cosa?»

«Sono qui per l’invideazione!»

Ci fu un improvviso silenzio. Rimanemmo tutti senza parole, anche il copy e l’art, anche la Musa, persino io, che è tutto dire.

Lanza intanto stava salutando il copy e l’art, anche l’account e l’altro account, contemporaneamente, ciascuno con una mano diversa mentre anche i due account gli avevano teso nel frattempo contemporaneamente la mano.

«Ci faccia capire!» gli chiesi, quando mi fui ripreso.

«Lavoro in televisione, adesso» rispose Lanza. «Hanno incaricato me di presentare l’evento!»

Lo guardai per qualche istante in silenzio, mentre Lanza era rimasto in piedi in fondo alla stanza, non si era ancora deciso a sedersi.

«Si sieda! Si sieda!» gli dissi per riprendere fiato.

Lanza esitò un po’, prima di sedersi a fianco della ragazza che aveva l’acne, dall’altra parte del copy.

«Lei?» provai a dire accendendomi una sigaretta. «Lei è stato incaricato di presentare un simile evento?»

Lanza arrossì un po’.

«Sì, certo! Per forza! Adesso sono un presentatore!»

«Un presentatore?» ripetei tirando la prima boccata. «E che cosa presenta?»

«In questo momento presento una trasmissione sulla ricerca dell’anima gemella. Però adesso sono qui per presentare l’invideazione!»

«E com’è successo?»

«In sede c’era un enorme fermento per questa trasmissione. Non si capiva niente. Mi sono fatto avanti. “Io quei tipi lì li conosco!” ho avuto il coraggio di dire. “Tocca a me! Non c’è tempo da perdere! Io vado là!”»

«Perché? Si terranno qui le riprese?» chiese il copy incontrollabilmente.

«Sì. Hanno deciso che si terranno qui.»

«Qui? Proprio qui?» domandai.

«Sì, qui. Il set sarà qui.»

Risi forte, facendo uscire il fumo dalla bocca, dal naso, dalle orecchie, se avessi potuto.

«Qui?» ripetei ridendo. «Così l’intero brief sarà invideato! Così anch’io, persino io, sarò invideato!»

«E anche la Musa sarà invideata!» esultò la mia Musa sollevando le braccia e le mani piene di anelli, facendo dondolare nello stesso tempo le belle tette sotto il velo della camicetta di garza.

«Mah... mi spieghi bene» disse il copy, «qual è il suo ruolo in questa trasmissione sulla ricerca dell’anima gemella? Io lo devo sapere. Per lo storyboard!»

«Metto assieme le coppie. Le creo. Le assortisco» si animò Lanza, «ne creo di nuove. Sì, perché si stanno creando da ogni parte sempre nuove coppie, qui dentro, non so se ve ne siete accorti! Che cosa credete? Sono passate una dopo l’altra dalla mia trasmissione le figure che abbiamo visto passare incessantemente qui dentro, e chissà voi che cos’avevate pensato... Quell’uomo che pesta le merde, la sua ragazza dalle stampelle profumate, Principessa, il traslocatore, quel suonatore di prepuzio, Aminah, quell’uomo che si sposta nella città di notte incendiando le spore, quella bambina... Anche Ditalina ha trovato la sua anima gemella, anche Pompina...»

«Anche loro?» sorrise vicino a me la mia Musa.

«Sì, sì! Hanno trovato anche quelle due la loro anima gemella, qui dentro!»

«E con chi me le avrebbe accoppiate, stavolta?»

«Ditalina, per esempio...»

«Con chi? Con chi?» chiesero da tutte le parti più voci, con le lingue fuori.

«Ma è semplice!» sorrise per la prima volta Lanza, disteso. «Con quel vecchio dalla paresi masturbatoria!»

Ci fu uno scoppio di risa. Qualcuno batté la mano sul piano del tavolo, per l’esaltazione improvvisa.

«Accidenti: una coppia perfetta!» dissi ridendo con le lacrime agli occhi.

«Sì, sì!» continuò Lanza. «Sono fatti davvero l’uno per l’altra, si sono finalmente incontrati! Sono arrivati in una di quelle trasmissioni un po’ fiacche, in una giornata in cui tutto il palinsesto era fiacco. Nessuna notizia davvero forte, nessuna bomba: la valletta di una trasmissione canora sorpresa dal fotografo a grattarsi il sedere, water che esplodono, filantropi televisivi che sodomizzano bebè di colore... Ero un po’ sfiduciato, mentre giacevo inerte sulla poltrona della truccatrice prima di cominciare. Anche il pennello era un po’ indurito, quel giorno, raschiava un po’ mentre la truccatrice me lo passava e ripassava sulla fronte, sulle pinne del naso. Scorrevo le schede dei provini, in attesa dell’inizio delle riprese. “Ma dove avete la testa?” ho detto a quelli del casting quando ho visto Ditalina in azione nella sala prove, al centro di un anello di elettricisti, tecnici del suono, figuranti, tutti con gli occhi fuori dalla testa. Poi è comparso lui, all’improvviso. In genere non succede, ma quella volta si sono visti prima del tempo lungo un corridoio, per caso. È stato amore a prima vista! Uno di fronte all’altra, di colpo! Le loro mani andavano sempre più forte, sfuocate. Uno da una parte e l’altra dall’altra, speculari, nuziali. Lei in azione tra le sue gambe, lui con la mano ad anello sopra la patta, sempre più sfuocata, più forte. Anche in trasmissione così, uno di fronte all’altra. Si guardavano negli occhi senza riuscire a parlare. Uno share pazzesco! Telefonate da tutte le parti, centralino rovente! “Bravi, bravi! Bravissimi! Complimenti! Questa sì che è una coppia bene assortita! Due anime gemelle davvero!” Sono andati via assieme...»

«E Pompina? Pompina?» chiese l’art con l’acquolina in bocca.

«Pompina ha trovato sulla sua strada il laringectomizzato!»

Ci guardammo l’un l’altro, in silenzio.

«Il laringectomizzato?» balbettò il copy. «Ma non si era visto più! Io credevo che fosse uscito definitivamente dallo storyboard!»

«Vorrà dire che ci rientrerà!» risi passando la mia cicca alla Musa, che mi aveva chiesto un tiro, con una delle sue mani piene di anelli.

«È arrivato negli studi col suo passo lento, solenne» continuò Lanza, «le braccia nude, penzoloni lungo i fianchi, ora che non doveva più portare il carico della donna avvolta nella stagnola, la testa rasata, la tempia un po’ bruciacchiata dal fuoco del lanciafiamme, nell’autosilo dismesso di quella torre per simulazioni spaziali, a Pasadena. “E questo come farà a comunicare con la concorrente” mi sono detto, “quando inizia il gioco della selezione e cercano di individuarsi e sedursi con quelle loro piccole domande?” L’ho messo dietro il pannello, dove piazzo a volte qualche concorrente un po’ particolare che introduco di tanto in tanto, per dare un po’ di pepe al gioco. Le concorrenti hanno cominciato a fare le loro domande. Lui rispondeva a versi, con quei suoni inintelligibili che emette e che non sembrano umani. Ho visto Pompina impallidire per l’emozione. “È lui!” ha esclamato. “L’ho trovato!” L’ho fatto uscire da dietro il pannello. Lui l’ha guardata in silenzio, assente. Lei ha aperto in primo piano il cratere della sua bocca tatuata. Si è inginocchiata di fronte a lui, gli ha abbassato la cerniera sul grande bozzo che si gonfiava sempre di più. La camera si è alzata. Ha cominciato a inquadrare solo la testa gettata all’indietro dell’uomo, lasciando il resto all’immaginazione dello spettatore. Il laringectomizzato emetteva quei suoi grugniti afoni, mentre Pompina fuori dall’inquadratura operava su di lui con la sua arte. Gettava sempre più indietro la testa, si vedeva sbalzare sul suo collo in primo piano, allargato, quel buco nero che pulsava per le emissioni sempre più incontrollabili e cavernose di fiato durante l’orgasmo. Il centralino rovente. “Bravi! Bravi! Siete grandi! Un’altra coppia perfetta!” Certe volte, per caricare un po’ la trasmissione, per metterci ancora un po’ più di pepe, piazzo dietro il pannello dell’ospite misterioso con cui la concorrente vincitrice si aggiudicherà il weekend qualcosa di assolutamente inimmaginabile, inaspettato, uno di quei piccoli uomini dalle ossa di vetro, per esempio, oppure un gigante, o qualche macchina industriale del passato, qualche oggetto archeologico dissepolto, una statua mutilata, senza le braccia, senza un pezzo di faccia, senza la testa, qualche grande animale portato fin lì da un altro continente, dentro una gabbia. Qualche grossa scimmia dal muso dipinto coi suoi colori di guerra. La sistemo dietro il pannello, le concorrenti cominciano a cinguettare le loro domande civettuole e invitanti, per sedurla. Da dietro il pannello arriva solo, di tanto in tanto, il suono cavernoso e profondo di qualche grugnito ancestrale, mentre l’animale sposta il peso da una zampa all’altra e il suo corpo sbatte contro le superfici di plastica colorata del pannello, con un enorme rimbombo. Le concorrenti si guardano negli occhi senza capire, fanno quei risolini eccitati e atterriti, rilanciano il gioco della seduzione con nuove maliziose domande...»

«Sì, sì, d’accordo. Ma... e lei?» chiesi malignamente a Lanza, a bruciapelo. «Perché lei ci parla sempre di coppie, fa incontrare sempre nuove coppie, qui dentro. Però lei è solo!»

Lanza arrossì incontrollabilmente, si schiarì la voce.

«Non è più così!» provò a dire.

Mi sporsi in avanti.

«Ah sì?»

«Be’» cominciò Lanza, «è successo qualcosa anche a me, ultimamente... Ho saltato il fosso!»

«Oh, cazzo! Sentiamo!»

Lanza si mosse un po’ sulla sedia, arrossì di nuovo, si schiarì la voce.

«Mi sono innamorato di una concorrente!» disse tutto d’un fiato.

Le ragazze del brief si girarono tutte verso Lanza, con l’acquolina in bocca.

Sbarrai gli occhi, come per riprendermi dallo shock.

«Di una concorrente? Accidenti! Chi l’avrebbe mai immaginato!»

«Be’, sì...» disse Lanza «mi rendo conto che non sarebbe deontologicamente corretto. Io, agli occhi delle ragazze, mi trovo in una posizione di particolare privilegio, come presentatore, rispetto agli altri concorrenti, non gioco ad armi pari. Sono come un dio. Però... nonostante fossi cosciente di questo, non riuscivo a staccare gli occhi da lei, non pensavo ad altro. Così, alla fine della tramissione, dopo che lei era passata a vedere dietro il pannello l’ospite misterioso che era riuscita a strappare alle altre concorrenti, mi sono buttato, mi sono fatto avanti. Le ho chiesto se voleva incontrarsi con me, fuori dalla trasmissione, voglio dire, non so se mi spiego...»

«Accidenti!» sbarrai gli occhi. «Si spiega sì! Però, che faccia tosta! E lei che cos’ha risposto?»

«Era un po’ titubante, all’inizio. Capivo che era molto presa da quell’ospite che era riuscito a strappare alle altre ragazze. Guardava me, poi lui, poi ancora me, coi suoi occhioni smarriti. Non sapeva decidersi tra noi due.»

«Non ci ha ancora detto chi era quest’ospite misterioso» chiese irresistibilmente la ragazza non c’è assorbente che tenga.

«Un babirussa.»

Stavamo tutti con la presa d’aria aperta, gli occhi un po’ fuori dalla testa.

«Un babirussa?» domandai, come se niente fosse. «Chi cazzo è questo babirussa?»

«Babirussa babirussa» recitò Lanza, «detto anche porco cervo, mammifero selvatico artiodattilo non ruminante che vive in branchi nell’isola di Celebes e nelle Molucche...»

«Vuole dire uno di quei maialoni che pesano anche più di un quintale e hanno tutte quelle zanne che spuntano fuori dalle dentiere?»

«Be’, sì, certo, volendo si può dire anche così!»

Tirai fiato.

«Bene! Un rapporto à trois col babirussa!» esultai. «Questa non si era ancora vista, qui dentro!»

Risate.

«E, mi dica...» continuai quando mi fui ripreso «è riuscita poi a decidersi, tra voi due, la ragazza dai begli occhioni?»

«Guardava lui, poi me, poi ancora lui, che nel frattempo si era messo a masticare con indifferenza qualcosa di vegetale che gli inservienti gli avevano messo sul pavimento, qualcosa come delle ghiande, mi pare» continuò Lanza, che non aveva neppure fatto caso alla mia domanda. «Si sentiva solo il rumore del suo grande muso che macinava il cibo in silenzio, con gli occhietti chiusi.»

«Certo, mi rendo conto... Non era una scelta facile!» infierii.

«Alla fine si è decisa» sospirò Lanza, «ha guardato più a lungo me. Sorrideva. Io le ho preso la mano, gliel’ho baciata. “D’accordo” mi ha detto, con un sospiro, “scelgo te!” Mi sono sentito mancare le gambe dall’emozione. Sono rimasto lì, immobile, di fronte a lei, mentre i tecnici sbaraccavano lo studio alla fine delle riprese, arrotolavano i cavi, portavano via le attrezzature, i pannelli. “Sei sicura?” le ho chiesto. Lei mi ha guardato ancora a lungo, negli occhi. “Sì, ormai ho saltato il fosso, ho deciso!” ha risposto sorridendo, tranquilla. Siamo rimasti lì come due imbecilli, nello studio ormai quasi completamente svuotato, mano nella mano, impalati. E non è finita!»

«Ah, no?»

«No, no, il bello viene adesso!»

«Non ci faccia stare sulle spine! Sentiamo!»

«La mattina dopo ci siamo incontrati. Io avevo passato la notte in bianco per l’agitazione. Sono arrivato con grande anticipo all’appuntamento. Mi ero messo in testa un cappello, per sembrare più alto. Stavo fermo davanti all’angolo convenuto, in una zona dove batteva il sole. Camminavo avanti e indietro, ogni tanto, per sgranchirmi le gambe. Cercavo di guardare l’orologio senza farmi notare, con la scusa di compiere un movimento qualsiasi col braccio, perché lei non mi sorprendesse proprio in quel preciso momento e non interpretasse quel gesto come un muto rimprovero per il suo ritardo. Il tempo passava. Mi tormentavo all’idea che forse ci aveva ripensato, che non sarebbe venuta, che forse il pensiero dell’altro aveva avuto di nuovo il sopravvento su di lei. D’altronde è difficile, oggi, per le ragazze, decidere, con tutta l’offerta che c’è in giro... Guardai ancora, non visto, l’orologio. Il ritardo cresceva. Il sole batteva forte, il cappello mi faceva sudare la fronte. Ma non lo potevo togliere perché si sarebbe visto che avevo i riccioli tutti appiccicati al cranio per il sudore. Mi stavo ancora tormentando su questo problema quando lei è improvvisamente apparsa. Veniva avanti verso di me coi suoi grandi occhi azzurri, tranquilla. Io ho mosso qualche passo verso di lei, per scambiare il solito bacio d’incontro sulle guance. In quello stesso istante ho sentito che, a causa del sole e del cappello che mi aveva scaldato troppo la testa, un’enorme bolla di moccio si era staccata da qualche punto interno e mi stava colando in gola. Non avevo più il tempo di sputarla nel fazzoletto, perché lei era lì a pochi passi. Così non mi rimaneva che inghiottirla tutta intera, in un solo boccone, di colpo. Mi sono fatto coraggio, ho chiuso gli occhi. Plaf! Stavo per avvicinare la mia testa alla sua, mi ero meritato di poter avvicinare la mia testa alla sua, per baciarla sopra le guance, quando anche a lei è successo qualcosa. Sarà stato per l’emozione, oppure anche nel suo caso per via di quel primo sole che smuove improvvisamente il muco che ristagna dentro anche la più graziosa delle testine... Fatto sta che tutta la sua testa è esplosa in uno starnuto enorme, terrificante, improvviso. Non ho capito al momento cos’erano quelle cose microscopiche e trasparenti che volavano come proiettili verso di me, che stavo ancora impalato per l’emozione e l’inghiottimento. Un istante dopo ho capito che erano le sue lenti a contatto che si erano staccate dalla sua testa ed erano schizzate via per la violenza dello starnuto. Colorate, tra l’altro, perché adesso gli occhi della ragazza non erano più dello stesso colore di prima. “Accidenti! I miei occhi!” ha esclamato. Eravamo faccia a faccia. Le ho preso le mani. L’ho guardata negli occhi, nei suoi nuovi occhi. “Siamo fatti davvero l’uno per l’altra, io e te!” le ho detto irresistibilmente...»

Lanza si arrestò, di colpo, per l’emozione. Tutto il brief si era bloccato a sua volta. Gente in piedi, con la bocca aperta, le braccia alzate. Le ragazze finite sotto il tavolo, con le lacrime agli occhi. Solo i due account erano immobili al loro posto, impietriti.

«Bene, ragazzi» ho buttato lì, «abbiamo tirato un po’ il fiato. Ma adesso la ricreazione è finita. Riprendiamo questo cazzo di brief. D’ora in poi andremo avanti duri, tirati, fino alla fine! Succeda quel che succeda, fino alla vendita di questo cazzo di pianeta!»

Mi rivolsi a Lanza.

«Lei ha detto che avverrà qui, direttamente, l’invideazione!»

«Sì, fra un po’ arriveranno i tecnici a preparare il set!»

«Quindi, per forza di cose, se ho capito bene dovrà venire qui anche Dio!»

«Naturalmente!»

Erano già tutti tornati al loro posto, si era fatto un improvviso silenzio, nella sala del brief. Anche la Musa stava adesso immobile, intenta, al mio fianco.

«Siamo arrivati davvero a questo punto, alla fine» dissi quasi in un soffio, «saremo finalmente faccia a faccia, io e lui! Fuori tempo massimo, addirittura a tempo scaduto. Alla fine di questo brief, alla fine del tempo, di quella cosa che viene percepita come tempo su questo pianeta, senza ancora scorgere nulla di cosa ci sarà oltre il tempo. Di nuovo in ostensione, in fusione, io e lui, come ai bei tempi, come ai vecchi tempi. No, neppure più come ai vecchi tempi. Oltre la china, l’incrinatura di questo annuncio che chiuderà il ciclo degli annunci. Il prezzo è tremendo, ma non esitiamo a pagarlo. L’innesco tornerà finalmente dentro l’innesco, annuncio e cosa annunciata diventeranno almeno per una frazione d’istante una cosa sola, prima di passare dall’altra parte, se c’è un’altra parte, dove l’apparire e lo scomparire sono la stessa cosa da sempre, per sempre. Che cosa credete? Ho anch’io il mio sogno!»

Non so se gli altri riuscivano in qualche modo a sentirmi, perché la voce mi usciva come da uno scrigno così lontano che quasi neanch’io l’avvertivo. Si sentiva solo il frusciare dei pixel nei due video accesi a poca distanza da me e dalla mia Musa.

Il softwarista mi guardava assorto, in silenzio, quasi con le lacrime agli occhi.

Avremmo potuto restare così tutti quanti per sempre, dentro la bolla dello stesso silenzio, nello stesso viaggio. Invece, un secondo dopo, un frusciare più forte all’interno dei video mi scosse improvvisamente.

«Cosa sta succedendo, lì dentro?» mi girai a chiedere al softwarista.

«Un finimondo!» mi rispose mettendosi le mani nei capelli. «Impossibile dare l’idea di quello che sta succedendo qui dentro, da quando si è diffusa la voce di questa transazione epocale. Si sta scatenando, prima ancora dell’annuncio, il gioco del posizionamento all’interno dell’enorme valanga che si sta allargando...»

Continuava a parlare, animatamente, col cuore in gola, e intanto la sua mano si sfuocava sul piano del tavolo, operando a velocità crescente sopra la tavoletta. La mia Musa mi fece all’improvviso una carezza sopra la testa, fuori tempo, da dietro. Un istante dopo avvertii che venivo scosso da un sospiro così profondo e dormiente da spostare visibilmente tutto il mio corpo sulla poltroncina.

«La bolla cresce» continuò il softwarista, «la valanga si ingrossa sempre più. Voi non avete idea di cosa si sta scatenando qui dentro, da quando è stata fatta penzolare la carta moschicida di questa offerta. Tutta la macchina è stata attraversata da parte a parte da questa scossa. Miriadi di organismi acquattati nell’ombra dietro le loro cortine di pixel si stanno scatenando da tutte le parti. Capitali predatori, di rischio, case d’asta on line, bazar digitali... Tutta l’infosfera è andata in esplosione, il bit bang è iniziato. Mercati finanziari, schiere di esseri che vivono vendendo informazioni, servizi, nei call center telefonici. Investitori, policy maker, consulenti, gestori di fondi, per quella che si presenta come la transazione delle transazioni, definitiva, assoluta. Tutta la rete palpita come una farfalla attratta irresistibilmente verso la fiamma che ha preso dentro tutta la fiamma. Tutto si attrae, si connette, si cerca, si invade. Matrimoni, fusioni, creating company, università, laboratori di ricerca, venture capital, shortup, knowledge society. L’idea si sta diffondendo come un fulmine attraverso il web. Capitali in anticipazione su se stessi, in traslocazione. Shopbot, programmi che attraversano continuamente il web alla ricerca delle offerte migliori, esploratori dell’infosfera virtuale, capaci di lavorare in background analizzando file e interagendo direttamente con altri programmi. Tutta la rete ha fiutato il sangue, si è messa sulla sua pista. Hanno drizzato le orecchie anche le banche centrali, tutta l’onda cannibalica si sta gonfiando, tutto il plasma economico è entrato in centrifugazione. Siamo seduti sopra un cratere, qui dentro. Siamo seduti sopra un cratere e siamo noi il cratere. Le offerte non sono ormai neppure più quantificabili attraverso cifre, stanno cominciando ad apparire da tutte le parti sigle, significazioni, si stanno creando dappertutto le affiliazioni che diffondono il messaggio di marketing fino agli angoli più remoti del cyberspazio. E dire che non abbiamo ancora un logo...»

«Ma come!» interruppe improvvisamente l’altro account. «Ma se abbiamo messo in campo addirittura Dio, il redentore, la vendita del pianeta...»

«Sì, sì, d’accordo» disse il softwarista, «il marchio forte c’è, la determinazione del valore c’è, altroché se c’è! Però io penso ad altro, qualcosa a cui tutta la rete si possa collegare continuamente, da tenere sotto osservazione, visibilizzazione, una sorta di Dna virtuale che accompagni in ogni suo istante questa vendita e la valanga finanziaria che sta scatenando, che diventi l’elica permanente di tutta questa infosfera. Che ci sia sempre, sia sempre lì, crei fiducia, fede...»

Balzai da sedere: «Perfetto! Avete visto? Ci siamo arrivati! Abbiamo trovato finalmente la via della fede!».

Un secondo dopo ero di nuovo tranquillo. Non mettevo più becco, ascoltavo.

«Qualcosa che sia come l’elettrocardiogramma di tutta questa transazione epocale» continuò il softwarista, «ininterrotto, cadenzato, vivente... Perché tutti questi enormi spostamenti di capitali, di input, si giocano sui flussi di fiducia, di fede, su qualcosa che bisogna iconizzare, rendere comunicativo, continuativo, autosufficiente, operante. Qualcosa che gli operatori abbiano sempre davanti agli occhi, a costo di dimenticarsi di tutto il resto. Non sto pensando a un logo qualsiasi, ma a qualcosa come un logo vivente.»

«Ho trovato!» saltai su di nuovo.

Si girarono tutti verso di me.

«Ce l’abbiamo già! Esiste già questo logo, qui dentro!»

«Ah, sì? E qual è?» provò a chiedere l’altro account, a fianco dell’account che aveva cercato di muovere a sua volta la mandibola per parlare.

La mia faccia si allargò in un sorriso.

«È quel sovrano sulla cyclette!»

Ci fu un improvviso silenzio.

«Ma certo!» esplose il softwarista qualche istante dopo. «Il sovrano sulla cyclette! Ma certo! Certo! È perfetto!»

Adesso si sentiva solo il rumore delle sue mani che cliccavano sempre più sfuocate su tavoletta e mouse.

«Ma certo! Certo!» continuò. «Eccolo lì! Sta continuando a pedalare sempre più forte all’interno della sua reggia. Non si ferma un momento. Si indovina il movimento a stantuffo delle sue forti gambe sotto il kente, si sentono tintinnare i suoi gioielli d’oro mentre sbattono gli uni contro gli altri nel generale movimento muscolare della sua pedalata. Stringerò l’immagine su di lui, taglierò fuori lo sfondo, evidenzierò solo la sua figura di testimonial che non smette di pedalare sulla cyclette, nella sua reggia, mentre fuori è notte, fino al termine di tutto quanto sta succedendo qui dentro. Lo metterò in alto, rimpicciolito, di lato, mentre continuerà a correre sul resto della bolla del video la valanga finanziaria di quest’asta epocale. Tutti gli occhi degli investitori fissi lì, tutti i broker, i predatori, le valanghe degli shopbot, tutti lì a decifrare quest’icona in movimento, la tenuta della sua pedalata, la sua progressione vivente. E dalle scariche elettriche che si accenderanno nei neuroni dei loro cervelli, collegati tra loro da novantaseimila chilometri di circuiti, tutto questo moltiplicato per milioni di cervelli, miliardi, crescerà sempre più questa valanga speculativa esplosiva, i suoi meccanismi di fiducia, i comportamenti emulativi, gregari... Eccolo là, è già installato! È già in campo. Senza dire una parola, senza cercare di convincere nessuno, in silenzio, con la sua pedalata soltanto, con la sua fede. Si è caricato sulle sue spalle il peso di tutto quanto, qui dentro!»

Rimase improvvisamente in silenzio. Rimanemmo tutti quanti in silenzio. Io vedevo, sbirciando un po’ da una parte oltre il corpo della mia Musa, l’immagine rimpicciolita del sovrano già in posizione nella sua finestra, a uno degli angoli in alto, che continuava a pedalare, concentrato, in silenzio, da solo, sulla cyclette che gli era stata portata attraverso quell’enorme traslocazione e quel vertiginoso viaggio di nozze.

«Eppure...» cominciò a dire l’account, all’improvviso.

Si interruppe di colpo. Faceva fatica a parlare.

«Eppure sono stato io a dare il via a tutto quanto, qui dentro!» concluse.

Si interruppe di nuovo.

«Sono stato io a incontrarmi per la prima volta con Dio!» provò ancora a dire, lentamente, con sforzo.

«Lei ormai è un guscio vuoto, una spoglia!» disse improvvisamente il softwarista, con durezza, per la prima volta.

L’altro account guardava da vicino l’account, con gli occhi esageratamente allargati.

«Faccio sempre più fatica a parlare!» ammise l’account abbassando la testa.

Tutti gli occhi erano girati verso di lui, nel generale silenzio.

«Per forza!» gli dissi spegnendo la sigaretta. «Lei si sta disattivando!»

Il Matto e la Meringa intanto sono scesi assieme agli altri viaggiatori dal treno. Sono saliti su un altro treno, fermo con le portelle aperte da chissà quanto tempo, ad aspettarli. Poi sono saliti su un aereo. L’aereo è decollato, è atterrato, sono saliti su un altro treno. Hanno ripreso a viaggiare non si sa perché, non si sa verso dove.

«Che viaggio stiamo facendo? Dove stiamo andando?» dice il Matto alla sua Meringa, tenendola sempre stretta, abbracciata. «E dove saranno andati quegli altri che viaggiavano assieme a noi su quella corriera, e poi su quel treno, e poi su quell’altro treno? Quella donna con le sole gengive, quella dalla testa espansa, Nervina, quegli emicranici... Saranno saliti su altri treni, altri aerei. Chissà verso dove staranno adesso viaggiando, a che punto saranno del loro viaggio? E noi due dove stiamo andando? Da quanto tempo siamo sfuggiti a tutto quanto, qui dentro? Siamo sfuggiti o sono tutti gli altri che sono sfuggiti a noi? E poi perché la traiettoria del nostro viaggio si curva sempre di più, sembra sempre di viaggiare su un’immensa linea curva, anche il paesaggio indietreggia o viene avanti bombato, da quando siamo scesi da quella corriera seguendo i segnali, e siamo saliti su quei treni, poi su quell’aereo, poi su quest’altro treno. Sembra che le rotaie si dispieghino sempre più in linea curva, tutto il treno corre leggermente inclinato, spinge sempre più i nostri corpi l’uno contro l’altro all’interno della vettura, anche il nostro raggio visivo è inclinato. E anche su quell’aereo, adesso che ci penso, sembrava sempre di volare in una sterminata curva attraverso lo spazio, e anche le nuvole, e persino le stelle, di notte, sbalzavano qua e là deformate, dietro i vetri dei finestrini pressurizzati. E anche adesso continuiamo a viaggiare così abbracciati, inclinati...»

«Non ti preoccupare» gli dice lei accarezzandolo a sua volta sulla schiena, sul collo, «stiamo andando dove questo viaggio ci deve portare.»

Lo scompartimento è vuoto. Non c’è nessun altro seduto di fronte a loro. La Meringa allunga una gamba sul sedile. Anche il Matto ci allunga sopra una gamba, la va a mettere su quella della sua Meringa, incrociata.

Viaggiano così per un po’, senza pensare a niente. Il treno continua ad andare senza fare rumore. C’è una luce calmissima, intensa. Il paesaggio scorre tutto pieno di luce fuori dal finestrino, nella interminabile curva illuminata, bombata, va a fare un tutt’uno con la luce. Guardano tutti e due fuori dal finestrino. Adesso il Matto le tiene un braccio intorno alle spalle, la Meringa ha abbandonato la testa sulla sua spalla. È tutto calmo, tranquillo. Fanno anche loro un tutt’uno con la luce. Non capiscono neanche più se sono del tutto svegli o se invece se ne stanno così, tra la veglia e il sonno. È tutto immobile, in luce, come se anche loro fossero parte indistinta dell’arialuce.

«Che cosa sono tutti questi segni che ho sulle braccia, sul corpo?» chiede d’un tratto il Matto alla sua Meringa. «Perché sono tutto pieno di segni, di lividi, di cicatrici, di piaghe? Che cosa è successo? Dove siamo stati?»

«C’è stato un incidente» gli racconta lei dolcemente, con la testa sulla sua spalla, «il treno su cui stavamo viaggiando è uscito dalle rotaie, in una curva. Ti hanno dovuto estrarre con la fiamma ossidrica dalle lamiere.»

«Ma questo quando è successo?» le domanda lui. «È adesso che stiamo viaggiando! Siamo adesso in treno! E siamo adesso in curva! E poi, se eravamo vicini, perché tu non hai un graffio?»

«Perché la mia natura sta cambiando, qui dentro!»

L’Interfaccia intanto è immobile, in piedi, nuda, di fronte allo specchio. Si è fermata di colpo, vedendosi all’improvviso nel grande specchio a figura intera che c’è a fianco del letto con tutto il suo corpo deformato, curvato. Contempla senza fiatare la curva del suo corpo che mette in curva lo specchio. Il proiettile dell’ombelico teso fino a scoppiare fuori dalla carne del ventre e che si prepara a colpire lo specchio. Lo specchio tutto deformato e incurvato, l’ombelico dello specchio sul punto di far scoppiare lo specchio. Anche lo specchio è tutto deformato, gonfiato, ingravidato. L’Interfaccia è immobile, ferma, sta ingravidando lo specchio. Tutta la forma del suo corpo viene avanti in modo orbitale dentro lo specchio, si mangia lo specchio. «Che cosa è mai successo qui dentro?» si dice restando immobile, le braccia distese a fianco del suo enorme ventre bombato. «Da quando mi sono posta specularmente di fronte alla Musa, il mio taglio specularmente di fronte al suo taglio tutto scuoiato e incendiato nella bolla del video... L’Interfaccia si è ingravidata, ha ingravidato lo specchio. La mia fica tagliata ha tagliato da parte a parte lo specchio. Il mio ventre ha reso ventre lo specchio. Si gonfia sempre di più, le mie superfici stanno tendendo fuori dallo specchio lo specchio, il proiettile del suo ombelico si prepara a balzare esplosivamente fuori dallo specchio. Il taglio della mia fica si aprirà enormemente quando inizieranno la dilatazione, le doglie. Lo specchio comincerà a dilatarsi a sua volta, romperà le acque. Si lacererà da parte a parte durante il parto, si sfonderà, andrà in mille pezzi, le sue schegge voleranno da tutte le parti sotto la spinta del proiettile della sua testa in fuoriuscita, in annuncio.»

Pericle e Grazia intanto stanno volando attraverso la città di notte verso il punto d’incontro. Le loro tute da vento scricchiolano per l’attrito dell’aria, dello spazio. Alle loro spalle la massa crescente dei corpi in corsa sta convergendo assieme a loro verso il punto di combattimento e di annuncio. Coi loro trampoli fosforescenti, coi roller. «Cosa sta succedendo alle nostre spalle?» si domandano in due punti lontani all’interno di quello smottamento di corpi. «Perché schiere sempre più vaste di corpi si stanno ponendo in formazione di combattimento dietro i nostri corpi lanciati? I nostri corpi e le nostre teste lanciate sotto i cascomaschera che inalberano le loro insegne colorate di comando e di guerra stanno diventando la cuspide di queste carovane in gestazione che si preparano a frantumare esplosivamente lo specchio. Non ci giriamo indietro, non possiamo girarci, però ci sembra che alle nostre spalle stia avvenendo una torsione mai vista prima di corpi e che dietro i miei trampoli fosforescenti, all’interno di questa notte che non finisce, in questo spazio immobilizzato, affrontato, che ci viene incontro come la superficie di uno specchio in gravidanza che ci prepariamo a sfondare, si stiano schierando sempre più dei corpi maschili, senza più distinzioni di età, non importa più se giovani o vecchi, e che dietro i miei roller lanciati si stiano invece disponendo sempre più corpi femminili, come se due altre bande si stessero creando per rimescolamento totale all’interno di questo videogame. I nostri colori di comando rovesciati hanno dato vita a un rovesciamento ancora più decisivo e senza ritorno, mentre corriamo in questo strano vento che si leva sempre più forte, qui dentro, che ci spinge in avanti e nello stesso tempo è come se ci risucchiasse all’indietro, tanto che i nostri corpi volano sempre più deformati da una leggera torsione, con le spalle sempre più indietro rispetto ai nostri ventri sessuati che fendono questo nuovo spazio con le loro matrici spaccate, i loro cazzi innestati.»

Canto delle matrici

Che cos’è, da dove nasce questo movimento orbitale dell’aria che incurva sempre più i nostri corpi, mentre fendiamo tutte assieme lo spazio, qui dentro, disposte a losanga come una formazione di incursori che vanno avanti sempre più arrovesciati contro il muro dell’aria, dello spazio? Il vento entra fischiando nelle nostre matrici, inalberate sui nostri ossi pubici che deformano le superfici delle nostre tute da vento mentre gettiamo indietro una gamba, poi l’altra, nella crescente velocità della corsa. Lo sentiamo irrompere fischiando nel cratere dei nostri uteri, attraverso il condotto vaginale lanciato, dentro le nostre grandi fiche elastiche che hanno riaperto sismicamente lo spazio, qui dentro. Balzando fuori dalle bolle dei video, dagli scantinati, dai set porno pieni di odore di piedi, di fiche e di prepuzi infiammati, di sangue marcio, di piscio, ravanate da sbarre di luce piene di sangue, in frantumi, da cazzi deformati, tatuati, ranocchi voltaici telecomandati, serpenti magnetizzati, arti umani e animali primordiali, cigliati. Sentiamo irrompere nei nostri spazi allargati le astronavi dei loro cazzi umani, vegetali, animali, nello spazio cieco del cosmo che inghiotte continuamente, che espelle. Noi apriamo e richiudiamo continuamente lo spazio fatto a nostra immagine e somiglianza, qui dentro. Avanzeremo così, in formazione, dietro quella forma femminile che indossa il cascomaschera con i colori di comando, da cui esce lo strascico dei suoi rossi capelli tormentati dal vento, verso dove ancora non sappiamo, verso dove siamo state chiamate. Entreremo in sfondamento dentro lo spazio mentre siamo sfondate a nostra volta da questo seme di spazio, inghiottiremo il seme dello spazio mentre siamo a nostra volta inghiottite da questo seme di spazio. Le nostre matrici saranno matrici di nuovi spazi. Porgeremo allo spazio la coppa di un nuovo spazio che c’è dentro lo spazio. Si allargheranno alle nostre spalle sempre nuove schiere in inghiottimento dentro lo spazio, si apriranno al centro di esse per l’azione del movimento e del controvento le nostre supernove che faranno palpitare esplosivamente lo spazio, mentre verranno avanti sempre nuove ondate di matrici che ingrosseranno le nostre schiere femminili potenti, in corsa verso il punto di combattimento e di annuncio. Matrici ricoperte di pelame appena spuntato, sigillate dentro se stesse come ricci, irrorate, matrici già spaccate e divaricate, bagnate, il fornice ancora pieno di liquido seminale appena sparato. Matrici mestruate, abitate da fibromi, polipi, papillomi, uteri prolassati per i parti, tuorli incendiati, mucose vaginali che sporgono all’esterno come un nuovo contrario di cazzo in esplorazione in questo nuovo spazio prenatale che si è formato nello scrigno del cosmo, di questo nuovo cosmo. Mentre un’altra schiera starà correndo da un’altra parte verso lo stesso identico punto, per che cosa ancora non si sa, non è dato sapere, coi loro tubi aerei, giganti.

Canto dei cazzi

Stiamo convergendo anche noi da tutte le parti verso quel punto, sui nostri lunghi arti che si stagliano nella notte, i nostri cazzi fosforescenti, giganti. Spinti in fuori dall’osso pubico puntato in avanti per questa corsa arcuata, crescente, come quelle schiere di insetti che vengono avanti in formazione coi loro pungiglioni innestati nel brulicare dell’aria messa in fermentazione da una miriade di ali trasparenti, innervate. Con la nostra cute retrattile, frenuli, corpi cavernosi allagati per la velocità della penetrazione nella matrice dell’aria, dello spazio, setti fibrosi, guaine, areole, caverne, valvole che si aprono e chiudono per regolare il flusso del sangue. Spalmati di fosforo, devastati da batteri, da cancri, scoli, gonococchi, obliterazioni di arterie, sbocchi anormali dell’uretra sul glande, docce spermatiche deviate. Andiamo avanti sempre più aprendo matrici dentro lo spazio, tutto lo spazio si fa matrice di fronte all’irrompere dei nostri cazzi dentro lo spazio. In questo spazio attraversato da ogni parte da altre matrici e altri cazzi, nei cunicoli rettali di questo pianeta, nell’aria che c’è nell’aria. Tutta l’aria è attraversata da cazzi che volano trasportati dalle ossicine pneumatiche delle ali ricoperte di piume. Tutto lo spazio è attraversato da docce spermatiche tratteggiate. Tutto il fornice dello spazio è pieno di liquido seminale crivellato di spermatozoi dalle teste bombate dentro il generale movimento genitale dello spaziotempo inventato. Tutto lo spaziotempo è un tutt’uno col movimento genitale di questo annuncio. Siamo balzati fuori dalle nostre case e dalle nostre vite, dai nostri sotterranei sessuati, abbiamo strappato fuori i nostri cazzi dalle fiche, dai culi, ancora sporchi, bagnati di secrezioni, di emulsioni, di merda, ci siamo messi sulla scia di quel grande corpo allungato che ci precede verso dove ancora non si sa, dietro quell’uomo serrato nel suo cascomaschera che inalbera i colori di combattimento e di annuncio. Lo seguiamo volando attraverso le prospettive sfondate di questa città e di questo pianeta in liquidazione, in annuncio, coi nostri corpi sempre più arrovesciati per la violenza della loro corsa e del vento. Entreremo nella matrice sfondata di questo fulgore e di questo annuncio, coi nostri corpi cavernosi in eiaculazione, in annuncio. Porteremo il tuorlo in esplosione dei nostri corpi nel fornice in esplosione dello spaziotempo. Lanceremo l’uovo cerebrale della nostra eiaculazione nella matrice dello spaziotempo. Innesteremo i nostri vessilli termici in sbandieramento nella slogatura di questo tempo e di questo sogno. Andremo a toccare con la nostra grande punta mineralizzata lo scrigno della nuova matrice che c’è all’interno della matrice. Scateneremo con la valanga genitale del nostro semplice tocco la matrice della matrice imprigionata nello spaziotempo imprigionato nell’arialuce.

Aminah e il suonatore di prepuzio intanto si stanno spostando sulla loro bicicletta nel pulviscolo dell’atmosfera incendiata. La bicicletta avanza nella massa elettrizzata delle spore che palpitano al loro passaggio. Il suonatore di prepuzio pedala piano, tranquillo, le sue gambe creano un vortice luminoso nella massa luminosa dell’aria, dello spazio. Aminah continua a suonare quella trombetta che sembra un prepuzio mentre fende l’aria in bilico come un birillo sopra la canna. «Che cosa mi sta succedendo» si domanda, «che mi sembra di percepire la presenza del mio corpo anche in punti più lontani dai suoi attuali confini nella guaina elettrizzata dell’arialuce...?»

Gira piano la testa di lato, per guardarsi mentre la bicicletta continua ad andare. Le sembra di indovinare un movimento luminoso nascente all’interno della massa pulviscolare di luce.

«No, no, non è possibile!» si dice continuando a suonare la sua trombetta.

Eppure sta succedendo qualcosa all’interno della matrice dello spazio in fermentazione, mentre la bicicletta continua ad avanzare amnioticamente al suo interno.

«Ma no, non mi ero sbagliata!» si dice Aminah con il cuore in gola. «Sta succedendo qualcosa di enorme all’interno dell’aria. È come se si stessero visibilizzando delle guaine luminose all’interno della massa dove dovrei avere le gambe e le braccia, come se mi fosse dato di assistere al formarsi della materia vivente all’interno stesso dell’arialuce... Eppure non mi sembra che sia solo una sensazione fotoelettrica dei miei occhi intenti a guardare dentro questa matassa di luce. Sta succedendo veramente qualcosa, è come se i miei arti si stessero veramente formando, riformando, in questa nuova guaina, come per una nuova nascita dentro quest’utero luminoso palpitante e diffuso...»

Smette di suonare la sua trombetta, di respirare. Prova a muovere un po’ nell’aria ciò che resta dell’attaccatura degli arti. Vede, con gli occhi sbarrati nella matassa in combustione dell’atmosfera, che tutta la luminescenza dell’aria si muove e palpita da tutte le parti, ridefinita.

Fa macchinalmente il gesto di togliersi la trombetta di bocca, come se avesse ancora le braccia. La sua nuova mano va a toccare veramente il piccolo imbuto di carne della trombetta, se la stacca dalle labbra, dal volto, mentre sente crepitare la massa dei suoi capelli crespi aureolati di colonie di spore incendiate.

«Dove mi stai portando?» chiede con enorme emozione al suo cavaliere, che continua a pedalare tranquillamente, sorridendo, in silenzio, nel vortice dell’arialuce. «È vero quello che sta succedendo o me lo sto solo sognando?»

Ma forse non sta sognando perché le sembra che le guaine luminose che si allungano sempre più ai lati della bicicletta stiano assumendo sempre più le inequivocabili forme di arti e di ginocchia e di piedi come radiografati da una nuova luce più forte che si sia accesa nell’arialuce. E che anche dalle spalle tranciate si stiano proporzionando sempre più delle braccia, con le loro mani, le dita, definite una a una nel loro nuovo nido di luce. Prova a muoverle un po’, nella poltiglia di luce, sente il pizzicare indistinto delle spore incendiate contro le sue nuove superfici riposizionate dentro le loro nuove sedi nelle loro nuove guaine di luce. «Mi si stanno riformando gli arti!» si dice con gli occhi chiusi continuando a fendere con l’aureola della sua testa la voragine della luce. «I tessuti muscolari, nervosi, le cellule si stanno connettendo le une alle altre, stanno formando sempre nuovi tessuti, il sangue appena nato vasodilata i nuovi circuiti delle vene e delle arterie appena inventate. È così che si formano i corpi dentro gli altri corpi più grandi. È così che si percepiscono i nuovi movimenti generativi interni con la materia cerebrale che si è appena focalizzata e formata strappandosi dalla melma indistinta dell’arialuce. Sono già nata eppure sto assistendo alla mia nuova nascita nell’utero della luce!»

Nessuno fiatava.

«È stato ancora lei a fare questo miracolo?» domandai al softwarista, all’improvviso.

Si confuse.

«No, no, le assicuro! Non stavo neanche operando sul videogame, in questo momento!»

Stava immobile di fronte alle bolle dei video, con la bocca allargata, gli occhi spalancati.

«E allora chi è stato?» incalzai.

«Forse è stato il sovrano!»

Ci fu un generale silenzio. Il softwarista si era gettato a operare contemporaneamente su tavoletta e tastiera.

«Il sovrano?»

«Sì, quello sulla cyclette!»

Mi feci aria improvvisamente, con la mano, vicino alla bocca tenuta aperta, per scherno.

«Ho capito bene?» buttai lì, quando mi fui ripreso.

«Ma sì, sì!» rispose il softwarista con animazione crescente. «Lui è lì, dove l’abbiamo messo, al suo posto, si è assunto fino in fondo il mandato per cui è stato inserito qui dentro, regge il peso della sua missione, accelera sempre più la sua pedalata incurante di tutti quegli occhi puntati su di lui, del numero crescente dei software che non lo perdono d’occhio un secondo, regolano su di lui i giganteschi movimenti finanziari delle loro puntate, tra capitali di rischio, enormi banche che si mangiano ciò che resta delle strutture burocratiche di supporto degli stati, tutta questa massa cieca che si disloca continuamente nella poltiglia dei pixel. Scatena latenze redentive che dormono dentro gli altri software, nei circuiti delle memorie, per valorizzare sempre più la merce che stiamo trattando. Interagisce con gli altri software, coi game, anche col nostro game, naturalmente, ne scatena le potenzialità, le latenze, all’interno di questa campagna mai vista prima, contamina gli altri software, fa girare sempre più velocemente la ruota, allarga sempre più il fronte della valanga, assumendosi fino in fondo il ruolo creativo per cui è stato collocato esattamente in quel punto. È lui, in questo momento, che sta tenendo in piedi tutto quanto, qui dentro.»

«Il sovrano...» dissi storcendo la bocca «ma avevamo proprio bisogno di un altro sovrano? Non c’ero già io? Non c’era già Dio? Da dove è saltato fuori questo sovrano? Perché mi si para sempre davanti un nuovo sovrano? Chi l’ha inserito di soppiatto, qui dentro?»

«Ma è stato lei!» disse il softwarista con gli occhi sbarrati.

Lo incenerii con un’occhiata.

«Io?» gli risposi digrignando i denti. «Sta scherzando?»

Nessuno disse niente. Si sentiva solo il rumore del softwarista che faceva andare febbrilmente le mani sulla tavoletta e sulla tastiera.

L’account fece per dire qualcosa. Mosse disarticolatamente la bocca, senza riuscire a formulare nessuna parola. Un secondo dopo si immobilizzò di nuovo, con tutte e due le mani sopra la fronte, le dita tra i capelli, gli occhi chiusi.

«E poi, e poi...» non mi diedi per vinto «com’è arrivata quella cyclette? Chi è stato a introdurla veramente, qui dentro? E questo account che si sta disattivando, si è disattivato del tutto, e tutte queste figure in viaggio non si sa verso dove, perché, questo muro dello spazio affrontato che tende sempre a immobilizzarsi, da cui abbiamo letteralmente strappato qualcuno che in questo momento sta partecipando addirittura a questo brief, col suo nuovo volto, questo movimento di vento che da un po’ di tempo sta arcuando addirittura quelle figure che si stanno muovendo per bande sui loro trampoli fosforescenti, sui roller? E dove sono diretti Principessa e il traslocatore? E quei due che continuano a viaggiare per i cazzi loro, sulle corriere, i treni, gli aerei, il Matto e quella che crede la sua Meringa? Sono sempre in curva, viaggiano sempre sopra una curva. Perché? Verso dove stanno virando? Dove stanno andando veramente quei due?»

«Non l’ha ancora capito?» interloquì il softwarista.

Lo guardai sollevando la testa, con uno scatto improvviso, come morso da una tarantola.

«È la prima volta che lei mi manca di rispetto!» gli dissi. «Cosa sta succedendo?»

Il softwarista abbassò la testa un istante prima di rialzarla arditamente verso di me e di rispondermi.

«Io so cose che gli altri non sanno, qui dentro!»

«Neanch’io?» gli domandai a bruciapelo.

Esitò un istante.

«No» disse scuotendo la testa, «neanche lei!»

Rimase un istante in silenzio, scuro in volto per l’enorme concentrazione.

Si guardarono tutti in silenzio, con gli occhi sbarrati, la mia Musa, il copy e l’art e le loro ragazze, Lanza, l’altro account.

L’account invece stava immobile, ancora con le mani nei capelli, disattivato.

«E poi perché ci sono tutti quei corpi che si torcono sempre più nella corsa? Perché corrono sempre più arcuati dentro lo spazio?» provai ancora a dire. «Perché quei corpi sono sempre più arrovesciati? Che cos’è che sta imprimendo questa curvatura a ogni cosa? Sta succedendo qualcosa di enorme, qui dentro!»

«E se ne accorge adesso?» infierì il softwarista.

Rimasi fermo, al mio posto, per non dargli la soddisfazione di vedermi alterato.

Mi fissavano tutti, da tutte le parti, senza fiatare, con gli occhi sbarrati, come in un fotogramma bloccato.

Cercai la mano della mia Musa, lì vicino.

Non c’era.

«Lei evidentemente non è più in grado di comprendere quello che sta succedendo qui dentro» disse il softwarista senza asprezza, con desolazione, dolcezza.

«Sta scherzando?» gli dissi. «Io? Proprio io?»

«Sì» disse il softwarista, «proprio lei! Mi dispiace. Lei ormai è stato oltrepassato. Ora tocca a me.»

Mi girai dalla parte del Gatto, staccai la mano sinistra dalla tastiera, l’allungai verso quella della mia Musa, che me la strinse immediatamente, con forza.

Sollevai arditamente la mia mano sinistra intrecciata a quella tutta piena di anelli della mia Musa, di fronte alle altre teste immobilizzate, nel nuovo centro del brief.

Il Gatto rise, gettando indietro spavaldamente la testa.

«Non è la prima volta che mi succede!» disse riprendendosi all’improvviso.

Cominciò a ridere lentamente, a lungo, con le lacrime agli occhi, nel generale silenzio.

«Cosa crede di avere fatto?» disse infine, asciugandosi gli occhi col dorso di una mano. «A chi crede di avere obbedito? Lei mi ha soltanto liberato dalla prigione in cui ero stato cacciato, in cui mi ero cacciato! Mi ha restituito a me stesso!»

«Lei può dire quello che vuole!» gli tenni testa. «La conosco. Ormai il suo tempo è finito, qui dentro. È cominciato il mio.»

Tutte le teste si girarono a molla verso di me, che ripresi immediatamente a parlare.

«La situazione è questa: il nostro sovrano continua a pedalare sulla cyclette, sta trascinando con sé tutta la valanga economica di questa vendita senza ritorno, sta portando tutta la bolla speculativa al punto in cui il mercato può solo comperare se stesso. Tutto il tessuto finanziario sta tracimando, si sta inghiottendo, si sta trasformando in un buco nero al di là del quale non sappiamo neppure se ci sarà mai una supernova, possiamo solo immaginare di poter passare attraverso questo passaggio, ci siamo posti nella condizione di poter solo passare attraverso il buco nero di questo annuncio. Il mio seme e ciò cui ha dato vita il mio seme sono diventati il portante e il portato di questa avventura senza ritorno e di questa esplosione. Il mio seme e il mio videogame si sono fusi esplosivamente in una cosa sola, qui dentro. Le sue figure si sono lanciate oltre se stesse in questo nuovo spazio increato. Hanno distrutto lo spazio, si sono poste nella condizione di poter soltanto creare nuovi sfondamenti di spazio nel vortice dello spazio. Il nostro sovrano continua a far lievitare e quasi evocare tutta la massa quintessenziale di scambio che ha attraversato fin dall’inizio questo pianeta e la sua storia presunta e i suoi destini, che si è posta come codice di questo pianeta e dei suoi destini, mentre c’era invece qualcosa d’altro, di completamente altro, del tutto invisibile, in sonno, che adesso stiamo andando a stanare, che forse porteremo al suo svelamento, qui dentro. Mentre il nostro nuovo sovrano trascina con sé tutta la valanga cieca dei suoi destini...»

«È sicuro che quello là non sia un emissario?» mi interruppe il Gatto a questo punto, sardonicamente.

Le molle delle teste si girarono verso di lui.

«Un emissario di chi?»

Le molle delle teste si girarono verso di me.

«Ma di quel gruppo terroristico, per esempio...»

Le molle delle teste si girarono di nuovo verso di lui, meno quella dell’account, che non si era più mosso, era rimasto immobile, con tutte e due le mani sopra la testa.

«Cosa vorrebbe insinuare?» gli chiesi. «Si spieghi!»

Il Gatto scosse la testa.

«Mah... è solo un sospetto. La butto lì... Ma non si è ancora capito bene come e da chi è stato veramente introdotto qui dentro, questo sovrano, a questo punto, mentre stavamo tutti lì a seguire le scopate nuziali di Principessa col suo traslocatore, le loro inculate berbere... Guardavamo tutti da un’altra parte, e intanto c’era questo sovrano del cazzo da qualche parte, che aspettava solo di salire a cavallo di quella cyclette che gli è stata letteralmente consegnata a domicilio al termine di un viaggio regale che ha comportato uno sfondamento esplosivo dello spaziotempo, qui dentro.»

«E allora? Dov’è il problema?» risposi. «Ce l’ha insegnato lei! Lei lo sa come vanno avanti le cose, qui dentro! Ma poi... perché dovrebbe essere un emissario di quel gruppo terroristico che ha attraversato tutto quanto da parte a parte e poi ha continuato la sua traiettoria orbitale? Sarà ormai chissà dove, sarà diventato ormai chissà cosa...»

«Ne è sicuro?» insinuò il Gatto. «È veramente sicuro che sia uscito una volta per tutte da qui dentro, che non si sia trasformato in qualcosa d’altro, che non si sia invece ripresentato sotto altre spoglie e altre forme, qui dentro?»

Le molle delle teste si giravano continuamente a guardarci, a scatti, me e lui, a seconda di chi parlava.

«Cosa vorrebbe dire? Perché dovrebbe essere rientrato qui dentro in quella forma?»

«Mah, non lo so... Provi un po’ a controllare cosa sta succedendo nella massa delle offerte. Se c’è qualcuno ancora nell’ombra che non sta per caso pilotando l’intera operazione. Controlli i nomi degli investitori più lanciati, le sigle, i cartelli. Se sono saltati fuori degli investitori più forti di altri, per esempio, che si stanno staccando dal gruppo che viene avanti a valanga, che tendono a prendere il comando dell’intera valanga. Non lo so, non lo so, è solo un sospetto... La butto lì!»

«Ci sono ormai solo nomi in codice» risposi con gli occhi fissi a quanto stava avvenendo nei video, «anche le cifre sono ormai scomparse, solo determinazioni, sigle, non si possono quasi più neanche quantificare, tanto è cresciuta esponenzialmente l’offerta all’interno dell’asta...»

«E non c’è per caso qualche sigla che sta crescendo in modo incontrollabile, abnorme» non si diede per vinto il Gatto, «che sta risucchiando il resto dell’infosfera?»

Tutte le teste continuavano a girare da una parte all’altra, svitate.

«Mah, non saprei...» dissi decifrando quanto stava avvenendo nei video «è ancora presto per dirlo...»

«E lei chi è veramente?» mi chiese ancora il Gatto. «Sì, perché di me si sa tutto, qui dentro. Si sa da dove vengo, chi sono. O almeno si crede di sapere chi sono. Ma lei chi è? Cosa ci fa qui dentro? Da chi è stato introdotto? E perché?»

Tutte le facce erano adesso girate verso di me.

Non risposi io, questa volta. Mi limitai ad abbracciare la mia bella ragazza da poco inculata, la mia Musa, che appoggiò irresistibilmente la testa sulla mia spalla, chiuse gli occhi.

L’account disattivato fissava la scena con gli occhi sbarrati, la testa tra le mani irrigidite, uncinate.

«E perché quello lì è stato tolto di mezzo proprio adesso?» disse ancora il Gatto. «Non può più dire nulla, spiegare nulla... Duplicato e disattivato!»

Si interruppe un istante.

«Perlomeno non dovrà più soffrire per le emorroidi!» buttò lì ancora, al suo indirizzo, ferocemente. «Lo vede che non tutto il male viene per nuocere!»

Silenzio di tomba.

L’altro account si raschiò la gola.

«C’è un altro problema» provò a dire.

«Ah sì? Quale?» ribatté qualcuno, non saprei dire chi, forse io stesso.

«Come si fa a essere sicuri che chi alla fine si aggiudicherà l’asta sia veramente solvibile al momento del pagamento?»

Il Gatto lo guardò con gli occhi sbarrati.

«Ma lei da dove viene?» gli rise in faccia. «Da dove è spuntato? È arrivato qui dentro paracadutato da chissà dove... Se sarà solvibile? Se sarà in grado di sostenere una simile spesa? Ma si rende conto della domanda? Sta scherzando? No che non potrà sostenerla!»

«E allora?»

«Chi ci sarà che potrà chiedergliene conto, alla fine, quando questa transazione sarà avvenuta?»

«Il cliente, naturalmente!»

Il Gatto rise.

«E se fosse anche lui parte del pacchetto?»

Nessuno disse più niente, per un po’.

«E questi corpi che continuano ad andare di corsa?» si disperò d’un tratto il copy. «Perché si arrovesciano sempre più nella corsa? Perché qui dentro tutti quanti si arrovesciano sempre più? Che cosa sta succedendo? Io lo devo sapere! Devo riuscire a giustificarlo nello storyboard!»

Canto dei corpi che si arrovesciano nella corsa

Cosa sta succedendo ai nostri corpi e alle nostre forme? Perché si tendono e si arrovesciano sempre più nella corsa? Il branco si ingrossa sempre più, l’orda cresce, si aggiungono sempre nuove figure e nuovi segnali e nuove forme che scaturiscono senza sosta dalle case, dai sotterranei. Siamo balzati fuori anche da quelle fogne piene di luce dei set porno, dopo che la Musa ha battuto il tacco due volte contro le borchie di vetro di quel lucernario, e tutti quanti abbiamo girato verso l’alto le teste smangiate da quella melma di luce. Anche dagli altri set disseminati nelle viscere della città, delle case. Senza neanche avere il tempo di rivestirci, ancora nudi, eccitati. Abbiamo staccato gli uni dagli altri i nostri cazzi e le nostre fiche e i nostri retti ancora incastrati, senza neanche lavarci, ancora incrostati di liquidi organici, merda. Abbiamo cominciato a correre così, per le strade, nell’orda degli altri corpi lanciati, dietro gli altri corpi sterminati in cima ai loro trampoli fosforescenti, sui roller, con le braccia disarticolate, allargate, le teste sempre più gettate all’indietro oltre la linea d’orizzonte delle spalle. Senza sapere verso dove, perché. Tutto l’arco dei nostri corpi si tende. Balzano in fuori, sempre più avanti, le nostre ossa pubiche, i genitali, le anche, tutti i nostri corpi sono attraversati sempre di più da questa tremenda torsione, come se qualcosa nella velocità crescente della corsa ci sospingesse irresistibilmente in avanti e nello stesso tempo ci risucchiasse all’indietro. Le estremità della nostra spina dorsale si tendono sempre più all’indietro, come un arco. La nostra corsa è tale che non si capisce neanche più se stiamo accelerando o se ci stiamo al contrario immobilizzando. Ci proiettiamo irresistibilmente con le gambe e le braccia all’indietro, la testa tutta snodata, arrovesciata, in questa poltiglia sfondata, rifondata. L’arco della nostra spina dorsale snodata tende sempre più la freccia del nostro cervello risagomato che sta per scoccare verso un nuovo orizzonte di specie nella poltiglia dell’arialuce. I tendini si allungano fin quasi a spezzarsi nella guaina della muscolatura in tensione, il groviglio elastico delle vene si riposiziona all’interno della macchina lanciata dei nostri progetti di corpi, le ossa slogate gettano in fuori come una freccia la parte centrale genitale dei nostri corpi, con la rosa dei peli pubici investiti violentemente dal vento. Ogni singolo segmento d’osso si riposiziona attorno agli snodi delle giunture. Le ossa lunghe si arcuano per la velocità della corsa, il midollo osseo si inventa sempre nuovi percorsi nei canali d’osso modificati. Le nostre masse genitali si vanno a collocare alla cuspide della freccia che sta per scoccare, le masse intestinali gettate in avanti al centro dei nostri corpi incurvati sono in penetrazione nel muro di spazio fronteggiato. Tutto il nostro corpo gettato all’indietro capovolge la prima postura umana ingobbita, da quando ci siamo alzati per la prima volta su due sole zampe in un’altra porzione lanciata della stessa onda dello spaziotempo. Le ossa dei piedi si modificano, le dita si allungano, sul nostro torso deviato le scapole entrano profondamente dentro la carne, le ossa delle spalle si proiettano sempre più all’indietro, le costole scaturiscono sempre più dallo sterno come una carenatura che fende in piena notte lo spazio. I nostri nuovi corpi e le nostre forme sono plasmate sempre più dall’urto delle forze contrapposte che si stanno scatenando sempre più irresistibilmente qui dentro. Perché ogni corpo e ogni forma si arrovesciano sempre di più? Per l’azione di quali forze? Quale freccia dovranno mai scagliare i nostri corpi, qui dentro? A che cosa siamo chiamati? Stiamo avanzando in questi spazi abbagliati, carenati. Stiamo aprendo una carenatura rovesciata gemella dentro lo spaziotempo bucato, rifondato. Stiamo scagliando la freccia intestinale dei nostri cervelli nella poltiglia trasognata dell’arialuce. Stiamo spalancando al suo interno la ferita cerebrale della visione. Il tracciante dei nostri cervelli lanciati sta aprendo nella ferita cerebrale della visione il tabernacolo vaginale della visione.