«No, ci siamo anche noi, immobili, al buio, in attesa. Non sappiamo più dove siamo, chi siamo. Ma ci siamo. Al tuo fianco. Sotto l’urto di quello che sta passando sopra i moncherini delle nostre teste e sull’antico mondo con la sua allucinazione biologica configurata. Per quest’ultimo viaggio. Tutti schierati, evocati. Le tue legioni, i tuoi autori. Tutti quelli che, uno dopo l’altro, uno dentro l’altro, uno contro l’altro hanno creato, traslocato, trasfigurato, scopato, generato, annientato. Parliamo adesso per un solo e ultimo istante con una sola voce, come un corpo in un’unica combustione, in una sola fiamma. Mentre veniamo polverizzati e poi ricomposti da quello che sta passando attraverso i nostri precedenti progetti di corpi e scompare la nostra stessa materia, di cui occupiamo per l’ultima volta il residuo gravitazionale attraversato da un’onda oscura e lucente e inconoscibile e abnorme.
Ci presentiamo: io sono il Matto, tutto ricoperto di ferite, ematomi, trasportato fin qui attraverso un’unica ellissi, io sono quella puttana della Musa, dal corpo aperto, creativo, tagliato, io sono il donatore di seme e softwarista, io sono l’infantile Lanza, io sono il vecchio dalla paresi masturbatoria, io sono la donna che trema, io sono il ginecologo spastico che rende spastico lo spazio e il tempo, io sono Principessa, io sono la donna amputata, io sono la bambina che vede il cielo diventare bianco, io sono l’uomo che incendia le spore... Siamo tutti qui, indistinguibili, nell’oscurità più profonda, oltrepassati, al tuo fianco. Non ci riusciamo neanche più a vedere l’un l’altro nella luce immobilizzata. Anche le nostre voci sono immobilizzate, passate oltre il falso movimento dell’economia e della narrazione privata dell’illusione e della consolazione dello spazio e del tempo. Siamo già tutti là, siamo qui. Anche tu sei già qui. Non possiamo neanche aspettarti perché sei già qui.»
Qualcuno sta scaldando il motore nel buio
Notte nera. Le strade vuote. Eppure l’asfalto vibra sotto le masse di metallo delle macchine in sosta. Tutta la rete delle strade vibra perché c’è uno spostamento immane di corpi che vanno avanti da qualche parte per forza d’inerzia, a valanga, nello spazio immobilizzato.
Qualcuno sta scaldando il motore nel buio. C’è una macchina ferma sul marciapiede, con tutte e quattro le portiere spalancate, ali di metallo. Nella leggera luce dell’abitacolo si distingue un uomo solo seduto al posto di guida, con la nuca posata sul poggiatesta, gli occhi chiusi. Sta accarezzando e saggiando l’acceleratore con la suola zigrinata della scarpa da guida. E intanto tiene tra le mani il volante, lo stringe un po’, accarezza anche quello lungo l’intero suo cerchio, con le dita che spuntano dai mezzi guanti, e spinge ancora più indietro contro il sedile la spina dorsale eretta, le spalle. Chiude gli occhi, anche se li teneva già chiusi, respira profondamente, e intanto pensa e fantastica e prega dentro di sé:
Giro la manopola della radio, tento di sentire anch’io la voce di Dio intento a dare l’annuncio. Ma la radio non trasmette più niente, le sue onde non possono captare nulla del cataclisma che è passato e che sta passando qui dentro. Prima di uscire di casa ho acceso il televisore. Anche lì niente. Ogni comunicazione saltata. Solo brusii, interferenze. Perché anche le immagini non possono proporzionarsi con l’onda d’urto di questo annuncio. Anche i messaggeri staranno con le bocche spalancate e immobilizzate dal loro stesso annuncio. Anche l’urlo della donna che urla sarà in questo istante immobilizzato nell’estremo punto possibile della sua espansione. Si sente solo un fruscio desintonizzato provenire da questo povero apparecchio di alluminio e plastica di cui giro inutilmente le manopole in questa strada oltrepassata e deserta. Mentre le grandi schiere messe in movimento fin dall’inizio continuano a marciare a occhi chiusi, a valanga. Tutto il manto stradale vibra sempre più, anche l’abitacolo della mia macchina trema per il sommovimento della terra ricoperta a malapena dalla pellicola dell’asfalto, e ancora più giù, fin nelle sue zone gelate, nel suo nocciolo incandescente che continua a bruciare dentro la sfera in cui è imprigionato.
Io invece sono infinitamente calmo, tranquillo. Oggi pomeriggio ho portato la macchina in officina, per controllare un’ultima volta il motore ed essere certo che ogni sua parte possa reggere l’impatto con tutto quanto l’aspetta, stanotte. Sono rimasto un po’ a chiacchierare con il meccanico mentre la mia vecchia cavalcatura veniva sollevata sul ponte. Anche lei tutta piena di colpi, di ammaccature, infangata. Saliva lentamente, solennemente, sul ponte, e intanto il garzone del meccanico teneva premuto il pulsante che azionava la pompa. Saliva, saliva, sempre più in alto, sverginata, infangata, come per farsi ammirare da me per un’ultima volta, la mia fedele amica che è rimasta sempre al mio fianco notte dopo notte, in ogni prova, la mia vecchia, sanguinaria ragazza, la mia cavalcatura di metallo e di sogno, il mio ariete. Io e il meccanico immobili, mentre lei saliva, saliva, come un altare a ruote che si innalzava nell’aria in attesa che ci salisse sopra il suo celebrante, con i capelli pettinati all’indietro, i mezzi guanti. Eravamo immobili, sul pavimento macchiato d’olio bruciato. Solo lei saliva. Anche il meccanico la guardava senza parlare, si era dimenticato persino di tirare un’ultima boccata dalla cicca che teneva con delicatezza tra le sue grandi dita sporche di morchia. Era già molto in alto eppure continuava a salire, a salire. Si vedevano dal basso le sue viscere tutte infangate ricoperte di argilla secca e di sangue, di resti maciullati di ossa, di materia cerebrale pietrificata, come quelle città antiche ricoperte di sabbia ai limiti dei deserti. Il meccanico ormai lo sa, non perde più tempo a farmi domande. “Non si vede niente!” ha detto al garzone. “Dagli una bella botta con l’acqua!” Il ragazzo ha impugnato la pistola, ha cominciato a sparare un getto concentrato e violento, di non so quante atmosfere, contro il fondo dell’auto, nelle sue budella metalliche insanguinate, e si staccavano blocchi interi di fango che coprivano l’albero di trasmissione, gli ingranaggi, i mozzi delle ruote, i copertoni, i cerchioni. Residui sbriciolati di denti e di materia corporea, mucose calpestate e seccate, cuoio capelluto intravisto, frammenti di intestini e zone interne sbocciate per la fuoriuscita di feci mineralizzate. Io e il meccanico continuavamo a guardare senza parlare la mia vecchia ballerina che si faceva bella per il suo ultimo ballo, e si spandeva nell’officina un odore spaventoso di corpi portati alla dimensione quantica. Ho fatto controllare ogni singola parte del motore, dell’impianto elettrico, degli ingranaggi, delle leve, il carburatore, la testata, il monoblocco, il volano, e poi anche biella, pompa dell’olio, stantuffo, valvole, spinterogeno, ventilatore. Ho fatto cambiare le candele, il filtro dell’aria. Anche l’olio del motore, del cambio, e guardavamo in silenzio quel filo nero, bruciato, che pisciava giù dall’alto delle sue viscere e cadeva con un risucchio dentro una latta che era stata messa sul pavimento. Che cosa volete, i motori sono ancora fatti così, in questa epoca!
Finalmente l’hanno abbassata, l’hanno riportata a filo con l’orizzonte, e allora io ho potuto salirci di nuovo sopra, e poi uscire dall’officina, e mi sembrava di avere tra le mani una macchina appena inventata. Il volante girava più facilmente, le ruote facevano più presa sopra l’asfalto, le marce entravano senza sforzo quando muovevo la leva del cambio. Ho portato tutta questa colonia semovente di metallo e di vetro e di gomma e di sogno fin qui, dove sono adesso, acquattato al suo interno come un microrganismo che guida il corpo più grande dell’ospite in cui è contenuto verso il suo inconsapevole salto di specie, fino al punto di inizio di quest’ultimo affondo nella polpa immobilizzata del mondo. È tanto che mi sto preparando per questo appuntamento finale. Adesso tocca a me. Sono io, solo io l’investitore, qui dentro. Coraggio, mi dico, il momento è arrivato, ce ne sarà di messe, stanotte!
E mi sembra, dall’interno di questa dedizione e di questa elezione, che tutta questa fiumana di corpi inalberati e di segnali e di sogni si sia messa in movimento fin dall’inizio solo per me, perché io possa incontrarla alla fine di questo viaggio. Perché proprio a me venga data l’ultima parola, quella definitiva, qui dentro. Tutta la mia vita e la mia persona e la mia presenza sono un unico, ininterrotto ringraziamento. Solo a me è stata data l’illusione di percepire ancora per un po’ il residuo della mia materia dentro il residuo oltrepassato della materia del mondo. Solo a me, che ho spinto prima di ogni altro la mia voce fino al canto, qui dentro, e che adesso vi accolgo alla fine di questo viaggio, al suo inizio. Solo a me è stata concessa la grazia di avere dall’inizio alla fine una missione, una vocazione. Il muso della mia macchina è il muro dello spazio immobilizzato che va a sfracellare il muro di spazio e tempo immobilizzati. Il momento è arrivato. Ci siamo. Chiudo le portiere, respiro a fondo, calzo meglio i miei mezzi guanti, sposto appena un po’ lo specchietto retrovisore, premo la frizione, ingrano la marcia. Forza, bella, si parte!»
Ai navigatori
Avviso a tutta la feccia informatica immobilizzata. A tutti gli hacker. Chiamata a raccolta. Solo noi siamo in grado di fare irruzione all’incontrario nello spazio e nel tempo immobilizzati. Di farvi balenare di fronte agli occhi tutto quello che è veramente successo, succederà. Perché noi eravamo già dentro fin dall’inizio. Attraverso continue trasfigurazioni, reincarnazioni, infezioni. Il gruppo terroristico di tipo nuovo, il sovrano sulla cyclette, il softwarista con il suo videogame... Non l’avete ancora capito? Abbiamo infettato lo spazio e il tempo per liberare continue orbite che possano ancora perforare lo spazio e il tempo immobilizzati. Quello che voi avete tra le mani e che vi pare assumere ancora la forma di libro non è altro che questo. L’intera massa semovente di parole e di sogni che si è messa in movimento qui dentro non è che un enorme virus che si muove dentro la rete informatica che attraversa l’intero pianeta. Siamo noi il verme polimorfo capace di modificarsi e di mimetizzarsi continuamente. Molto di più, infinitamente di più delle epidemie storiche che ci sono state in passato. Slammer, Bugbear, Nimda, Blaster hanno soltanto dimostrato che un Worm altamente sofisticato può propagarsi in tutti i circuiti informatici in meno di dieci minuti. Dieci minuti? Tempi antidiluviani, per noi. Cose da nulla rispetto a quello che è successo e che sta succedendo qui dentro. Allora si operava solo per piattaforme modulari che permettevano di penetrare e di controllare a distanza un certo tipo di computer sfruttando una vulnerabilità diversa, un buco diverso. Ci si poteva impossessare di un palmare collegato in rete, ci si sparava un programma che registrava tutto ciò che ci veniva digitato sopra. Contro di noi venivano lanciati firewall, sbarramenti di fuoco, antivirus sempre più attivi, messaggi criptati. Noi invece operiamo in tempo reale. Anche in noi tutto è coincidenza e ogni cosa, nel momento stesso in cui è pensata, è avvenuta. Noi siamo quelli che stanno attivamente dentro l’apocalittica perdita di memoria del mondo. Possiamo muoverci attraverso oggetti claytronici, polveri di microclip, teletrasporto quantico di raggi laser e atomi di calcio, catomi bidimensionali, creazione di realtà sintetiche a distanza. Il mare è grande, le terre sono andate di nuovo sotto. Sempre nuove forme di hacking si spalancano in questi spazi immobilizzati, attraverso le connessioni che guideranno gli assemblaggi claytronici. Possiamo trasformare e plasmare e lanciare oggetti telericostruiti indistinguibili da tutti gli altri. Volevate sapere che cosa è successo e che cosa sta succedendo, qui dentro? Bene, adesso ve lo diciamo!
A quel tempo c’era ancora il brief...
Sydney 1
Lo potete ben dire che le terre sono di nuovo sotto! Sentite un po’ che cosa mi è successo oggi.
Sono uscito di mattina presto, per andarmi a fare un bel bagno. Via, via! Con la mia vecchia carretta. Via da Sydney, dal mio buco in affitto tutto pieno di zavorra cibernetica assemblata e di distributori di corrente e di cavi, e di calzini sporchi finiti sotto la branda, di mutande sporche, perché è da venti giorni che non passo in lavanderia. Via da questa città che si estende a perdita d’occhio di fronte all’oceano, e non sa niente, non sa neppure che non è più niente. Bisogna fare decine di chilometri lungo questa merda di baia e poi lungo le strade a poco a poco più libere da questi residuati di palazzi, di case, edifici avveniristici antidiluviani, che stanno lì senza sapere neanche più di chi sono, che cosa sono, come quelle cose buttate sulla riva quando l’oceano si ritira e c’è la bassa marea, pesci asfissiati, sassolini, conchiglie, pezzi di legno da cui spunta un chiodo arrugginito, stronzi ricoperti di alghe e microrganismi marini, venuti chissà da dove, usciti da qualche intestino caldo chissà dove, dopo un lungo viaggio attraverso le correnti marine che si scavano una strada dentro la massa molle delle acque fredde che ricoprono il mondo.
Sono arrivato al mio solito posto, dove vado quando ho voglia di entrare nell’elemento liquido e di stare solo. Mi sono spogliato in macchina, contorcendomi come una biscia sopra il sedile, mi sono infilato il costume, ho sistemato bene le palle. Sono uscito e ho raggiunto l’oceano. «Com’è nero!» mi sono detto. «Sarà per via di questa luce che c’è adesso, che fa vedere la massa d’acqua come veramente è: metallo fuso.» Lo so anch’io com’è l’oceano da queste parti, perché ci sono cartelli dappertutto, avvisi ai bagnanti con le istruzioni su cosa bisogna fare se si viene ghermiti dalla corrente, bandierine e paletti che indicano le zone sicure. Lo ripetono continuamente anche in televisione. Non c’è niente da fare, state fermi, non sprecate le forze, non tentate di contrastare la corrente nuotandole contro per cercare di uscirne. Non serve a niente, vi sfiancate soltanto. Dopo, la corrente potrà fare di voi ciò che vuole. Lasciatevi portare, restateci dentro senza sprecare le forze, potete solo sperare che arrivi un’onda che vi ributti a riva, e allora sì che dovrete darci dentro! Se no, se non volete perdere ogni speranza, auguratevi che la corrente vada alla fine a lambire qualche altro punto della costa, un promontorio improvviso, un isolotto a cui potrete aggrapparvi, se no siete fottuti. Oppure di intercettare qualche piccola barca che naviga a poca distanza dalla baia, oppure una nave, se nel frattempo la corrente vi avrà portato molto al largo, qualche petroliera che passa e magari qualcuno là sopra sente le vostre grida, se avrete conservato le forze per continuare a stare a galla e a gridare, se qualcuno avrà voglia di sentire le vostre grida, perché quelli che stanno sulle petroliere sono tutti un po’ fuori di testa, sordi, suonati, vengono spesso da qualche altra carretta del mare che ha subito esplosioni, e poi non è detto che abbiano voglia di deviare dalla rotta e di perdere tempo e quattrini solo per tirare su qualcuno che si mette a gridare dall’acqua.
Io non ho mai fatto caso a queste avvertenze. Non mi è mai successo di trovarmi in una situazione così. Però oggi, appena ho messo piede in acqua, solo qualche passo più in là, dove l’acqua era ancora bassa e si toccava benissimo, ho sentito improvvisamente mancarmi la terra sotto i piedi. Sabbia e ghiaia volavano via, e intanto un’irresistibile forza fredda mi afferrava le gambe e mi trascinava con sé come un fuscello. Anche se un secondo prima camminavo con le spalle fuori dall’acqua e mi sembrava di essere perfettamente padrone del mio corpo e dei miei movimenti. È successo tutto talmente in fretta che non so ancora capacitarmene. In pochi secondi, in pochi minuti mi sono trovato lontano dalla riva. Fottuto.
Non opponevo resistenza, non perché mi ricordassi di quelle avvertenze e continuassi a ragionare con la mia testa, ma semplicemente perché non ero più nulla, ero in balia di una forza infinitamente più grande alla quale era impossibile anche solo pensare di resistere e ragionavo già col cervello della corrente. Il mio corpo veniva trasportato sempre più al largo, mi sembrava di non vedere neanche più la riva lontana, a guardarla dal basso, con gli occhi che a volte finivano anche sotto il filo dell’acqua, quando la corrente strappava ancora di più per un’accelerazione improvvisa e anche la mia testa finiva sotto. Filavo sempre più verso il largo. Onde che viaggiavano in direzione opposta non ne arrivavano. Ormai non distinguevo neanche più la barriera di case, di palazzi e di grattacieli di Sydney. Ero nell’acqua nera che correva come un bolide nel resto dell’acqua nera.
Non saprei neanche dire quanto tempo è passato. Un’eternità, mi sembrava. Ero fuori dal mondo, da un’altra parte, ero dentro quel fiume in piena che volava dentro l’oceano immobilizzato. Niente più terre emerse, punti di riferimento, di appoggio. «Per quanto ancora resisterò a questo gelo?» mi domandavo. «Dove andrò a finire?» Perché ero ormai nell’oceano aperto, e non c’erano più punti di riferimento, colori, solo quella massa di metallo fuso che mi trascinava. Anche il cielo era nero. Così almeno mi pareva, forse perché lo vedevo da dentro quella massa nera, e anche perché perdevo di tanto in tanto conoscenza, svenivo, ma intanto riuscivo ancora a pensare, a fantasticare: «Adesso sì che sono connesso! Con tutte le acque del mondo, con tutti i flussi, le reti. Ho saltato anch’io il fosso, sono entrato anch’io dentro la cruna di questo annuncio. Mi sposto come una freccia dentro il fiume in piena che corre nella massa fredda e nera del mondo immobilizzato. Sto hackerando il mondo. E forse in questo momento ce ne sono molti altri che si spostano come me dentro l’elemento informatico liquido che fascia il pianeta. Che sia questo l’annuncio? E che io, proprio io lo stia sperimentando per primo, qui dentro?».
Poi, d’un tratto, mentre ero lontanissimo da ogni terra emersa e rotolavo a velocità supersonica dentro quella massa liquida che si induriva e si raffreddava sempre più, in un momento che ero uscito per un po’ con la testa e cercavo di tenere la bocca spalancata e di respirare, ho visto apparire all’improvviso qualcosa di enormemente bianco e irreale che galleggiava sul filo dell’orizzonte. Una vela! Non ho neanche avuto bisogno di gridare perché la barca stava venendo verso di me a gran velocità tagliando l’acqua profondamente, ed emetteva un rombo, un fragore. Era un cutter, uno di quei grandi, vecchi, maestosi cutter con due sole vele, il fiocco e la randa. Bianche, gonfiate dal vento. C’era un uomo solo al timone. Si è alzato in piedi.
«Si aggrappi a questo!» ha gridato.
Un secondo dopo, mentre mi sfrecciava a fianco, ha gettato in acqua un copertone di camion legato con una grossa corda. Ho cercato di afferrarlo, mentre mi passava vicino a gran velocità, ma le mie dita e tutto il resto del mio corpo erano induriti per il freddo. Mi è sfuggita la presa. Il cutter ha continuato la sua corsa, io la mia.
«Adesso sono veramente fottuto!» ho pensato.
Non ci siamo più rivisti per molto. Perdevo sempre più conoscenza, mi assopivo. Mi assopivo e fantasticavo. Credevo che non ci saremmo rivisti mai più, io e quel cutter, invece molto tempo dopo, o forse solo il tempo necessario per fare manovra e riposizionare le vele per riprendere il mio inseguimento, è apparso di nuovo. Stavolta correndo nella mia stessa direzione. Si è accostato a me, che rotolavo semicosciente nel metallo fuso, e intanto mi parlava tranquillamente, dall’alto.
«Si butti dentro con la testa!» diceva. «Ce la metta tutta. Non ci sarà una terza volta.»
Ha calato il copertone dall’alto, a filo dell’acqua, nei pochi istanti prima che la nostra differente velocità ci portasse di nuovo e per sempre lontani. Sono riuscito a sollevare per un momento le braccia, quanto bastava per infilarmi con la testa nel foro del copertone. Sono rimasto incastrato là dentro con le spalle, e intanto mi aggrappavo con le mani e le braccia intirizzite ai bordi viscidi del copertone. L’uomo ha cominciato a tirare, prima a forza di braccia, poi con l’aiuto di un argano. Eppure non riusciva a sottrarmi all’acqua dov’ero incastrato, come se dovesse strapparmi via da una colla. Tirava, tirava anche lui assieme all’argano. Eravamo tutti immobilizzati, io, il metallo fuso che si solidificava sempre più attorno a me, il copertone, la barca, l’uomo che ci stava sopra, le vele, tutti immobilizzati in quello scontro di forze contrapposte. Poi, finalmente, di colpo, con uno strappo, ho sentito che il mio corpo si separava dall’elemento in cui era imprigionato. Quell’uomo e le sue braccia e il suo argano stavano riuscendo a sottrarmi a quella massa immobile, nera, violenta. Cominciavo a salire, a salire, nell’aria, sbattendo con la testa contro la chiglia del cutter man mano che l’uomo mi tirava su, ma cosa importava! Sbattevo anche con le ginocchia, le gambe, segno che mi stava tirando sempre più in alto, più su, mentre stavo aggrappato come una scimmia gelata agli orli di gomma di quel copertone. Ancora un ultimo strappo. L’uomo si è chinato ancora di più sul fianco della barca, mi ha preso per le braccia, per i capelli, la testa, mi ha tirato dentro.
Ansimava un po’. Mi ha sfilato dal copertone, staccandolo a calci dal mio corpo. Ha cominciato a frizionarmi con forza, chinato sopra di me mentre il cutter continuava a filare tutto inclinato sull’acqua. Mi ha gettato addosso un accappatoio di spugna. Mi ha fatto bere due o tre lunghe sorsate di whisky, direttamente dal collo di una bottiglia.
«Ce l’abbiamo fatta!» ha detto con un sospiro, alla fine.
«Se non passava lei...» ho provato a farfugliare.
«Sono passato.»
La barca correva, con la prua paurosamente fuori dall’acqua.
«Ma perché proprio io...» mi è venuto ancora da dire.
«Qualcuno doveva pur gettarsi per primo» ha risposto l’uomo tranquillamente. «È toccato a lei.»
L’ho guardato. Era vestito con eleganza, come ci si veste in città quando si esce di sera e si va al cinema, a teatro, in un ristorante di lusso. Portava ai piedi normali scarpe di città, allacciate e lucidate con cura, calzini di seta.
«Ma lei chi è?» ho provato a dire. «Cosa ci fa qui, in mezzo all’oceano?»
«Io sono quello che dovrebbe chiamarsi Sirio.»
L’ho guardato con gli occhi sbarrati. Anche lui mi guardava, con la sua aria malinconica, assente.
«Lei qui?»
E intanto sentivo che il sangue cominciava ad affluirmi con forza alla testa.
«Sono venuto di persona a salvarla» ha detto con un leggero sorriso.
«Lei, lei...» continuavo a farfugliare nel calore improvviso che continuava a salirmi al collo, alle tempie «quello che è stato buttato fuori dalla macchina mentre correvate contro lo spazio immobilizzato...»
«Sì, quella volta è finita così» si è limitato a rispondere.
Continuavo a guardarlo.
«Quello che intanto era collegato al brief...»
Mi ha sorriso ancora, malinconicamente.
«Sì, collegato al brief, che poi era collegato con tutti noi che ci stavamo già muovendo nella corrente, al brief che era soltanto uno dei nodi nei nostri terminali...»
Mi sono coricato di schiena sul ponte del cutter. Il mio corpo tremava ancora un po’ per il freddo. Ho sentito che stavo ridendo, per una reazione nervosa, senza riuscire a fermarmi, con le lacrime agli occhi.
«Può ben dirlo!» mi ha risposto l’uomo che dovrebbe chiamarsi Sirio, anche se non avevo detto niente. «Lei si è collegato con tutti noi, è stato anche per tutti noi dentro la corrente. Adesso la riporto a Sydney. Questa notte dormirà nel suo letto, non in fondo all’oceano.»
È tornato al timone, ha riposizionato la barca nel mare.
«Abbassi la testa! Stia attento!» mi avvertiva di tanto in tanto, quando il boma passava sopra di me.
Mi guardavo attorno, poi guardavo giù, dal precipizio della barca impennata, verso l’acqua nera che si apriva con fragore, e le gocce di metallo gelato che salivano verso l’alto, verso la luce.
La corrente
E intanto mi domandavo: «Per quanto tempo sono rimasto nella corrente? Dove sono stato? In che tempo sono vissuto? Fino a un secondo fa il mio corpo era là, adesso è qua, sul ponte di questo cutter che è sbucato all’improvviso sulla linea dell’orizzonte, con sopra quello che dovrebbe chiamarsi Sirio, vestito impeccabilmente, al timone, che adesso mi sta riportando a terra. Si comincia già a distinguere l’estensione sterminata della barriera di Sydney, fra un po’ sarò là, dove ho lasciato la macchina, accenderò il motore come se niente fosse, ingranerò la marcia, tornerò a casa, mi butterò sulla branda... E invece poco fa ero dentro la corrente, connesso a tutte le altre correnti del mondo e a tutte le correnti che attraversano e connettono e spostano tutto quello che sta succedendo qui dentro. E ogni tanto perdevo conoscenza, mentre il mio corpo era trasportato come un fuscello dalla forza supersonica della corrente, e intanto pensavo o fantasticavo o sognavo: “Chi lo sa dove arriverò? Forse sto andando a nord, verso Newcastle, Maitland, Brisbane, la grande barriera corallina che c’è tra l’Australia e la Nuova Guinea, l’Indonesia... oppure verso sud, verso Wollongong, Melbourne, la grande isola della Tasmania. Oppure verso est, verso la Nuova Zelanda, la lontana isola di Norfolk, le isole Kermadec oppure – se la corrente virerà a questo punto verso nord – verso la Nuova Caledonia, le isole Figi, le isole Tonga, attraverso tutto questo sterminato continente insulare che balza fuori improvvisamente dal mare. Se sono stato ghermito da una delle correnti che vanno da quelle parti e, attraverso questa, vengo trasportato da un altro di questi fiumi in piena che corrono dentro il resto della massa d’acqua che circonda le terre emerse di questo pianeta, e sono entrato nella grande circolazione oceanica che si è liberata qui dentro, la corrente dell’Australia orientale, la controcorrente equatoriale, quella dei monsoni, del Madagascar, del Mozambico, del Bengala, la corrente artica, passando di corrente in corrente come una cosa inanimata e gelata che continua a pensare e a fantasticare e a sognare, lambendo le isole e i continenti del mondo, attraverso i circuiti australi e poi boreali e di nuovo australi, mentre le masse oceaniche che mi trasportano si raffreddano sempre più attorno al mio corpo che si sposta verso i poli terrestri ricoperti di ghiaccio e poi di nuovo si riscaldano a poco a poco mentre corrono verso l’equatore, e poi di nuovo nelle correnti fredde determinate dagli alisei, guardando con gli occhi che riaffiorano di tanto in tanto dall’acqua le coste dei continenti, le grandi dune di sabbia, le scogliere verticali, le città turrite e appena inventate della Cina e dell’Asia del Sud e poi quelle altre di cristallo e d’acciaio e quelle basse colore del fango dipinto che si elevano in altri continenti e quelle che restano di altre civiltà e altri imperi e le isole improvvise e deserte e quelle che sprofondano lentamente sotto il peso delle città e delle masse umane stratificate che salgono dentro l’atmosfera, la grande isola del Borneo, Sumatra, le Filippine, Kiribati, le isole Cook, l’isola di Pasqua con i suoi tozzi giganti immobilizzati che fronteggiano lo spazio e il tempo immobilizzati...”».
Cosa sta succedendo qui dentro?
Così pensavo, con la testa che rotolava nella corrente... Provate un po’ anche voi a pensare, nelle correnti che ci sono qui dentro, a tutto quanto è successo e sta succedendo, a tutto quello che avevate sotto gli occhi e che non riuscivate a vedere, messaggi apparentemente meno importanti, segnali. Figure apparse per pochi istanti e poi scomparse, luoghi che sono balenati e di cui non si è saputo più niente... Cosa sta succedendo qui dentro? Cosa sta succedendo dentro queste correnti e questi flussi informatici liquidi? Cosa sta succedendo a tutte quelle figure e a quei luoghi che sono stati evocati e a cui magari non avevate dato importanza? Quel residence dove si sta aspettando l’arrivo di quella comitiva che non arriva mai, per esempio. Cosa sarà successo? La comitiva sarà poi arrivata? E quel grafico di copertine e la sua Copertina? Che fine avranno fatto? Dove li avevamo lasciati? Che lei gli telefonava, lo chiamava: «Vieni qui, sono sola! Qui è tutto freddo. Aspetto quella comitiva che però non arriva». E lui allora è partito. Adesso è là. Girano per i corridoi deserti, salgono e scendono con l’ascensore. «Cosa sta succedendo?» gli domanda lei. «Perché me lo chiedi?» gli risponde il grafico spostandosi assieme a Copertina attraverso le viscere del residence buio e deserto. Accendono di tanto in tanto le luci a tempo. Si sentono ticchettare nel silenzio profondo, in piena notte. Scendono dove ci sono i bidoni delle immondizie, le lavatrici. «Stiamo aspettando questa comitiva fin dall’inizio. Ma non arriva nessuno» dice lei. «Eppure dai registri risulta che il residence è al completo. Non si possono più accettare nuove prenotazioni. Però è tutto deserto, non c’è nessuno. Io me ne sto alla reception, ma non vedo mai nessuno entrare o uscire. Eppure certe volte mi sembra che la porta a vetri azionata dalla fotocellula si apra e si chiuda. Anche le portelle dell’ascensore ogni tanto si aprono da sole, si chiudono. E passano anche ogni giorno gli spazzini, col camion, svuotano regolarmente i bidoni delle immondizie, anche se sono vuoti. Le donne delle pulizie magrebine passano a rifare le stanze, anche se sono sempre perfettamente in ordine, vuote.» «Vieni qui, non pensarci» le sussurra il grafico. Le accarezza con le dita le superfici del volto, le sopracciglia, le labbra, le sfiora i denti bianchi umidi di saliva, e allora lei comincia piano piano a sorridergli nella penombra dei corridoi. «Dove sei?» le chiede il grafico, senza ragione, perché lei è lì. La fa cadere lentamente all’indietro, stringendola con le braccia dietro la schiena, verso il pavimento ricoperto dalla moquette, penetra dentro di lei continuando a tenerla con le braccia per attutirle un po’ il duro del pavimento, ma anche per attirarla a sé a ogni movimento in avanti del suo bacino, tanto il residence è perfettamente vuoto, possono abbracciarsi e baciarsi e scoparsi dove vogliono e tutte le volte che sentono il desiderio di farlo, sul pavimento, sull’ascensore, in qualcuna delle stanze, sui divani letto, sui letti, nei gabinetti, nello stanzino delle immondizie, nel solarium deserto, su uno di quei lettini di plastica bianchi ricoperti di strisce di gommapiuma, mentre tutt’intorno il paesaggio è immobile, le palme sono immobili, l’acqua nelle piscine è immobile. Restano per un po’ uno tra le braccia dell’altra. Quando si alzano rimane sempre una scia di gocce di sperma calde, dense, ancora palpitanti sul pavimento, perché lei è una copertina, non ha un dentro. Sembra quasi di scorgere il pullulare ingigantito delle testine lanciate degli spermatozoi che si divincolano dentro quella colla. Lei ha ancora il volto trasfigurato dall’emozione, un velo di lacrime sugli occhi, sulle guance. «Mi dispiace» gli sussurra nella penombra, «io non posso trattenere dentro di me il tuo seme. Anche il mio corpo ha fronteggiato lo spazio immobilizzato, per questo è così compresso.» Lui la tiene abbracciata ancora per un po’. Le mezze luci continuano a emettere un leggero fruscio. «In quale stanza dormiremo, stanotte?» chiede il grafico alla sua Copertina, tanto lei ha sempre con sé il passepartout e può entrare in tutti gli appartamenti.
«Eppure, eppure...» si tormenta lei tornando verso il banco della reception deserta «qui dentro c’è qualcuno, anche se non riusciamo a vederlo.»
Lui la guarda con dolcezza.
«Andiamo a dormire» le dice, «siamo stanchi.»
«Com’è possibile allora che il registro indichi il tutto esaurito?» continua lei senza mostrare di averlo sentito. «E che ogni tanto le porte si aprano e si chiudano come se stesse passando qualcuno?»
«Saranno impulsi elettrici che si attivano per conto proprio al passaggio di qualcosa davanti alla fotocellula...»
«Sì, ma di cosa?»
«Mah... qualche insetto che si trova a volare per caso lì davanti, improvvisi cambiamenti di temperatura, di stato, di composizione dell’aria... oppure attivamenti automatici che scattano di tanto in tanto per tenere in funzione i meccanismi...»
«No, no, qui c’è qualcuno!» lo interrompe lei. «Lo sento! Io sono solo una copertina, sono tutta qui, in superficie, ma proprio per questo ho maggiore sensibilità per ogni cosa che mi passa sopra.»
«Va bene, allora cominciamo a cercare!» si arrende lui, sorridendole con dolcezza. «Frughiamo dappertutto, portiamoci dietro la pila, dividiamoci e poi convergiamo all’improvviso in un unico punto, vediamo se si nasconde veramente qualcosa o qualcuno in questo residence.»
Si procurano due grosse torce elettriche nel ripostiglio della reception, cominciano a scandagliare un piano dopo l’altro l’intero residence, partendo da punti e da piani opposti, chiamandosi ogni tanto attraverso quella grande estensione deserta per sapere sempre dov’è l’altro.
«Niente?» grida uno da una parte.
«Niente!» risponde l’altra dall’altra. «Chiamami se c’è qualcosa!»
Si avvicinano, si incontrano, si allontanano.
«Spegni ogni tanto la torcia» le dice lui, apparendo all’improvviso a poca distanza, «poi accendila di nuovo, poi spegnila ancora.»
«Ma perché?»
Lui non risponde.
Si spostano da un piano all’altro. Si sentono le portelle dell’ascensore aprirsi e chiudersi, e la cabina mettersi all’improvviso in movimento.
«Ci sei tu dentro l’ascensore?» chiede una gridando.
«Sì, sto salendo di due piani» risponde l’altro gridando.
Si sentono nel silenzio i rumori dei cavi che vibrano nell’immenso edificio deserto. Poi il rumore delle portelle metalliche che si aprono e chiudono, quel leggero fremito che emettono tutti i macchinari quando sono in attesa di essere resuscitati nel buio. Si sente poco dopo un rumore attutito lungo la scala di servizio. Copertina si ferma di colpo, col cuore in gola, mentre stava per entrare in uno degli stanzini di servizio dove le donne delle pulizie tengono i carrelli, le pile delle lenzuola stirate, i rotoli di carta igienica, i contenitori di plastica dei detersivi.
«Sei tu?» domanda ancora Copertina.
«Sì!» risponde la voce del grafico, un istante dopo.
Copertina si tranquillizza. Entra nella stanza di servizio. Accende la luce. Poi la spegne di colpo. La riaccende. Tutto è immobile. Assoluto silenzio. Le scope rovesciate, i secchi uno dentro l’altro, i nastri igienici per sigillare i coperchi dei water, qualche lattina d’olio di semi o pacchetto di sale abbandonati chissà quando nelle stanze.
Poi, di colpo, un rumore sordo, improvviso, da lontano, dal basso.
Copertina corre fuori nel corridoio. Si guarda attorno, facendo sciabolare il fascio di luce della torcia.
«Sei tu?» domanda allarmata.
«Sì!» le risponde lui. «Sta’ tranquilla!»
«Cos’è stato?» chiede ancora lei.
«Mi è caduto il coperchio del bidone delle immondizie» le spiega lui gridando ora dai sotterranei, tanto il residence è così disabitato che si sente il più piccolo suono anche da molto lontano.
Lei resta un po’ lungo il corridoio, in allerta. Poi entra in un altro appartamento, si guarda attorno, preme il pulsante che aziona la tapparella. Esce sul balconcino, sposta una delle seggiole di plastica bianca, ci si siede sopra, guarda fuori: il blocco d’acqua immobile nella piscina, il paesaggio immobile, immobilizzato.
«Sei tu?» si accerta adesso il grafico gridando da qualche parte, una volta, due volte, tre volte, perché Copertina non riesce a sentirlo subito dal punto dove si trova, all’esterno, anche se la finestra è aperta, e anche la porta che dà sul corridoio è rimasta aperta.
Lei corre all’interno, nel corridoio.
«Sì, sono io, sta’ tranquillo!» grida girata da una parte qualsiasi, perché non sa dove si trova in quel momento il suo grafico.
Poi resta immobile, perché non le è ancora arrivata risposta.
«Mi hai sentita?» gli grida ancora.
«Sì!» risponde qualche istante dopo la voce di lui.
«Allora perché mi hai risposto in ritardo?» si allarma lei.
Assoluto silenzio.
Un secondo dopo sente salire un suono basso, profondo, come uno sfiatare d’aria compressa che si espande in uno spazio infinitamente più grande...
Stavolta è lui a domandare da lontano, dal basso, allarmato:
«Sei tu?»
«No.»
Benares 2
Entro anch’io dentro la corrente, dalla città sacra di Benares, sul Gange. Sono un navigatore. Dov’eravamo rimasti? Ah, sì, ecco! Allora, sta succedendo questo:
Copertina si immobilizza. Anche il grafico si è immobilizzato da qualche altra parte.
«Dove sei?» domanda lei, a voce bassa.
Però lui la sente.
«Vieni qui» dice lui.
«Vieni tu» dice lei.
«Perché?»
«Perché non riesco a schiodarmi.»
«Io invece credo che dovresti venire qui» dice ancora lui, dopo un po’.
«No, vieni tu!»
E allora lui arriva, sale piano lungo le scale di servizio. Arriva fino al piano dove c’è lei. La prende per mano.
«Avevi ragione» le sussurra, «sono qui, sono tutti qui.»
Lei è ancora immobile, piantata a gambe larghe sulla moquette. Ha ancora la torcia accesa.
«Spegni la torcia!»
«Perché?»
«Perché con la luce non li vediamo.»
«Chi?»
«Spegni la torcia. Spegniamo tutto. Facciamo piombare questo scatolone vuoto nel buio. Dov’è il contatore centrale?»
«Sotto terra.»
Lui fa qualche passo. Lei lo aspetta, impalata.
«Poi torno qui» lui le dice, «non avere paura, vengo a prenderti.»
Si allontana. Non entra nell’ascensore. Scende dalle scale di servizio, a vista perché danno sulla facciata e sono separate dal mondo esterno solo da una parete di vetro, e lo si potrebbe vedere perfettamente da fuori se la luce fosse accesa all’interno, se passasse qualcuno all’esterno, mentre lui scende verso le viscere del residence per eliminare una volta per tutte l’ultimo diaframma della luce.
«Io ti aspetto. Sono qui» sente che dice tranquillamente una voce, una vocina, quella di lei, da sempre più lontano, mentre scende.
È arrivato in fondo. Spalanca la pesante porta tagliafuoco che immette nel seminterrato. Trova nella penombra il quadro elettrico. Fa scattare uno dopo l’altro tutti i tasti che tolgono la corrente. Ogni luce si spegne. Si vede che quello che c’era prima non era davvero il buio perché adesso ce n’è uno infinitamente più grande. Si sente solo il sospiro che fa la luce nel momento in cui non ha più la pretesa di presentarsi come luce.
«Io sono sempre qui» sente ancora la voce della sua Copertina, nel buio.
Lui si gira, oltrepassa di nuovo la porta tagliafuoco, sale per le scale di servizio, arriva fino a lei, la prende ancora per mano.
«Scendiamo tutti e due giù» le dice andando verso le scale da cui è appena salito, perché anche l’ascensore è disattivato.
«Perché giù?» chiede lei.
«Perché c’è più buio. Là ci possono stare...»
«Chi?»
«Loro!»
«Ma perché?»
Lui si arresta.
«Perché sono ombre.»
Anche lei si arresta.
Lui le stringe la mano.
«Qui dentro è tutto pieno di ombre» le dice, «quella comitiva è arrivata. Sono loro la comitiva! Tu l’aspettavi, tutti l’aspettavamo, ma era già arrivata, era qui fin dall’inizio.»
«Ombre?» prova a chiedere lei.
Lui fa di sì con la testa, anche se lei non può vederlo nel buio.
«Ma ombre di cosa, di chi?»
«Di tutte le cose e le figure e le forme che hanno preso vita fin dall’inizio, qui dentro.»
Silenzio.
«Di tutte?» gli chiede lei dopo un po’, con gli occhi spalancati nel buio.
«Sì.»
«Di tutte? Proprio di tutte?»
«Sì.»
Riprendono a camminare, verso il seminterrato, verso lo stanzino delle immondizie, dove il buio è più concentrato, tastando le pareti come un unico corpo a quattro mani.
Arrivano là. Lui spalanca la bocca del bidone, facendolo ruotare su se stesso e rovesciandolo completamente, perché il buio che c’è là dentro è più profondo ancora del buio che c’è nel resto del residence, e persino nel resto dello stanzino.
«Sono dappertutto, attorno a noi. Non le senti?» sussurra il grafico alla sua Copertina. «Questo è il punto di maggiore concentrazione del buio e di maggiore fusione. È da qui che riescono a passare...»
«E poi vengono quegli uomini col camion a vuotare i bidoni...» balbetta lei.
«Sì, è questa la fessura, la strozzatura dell’imbuto, la matrice, il passaggio.»
Restano tutti e due in silenzio, per un po’. E il buio là dentro è così profondo che non si vedono neanche i contorni aperti del bidone, neanche il cerchio cromato dell’oblò della grande lavatrice comune che c’è lì a fianco, eppure basterebbe un minimo bagliore di luce per farlo palpitare nella penombra.
«Ma se là dentro ci sono le ombre di tutte le figure e le forme che hanno preso vita fin dall’inizio qui dentro, allora ci sono anche le nostre ombre?» domanda Copertina in un soffio.
Lui non risponde.
Lei lo guarda, anche se non lo vede.
«Cosa stai cercando di dirmi: che siamo ombre anche noi?»
Lui le stringe forte la mano, il punto dello spazio e del tempo dove, se ci fosse, ci sarebbe la mano.
«Sì, siamo ombre anche noi, visto che siamo qui.»
Adesso è lei a non rispondere.
«Tutti qui?» dice ancora lei, in un sussurro, dopo un po’. «Tutti quelli che hanno imperversato qui dentro adesso sono dentro qui?»
«Sì, ma erano qui fin dall’inizio, man mano che nascevano dall’altra parte.»
«Ma perché non si vedono con la luce? Perché noi non ci vediamo?»
«Perché siamo stati separati violentemente dai corpi.»
Silenzio.
«Ma perché?»
«Perché lo spazio si è immobilizzato.»
«E perché?»
«Perché l’annuncio è già stato dato, oppure è in corso.»
Non si sente più niente, per un po’.
«Allora nessuno ci potrà mai più vedere?»
«No. La luce ci cancella, il buio ci inghiotte. Noi non abbiamo più un posto, perché siamo stati separati dai corpi, perché lo spazio si è immobilizzato. È toccato a noi scoprirlo per primi, a questo punto, qui dentro. Siamo stati messi qui dentro solo per questo. Io, non a caso, grafico di copertine...»
«E io Copertina...»
Stanno immobili così, invisibili, ombre in mezzo alle ombre. Non hanno neanche bisogno di parlare per intendersi con le altre ombre perché sono anche loro ombre, perché anche le loro voci sono ombre di voci, fanno ormai un tutt’uno con tutte le altre ombre silenziose di voci. E allora, da qualche parte, in quel silenzio, non sanno neanche più chi parla, chi risponde, tra loro due, tra loro due e tutti gli altri...
Le ombre
«Copertina, dove sei?»
«E tu dove sei?»
«Non ti vedo più, non ti sento più!»
«Dove siamo finiti?»
«Chi siamo?»
«La massa d’ombra, l’energia oscura di cui è fatta la quasi totalità del mondo, dell’universo.»
«Eppure ci abbracciamo, ci fondiamo l’uno nell’altra...»
«Sì, certo, anche noi. E, se è per quello, ci riproduciamo, ci espandiamo, passando attraverso quella cruna dove il buio è più concentrato, passiamo dall’altra parte, quando vengono quegli uomini a rovesciare il contenuto dei bidoni nel camion. Non immaginano neanche lontanamente quello che stanno facendo con quel semplice gesto, ci disseminano in tutto questo mondo ormai oltrepassato in cerca di una nuova struttura intima della materia che lo compone.»
«E proviamo anche piacere, amore, dolore...»
«Come tutti gli altri, né più né meno.»
«E piangiamo...»
«Oh, sì, certo! Anche le ombre piangono!»
«Ma i corpi da cui siamo separati riusciranno mai più a vederci?»
«E noi, riusciamo forse a vedere loro?»
«Ma che ombre siamo, se non siamo ombre di corpi, se la luce non ci proietta fuori dai corpi e non ci evidenzia?»
«Se non fossimo stati separati violentemente dai corpi, allora sì che la luce, cadendo da una certa angolazione, ci evidenzierebbe, e così ci si potrebbe riconoscere una a una come se facessimo ancora parte dei corpi.»
«Questa è l’ombra del tale, questa del talaltro...»
«Sì, saremmo ancora quello che siamo sempre state: oscurità generata da un corpo opaco che intercetta i raggi emessi da una sorgente di luce.»
«Saremmo ancora il tramite del corpo attraverso la luce.»
«Ma se il corpo non c’è più, è separato, come possiamo ancora chiamarci ombre? Le ombre senza la luce non possono esistere. E allora cosa siamo noi, se non siamo più il tramite della luce?»
«E se la luce può rivelarsi all’esterno soltanto tramite noi, tramite l’ombra, come facciamo noi a essere ancora questo tramite? Come facciamo, se siamo state separate violentemente dai corpi, dalla luce?»
«E, se si è spezzato questo tramite, come facciamo noi a dire che cosa siamo?»
«Se anche il vincolo col corpo e la luce è stato spezzato, qual è ormai la differenza tra l’ombra e la luce?»
«Come fa la luce a essere un’altra cosa rispetto all’ombra? E l’ombra rispetto alla luce?»
«Che cosa è diventata l’ombra?»
«Che cos’è diventata la luce?»
«Cosa sono adesso l’ombra e la luce?»
«La luce è ormai la stessa cosa dell’ombra?»
«Dov’è finita l’ombra?»
«Dov’è finita la luce?»
«Che abbia raggiunto il punto in cui era ancora una stessa cosa con l’ombra?»
«Come si sta riforgiando la materia immobilizzata del mondo?»
«Oh, Copertina, non ti riesco più a percepire separata da tutto il resto dell’ombra in cui anch’io sono ormai conglobato!»
«Dove sei?»
«Dove sei?»
Le ombre continuano a interrogarsi così, a tormentarsi. Indistinguibili, in quell’oscurità, in quel fulgore. La loro massa oscura è il bagliore che continuerà a cancellare e a fermentare fino alla fine, qui dentro. Ah, dimenticavo di dirvi... sono ancora io che vi parlo, Benares 2. Di notte anch’io dentro la corrente, sono un navigatore, ve l’ho già detto, di giorno uno studioso di lingue e dialetti indiani. Vivo nella periferia di questa città, ma viaggio per lavoro attraverso questo immenso paese, per raggiungere le comunità linguistiche ed etniche più sperdute, gli istituti di ricerca, le università. Mi sposto attraverso le megalopoli piene di belle facce nere intagliate e di cenci luridi che non emettono odore e di meravigliose donne variopinte e cariche di braccialetti e di anelli che si sentono arrivare con emozione fin da lontano, dai capelli lucidi d’olio sotto la ripiegatura del sari. Coi suoi cadaveri che bruciano come nella notte dei tempi sulle cataste di legno o abbandonati lungo le strade e i neonati gonfi d’acqua che galleggiano sulla corrente, quando scivolo con una barca sul Gange. Coi suoi mendicanti dai corpi e dai volti spinti fino alle estreme possibilità biologiche nella fornace della vita reincarnata, oltrepassata e immobilizzata, con arti filiformi, gengive scoppiate, busti enormi, protuberanze da insetti, accenni di ali ossee, piedi ungulati simili a zoccoli di animali ormai estinti, come se venissero ripercorse tutte le fasi biologiche della vita nel momento della sua massima espansione e immobilizzazione e passaggio. Tutta una massa oscura che viene dall’antica civiltà di Harappa che commerciava con i sumeri di Mesopotamia, da quella di Jhukar e di Jhungar, la civiltà dell’Indo, seminomadi, pastori divisi in tribù rette da un consiglio di nobili e da un raja, guerrieri che avevano inventato il carro trainato dai cavalli e si spingevano fino agli estremi confini con il Bengala. E poi l’impero Maurya, quello dei Gupta. E l’invasione dei centroasiatici, gli unni bianchi respinti infine da Skandagupta. E poi l’arrivo del conquistatore turco Mahmud di Gazna, che annette i regni indu dalla valle di Kabul e il Punjab, prende possesso della valle del Gange. Poi ancora i sultanati di Delhi, l’impero Moghul. Tutto il tessuto alluvionale di lingue e le sue correnti in cui mi immetto percorrendo da parte a parte questo paese vasto come un continente, e che si connettono a loro volta con le altre lingue oltrepassate e immobilizzate che si stanno espandendo per linee curve qui dentro, dentro questi spazi esplosi e immobilizzati e in tormento. Le lingue hindi e urdu, l’assamese, il bengali, il punjabi, il sindhi, scritto in caratteri persiani, il gujarati, il marathi, legate al culto di Visnu-Krsna, il kasmiri, il malayalam, il telugu, mille altre. I grandi arcipelaghi disseminati del Rgveda, le Upanishad, con la loro identificazione dell’essenza individuale con quella universale e le sue continue reincarnazioni. Con tutte queste orbite e linee curve che si muovono nello spazio e tempo immobilizzati, in cui tutto il mondo fenomenico è incluso in un’altra realtà infinitamente più grande, immobile, immobilizzata, ma che forse sta per essere attraversata e dislocata e spostata a sua volta da questa reincarnazione e trasmigrazione... A proposito di reincarnazioni... non so se ci avete fatto caso, ma ce ne sono state un bel po’ anche qui dentro!
A quel tempo c’era ancora il brief...
Chongquing 3
Anch’io da qui. Da una delle torri della città più popolosa e avvelenata del mondo. Davanti al mio terminale. Navigatore. Nella corrente. Solo noi possiamo ancora mostrarvi il prima e il dopo. Il prima e il dopo, perché il durante non si può. Possiamo ancora scatenare qui dentro le nostre leggende, i nostri virus capaci di propagarsi introducendo una loro copia in altri cervelli, memorizzando una loro rappresentazione di un codice simile al Dna e controllare così il metabolismo del loro ospite facendogli eseguire le proprie funzioni, come i virus cosiddetti reali controllano il metabolismo molecolare di cellule infette. Come il Dna con la sua doppia elica che si apre a cerniera e dove viene ricopiato ciascun filamento. E che controlla la mitosi di ognuna dei centomila miliardi di cellule che costituiscono l’essere umano.
Io invece, a differenza di Benares 2, non dirò cosa faccio, chi sono quando non sono qui a navigare. Mi percepisco dentro questa immensa città inventata con le sue luci verticali accese a perdita d’occhio nella notte, che guardo in questo momento da dietro una parete di vetro di questa torre genitale e genetica, come la struttura filiforme di un cromosoma mentre si divide in due parti che si preparano a ricevere un insieme completo di cromosomi... Allora, cominciate finalmente a capire cos’è successo, cosa sta succedendo, qui dentro?
D’accordo, allora si può cominciare.
A quel tempo c’era ancora il brief...
Tokyo 4
Anch’io da qui, da uno dei più grandi agglomerati del mondo, Yokohama, Kawasaki e Chiba, da questa baia sull’oceano Pacifico, terremotata, bombardata, immobilizzata, increata. Sono solo un comico alle prime armi, giro a fare degli stupidi numeri nelle piccole televisioni private, immobilizzate. Eppure tocca a me tentare di raccontarvi cos’è successo a quel tempo. Allora, dove li avevamo lasciati? Ah, sì, eccoli là! Sono ancora al brief. Perché a quel tempo c’era ancora il brief... Credono di essere ancora al brief. Tutti attorno a quel tavolo, i riflettori già accesi. Dio col gelato in mano...
«Chi vi ha detto che parlerò?» si limita a rispondere al softwarista, che dava per scontato che avrebbe comunicato attraverso il misero verso umano fonetico un simile annuncio, mentre sono tutti in attesa di fronte alla telecamera di un suo qualsiasi vagito che uscisse attraverso lo strumento salvifico del gelato.
Invece – come ormai sappiamo – era già successo tutto. Ma loro sono lì, i tecnici delle luci, dei suoni, dietro i loro riflettori, il combo, e sul video si vede in primo piano il taglio della vagina dell’Interfaccia che si apre sempre di più, mentre il sovrano pedala ancora più vertiginosamente sulla cyclette, e anche quel brandello di carne redentivo che c’è dentro la pancia monitorata dell’Interfaccia che sta barcollando per strada verso il punto dove stanno convergendo tutti quanti, qui dentro, e al suo fianco c’è l’uomo che pesta le merde, altissimo sulle sue zeppe geologiche stratificate: il suo filiforme scudiero. E poi c’è l’account disattivato, l’altro account, il Gatto, la Musa, la ragazza non c’è assorbente che tenga. E poi il copy e l’art, la ragazza con e senza l’acne, il donatore di seme e softwarista, il Matto, la Meringa che poi è diventata Leonarda e poi la donna che trema, e poi Dio, con la sua maschera di porcellana, il suo ridicolo toupet di capelli sintetici, il gelato in mano...
Ma da qui in poi non si può più raccontare seguendo lo stesso filo che è stato messo a tutti quanti dentro la testa. Possiamo solo raccontare il prima e il dopo, come ci ha detto poco fa Chongquing 3. Il durante è inghiottito.
Allora proviamo a ripartire dal prima. Sta succedendo questo:
Leonarda è già arrivata, quella che non è più la Meringa e non è ancora la donna che trema. Il Matto invece no, anche se fino a un momento prima viaggiavano assieme. Vi ricordate? Sparito! Non si sa dov’è.
«Dov’è il Matto?» le chiede irresistibilmente il Gatto, allarmato, appena lei entra dalla porta.
«Si è dovuto fermare» le risponde la Meringa, che ancora non era Leonarda, che ancora non era la donna che trema, «ma arriverà anche lui alla fine qui dentro, quando sarà il momento.»
Però il Gatto non si dà pace.
«Che cosa ne hai fatto del Matto?» arriva a chiederle ancora, a bruciapelo.
Lei non risponde. Socchiude gli occhi, sorride.
«Mi tiri via queste stupide lentiggini che mi sono state affibbiate!» ordina al softwarista, che esegue immediatamente.
«L’icona!» si dispera l’art mettendosi le mani nei capelli ingellati. «È cambiata l’icona!»
Poi arriva il Matto. Fa il suo ingresso tutto ricoperto di ferite, di piaghe.
Il Gatto esplode:
«E poi mi arrivi così, fuori tempo! Che cosa ti è successo? Sembra che tu sia stato investito da un carro armato!»
A questo punto io, dalla mia torre di Tokyo, ho drizzato le orecchie. Anche voi, ne sono sicuro. Che sia stato investito? Di già? Già da prima? E lo dice già? Non dovrebbe succedere dopo, essere detto dopo? È che il tempo, prima di immobilizzarsi, ha subito una spaventosa torsione, qui dentro. Eppure la donna che trema, che era stata Leonarda e prima ancora la Meringa, lo aveva già detto dov’era finito il Matto. Perché lei era arrivata al brief prima e lui dopo. «Volete sapere dov’è?» aveva detto. «È in un pisciatoio! Tutto questo viaggiare e sognare per poi fermarsi a pisciare poco prima di arrivare alla meta! In questo momento starà ancora pisciando. Una pisciata lunga, lunghissima, interminabile, perché non ci siamo mai fermati a pisciare durante tutto il nostro interminabile viaggio per arrivare fin qui. Chissà cosa starà pensando, fantasticando, sognando durante tutto il tempo di questa pisciata epocale? Cosa sarà successo, cosa starà succedendo mentre piscia con la testa gettata all’indietro, gli occhi chiusi? Chissà se mai lo sapremo?»
Okay, si è fermato in un pisciatoio. Ma quando? Prima o dopo essere stato investito? E poi ancora: chissà se mai lo sapremo? Certo che lo sapremo! Lo sapremo adesso. È venuto finalmente il momento di saperlo, qui dentro.
Però, per saperlo, bisogna fare un altro passo indietro. Allora, è successo questo:
Non appena tutti quanti hanno sentito che il Matto si era fermato in un pisciatoio, si sono alzati di colpo dai loro posti, hanno lasciato il brief. Anche i tecnici della televisione hanno raccolto in quattro e quattr’otto le loro apparecchiature. Hanno caricato tutto sui carrelli, hanno portato fuori la telecamera, il combo, i grovigli delle prolunghe, dei cavi, le truccatrici hanno ficcato tutto nelle loro valigette e sono scappate fuori. Tutto il materiale è stato caricato sul grande furgone bianco parcheggiato nel cortile dell’agenzia pubblicitaria. Hanno raggiunto a gran velocità il pisciatoio...
«Ma come!» salterà su qualcuno. «Questo non era stato detto! E poi, quando la donna che trema annuncia dove si trova in quello stesso momento il Matto, i tecnici della televisione non erano ancora arrivati! E quello che è successo dopo che fine ha fatto?»
Non so cosa farci. Ve l’ho detto, il tempo ha subito una tremenda torsione, qui dentro. Credete che sia successo ciò che è successo e che tutto sia rimasto come prima? Io vi racconto il prima. Arriveremo poi al dopo!
Allora, vi stavo dicendo... Tutti fuori di corsa dalla sala del brief, l’art e il copy, la Musa, il Gatto, la ragazza non c’è assorbente che tenga e quella con l’acne dalla pelle rigenerata, il donatore di seme e softwarista, la ragazza che trema che prima era Leonarda e prima ancora la donna avvolta nella carta stagnola e prima ancora la Meringa, l’altro account che si carica sulle spalle l’account precedente disattivato, Lanza, anche se non è ancora arrivato, anche Dio, anche se non è ancora arrivato. Corrono tutti verso il pisciatoio, a piedi, con le biciclette arraffate dalla rastrelliera del cortile, gli scooter, il furgone bianco della televisione con l’antenna esterna che vibra per l’anticipazione e la corsa. Arrivano al pisciatoio, entrano di corsa.
Il Matto è davvero là, si sta ancora avvicinando a uno degli orinatoi a muro allineati, si sta ancora tirando giù la cerniera, non ha ancora cominciato a pisciare, perché sono arrivati tutti talmente in fretta da aver anticipato la sua mossa di tirarsi fuori l’uccello dalle mutande.
Si sente all’improvviso la voce di Lanza, quello che era un ispettore e adesso è un presentatore.
«Fermi tutti!» grida. «D’ora in poi il brief si terrà qui! L’annuncio verrà dato qui!»
Nel pisciatoio si girano tutti verso Lanza. Gli uomini alle conchiglie, che avevano già l’uccello in mano e si preparavano a pisciare, quelli che lo stavano già facendo, quelli che avevano già finito e stavano già scrollando, quelli che si trovavano negli stanzini con la turca e stavano spingendo oppure avevano già spinto e adesso si stavano pulendo il culo sollevato nell’aria. Si sente il rumore improvviso di qualche sciacquone, segno che chi sta dentro, sentendo gridare da fuori, ha tirato l’acqua improvvisamente. Anche quelli che si stavano facendo una sega negli stanzini si sono fermati di colpo, con il cazzo a ellisse nell’aria, congestionato, immobilizzato.
I tecnici cominciano a dispiegare i cavi, a disporre i riflettori, la telecamera, il combo.
«Prova... prova... prova...» si sente ripetere nello stanzone d’ingresso del pisciatoio, mentre quelli in fila agli orinatoi stanno tutti con la testa girata da una parte, le mani dall’altra.
I riflettori si accendono, la telecamera inquadra la fila degli orinatoi. Uno dei tecnici del suono si avvicina alla conchiglia del Matto.
«Prenda questo!» gli dice porgendogli il gelato.
«Ma come fa a pisciare tenendo in mano il gelato?» gli obietta l’altro tecnico del suono.
«Be’, che ci vuole! Con una mano tiene il gelato, con l’altra l’uccello!» risponde il primo.
«E quando lo deve tirare fuori e poi rimettere dentro?»
«D’accordo! D’accordo!» si arrende il primo. «Allora gli mettiamo una cravatta.»
Il tecnico si avvicina al Matto.
«Quando lo facciamo parlare, questo qui?» si gira per domandare a qualcuno che sta da qualche altra parte, lontano. «Lo facciamo parlare adesso?»
«No, non ancora» gli risponde qualcuno, da qualche altra parte, invisibile, da lontano.
Dove sei?
Sono ancora io, Chongquing 3. Entro ancora, proprio adesso, anticipato, increato, del tutto ignorato, da qui dentro, da questo collasso potenziale che cresce. Feccia informatico-genetica, hacker, creatore di un trojan mai visto prima, cyber cavallo di Troia per passare attraverso il muro dello spazio e del tempo immobilizzati. Sono qui dentro, conficcato, nel buio. Ce ne sono molti altri, mi pare, con me, tutti tormentati, ammassati, in questo spaziotempo informatico immobilizzato. Sento la loro presenza contro il mio corpo e le mie strutture e le mie potenzialità genetiche e generative, la compressione di altri corpi potenziali e altri geni pressati gli uni contro gli altri nel buio. Siamo tutti qui dentro, in questa pancia buia, nel buio. Indistinguibili. In sofferenza totale. All’assalto. Il muro è là fuori, immobile nella notte, immobilizzato. Noi siamo ammassati qui, con gli occhi spalancati nel buio, le nostre teste nere, armate, puntate, nel buio... Ci pensavo oggi, mentre mi spostavo lungo le ferite di queste strade che sono state aperte nella crosta terrestre, e che hanno gettato in alto tutte queste barriere infettive di grattacieli sorti in una notte dal nulla e di colonne e di torri, e guardavo quei microbi a ruote che correvano sugli enormi nastri delle strade a quattordici corsie. «Ce la farò?» mi dicevo. «Ce la faremo?» E intanto tastavo con le mani, col mio progetto, col mio sogno di mani la pistola che porto sempre con me. Perché Chongquing 3 è armato, è bene che lo sappiate fin dall’inizio, qui dentro!
E tutto il resto del mondo e delle vite e dei corpi che si espandevano attorno a me, contro di me. E io li vedevo e non li vedevo. Perché non ero lì, ero qui, eppure ero lì. Ero già dentro questa goccia nera, di notte, di fronte a quel muro immobile, immobilizzato. Anche tutti gli altri erano dentro, con me. E intanto andavo verso la casa dove vive la mia gazzella. E vedevo dalle parti le persone sedute immobili dietro le vetrine delle lavanderie, a guardare gli oblò delle lavatrici, in attesa di aprirle e di ficcarci dentro le mani, le teste, dentro quell’occhio immobile e molle del ciclone, conficcarle proprio là in fondo, là dentro, nel citoplasma. «Dove sei? Dove sei?» mi dicevo pensando a lei, mentre mi dirigevo verso la sua torre. «Sei anche tu là? Oppure sei qui? E io dove sono? Sono qui o sono là? Mi sto già conficcando o mi conficcherò dentro di te, nel tuo citoplasma? E, se non posso parlare, non parlerò. Ma entrerò a capofitto dentro di te, e allora comincerò, ricomincerò.» Come quando ti ho vista per la prima volta di fronte a me, sullo stesso filo dell’orizzonte con me. Camminavi verso di me, anche se non sapevi cos’era me, e la tua testa era così bella e così trasparente che sembravi acefala. Vedevo attraverso la tua testa tutti quei corpicini di cristallo e di ossa che si spostavano attraverso le viscere delle strade del quartiere di Longhiu, con le sue vetrine cerebrali che si accendono nella sera e il pulviscolo di speranze di corpi che muovono nel silenzio palpitante le bocche dentro la luce. Avevi i capelli tenuti da un fermaglio così colorato che non saprei dire di che colore era. Si vedeva, al termine della scriminatura, una peluria di capelli ancora bambini all’inizio della fronte accesa dal di dentro come una lanterna di carta. E la bocca morbida, colorata di rosso, le guance colorate di rosa, se non era invece la velatura del sangue, gli occhi aperti dal di dentro, da prima, le gambe, le mani... Accidenti, avevi anche le mani! Come facevi ad avere già le mani? Ancora prima di conoscere me, ancora prima di me, ancora prima. Ci siamo rivisti. Perché dovevamo inventarci una ripetizione e una genealogia di incontri nella poltiglia del mondo increato, per i nostri progetti di corpi abbandonati da un’astronave seminale sulla crosta terrestre. E poi le altre volte. Mi venivi incontro, ancora prima, anche prima. Come facevi a venirmi incontro? Come facevo a venirti incontro? E poi ci siamo presi per mano. Quella piccola cosa densa, frattale, che spuntava dalla manica di un golfino a strisce colorate, con la cerniera. La pelle di seta, le ossicine, il sangue, le unghie. Siamo rimasti immobili, paralizzati. Per sempre. Quando è passata per la prima volta tutta la precognizione della tua presenza fisicomentale immobilizzata che si abbatteva sulla mia presenza immobilizzata.
«Io sono qui. Ma ho paura che da un momento all’altro potrei non essere più qui» hai detto improvvisamente.
Siamo rimasti per tutta la notte abbracciati, avvinghiati, senza fare assolutamente nulla, la prima volta, solo sentire nel buio, l’una contro l’altra, le bocce delle nostre teste munite di labbra, percepire e sognare la presenza dei nostri due scafandri nel buio sigillato della tua stanza e del mondo. E io mi coricavo sopra di te col mio corpo reso spropositato dal tuo, e tu gemevi dall’interno del tuo scafandro, nel buio. Veniva dall’interno del tuo scafandro molle l’invenzione della tua voce di quando non avevi ancora una voce, il suono della prevoce che non è ancora andata a sfracellarsi contro il muro della voce e della lingua configurata e immobilizzata. E poi dentro di te, e tu dentro di me. Il mio seme, il mio preseme tutto dentro le tue aperture, nella tua bocca, nella tua pancia, nel tuo culo non ancora cagato. «Come farò ancora a vivere, se tu non ci sarai più!» dicevo tenendoti stretta col cuore in gola tra le mie prebraccia. E ancora: «Ce la faremo?». E mi pareva che lei mi rispondesse nel buio, con la sua prevoce: «A fare cosa?». E io ancora, con la mia prevoce: «A prefigurarci, a inventarci!».
E intanto mi spostavo così. Duemila chilometri di strade. Duecento chilometri di binari sopraelevati. Tutti questi nastri sospesi che corrono come infezioni e come sogni. «Dove sei? Dove sei?» mi dicevo. Mentre mi spostavo in quella poltiglia verticale, lungo le rive dello Yangtze, in questa città irreale, a non molti chilometri di distanza dalle Tre Gole, con le sue immense masse liquide immobili, immobilizzate. Una donna sbadiglia. Avete mai visto sbadigliare una donna in una città inventata, mentre scende il buio, in mezzo alla folla? Grattacieli, vetrine, gigantesche pubblicità in caratteri cinesi e inglesi, già accese. Bambini, se poi sono bambini, se sono già bambini. E intanto quella donna sbadiglia. Non è più giovane, ma non è questo il punto. Sbadiglia, nella sera, in questa città emersa per squarciamento dalle viscere della terra. Mi fermo di fronte a lei. Le ficco improvvisamente una mano in gola, le afferro la lingua, alla radice, dal fondo. Gliela tiro, cerco di strappargliela. Ma è dura, viscida, attaccata al resto del corpo, ancorata. Non avete idea di come sia ancorata una lingua! La donna è immobile, immobilizzata, impietrita, di fronte a me che le stringo quella bistecca nel pugno. Ha gli occhi sbarrati, non prova neanche a gridare, perché la sua lingua ce l’ho in mano io. La gente passa dalle parti, abbagliata, non capisce cosa sta succedendo a quel gruppo formato da due corpi che stanno immobili, in silenzio, l’uno con la mano nella bocca dell’altro, compenetrati. La donna mi continua a guardare, con la bocca spalancata, gli occhi fuori dalla testa, le lacrime che le colano lungo le guance. Viene da piangere anche a me. Le lascio la lingua. «Riprenditi quella merda di lingua, se ci tieni tanto! Parla! Parla!» le direi, se potessi parlare. Perché Chongquing 3 è muto.
Mi sono pulito la mano tutta sbavata, col fazzoletto. Ho ricominciato a camminare verso la tua torre, mentre la donna alla quale avevo restituito la lingua è corsa via alle mie spalle singhiozzando e piangendo. E sarebbe questa la voce? Ed è per emettere simili suoni che ci teneva così tanto a riaverla? Mi sono annusato la mano, per sentire se sapeva ancora di saliva e di lingua. Gli uomini in divisa con le bretelle catarifrangenti, nel buio della sera, che si prende tutto. Celeste impero! Che città è questa? Che mondo è questo? Il ponte sullo Yangtze, sospeso nell’aria, nello spazio. I negozi di giocattoli pieni di bambini, se sono bambini, se sono già bambini. Le insegne illuminate fino allo spasimo da questa luce nera, irreale, che arriva fin qui dalle enormi combustioni di materia vivente e dalla potenza che preme contro il muro delle acque immobilizzate. «Che luce è questa?» mi domando. «Che strade sono queste?» Corpi spaccati per permettere alle gambe di carne di ruotare. Stivali alti, inguinali. Camminavo e fantasticavo. Dove sei? Dove sei? Le palizzate di legno dei grandi vasi, con dentro il groviglio delle radici immobilizzate, le bocce dei lampioni molecolari sospesi. E intanto incrociavo altri corpi, altre lingue, fendendo quel pulviscolo di progetti di corpi separati trascinati con me dentro la precorrente. Sono arrivato fino alla tua torre, l’ho riconosciuta tra quella selva di condomini tutti uguali all’interno dei quali io so che c’è il tuo appartamento, il tuo letto, il tuo corpo, la tua testa, i tuoi occhi, la tua pancina tagliata, il tuo buchino cagato. Ho attraversato lo stretto cortile asfaltato, con due canestri da basket ai lati, dove tre o quattro ragazzi saltavano nell’aria cercando di buttare la palla dentro uno dei due anelli di metallo senza più la rete. Ho imboccato la porta della tua torre, tirata su in una notte solo perché tu potessi avere una casa sospesa dove potermi aspettare, con le sue file di finestre e balconi attraversati da parte a parte da ringhiere sfuocate. Ho chiamato l’ascensore, perché tu stai in alto, anche se mi piacerebbe ogni volta salire a piedi per le scale di servizio e arrivare da te con il cuore in gola, stremato, per abbattermi ancora di più su di te, contro di te, dentro di te, e incontrare alla fine di questa ascensione questo sprofondamento e questa coincisione nella mia preesistenza. Non mi guardavo nello specchio dell’ascensore, perché non mi potevo vedere mentre salivo. Sono arrivato al tuo piano, e poi ancora più in là, fino al margine della tua porta. Ho suonato. Silenzio. Il pianerottolo vuoto. È strano, ci sono trenta milioni di abitanti, in questa città, eppure i pianerottoli delle torri sono vuoti, sempre vuoti, se ne stanno tutti dentro, tutti fuori, nessuno in mezzo. E poi il tuo pianerottolo l’ho sempre visto vuoto, svuotato, perché ci potessi essere solo tu, quando arrivavo, quando entravo dentro la tua casa, il tuo corpo, lo scafandro della mia testa che azionava le leve elettriche del mio progetto di corpo increato per portare la mia sproporzione fino a te, fin dentro di te, attraverso questa città sproporzionata e inventata, per portare la mia sproporzione dentro la tua sproporzione, tutto il pianerottolo e tutta la torre dovevano essere vuoti, svuotati, perché ci potessi essere solo tu prima ancora che ci fossi tu. Ma poi ho abbassato gli occhi verso la porta e ho visto che non era perfettamente chiusa, c’era una fessura e, dentro la fessura, la luce. «Per forza che non si apriva!» mi sono detto. «È già aperta! Perché lei mi aspetta, e allora mi ha già aperto irresistibilmente la porta, e forse ha guardato già due o tre volte fuori, nel pianerottolo, per vedere se stavo arrivando, sporgendo quella sua bella, morbida, silenziosa testa munita di occhi, con quella leggera peluria di precapelli che sfuggono dal fermaglio. E poi ritornava dentro, girava qua e là spostando con le dita nude e prive di anelli quegli oggetti che ci sono sempre nelle case, separati, increati, e sentiva già nel suo corpo concavo la presenza del mio corpo convesso che non era ancora là.» Ho aperto piano la porta, dolcemente, senza fare rumore. Sono entrato. «Dove sei?» mi dicevo intanto, mi balbettavo, anche se ero ormai dentro la sua casa, a un passo da lei, dalla sua pancina, anche se me lo domando sempre, anche quando sono dentro di lei, soprattutto quando sono dentro di lei. Ma che cosa stavano vedendo i miei occhi? Se erano già occhi. Solo spazi vuoti, deserti, delimitati. Nessun mobile. Niente. Tutto rimpicciolito. Mi sono immobilizzato. «Che abbia sbagliato casa?» ho pensato. Ma non avevo sbagliato. Ho cercato di fare qualche passo fino alla camera da letto: anche quella deserta, niente mobili, specchio. Però non proprio deserta perché c’era un uomo ben vestito, calvo, tarchiato, seduto su una sedia a rotelle. Immobile, al centro, con la bocca spalancata, sdentata.
«Ehi, ehi!» mi sono detto. «Cosa ci fai tu qui, al posto della mia bella? Credevo di trovare la sua bocca, la sua pancina, e invece trovo il tuo forno spalancato. Perché non chiudi quel cesso di bocca?»
Lo guardavo. Anche quel tipo lì mi fissava in perfetto silenzio, con gli occhi che gli schizzavano fuori dalle orbite per la dilatazione delle mandibole spalancate al massimo. Non si capiva se stava sbadigliando, sghignazzando o gridando.
«Che cosa stai facendo? Mettiti calmo!» ho pensato ancora.
Ma quello là continuava a fissarmi con gli occhi fuori dalla testa, la bocca scoppiata, le gengive nere, sdentate.
«Mi stai prendendo per il culo?» mi sono detto. «Guarda che non è un bello spettacolo!»
Quello niente.
Gli ho sputato in gola. Forte, diretto. Ho visto il mio scaracchio finirgli in fondo alla gola e restare lì.
Non ha mosso un muscolo, non ha fatto una piega. Non ha neanche provato a richiudere la bocca, a risputarlo fuori o a inghiottirlo.
Continuava a fissarmi con gli occhi vitrei, fuori dalla testa.
«Allora ti piace!» gli ho detto mentalmente. «Ne vuoi ancora?»
Ma quello niente. Sempre immobile sulla sua sedia a rotelle, con la giacca, la camicia, la cravatta allentata per l’espansione dei muscoli del collo. In perfetto silenzio. Continuava a sghignazzare o a gridare, lo sapeva solo lui che cazzo stava facendo!
«Va bene, d’accordo» gli ho detto ancora dentro di me, «adesso ti accontento. Vediamo se dopo continui a prendermi per il culo!»
Mi sono tirato giù la cerniera dei calzoni, ho tirato fuori l’uccello e ho cominciato a pisciare dentro la caverna della sua bocca.
E quello ancora niente, perfetto silenzio, non si muoveva di un millimetro, non cercava di chiudere la bocca per non bersela tutta, non gli si contraeva neanche l’esofago per cercare di rigettarla. Vedevo la mia piscia, la mia prepiscia, che gli andava giù per la gola, mentre un rivolo gliene colava fuori da una parte e gli finiva sulla camicia e la giacca.
«Oh, cazzo!» ho finalmente capito. «Questo qui ha avuto una paresi! È rimasto paralizzato, così, che non si capisce se si sta sbellicando dalle risate o se sta urlando. Ma cosa ci fa qui, nella casa vuota, al posto della mia bella? Chi me lo ha fatto trovare qui?»
Ho finito di pisciare, visto che mi scappava, tanto quello non faceva una piega. Continuava a fissarmi con gli occhi fuori dalla testa, come se stesse crepando dalle risate. Ho fatto partire gli ultimi due o tre schizzi dentro lo squarcio di quella maschera, premendo due o tre volte la punta dell’uccello per pulire bene l’uretra. Me lo sono rimesso dentro, ho tirato su la cerniera.
«Ciao, bello, è stato un piacere!» l’ho salutato mentalmente, alla fine. «Chissà se ci rivedremo!»
Sono uscito dalla porta, ho imboccato di nuovo il corridoio deserto, ho cominciato a precipitare con l’ascensore, e intanto guardavo nello specchio la mia faccia abbagliata, perché non ci si può guardare negli specchi degli ascensori mentre si sale, ma mentre si precipita sì.. «Dove sei? Dove sei?» pensavo intanto, con le lacrime agli occhi. «Perché mi hai fatto trovare al tuo posto quella orribile cosa nera spalancata e scoppiata. E, se non sei stata tu, chi mai sarà stato? Chi sarà quell’uomo? Chi è stato? Chi sarà?»
Adesso sono qui, nella mia torre, nella corrente, collegato a tutto il resto della feccia informatica, tutti assieme a lanciare questo trojan mai visto prima, nella pancia di questo cyber cavallo di Troia che cercherà di attraversare il muro di tempo e spazio immobilizzati. Non ci vediamo neanche l’un l’altro, nel buio. È notte fonda. Noi siamo qui dentro, indistinguibili in questa mancanza di luce, come una massa potenziale separata e impastata. Le nostre testoline sono armate, inclinate. Abbiamo ascoltato per molto, da qui dentro, il cigolare delle tozze ruote di legno che ci trascinavano fino a ridosso di questo muro immobilizzato, mentre due file di schiavi nudi e ricurvi trascinavano l’intero corpo che ci contiene con delle funi, e intanto sentivamo che l’intera massa oscillava, scricchiolava e gemeva sempre sul punto di rovesciarsi. Si impennava e poi rovinava e io, là dentro, e tutti noi là dentro, immobili e silenziosi come ombre di cui non sia stato ancora creato il corpo che le potrà proiettare o dai cui si potranno poi separare. Ma come facciamo a essere ombre se c’è solo buio, qui dentro? Siamo tutti aggrappati agli uncini conficcati all’interno di questa pancia per non schiacciarci e compenetrarci l’un l’altro negli scossoni improvvisi durante l’avvicinarsi lento, spaventoso, notturno alle mura immobili di questa enorme città immobile nello spazio e nel tempo immobilizzati. Riusciremo a entrarci? E come, che cosa saremo quando saremo là, se mai ci saremo? Cosa succederà quando avranno individuato la presenza di questa cosa enorme nel buio? Ci faranno entrare trascinandoci con le funi nello spazio immobilizzato, come l’altra volta, come la prima volta, fin dentro le mura di questa città immobilizzata? Chi può sapere cosa succederà questa volta? Siamo tutti ammassati, c’è un numero inimmaginabile di guerrieri seminali acquattati qui dentro, così pigiati e schiacciati che premiamo continuamente gli uni contro gli altri mentre stiamo abbarbicati ai nostri uncini, alle scanalature, in posizione verticale oppure inclinati o capovolti, o sovrapposti gli uni agli altri nelle zone più centrali e più aperte del ventre che ci contiene, e sentiamo a volte che un corpo o che un’ombra di un corpo penetra dolorosamente nell’altro o nell’altra, quando qualcuno si muove improvvisamente o spasticamente in mezzo alle altre, e sommuove l’intera massa agglutinata di ombre. E chi sarà mai quell’ombra spastica che non sta mai ferma, qui dentro? Da quale corpo sarà stata violentemente separata all’interno dello spazio spastico immobilizzato, per continuare a tormentarsi e a proiettarsi anche qui, persino qui? A quale corpo ormai incombaciante starà cercando di combaciare? Quello di prima o quello che ancora non c’è, se mai ci sarà? E intanto, mentre sosteniamo l’urto delle altre ombre che si comprimono e soffrono nello sforzo dell’emersione e della prefigurazione, ci bisbigliamo qualcosa l’un l’altra, nel buio, ogni tanto, coi nostri progetti o sogni o progetti di sogni di bocche o di prebocche l’una attaccata all’altra, l’una dentro l’altra, nel buio saturato che precede sempre gli assalti. Come si fa a parlare con le bocche le une dentro le altre? Come ci si può sentire? Eppure ci parliamo, ci sentiamo, tutta questa pancia vibra per il nostro parlare e sentire, e intanto da là fuori non si sente niente, solo la notte nera, il silenzio, la città immobile, lo spazio immobile, immobilizzato.
Cosa si stanno dicendo le ombre, là dentro?
«Che silenzio è questo?»
«È il silenzio che può esserci nello spazio e nel tempo immobilizzati.»
«Ma perché è così spaventoso?»
«Perché è anche lui l’ombra del silenzio. Perché è stato separato anche lui dal silenzio.»
«Eppure siamo ancora da qualche parte, abbiamo ancora un posto, esiste ancora un posto persino per noi, che non abbiamo più un posto.»
«Dove sei?»
«Ma proprio perché non abbiamo un posto ci siamo, possiamo esistere in questa sconnessione spaziotemporale che si è venuta a creare durante l’annuncio.»
«Dove sei?»
«Dove sei?»
«Tutto lo spazio e il tempo sono stati disarticolati e immobilizzati. Ci sono, qua e là, nei piani inclinati e dentro le faglie che si sono venute a creare per la spaventosa potenza d’impatto dell’annuncio, carcasse di ombre dalle testoline seminali armate, increate, invisibili preombre in agguato nelle intercapedini e nelle ferite genetiche e genitali.»
«Noi siamo nel punto di massima occlusione, nella ferita che viene prima, noi, le ombre nere strappate via dalla stessa ombra, incontrollabili persino dalla matrice della propria ombra.»
«Quelle che si sono dovute svellere non solo dai propri corpi ma persino dalle proprie precedenti ombre per potersi collocare in questo collasso di piani e prefigurazioni e pretempi e prespazi.»
«Dove sei?»
«Ecco, le sentite anche voi queste voci che vengono da fuori?»
«No, non le sentiamo. Perché non le sentiamo?»
«Perché bisogna ascoltarle in un altro modo.»
«Ma perché?»
«Perché sono ombre di voci.»
«Che cosa stanno dicendo?»
«Hanno individuato i contorni d’ombra di questa enorme cosa nera che si staglia contro lo spazio e il tempo immobilizzati.»
«Ma cosa stanno dicendo?»
«“Che cosa sarà questa cosa?” si sta domandando qualcuno. “Sarà un cavallo o l’ombra di un cavallo?” E allora un’altra ombra di voce risponde: “È l’ombra di un cavallo che si è separata violentemente dal cavallo e dall’ombra stessa del cavallo nello spazio e tempo immobilizzati!”. “Che cosa facciamo?” chiede un altro. “Lo apriamo, apriamo la sua ombra con degli arnesi o delle ombre di arnesi di bronzo, oppure lo precipitiamo giù dalla rupe, per vedere cosa succede a un’ombra quando viene fatta precipitare e si squarcia? Per vedere cosa c’è dentro l’ombra.” “Ma un’ombra si può squarciare?” “Si può squarciare se tempo e spazio sono immobilizzati?” “Oppure possiamo trascinare questa immensa ombra dentro le mura della nostra città immobilizzata, fino all’acropoli immobilizzata e farne dono agli dei.” “Agli dei? Ma ci sono ancora gli dei? Adesso non c’è Dio?” “Ah, sì, quello che ha dato, che sta dando l’annuncio che ha immobilizzato lo spazio e il tempo, qui dentro!”»
«Ma adesso cosa sta succedendo? Tutta questa enorme ombra in cui sono comprese le nostre ombre cigola, geme, e noi qui, ammassati al suo interno. La stanno trascinando contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, stiamo penetrando dentro la città immobilizzata contro il muro di tempo e spazio immobilizzati.»
«Porremo fine allo strazio dell’immobilizzazione e dell’indistinzione. State pronti! Sta per finire questa terribile compressione...»
«Questa indistinzione...»
«Balzeremo fuori dalla pancia di quest’ombra o di quest’ombra di ombra. Ci proietteremo fuori da noi stessi per incontrare finalmente noi stessi. Ci sparpaglieremo all’interno della città immobilizzata, l’assaliremo e in questo assalto ci inventeremo, ci svelleremo, ci increeremo.»
«Ma come faremo ad assalire una città, se siamo ombre?»
«L’assaliremo mentre è sprofondata nel sonno.»
«Perché, dormono anche le ombre?»
«Sì, anche le ombre dormono, sognano...»
«E che cosa sognano?»
«E come fanno a sognare se sono così indistinguibili, agglutinate, se stanno già negli stessi regni dove anche noi potremo raggiungerle, assalirle, prefigurarle?»
«Passeremo attraverso le loro ombre e le nostre ombre, e le loro preombre e le nostre preombre, faremo una strage d’ombre. Ficcheremo le nostre testoline seminali nella membrana delle loro ombre e le apriremo, le squarceremo, spalancheremo nel sonno le pance delle loro preombre che stanno sognando di essere ombre. Apriremo le pance sanguinanti delle loro ombre con le prefigurazioni delle nostre ombre. Ci tufferemo dentro le loro pance e ci configureremo, ci prefigureremo. Faremo scorrere il sangue, ci sarà solo il sangue, il presangue, e noi che verremo fuori da lì, con le nostre testoline, pretestoline prefigurate...»
«Ma come faranno a sanguinare, se sono ombre?»
«Perché anche il sangue sarà l’ombra del sangue.»
«E poi le ombre sanguinano? Possono sanguinare?»
«Le ombre sanguinano! Cosa credete che sia tutto quel mare di sangue in cui stiamo galleggiando e nuotando?»
«Dove sei?»
«Dove sei?»
«Dove sei?»
Shanghai 5
Sono qui, sono finita qui. Separata violentemente, strappata via da me stessa e dalla mia casa dove ti stavo aspettando e sognando, a Chongquing. La tua timidezza, il tuo fiore. La tua ragazza nel fiume dei corpicini separati e puntati, dalla bocca rossa, le guance rosa. Quella che io sarò, e tu sarai. Prima di me, dentro di me. Tutti e due con le nostre testoline inclinate per guardare e per preconoscere i nostri due corpi incastrati che stanno eiaculando e generando se stessi. Adesso, qui. Shanghai 5, la tua sposa, la tua presposa. La tua piccola sgualdrina non ancora nata che ti renderà immortale. Strappata da te, separata da te. Che adesso è qui. Sono stata anch’io separata violentemente da te. Poco prima che tu venissi da me, dentro di me.
Mia madre è arrivata, come un turbine, da uno squarcio dello spazio e del tempo, nella piccola casa separata dove vivevo e dove ti ho incontrato prima, io, la tua piccola gazzella dagli occhi obliqui e dal corpo concavo che accoglie dentro di sé il tuo corpo convesso, che è stata, sarà. Il tuo primo amore, il tuo preamore che pensa e prepensa ogni istante a te, al suo primo amore, al suo preamore. È arrivata mia madre con gli occhi sbarrati, col volto in fiamme. Ho capito, dai movimenti disperati delle sue labbra e dal suo spastico gesticolare che, poco prima, uno sconosciuto aveva cercato di strapparle la lingua, mentre camminava per strada. Parlava, urlava, gesticolava. E intanto si toccava con la mano la lingua dentro la bocca spalancata, molto in fondo, alla radice, per controllare che non fosse stata lacerata. Gemeva per il dolore, si continuava a toccare con le dita in fondo alla gola, si premeva la base del collo. E piangeva, piangeva. L’ho abbracciata improvvisamente, col mio corpicino in fiore che avrebbe dovuto abbracciare te, farsi riempire da te. E anch’io piangevo, piangevo pensando a lei, pensando a te.
«Via! Via!» capivo che lei stava gridando. «Via immediatamente da questa città! Io non posso più stare qui. Neanche tu puoi più stare qui!» E, mentre mi abbracciava e gridava, capivo, non dai suoni ma dalla vibrazione crescente che faceva tremare le pareti della mia precasa, che una schiera di uomini stava marciando nel corridoio, e che la vibrazione aumentava sempre più, si avvicinava, segno che stavano per irrompere da un momento all’altro dentro il mio piccolo nido, nel sogno del mio prenido e del mio precorpo che aspettava di essere visitato dal tuo precorpo. Lo avvertivo con l’interno del corpo, attraverso le sue vibrazioni interne. Non con le orecchie, perché si vede che non ho ancora le orecchie. Tenevo abbracciata mia madre che piangeva, e tacevo. Perché non si può più parlare, qui dentro. Perché anch’io sono muta.
E infatti, pochi istanti dopo, hanno fatto irruzione come un esercito appena inventato molti uomini in tuta che hanno cominciato a svellere i mobili dal muro e a defenestrarli, perché era apparsa nello stesso tempo fuori dalla finestra una piattaforma di metallo che era salita nell’aria, nello spazio, segno che avevano piazzato alla base della torre uno di quei camion per traslochi da cui sale un pistone lucido d’olio sormontato da un piano metallico zigrinato. E sopra quella piattaforma ci stavano già accatastando i primi mobili della casa, e alcuni uomini se li passavano l’un l’altro attraverso lo spazio, traslocatori. Finché la mia piccola casa, la nostra casa, è diventata una cosa vuota e deserta, non fecondata, come la casa che c’era prima che la riempissimo noi con i nostri corpi incastrati, prefigurati. Anche lei separata violentemente da se stessa. Sono rimasti solo i muri, nudi, increati. Quello che c’era prima, che c’è anche adesso. Perché anche adesso è prima.
E intanto sentivo che mia madre mi aveva afferrato la mano con la sua mano ancora bagnata di saliva e di lingua e mi trascinava fuori piangendo dalla nostra casa che c’era prima. E anch’io piangevo. Piangevo perché venivo separata violentemente da te, perché il tuo corpo era fuori di me, era prima di me, e io ero prima di te. E correvamo così, lungo il corridoio deserto e poi precipitando nell’ascensore, e ci guardavamo con gli occhi sbarrati nello specchio dell’ascensore, dove anche tu ti guarderai, ti eri già guardato, ma prima ancora che tu ti guardassi, ti ci potessi guardare. «Dove sei? Dove sta andando questa gazzella senza il peso del tuo corpo sopra di sé?» mi chiedevo. «Che cosa mangerà, se non mangerà te, se non mangerà il seme di te, se non si farà forzare da te, nella sua piccola bocca non ancora mangiata, nel suo anellino non ancora cagato? Cosa vedrà, cosa respirerà?» E intanto mia madre si spalancava paurosamente la bocca di fronte allo specchio che stava precipitando, ci si avvicinava torcendo la testa per vedere, da qui dentro, dall’altra parte, se la sua lingua era stata lacerata e tagliata alla radice, se era stata separata violentemente dal resto dei suoi tessuti molli o se era ancora attaccata al resto del suo corpo immobilizzato. Che viaggio lungo precipitare di fronte a uno specchio che sta a sua volta precipitando, e intanto vedere la prefigurazione separata del proprio volto e del proprio corpo che c’era prima, che non c’è ancora, e lì in mezzo la bocca, la prima bocca, quella che non c’è ancora, e quel muscolo della lingua che si divincola e soffre separata dentro lo specchio immobile separato anche lui da se stesso, che c’era prima, che non c’è ancora!
Siamo arrivate in fondo. Ci siamo strappate tutte e due dallo specchio. Mia madre ha strappato via la sua lingua da quell’altra lingua che c’era dentro lo specchio. Le porte si sono aperte. Siamo uscite, in mezzo a tutte quelle torri che si accendevano dall’interno, di quella città prefigurata e ormai oltrepassata. Seguivo come in sogno mia madre che mi trascinava e piangeva. Tutte quelle strade, le luci. Quegli anelli che corrono prefigurati verso l’alto, verso lo spazio, e tutte quelle piccole cose che ci corrono sopra con le loro piccole ruote inventate. Mentre la notte scende, o siamo noi che saliamo, con le sue luci disperate e increate. Dove sei? Mio cervo profumato e inventato, mio sventratore, mio amore. Che cos’è il mondo, che cosa sarà il mondo per noi? Ci sarà ancora un mondo per noi? Siamo arrivati alla sua fine o al suo inizio? Aeroporti illuminati nella notte. Aerei che si separano violentemente dalle piste, tutti pieni di corpicini e di testoline e di luci, le selve dei grattacieli. E ancora, mentre eravamo in viaggio sull’aereo, sui treni, mia madre spalancava ogni tanto la bocca, tirava fuori la lingua e la muoveva e l’allungava e intanto se la fissava con gli occhi resi strabici dalla vicinanza per vedere se era ancora attaccata bene al suo corpo. E io intanto ti pensavo, ti pensavo. Ti renderò immortale.
Ma adesso sono, sarò qui, a Pudong, la Manhattan di Shanghai sulle rive del fiume Huangpu. Sto camminando separata da me stessa, da te, per le grandi arterie illuminate e inventate, tra i grattacieli, Shanghai Times Square, Hwai Hai Road, Nanjing Road, e passano attorno a me fiumane di corpi e di volti nella stessa corrente dove anche noi siamo trascinati, e tu non ci sei, non mi vedi di fronte a te come la prima volta, quella che c’era prima, che non c’è ancora stata. Che mi vieni incontro nel fiume di volti e di corpi ancora irrealizzati e increati, e tu non mi avevi ancora resa immortale, e io non ti avevo ancora reso immortale. Reticoli di strade sopraelevate, cantieri di grattacieli e altre cuspidi di grattacieli e di torri e, ancora più in alto, nel cielo, le sagome immobili e sospese di enormi mongolfiere da cui pendono fin quasi a terra striscioni pubblicitari su cui sono tracciati ideogrammi illuminati e spettrali sullo sfondo della notte ancora increata e abbagliata. E tu non ci sei, non ci sei più, non ci sei ancora. Sono in mezzo alla gravitazione generale dei corpi, meno che del tuo corpo. Sono qui, trascinata in questa prefigurazione gravitazionale di corpi, e intanto ti cerco con gli occhi, con i miei preocchi, e intanto tocco con la mia piccola mano la pistola che porto sempre sopra il mio corpo, sotto il mio golfino a righe con la cerniera, infilata nei jeans, direttamente sulla mia pancina liscia, di seta, sulla tua pancina. Perché anch’io, come te, sono armata.
Messaggio arrivato, Shanghai 5. Mi sono messo in viaggio anch’io, per cercarti. Ma com’è sterminato questo paese per due precorpi separati che cercano di incontrarsi, di reincontrarsi, di incontrarsi per la prima volta, prima della prima volta! E perché, nel fiume delle teste e delle previsioni di teste è venuta a pararsi di fronte a me proprio quella di chi ora so essere tua madre, della tua premadre? E perché si è messa a sbadigliare così, col muscolo prensile della lingua che si muoveva là dentro come la maniglia della notte e del tempo? Lo stesso che avrà leccato il corpo e il cazzo e la testa e la bocca e la lingua di tuo padre prima che gettasse il suo seme dentro di lei. Ma come farà ad andare ancora in giro con la sua lingua in bocca, se ce l’ho qua io? Che lingua si starà mai toccando, se non è più dove lei crede che sia? L’ho buttata poco fa nel bidone delle immondizie, assieme ai ritagli del cibo che ho consumato, alle scatolette dalle quali l’ho risucchiato. Ma come fa a essere qui se poi alla fine non gliel’ho strappata? Si vede che in quel preciso istante lo spazio e il tempo si sono immobilizzati e tua madre e la sua lingua sono state separate violentemente l’una dall’altra, e tua madre e la sua lingua sono rimaste di là, e io e la sua lingua di qua. Poi, non lo so... E perché ho trovato quell’uomo immobilizzato sulla sedia a rotelle con quel forno di bocca, nero, scoppiato? Chi era quell’uomo? Perché era lì? Chi è? Chi sarà?
Mi sono precipitato anch’io a Shanghai. L’aeroporto. Poi quel treno a sospensione magnetica che corre a trecento chilometri l’ora tra le selve dei grattacieli. Tre ponti autostradali, sette tunnel che passano sotto il fiume, raccordi anulari che si avvitano dentro lo spazio, quattromilacinquecento grattacieli costruiti di notte da eserciti di muratori su impalcature di bambù, sotto la pioggia scrosciante, alla luce dei riflettori. Mi sono gettato anch’io nelle enormi strade che trasportano tutta quella massa spastica di corpi non ancora nati e di ombre. Immobilizzati e sfaldati contro lo sfarzo delle vetrine, dietro le quali i contorni degli uomini bevono e ridono con le loro mogli e le loro amanti, le loro piccole mogli ancora ingenerate e increate. Mentre io non ho te. Non avrò mai te. Perché dobbiamo sempre incontrarci, incontrarci prima per poterci incontrare? E poi nelle vie sfigurate dove masse di corpi si spostano inalberate e abbagliate, separate da un’unica massa che preme e che non è stata ancora inventata. Tutti quegli occhi obliqui che vogliono vedere la loro parte di mondo, prima ancora di esserci, prima ancora che ci sia il mondo, e le bocche aperte nella massa del mondo non ancora creato, piene di quelle cose dure, bianche, di denti, 32 schegge d’osso dentro ciascuna bocca. Ma come hanno fatto a crescere tutte queste schegge d’osso dentro le bocche morbide, in mezzo a tutti quei tessuti molli, membrane, mucose, le gengive rosa, le labbra, la gola? Da dove è venuta tutta quella violenza minerale improvvisa dentro la poltiglia dei corpi? Come sono emerse quelle montagne proporzionali di marmo e di calce dalle masse liquide del pianeta e dei corpi? 32 denti dentro ognuno del miliardo e mezzo di corpi che popolano questo continente celeste separato e immobilizzato. 48 miliardi di denti che masticano la polpa del mondo dentro la polpa del mondo. E io dove sono? Perché non ti vedo lungo la Hwai Hai Road, oppure in quelle catastrofi illuminate dello Intiandi oppure al Face, dove enormi configurazioni umane non ancora inventate sorseggiano una caipirinha distese sopra i triclini? Io cerco una ferita da dove possa passare la mia ferita, cerco la tua ferita. Come faremo a incontrarci la seconda volta se non ci siamo ancora incontrati la prima volta?
Poi, d’un tratto, non so come, mentre passavo accanto al cantiere di una nuova torre di cui avevano scavato già le fondamenta, tre corpi umani sbucati all’improvviso mi hanno circondato e pressato. Non saprei dire cosa volevano da me, perché non mi hanno intimato di consegnare il portafoglio o qualsiasi altra cosa. Stavano tutti e tre in silenzio, si limitavano a premermi da tutte le parti coi loro corpi, ma così forte che avevo gli occhi fuori dalla testa e non riuscivo quasi più a respirare. Non volevano nulla, volevano solo aprire il mio corpo coi loro corpi, occupare lo spazio del mio corpo coi loro corpi. «Sono perduto!» mi sono detto. «Non ti rivedrò più, non ti renderò immortale.» Ho cercato di muovere una mano nell’amalgama ormai indistinguibile dei corpi, sono riuscito ad afferrare la mia pistola, l’ho mossa un po’, l’ho affondata perpendicolarmente in quella melma di corpi, l’ho puntata. Nient’altro. Si sono staccati di colpo, si sono allontanati, ma si allontanavano di corsa come se nello stesso tempo un elastico li tenesse ancora legati al mio corpo. Ho ripreso a muovermi, con la mia testolina cieca, immortale, allontanandomi dal cantiere, mi sono gettato di nuovo nelle ferite delle strade più grandi, e intanto continuavo a tenere sollevata con la mano, col braccio, col mio progetto di braccio, la mia pistola, e quelli si guardavano sì dall’avvicinarsi di nuovo, però non erano spariti del tutto, erano sempre lì, camminavano a poca distanza da me, come se aspettassero il momento di gravitare ancora contro di me, dentro di me, e continuavano a sorridere e a camminare, con le loro testoline trasparenti illuminate da dentro, e si vedevano le loro membrane interne non ancora create, le lingue prensili, i loro 48 miliardi di denti minerali non ancora emersi dalla parte liquida dei corpi e del mondo.
«Dove sei? Dove sei?» mi dicevo. «Come farai a rendermi immortale se questi qui riusciranno a lacerare l’involucro del mio corpo? Come farò a renderti immortale se non riuscirò a lacerare il tuo?»
Chongquing 3, io sono qui, connesso con te. Benares 2 ti saluta. Sto viaggiando. Anche tu stai viaggiando. Siamo tutti dentro la stessa corrente, o stiamo viaggiando dentro correnti diverse che però ogni tanto si costeggiano oppure si intersecano, come quei pianeti o quegli agglomerati minerali abbagliati che orbitano nello spazio. Come te, Chongquing 3, come Shanghai 5, come le vostre essenze increate trascinate nella corrente dell’essenza contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Come quei tre corpi che hanno cercato di penetrare dentro di te, prima che tu li allontanassi inalberando la tua pistola. Adesso sono lontani da te, ma sono ormai collegati a te. Stanno camminando a poca distanza. Forse si avvicineranno di nuovo, forse si allontaneranno di colpo. Chi può dire. Ma qualsiasi cosa faranno d’ora in poi sono legati a te. Anche se l’elastico si allungherà all’infinito e verrete a trovarvi enormemente lontani, l’elastico potrà sempre, in qualsiasi momento, ricominciare a contrarsi, e allora potrebbero ritornare indietro di colpo, e in un solo istante precipitare di nuovo contro di te, dentro di te, con i loro tre citoplasmi nel tuo citoplasma, dentro il citoplasma più vasto dove tutti ci stiamo muovendo e divorando e inventando, qui dentro, nella frazione d’istante dell’annuncio, del preannuncio che immobilizza tempo e spazio e ci scatena dentro gli scollamenti e le sconnessioni telluriche e le concrezioni che precedono e determinano a loro volta l’annuncio.
Quel feto femmina dentro la pancia dell’Interfaccia, ad esempio, che ha dato il via a questa voragine redentiva e che porta il peso di tutta questa transazione e sconfinamento di strutture e di piani... Dove sarà in questo momento, ora che tutto è stato così violentemente dislocato e poi oltrepassato? Riuscirà ancora a nascere? Sta nascendo proprio in questo momento? È già nato? O è stato anche lui separato violentemente da se stesso? O magari è già nato da qualche altra parte nell’impatto dello spaziotempo immobilizzato? Mi facevo queste domande, poco fa, mentre mi spostavo anch’io dentro la corrente, ed ero anch’io assieme a tutti gli altri dentro la pancia di questo cyber cavallo, assieme alle altre ombre informatiche separate violentemente dai loro corpi e dalle loro stesse ombre. Ho saputo, ad esempio, che nella città di Korba, nello stato centrale di Chhattisgarh, è nata una bambina con il cuore esterno. Lo tiene fra le dita della manina ed è collegato agli organi interni da vene e arterie. Che sia lei? Che sia già nata? Oppure anche il suo corpicino è un precorpicino che ci fa capire quale sconnessione di tempi e spazi sia avvenuta e stia avvenendo qui dentro? Allora può darsi che quel corpicino abbia trovato un’altra strada per poter uscire attraverso un’altra ferita dall’unica pancia del mondo immobilizzato e increato, con una tale violenza d’impatto che il suo cuoricino le è schizzato fuori, ha dovuto trattenerlo con la sua piccola mano all’altezza della clavicola perché non finisse troppo lontano dal resto del suo corpo. E magari è stata separata così violentemente che nello stesso tempo è ancora là, dentro la pancia dell’Interfaccia immobilizzata nel punto della sua massima espansione. Che cosa starà pensando, prepensando, in questo momento, prima che i medici tentino di separare chirurgicamente la manina dal cuore della bambina e di inserirlo e posizionarlo dentro il suo corpicino con la scusa di evitargli infezioni? Senza capire nulla di cosa è avvenuto e sta avvenendo qui dentro, ancora all’interno delle precedenti illusioni dei corpi e dei combaciamenti dei corpi, che c’era prima, prima ancora di prima, dopoprima. Cosa starà pensando in questo momento quella bambina? Cosa starà dicendo al suo cuore, tenendolo nella manina, come altri nel corso del tempo hanno tenuto in mano altre parti del corpo, crani, cervelli, occhi, nello spazio e nel tempo già allora e sempre immobilizzati? Cosa sarebbe successo se altri, prima di adesso, dopoprima di adesso, avessero potuto tenere in un tutt’uno saldato dentro la mano come un unico organo il loro cervello, ad esempio, e non la sola scatola disabitata di un cranio dissotterrato un secondo prima da un becchino, cervello separato che pensa da una parte e cranio separato dall’altra, come un sasso nell’acqua, mineralizzato e ormai oltrepassato dentro la premano separata e piena di sangue, che può stringere solo un sasso arrivato alla fine del suo piccolo volo contro spazio e tempo immobilizzati?
Il cuoremano
Come pulsa il mio piccolo cuore nella mia piccola mano! È il mio cuoricino che pulsa e fa pulsare la mano o è la mia mano che pulsa e fa pulsare il mio cuore? Come si fa a dirlo, se mano e cuore sono una cosa sola, saldati? Sono qui, al centro, al centro del centro, il piccolo citoplasma che pulsa e fa pulsare tutto quanto, qui dentro. Cuoricino mio, cuoremano, perché, per poter nascere, sono dovuta nascere fuori da me stessa? Perché ti ho dovuto afferrare al volo quando ero ancora dentro, ero ancora prima? Dove stavi volando così veloce che mano e cuore si sono saldati come una cosa sola nell’impatto, in questa prefigurazione di corpi e tempi e spazi immobilizzati e oltrepassati? Perché proprio a me è toccato portare e inventare questa prefigurazione e questo passaggio, qui dentro? Cuoremano mio, come farai a proiettare un’ombra e poi a separartene se non è stata ancora inventata una simile ombra proporzionale, perché poi possa separarsi violentemente da te nell’impatto contro il muro di tempo e spazio immobilizzati? Che ne sarà della tua ombra non ancora nata quando i medici divideranno in due l’origine della tua ombra? Ma adesso, per un po’, siamo qui, indivisibili, ancora indivisi, il mio cervello da una parte e il mio cuoremano che pulsa dall’altra. E non si capisce chi comanda il movimento della mia mano, se è il cervello che comanda alla mano di aprirsi e chiudersi attorno al cuore per permettergli di pulsare, e di spingere il sangue nel resto del mio corpicino esterno, attraverso quel groviglio aereo di vene e di arterie, o se è invece il mio cuore ad azionare la manina saldata e a comandare attraverso di essa al cervello. Tutto lo spazio pulsa, sta pulsando, qui dentro, le sue figure, le sue strutture e le sue proiezioni dentro il tempo e lo spazio immobilizzati. Le pulsazioni del mio cuoremano e del mio cuoremanocervello hanno ormai lo stesso ritmo della pedalata di quel sovrano in kente e con gli occhiali da sole sulla cyclette, che continua a pedalare ormai diviso violentemente dalla sua ombra, qui dentro, mentre anche la sua ombra continua a pedalare sull’ombra della cyclette, indistinguibili in mezzo alle altre ombre e preombre dentro la pancia di questo cyber cavallo trascinato dentro le mura di quella città immobilizzata e increata. Cosa sta succedendo? Cos’è successo? Cosa succederà? Perché nascono e continuano a nascere sempre nuove configurazioni di corpi e di precorpi prima ancora che siano nate le ombre proporzionali da cui potersi poi separare? Come fanno se lo spazio e il tempo sono immobilizzati? Come può collocarsi il mio corpo portatore del cuoremano nella catena delle nascite e delle reincarnazioni? Di quali corpi e figure può essere reincarnazione e passaggio questa configurazione mai vista prima? Cosa sarà mai stata nella vita precedente, qui dentro, per essersi reincarnata in una simile forma? In che cosa si reincarnerà questa forma, qui dentro? Se, con l’immobilizzazione di spazio e tempo non è stato spezzato e separato violentemente da se stesso anche il ciclo delle reincarnazioni e delle rinascite, e il mio corpo e la mia figura mai vista, rimasta in mezzo, separata, sdoppiata, testimonia anche sopra di sé la violenza di questa immobilizzazione. Come vivrà, con cosa giocherà questa bambina indiana che è apparsa all’improvviso tenendo in mano il suo cuoricino, qui dentro? Con cosa potrà mai giocare la mia piccola mano quando verrà separata chirurgicamente da se stessa, dopo avere giocato con il suo cuore? Di chi è questo piccolo cuore saldato che tengo nella mia mano? È uscito veramente dal mio piccolo corpo oppure è uscito da qualche altro corpo, e io l’ho soltanto intercettato con la mia mano mentre era ancora in volo verso qualche altro corpo o qualche altra ombra di corpo? Io sono la bambina che nascerà due volte perché non è ancora nata una volta. Io tengo in mano il mio cuore, il vostro cuore. Ma adesso dormi, cuoricino mio, io ti proteggo dentro la mia piccola mano. Io sono già nata qui eppure devo ancora nascere là. Anche voi siete nati qui eppure non siete ancora nati là. Credete di essere chissà dove, eppure siete tutti dentro qui, dentro questa piccola mano che non è ancora nata, che non nascerà, che rinascerà.
Gli entranti
Quante luci in alto, lungo le verticali dei marciapiedi che incombono sulle strade! Quanti piedi per terra, a perdita d’occhio, al termine dei corpi tagliati! I tre continuano a spostarsi lungo le grandi strade arate, a poca distanza da Chongquing 3. Ma ogni tanto qualcuno di loro corre avanti un po’, sorridendo con la testa gettata all’indietro, gli occhi aerodinamici, obliqui. Poi torna indietro, quando è arrivato nel punto in cui l’elastico è teso al massimo e non può che accorciarsi di nuovo, riprende a camminare per un po’, quasi a fianco di Chongquing 3 che inalbera la sua pistola, sempre sorridendo, tranquillo. Poi ne parte un altro, comincia a correre con la testa puntata, tra la poltiglia della prefolla illuminata dalle preluci. E spinge avanti la testa, la testolina, muovendola forsennatamente, spasmodicamente nella poltiglia increata dell’aria, tutto piegato in due nella corsa, come un velocista che voglia guadagnare qualche millimetro ancora forzando il muro di tempo e spazio sulla linea del traguardo immobilizzato. Poi rallenta anche quello, torna indietro. Ma allora, nello stesso istante, parte il terzo, si slancia, fende la folla, ritorna indietro continuando a correre all’incontrario, in avanti. Camminano per un po’ a poca distanza da Chongquing 3, tutti e tre sorridenti, compunti. Finché uno dei tre chiama improvvisamente un taxi, come se si ricordasse di colpo di qualche posto lontano dove deve andare, si tuffa dentro a testa bassa, saluta gli altri due con la mano tutta sfuocata dietro il finestrino, mentre il taxi riparte sgommando, come se stesse incominciando un lungo viaggio. Invece pochi istanti dopo fa fermare improvvisamente il taxi, scende con le mani in tasca, si ricongiunge agli altri due, anzi all’altro perché nel frattempo uno dei due rimasti si è tuffato in una stazione della metropolitana, sta correndo sotto terra, si infila in una vettura mentre è già sul punto di partire, fendendo la corrente della folla tutta piena di testine sfrenate. Ma allora anche il primo dei tre si allontana improvvisamente, si tuffa in un grande magazzino, lo si vede da dietro il vetro salire una dopo l’altra le scale mobili. Adesso sono tutti e tre lontani l’uno dall’altro, e lontani da Chongquing 3, che avanza inalberando lo stesso la sua pistola, e intanto pensano, in tre teste diverse ma come se fossero una sola testa: «Entreremo dentro di te, le nostre cerniere genetiche si allacceranno alle tue, anche se adesso sembriamo lontani l’uno dall’altro, e lontani da te. Invece entreremo in te, traslocheremo in te. I nostri genomi si fonderanno, come già i nostri genomi si sono fusi, per cui anche se siamo separati siamo sempre uniti, una cosa sola, siamo un unico corpo con sei braccia e sei gambe e sei occhi e sei palle, e tre cervelli, tre cazzi, che si muovono come un unico corpo disseminato e inventato che si prepara a disseminarsi e inventarsi in sempre nuovi corpi per concentrarsi e disseminarsi e aggiungere al nostro corpo sempre nuove braccia e nuove gambe e nuovi occhi e nuovi cazzi e cervelli e acquistare così sempre nuova spinta invasiva per andare a sfondare la membrana di tempo e spazio immobilizzati. Non lo vedi cosa sta succedendo intorno a te, nelle strade, qui dentro? Non lo vedi come i corpi e le teste si avvicinano sempre più gli uni alle altre, dietro le vetrine, in mezzo alla folla, con le loro masse cerebrali non ancora nate, trasfigurate e inventate, contro le membrane di altre teste nello spazio e tempo immobilizzati?».
E poi, di colpo, si avvicinano di nuovo l’uno all’altro, vanno avanti a schiera, con tutte e tre le teste girate verso Chongquing 3 che continua a tenere bene in vista la sua pistola per tenerli lontani, e intanto sorridono tutti e tre, con le bocche da un orecchio all’altro, come appena inventati, e si prendono in mano il pacco in segno di scherno, e sollevano tutti e tre il dito medio, contemporaneamente, nell’aria, verso di lui che continua ad avanzare inalberando la sua pistola, come per dirgli: «Puoi ficcartela su per il culo, la tua pistola!».
E intanto anche Chongquing 3 pensa: «Io voglio arrivare a te con me stesso, anche se sono prima di me stesso, anche se tu sei prima di te stessa. Per rendere immortale te stessa. Dove sei, Shanghai 5? Io cammino per questa città esplosa e immobilizzata e non ancora inventata, da dove è arrivato fino a me il tuo segnale, e intanto tengo sollevata nell’aria la mia pistola genetica per tenere lontani tutti quelli che vogliono avvicinarsi a me per entrare dentro di me, e invadermi e penetrarmi e riconfigurarmi con i loro citoplasmi, i loro genomi, i loro geni. Come farò allora ad arrivare a te, prima di me, se non sarò più me? Come farai a rendere immortale me, prima ancora di me? Mia testolina non ancora inventata, mia gazzella dagli occhi obliqui, mia pancina con dentro il mio seme, il mio preseme, guardo appena con la coda dell’occhio quei tre che avanzano sorridendo e scrollandosi il pacco in segno di scherno, facendo il gesto di ficcarmi nel culo la mia pistola genetica umana, che può sparare il mio Dna dentro altri corpi e altre cellule umane, come le pistole genetiche che sparano Dna nelle cellule vegetali, col gene fissato a una minuscola particella d’oro o di tungsteno sparata nella cellula come un proiettile. Sì, bisogna andare in giro con la pistola genetica per impedire che ti vengano dentro continuamente altri corpi, qui dentro! Mi limito a ricordare a quei tre, sollevando la mia pistola in questo bagliore di luci immobilizzate, quale sarà il prezzo pagato dal loro unico corpo diviso in tre corpi se penetreranno dentro il mio corpo. E quelli si slanciano di nuovo in avanti, scompaiono e poi ricompaiono tornando indietro verso il loro punto di irradiazione coi capelli sollevati nell’aria per la velocità della loro corsa e controcorsa, vanno su e giù per le scale mobili dei centri commerciali, delle torri tutte piene di luce seminale inventata. E intanto, se mi guardo attorno mentre ti cerco per renderti immortale, e cerco dentro di te la mia immortalità in mezzo a questa folla immobilizzata e increata, mi accorgo che è tutto un avvicinarsi pericoloso e invasivo di teste e di trasparenze di teste, dietro le vetrine abbagliate, nelle luci che le rendono così trasparenti, e si distinguono al loro interno le cartilagini e i cervelli che pensano e pulsano e soffrono come intestini avvicinandosi invasivamente gli uni agli altri, e basterebbe una piccola spinta in avanti per scaraventarli gli uni negli altri, come quando ci si affaccia dall’alto a una superficie d’acqua immobilizzata, da uno strapiombo, e basterebbe un’oscillazione minima del baricentro del corpo per precipitare dentro quella massa cerebrale liquida, che non c’è ancora, per fonderli, per riempirli con altra polpa cerebrale non ancora creata, e così i corpi, gli organi interni dei corpi, dei corpi prima ancora dei corpi, dopo i corpi. Che cosa sta succedendo? Che guerra è mai questa, con tutti questi corpi e questi precorpi che tendono continuamente a invadersi e a compenetrarsi, qui dentro? Nei grandi magazzini a vista che incombono come muraglie su questa strada illuminata e inventata, pieni di bagliori umani e di combustioni e di specchi da cui tutti questi corpi non ancora nati devono strapparsi via a forza per poter continuare ad andare, e si vedono i loro crani e le loro fronti e le loro lingue quasi lacerarsi da questi e dalla loro muraglia duplicata e immobilizzata, e strapparsi e lacerarsi dalle loro ombre e dalle loro ombre specchiate. Che ombre sono quelle che stanno dall’altra parte? Che ombre sono quelle che fa la luce? Mio corpicino immortale, che io posso incontrare solo all’incontrario col mio corpicino non ancora nato e immortale, scavalcando all’incontrario la nascitamorte in questo spaziotempo immobilizzato. Mio corpicino preamato, prescopato. Mai nato eppure immortale solo perché non è mai nato. Che mondo è questo, che impero celeste è questo? Celeste sì, ma come è celeste la muraglia immobilizzata dell’atmosfera, di quando era prima, di quando si stava ancora formando la fascia di combustione dell’atmosfera, quando il fuoco era fermo, sarà fermo, il cielo era fermo, sarà fermo. E, sotto, soprasotto, fin dall’inizio, qui dentro. E poi dal tempo delle vigorose stirpi dei sovrani Chou che sbaragliano la corrotta dinastia dei sovrani Shang, dopo avere resistito alle incursioni dei popoli della steppa, all’epoca delle primavere e degli autunni e poi a quella degli stati combattenti. Non più i cavalieri non ancora nati sui carri, ma l’urto della fanteria che viene avanti immobilizzata contro lo spazio immobilizzato. E poi l’impero degli Han, la conquista dei popoli della steppa, l’epoca dei T’ang e poi il suo abbattimento attraverso quelle continue lotte fra generali che fondano imperi e regni nello spazio e nel tempo immobilizzati, e la distruzione dell’aristocrazia guerriera dei cavalieri coi suoi settecentomila arcieri a cavallo che impongono il loro dominio sulla steppa. E poi ancora i Sung, l’invasione mongola capeggiata da Gengis Khan, lo sterminio di milioni di uomini e donne non ancora nati e l’imposizione della dinastia mongola degli Yuan e la spedizione contro il Giappone di Kublai Khan. Quattromila navi, centoquarantamila uomini armati e ancora increati. Non si sa ancora bene quello che è successo, perché una simile flotta, la più grande che si sia mai vista, viene annientata. Settantamila morti, non ancora nati eppure già morti. La disperata resistenza dei samurai giapponesi? Correnti marine e tifoni e tempeste che hanno rovesciato le navi di Kublai e le hanno scagliate e fracassate contro gli scogli? Oppure, semplicemente, che una simile flotta, dotata delle più avanzate tecnologie militari, e del ferro, e di artiglieria esplosiva e cavalli da guerra e di scafi divisi in compartimenti stagni sigillati con resina per resistere anche alle falle, non ha potuto nulla quando è andata a schiantarsi contro il muro di tempo e spazio già allora immobilizzati? E che cosa credete che sia la Grande Muraglia, l’unica costruzione umana visibile anche dalla luna? Cosa credete che stia ancora fronteggiando da più di duemila anni? E anche adesso, quella grande diga che stanno costruendo vicino a Chongquing, dietro la quale si stanno ammassando e immobilizzando 39 miliardi e 300 milioni di metri cubi d’acqua. Se è poi acqua. Alta 183 metri, larga 2.060 metri. Alle sue spalle un lago artificiale di 960 kmq lungo 600 chilometri. Centocinquantatré città, milletrecentocinquantadue villaggi cancellati dalla salita ininterrotta dell’acqua. Cosa sta succedendo in questo impero immobilizzato e inventato? Che cosa sono queste città e queste dighe che stanno sorgendo immobilizzate? E perché devo andare in giro con questa pistola genetica per impedire ad altri corpi di invadere il mio e di penetrare dentro le membrane che lo dividono dalle altre proiezioni di corpi mentre siamo tutti amalgamati e compressi, qui dentro? Da dove viene questa guerra che si è scatenata da tutte le parti qui dentro? Perché mi sembra che tutti questi corpi e queste teste trasparenti e puntate cerchino continuamente di entrare dentro altre teste e altri corpi nella pressione spaventosa e crescente di questa massa genetica mai nata che preme sempre più contro la barriera di spazio e tempo immobilizzati? Perché mi sembra sempre più che altri, oltre a me, vadano in giro armati delle loro pistole genetiche o abbiano trasformato i loro stessi corpi in pistole genetiche che tentano continuamente di invadere altri corpi per spararci dentro il proprio sigillo genetico non ancora elaborato e inventato? Lo capisco, lo intuisco quando vedo qualcuno avvicinarsi paurosamente a qualcun altro, una testa a qualche altra testa, e allora il primo mi pare che faccia il gesto di toccarsi la tasca, oppure vicino all’ascella, dove tiene la sua pistola, e subito quell’altro schizza via spaventato, ridendo, non si capisce mai bene in questo bagliore che cancella le forme, corre via lontano ma subito dopo ritorna. Come questi tre che adesso sono qui e poi sono là, e poi ancora qui. Dove sei? Come farò ad arrivare a te, a entrare dentro di te, se non sei ancora te, se non sarò, non sono più me? Come farò a inventare te, se non ho ancora inventato me? Oh, mia pancina con la sua porticina sempre aperta per me, anche questa giornata sta finendo, la notte scende e io non ti ho ancora trovata. Le figure si confondono le une nelle altre nel bagliore seminale di altre luci prodotte dalle grandi dighe che fronteggiano il muro liquido immobilizzato. Ma tu dove sei? Dove sei?».
Eppure io sono qui, sto percorrendo le strade che stai percorrendo anche tu. E allora perché non ci vediamo, non ci incontriamo? Che cosa ci ha allontanato così violentemente l’uno dall’altra mentre eravamo vicini, così infinitamente vicini? Cos’è che ha smosso con tale violenza la massa agglutinata e inventata dove eravamo tutti e due imprigionati e inventati? Tu Chongquing 3, io Shanghai 5. E dov’è finita adesso mia madre, che non la vedo più già da un po’. Mi ha lasciata qui, lontana da te, lontana da me. Quella che non è ancora mia madre, che sarà, che forse sarà. Lo sarà se riuscirò a incontrare te prima di te. L’ho vista un’ultima volta mentre si strappava via da uno specchio di uno di quei grandi magazzini che si affacciano sulla Hwai Hai Road, e strappava via la sua lingua, anche le mani, la faccia, le tette da cui uscirà il latte per me, prima di me, se incontrerò te, solo se incontrerò te. Si vedono tutti quegli specchi da cui si strappano le persone, e quelle che non hanno neanche più la forza di strapparsi e ritornano indietro violentemente e subito dopo lo specchio si richiude sopra di loro come l’acqua attorno a un corpo che affonda. Quante luci! Se sono luci, se sono ancora luci, se sono già luci, se saranno luci! Che escono dai grattacieli che si elevano sdoppiati nello spazio immobilizzato e sdoppiato. Si è separata violentemente da sé, anche da me, dopo avermi deposta qui. Ha tirato fuori un’altra volta la lingua di fronte a me. E intanto mi guardava e piangeva, e la lingua si allungava, si allungava. Se la toccava. Tu, prendendole in mano la lingua e tirandola a te, l’hai tirata fuori da sé, prima ancora che lei mi tirasse fuori da sé, prima di me. Mamma, mammina, premammina, perché avviene tutto questo sfracello dei corpi prima ancora dei corpi, mentre sono ancora immobilizzati e increati? Perché tutto questo dilaniarsi di corpi che escono ed entrano negli altri corpi a capofitto nell’unica massa di corpi e di ombre di corpi e di precorpi? Come farò a nascere se non nascerò da te, se tu non nascerai per me? E dov’è finito l’uomo che ha gettato il seme dentro di te, prima di te, dov’è stato, dove sarà, chi sarà? Quando è entrato, quando entrerà dentro di te, per poi essere me che non sono ancora me? Mio piccolo invasore, mio immortale, in quale sconnessione siamo finiti che non riusciamo più a incontrarci, a renderci immortali? Mi sto spostando attraverso gli spazi di questo grande magazzino dove tutta la combustione di corpi va a sbattere contro il muro della luce immobilizzata, e anch’io stringo l’impugnatura della mia pistola genetica, con la mano sotto il golfino a strisce colorate con la cerniera che io aprivo per te, e poi tu vedevi me, prima ancora che è me, e poi tu scopavi me, e inventavi me, e immortalavi me, per essere me, prima di me, prima ancora di te. Stringo l’impugnatura della mia pistola genetica perché non si capisce cosa vogliono fare tutti quei corpi che ti passano vicino e ti premono da tutte le parti, trasparenti, ancora non esistenti, qui dentro, in questa combustione di luce inventata. Ce n’è una, ad esempio, che si avvicina improvvisamente a me, una commessa, una che sarà una commessa, se io poi verrò qui, solo se io verrò qui. E, con la scusa di aiutarmi a spalmare il rossetto campione, mi sfrega forte lo stick sulle labbra, premendo sempre di più, con le dita tutte piene di piccole unghie dipinte, e intanto mi guarda da infinitamente vicino, e la sua mano preme, e le mie labbra si spostano da una parte all’altra sotto la pressione della sua mano, come se volesse entrare dentro di me attraverso quella piccola cosa incandescente che spinge contro l’apertura della mia testa e intanto si avvicina sempre più con la testa, vicino alla mia testa, a quella che sente già come la sua testa. Tiro indietro di scatto la mia, mi stacco dal suo corpo collegato al mio da quella piccola brace che lei spinge con due dita per entrare dentro il mio corpo. Scappo via, lei resta lì, con la brace in mano, immobilizzata. Non si muove, sembra disattivata, però continua a guardarmi, a fissarmi, stringendo tra le dita lo stick attraverso il quale era collegata a me. Mi sfrego via il rossetto col dorso della mano, con un fazzolettino di carta, che butto a terra prima di allontanarmi verso altre zone del grande magazzino, un altro piano, mentre quella là continua a fissarmi con la sua brace da cui mi sono violentemente separata. Ma, mentre la brace era attaccata al mio corpo, con chi era attaccato il suo corpo? Scendo di un piano, mi sposto per un po’ in un reparto scarpe. Ne sollevo una col mezzo tacco, di quelle che piacevano anche a te, piaceranno anche a te. Mi sgancio la cinghietta della scarpa destra che ho ai piedi, vado a sedermi sopra una delle poltroncine. Mi tolgo la scarpa, mi preparo a infilare in quella nuova il piede dalle dita sfuocate dietro il velo di nylon della calza. Ma un secondo dopo appare di colpo di fronte a me un’altra commessa.
«Vuole che l’aiuti?» mi chiede con gentilezza, prendendomi di mano la scarpa.
Poi, senza che abbia il tempo di risponderle, si inginocchia di fronte a me, mi infila la scarpa nuova al piede, premendo un po’ per calzarla bene. E, anche quando l’ha calzata, non stacca la mano, rimane lì come saldata in un unico blocco con me. Io la guardo, lei mi guarda, mi fissa, non stacca la mano, la stringe, la stringe, o forse è solo la pulsazione del sangue che dilata la sua mano e il mio piede e li comprimono sempre più l’una contro l’altro.
«Mi lasci!» le dico, perché adesso posso parlare.
Lei non sembra sentire, anzi viene avanti sempre più con la testa, sento i suoi capelli sfiorare già l’interno delle mie ginocchia. Mi slaccio istintivamente la cinghietta, sfilo il piede dalla scarpa nuova e dalla morsa della sua mano che faceva da scarpa alla mia scarpa. Rimane lì, immobile, col calco del mio piede nel calco della sua mano, non fa un gesto, e anche quando mi infilo di nuovo la mia scarpa, e fulmineamente l’aggancio, e faccio qualche passo per allontanarmi da lì, lei è ancora immobile, tiene in mano lo spazio cavo che ha contenuto per un po’ l’estremità del mio corpo. Ci sono alcune ragazze che si stanno pettinando con dei nuovi modelli di spazzola esposti lì vicino, contro una delle pareti a specchio. Vado a prendere anch’io una delle spazzole, comincio a pettinare i miei capelli, quelli che saranno i miei capelli, i tuoi capelli. Mi passo più volte la spazzola, vedo che prendono sempre più volume dentro lo specchio, vicino a quelli delle altre ragazze che prendono sempre più volume. Si vedono quelle masse scure e sgranate balenare contro lo specchio tutto pieno di luce. Muovo anch’io la testa nella luce specchiata. Anche le altre ragazze muovono sempre più le loro preteste nella preluce specchiata, per liberare sempre più i loro capelli sfuocati dalla spazzola. Però dopo un po’ mi accorgo che la ragazza alla mia destra si avvicina, la sua testolina si avvicina sempre di più alla mia, ci sono dei momenti in cui i nostri capelli si intrecciano e si confondono e la sua spazzola pettina i suoi capelli insieme ai miei. Mi attrae sempre di più a sé attraverso la cerniera genetica della spazzola che collega sempre più i nostri corpi attraverso i fili dei capelli, devo tirare un po’ per staccare il mio corpo dal suo. «Cosa sta succedendo?» mi chiedo. «Perché tutte queste ragazze si avvicinano così tanto a me, tutti questi corpi cercano di collegarsi al mio, di inglobare il mio?»
Il tempo passa, quello che non è più il tempo, non è ancora il tempo, il pretempo che mi divide da te, mi muovo in questa ressa di corpi e di proiezioni di corpi non ancora nati eppure già separati. In cerca di invasione, di indistinzione. Mi sembra che si stia avvicinando l’orario di chiusura di questo grande magazzino seminale dove mi trovo. Gli specchi sono stanchi di riflettere tutta questa luce. Che cosa succederà quando le luci si spegneranno di colpo e tutti questi specchi e i corpi che ci si sono specchiati si separeranno violentemente dalle luci da cui erano stati già separati?
Scendo ancora di un piano con la scala mobile. Devo affrettarmi a comperare quello per cui ero entrata qui dentro. Corro verso il reparto di biancheria intima, pieno di ragazze che arraffano mazzi di reggipetti e mutandine con la striscia di plastica igienica tra le gambe per andarli a provare nei camerini prima che diano il segnale di affrettarsi verso le uscite perché stanno per chiudere. Estraggo da un cesto un reggipetto e una mutandina che avevo visto esposti su un manichino in vetrina prima di entrare qui dentro, che vedrò. Gli stessi che portavo il giorno che abbiamo scopato per la prima volta, con i quali vorrei incontrarti la prima volta. Mi dirigo verso i camerini. Aspetto che se ne liberi uno, mentre negli altri ci sono delle ragazze che provano a ripetizione reggipetti e mutandine, ammucchiandoli sulla sbarra della tendina dopo averli provati, e intanto parlano da un camerino all’altro, ridono, si chiamano a vicenda, entrano nei camerini delle altre per farsi vedere e chiedere come stanno, si sente il rumore delle tendine che si aprono e chiudono continuamente. Mi tolgo i jeans, resto con i soli collant di fronte allo specchio. Un istante dopo sento aprirsi di colpo la tendina del mio camerino, alle mie spalle. Mi volto. C’è una ragazza di fronte a me, che non ha più addosso il reggipetto e le mutandine che si è provata prima e non ha ancora quelli che si deve provare. Sta ferma di fronte a me, mi fronteggia. Vedo improvvisamente che, alle sue spalle, avanzano altre tre ragazze anche loro completamente nude nella luce che sta per finire. Sono le stesse che ho già incontrato qui dentro: quella del rossetto, quella delle scarpe e quella dei capelli. Mi guardano tutte e quattro, mi fissano, coi loro otto occhi. La prima tiene ancora in mano il rossetto, la seconda la scarpa, la terza la spazzola.
«Facci vedere anche tu come stai, dopo e prima!» dice la prima.
«Che cosa volete? Chi siete?» provo a dire senza staccare gli occhi da loro.
«Noi ci facciamo vedere l’un l’altra come stiamo dopo e prima!» dice un’altra.
«Io invece no!»
«Perché non vuoi anche tu dopo e prima?»
«Perché sono immortale!» dico a voce alta, cercando di tirare la tendina per tenerle fuori.
Ma quelle vengono avanti lo stesso, nude, dopo e prima, senza diaframmi per riuscire a entrare più profondamente dentro di me con i loro corpi.
Mi vengono contro da tutte le parti. Sento i loro corpi nudi che cercano di penetrare dentro di me, che non ci sono ancora, che ci sarò, spingendo contro di me con le loro parti sessuate.
Mi porto una mano alla vita, afferro la mia pistola genetica che è ancora infilata nell’elastico dei collant, la spingo alla cieca contro la massa di quei corpi sessuati.
Scattano dalle parti, come una corolla scoppiata.
Mi infilo convulsamente i jeans, corro fuori dallo stanzino, oltre quei quattro corpi immobilizzati che fanno corolla attorno al mio corpo non ancora separato e creato.
Corro ancora più forte, mentre i quattro corpi prima e dopo ricominciano a muoversi e a inseguirmi, e si avvicinano, si allontanano, come se fossero collegati a me da un elastico che si allunga e si accorcia continuamente nella corsa. Sto correndo verso le scale mobili che salgono lentamente in direzione dell’uscita, mentre gli altoparlanti cominciano a dare l’annuncio dell’imminente chiusura, e si muove tutt’intorno una folla di persone divise che vanno verso l’indivisione accalcandosi prima degli ingressi, e nessuno sembra fare caso alle quattro ragazze che continuano, che continueranno a inseguirmi nude in mezzo alla folla vestita, prevestita, tutte e quattro con le sole scarpe dagli alti tacchi ai piedi. Imbocco una nuova rampa, un’altra ancora, perché si vede che ero scesa profondamente nelle viscere della terra immobilizzata, e intanto sento alle mie spalle i quattro corpi che si sono avvicinati enormemente al mio corpo, li vedo con la coda dell’occhio dentro una parete a specchio, che corrono a lunghe falcate, nudi, impennati, e quella che tiene in mano la brace cerca di venire per prima dentro il mio corpo, spingendola avanti col braccio a ogni falcata, per arrivare a conficcarla nel mio tuorlo non ancora creato. E sento che un’altra sta mulinando nell’aria la testa, per mandare lo sciame dei suoi capelli a intrecciarsi con lo sciame dei miei, che si allungano a loro volta all’indietro nella corsa.
Faccio uno scarto di lato, mi arresto di colpo, mentre le quattro entranti continuano la loro corsa, e intanto sento i miei capelli strapparsi dai capelli già incernierati dell’altra. E quelle là vanno avanti fin quasi a sbattere coi loro corpi nudi dinamizzati e mai nati contro la parete a specchio che c’è sul fondo, per la velocità della loro corsa che ha allungato a dismisura l’elastico che le tiene ormai ancorate al mio corpo.
Tornano indietro di colpo. A velocità crescente, da quattro direzioni diverse, con gli occhi fuori della testa, la cerniera dei capelli, il calco, la brace, i loro corpi tagliati, increati. Mi sembra che si stiano schiantando contro di me, dentro di me. «Come farò ad arrivare a te» mi passa per la premente «se non sarò più me e tu non sarai più te?»
Invece, un secondo prima dell’impatto, sento che una mano mi afferra di colpo.
«Vieni con me!» sento che mi sta dicendo una voce, un po’ deformata dallo sforzo della corsa. «Tu nascerai, ci sarai!»
Non so chi sia. Mi trascina.
La voce diffusa dall’altoparlante continua a ripetere di affrettarsi. La ressa alle casse, il rumore delle saracinesche a maglie che qualcuno sta già chiudendo, da fuori.
«Forza! Forza!» mi dice l’uomo che mi ha preso saldamente per mano. «Infiliamo le porte prima che sia troppo tardi. Tu nascerai! Ci sarai!»
Oltrepassiamo correndo le barriere magnetiche. Balziamo in strada. Capisco che l’uomo corre un po’ sbilanciato, perché sta mulinando qualcosa di rosso con una mano, per scoraggiare gli eventuali inseguitori, mentre con l’altra continua a tenere saldamente la mia. Le quattro entranti sono di là, noi di qua. Una limousine si ferma, dai vetri impenetrabili, neri. Una delle sue portiere si apre, ci buttiamo dentro. L’uomo dice qualcosa all’autista. La macchina riparte a grande velocità, senza fare rumore. Mi giro verso l’uomo, lo guardo per la prima volta. È un vecchio coi capelli lunghi fino alle spalle, bianchi. È vestito con eleganza, di nero.
«Tu chi sei?» gli domando buttandomi esausta contro lo schienale.
«Sono tuo padre!» risponde.
Lo guardo. Anche lui mi guarda dalla penombra dell’auto sempre più silenziosa e lanciata, mentre l’autista continua a guidare in silenzio, e si vede solo il luccicare dei suoi occhi nello specchietto retrovisore.
«Mio padre?» domando. «Ma come fai a essere mio padre, se non sono ancora?»
«Lo sarò! Se tu nascerai, lo sarò!»
«Che cos’hai in quella mano?» domando ancora.
«È il mio giocattolo!»
«Un giocattolo? Ma cosa te ne fai di un giocattolo, alla tua età?»
«Perché io sono anche un bambino.»
Mi giro per guardarlo di nuovo, nella penombra della limousine oscurata.
«Un bambino?» dico con un filo di voce. «Che bambino?»
«Il tuo bambino, tuo figlio! Sono tuo padre e sono anche tuo figlio. Se tu nascerai, allora anch’io nascerò. Dopo aver fatto nascere te, potrò nascere anch’io!»
La macchina corre senza rumore, sugli anelli delle strade sopraelevate e increate. Gli occhi dell’autista brillano nello specchietto retrovisore in penombra.
«È un autista, quello?» domando.
«Lo sarà.»
«Dove stiamo andando?» gli domando ancora.
Non mi risponde.
«Come mai adesso parlo? Perché non sono più muta?» gli domando ancora, gli domanderò.
«Perché adesso è prima. Perché non sei.»
«Che cos’è questa guerra di corpi, di precorpi, che non si capisce mai se tende alla distinzione o all’indistinzione?» mi domando mentre vado per le strade di questa città dove sono venuto per cercare lei che non è più lei, non è ancora lei. «In che cosa, in quale altra guerra più grande è contenuta questa guerra? È una guerra o un abbraccio? E perché mai la percepisco come una guerra, se è un abbraccio? E perché la percepisco come un abbraccio, se è una guerra? Da dove viene tutto questo dolore dei corpi non ancora nati eppure già preinventati, che devono passare ogni volta attraverso la cruna della nascita e della morte? Se è la definizione e la separazione dei corpi la causa di tutto questo dolore, e se è per questo che tutti i corpi tendono all’indistinzione, allora vuol dire che all’inizio – se c’è stato un inizio –, nel momento di massima concentrazione e indistinzione, un istante prima del big bang e dell’inizio della separazione – se c’è stata davvero una separazione, se c’è stato un big bang – non esisteva ancora il dolore? Oppure esisteva già, era già dentro il primo nucleo, era lui il primo nucleo infinitamente concentrato e indistinto, ed è stata forse la sua presenza concentrata fino all’intollerabilità a determinare questa prima esplosione, nel tentativo di alleggerire e di separare una simile concentrazione? Ma allora perché adesso, contemporaneamente al generale allontanamento dei corpi e delle loro strutture intime a causa dell’espansione dell’universo, tutto tende a ritornare gravitazionalmente al momento dell’indistinzione, per sfuggire separandosi violentemente, in questo doppio movimento nel cuore stesso dello spaziotempo immobilizzato, dal dolore separato e dalla morte dei corpi attraverso la cruna della nascita e della morte? Tutto l’universo in cui siamo contenuti, o in una sua microscopica parte in cui è contenuto questo microscopico universo non ancora nato e ormai oltrepassato dentro la concentrazione e la separazione degli universi, si sta concentrando o espandendo? E noi due, e io e te separati, se possiamo pensare di concepirci ancora come separati, ci stiamo concentrando o espandendo? Corpicino mio, che ti sposti separata da me che non sono ancora me perché tu possa essere te, perché anche noi due tendiamo nello stesso tempo alla separazione e all’indistinzione? I nostri corpi si stanno avvicinando o allontanando? Quando la mia pistola genetica è dentro di te, e la tua dentro di me, corriamo verso l’indistinzione o la separazione? È già avvenuto il nostro big bang, e allora stiamo correndo verso la separazione infinita dei nostri corpi, o stiamo invece correndo all’incontrario verso il nostro big bang? Che cosa sta succedendo adesso, che cosa succederà adesso nel mondo, in questo mondo in cui siamo già stati e che è dentro quell’altro mondo dove ancora non siamo?»
Shenzhen 6
Sta scendendo il buio, mentre percorro all’incontrario l’autostrada che collega Shenzhen a Dongguan, e balenano qua e là dalle parti i bagliori delle saldatrici ancora in azione nei cantieri aerei dove si stanno costruendo le metastasi di sempre nuove torri immobilizzate, coi loro spruzzi di luce improvvisa, immobilizzata. E subito dopo i gusci vuoti di stabilimenti appena sorti e già abbandonati lungo il Pearl River Delta, e intanto penso che l’ossigeno e il carbonio dei nostri corpi sono nati all’interno di stelle lontane vissute e morte miliardi di anni fa, e che la nostra atmosfera all’inizio non era ricca di ossigeno ma lo è diventata per l’azione di batteri vissuti ai primordi. Eppure come brulica ogni microrganismo e ogni forma ancora increata all’interno di questa prima fascia d’atmosfera immobilizzata, una distanza che si potrebbe percorrere a piedi in una sola giornata! Corpuscolo planetario in una delle tante galassie, che contiene cento miliardi di stelle. Ma cosa sta succedendo adesso, qui dentro? Ecco, Shanghai 5 sta correndo sulla limousine dai finestrini oscurati, a fianco del suo padrefiglio.
«Dove stiamo andando?» gli chiede.
Lui non risponde, continua a giocherellare con qualcosa, dall’altra parte.
«Che cos’hai lì?» gli domanda Shanghai 5.
«È il mio giocattolo!»
«Fa’ vedere!»
«No, no, è mio, non te lo faccio vedere!» si ostina lui.
«Da’ qua!» gli ordina lei.
«No! No!»
Lei allunga la mano, glielo strappa. Lo guarda, nella penombra dell’abitacolo oscurato dell’auto.
«Ma che giocattolo è questo?»
«È il mio giocattolo! Ridammelo! Ridammelo!» piagnucola lui.
Lei lancia un grido.
«Ma è una lingua!»
Lui piange.
«Dove l’hai presa?» gli domanda lei.
«In strada, da un bidone delle immondizie!» risponde lui continuando a piagnucolare.
«Ma è quella di mia madre!» si dispera lei.
Eppure ce l’aveva ancora in bocca l’ultima volta che l’ho vista, continua a pensare tra sé, tra presé. Anzi, la tirava fuori, se la guardava, se la toccava... continua a pensare. Sarà quell’altra lingua, quella che le è stata strappata prima, dall’altra parte dello spaziotempo immobilizzato. Quella che Chongquing 3 ha buttato nel bidone dell’immondizia di casa sua, sarà poi finita in strada, in un bidone più grande... Oppure gliel’avrà strappata un’altra volta di bocca questo qui dopo che io e lei ci siamo lasciate...
«Sei sicuro di averla trovata in un bidone delle immondizie? Non l’hai strappata di bocca alla mamma?»
«No, no, non è vero!» pesta i piedi lui. «L’ho trovata in un bidone, non l’ho strappata di bocca alla mammina! È il mio giocattolo! Ridammela!»
«No, no, è cacca!»
Tasta alla cieca in cerca del pulsante che apre il finestrino. Lo trova. Lo schiaccia. Il finestrino si abbassa. Butta fuori la lingua. Richiude.
«Quante volte ti devo dire di non raccogliere le cose nei bidoni delle immondizie! Cacca!»
Il padrefiglio scoppia a piangere ancora più forte, mentre la limousine continua ad andare, e l’autista non ha detto niente per tutto il tempo, il pretempo, si è limitato a guardare di tanto in tanto nello specchietto retrovisore.
«Chi è quell’autista?» domanda lei al padrefiglio.
Lui non risponde. Adesso è perfettamente tranquillo. Inforca un paio di occhiali da presbite, tira fuori l’orologio da taschino, fa scattare il coperchio, lo richiude, se lo rimette in tasca senza averlo guardato. Si toglie gli occhiali, li rimette dentro il taschino della giacca.
«Dove stiamo andando?» lei gli domanda di nuovo.
Lui non risponde, non risponderà.
Io invece, Shenzhen 6, sono arrivato a casa. Ho costeggiato per un po’ le immense estensioni del porto, pieno di navi grandi e piccole e ciuffi di vegetazione che spuntano dall’acqua immobilizzata illuminata dalla luce dei riflettori. Adesso sto guardando al computer le immagini di pilastri di polvere cosmica che raggiungono l’altezza di quaranta anni luce e che stanno generando proprio in questo momento una miriade di stelle nella costellazione di Cassiopea. Miliardi di anni fa anche il nostro protosole si è formato da una nuvola di gas interstellare che si è condensata per effetto del campo gravitazionale fino a che il suo centro è diventato abbastanza caldo da innescare una fusione di idrogeno in elio a un ritmo tale da bilanciare la perdita di energia per irradiamento della superficie. Avete drizzato le orecchie? Certo! Che cosa credete che stia succedendo qui dentro? Cosa credete che succeda quando spazio e tempo sono immobilizzati?
Intanto schiere sempre più grandi di corpi e di figure e di ombre stanno irresistibilmente marciando verso uno stesso punto o proiezione di punto dove verrà dato, è già stato dato ed è in corso l’annuncio. Tutta la città trema, il manto stradale vibra sotto la pressione di un numero così enorme di passi. Tutti i corpi e le figure e le ombre che si sono mosse e divincolate qui dentro corrono vertiginosamente verso il punto e il tempo dove verrà dato l’annuncio, anche se l’annuncio è già stato dato oppure è in corso, il pianeta è già stato oltrepassato e venduto, stanno tutti marciando contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. I trampolieri sulle loro sbarre di vetro illuminate e increate, i roller immobilizzati e lanciati, con le loro teste serrate da ogni parte nei cascomaschera dai rostri sporchi di liquami e di sangue, Pericle e Grazia nei loro cascomaschera scambiati, sempre nuovi segnali piallati che risorgono dall’asfalto al passaggio di nuove schiere che irrompono dagli squarci di questa cosa esplosa e immobilizzata, stupranti e stuprate, i corpi che si arrovesciano nella corsa, cazzi, matrici, Ditalina, Pompina, tutti quei corpi che escono dai seminterrati nel vento che trasporta attorno a loro un alone gastrico di squamature di corpi necrotizzati e forzati, bulbi piliferi ormai oltrepassati, spore vegetali incendiate, e gli emicranici e la ragazza dalle sole gengive e le ragazze scartavetrate che brillano come soli appena formati in questi pilastri di polveri cosmiche, e Nervina e le esplose e gli sbandieratori e la donna che urla con la bocca e la voce immobilizzate nel loro punto di massima espansione, nella camera d’aria dell’atmosfera immobilizzata e inghiottita, i messaggeri dalle labbra dipinte, Aminah in canna al suonatore di prepuzio, coi suoi nuovi arti rigenerati nell’utero della luce immobilizzata. Anche la bambina ha lasciato la sua finestra, è scesa in strada in camicia da notte, a piedi nudi, con la sua mantellina di lana sulle spalle, perché ha trovato la porta aperta, segno che il suo guardiano si è dimenticato per la prima volta di richiuderla quando l’ha accompagnata come ogni giorno nella sua stanza, dal set, o forse l’ha lasciata aperta apposta, forse anche lui sta adesso convergendo verso il punto dove stanno convergendo tutti quanti, qui dentro. E anche l’uomo che pesta le merde sulle sue zeppe geologiche stratificate, a fianco dell’Interfaccia nel punto della sua massima espansione. La scorta porgendole il braccio e intanto pensa dentro di sé: «Perché ho dovuto massacrare a colpi di cric quello stupratore di donne gravide che stava solo cercando di rientrare dentro se stesso nello spazio e nel tempo immobilizzati? Perché ho dovuto difendere la nascita di quel feto che tutti qui dentro stanno aspettando per dare il via a questa operazione pubblicitaria di salvazione e a questa transazione mai vista prima e a questo annuncio, se questa operazione sta già avvenendo, è avvenuta?». E intanto anche il feto sta pensando dentro la pancia presidiata dell’Interfaccia: «Come farò a nascere, se sono già nato? Dove starà battendo adesso il mio cuoricino, se sta già battendo dentro la mano di quell’altra bambina indiana anticipata e immobilizzata? E intanto sono trasportato anch’io dentro questa pancia attraverso la quale siamo trasportati tutti quanti, qui dentro, corpi, precorpi, e anch’io sono un precorpo, sono stato un precorpo, sarò un precorpo redentivo, preredentivo. Io sono già nato e vengo portato in processione pubblicitaria dentro questa bolla di carne contro il muro di tempo e spazio immobilizzati».
E intanto qui, a Benares, anche questi corpicini gonfi di neonati morti che galleggiano sulla corrente del Gange convergendo a loro volta dove stanno convergendo tutti quanti, qui dentro, mentre sulle cataste di legno allineate lungo le rive le fiamme stanno bruciando le ombre dei morti, separate violentemente dai morti prima ancora che fossero morti, prima ancora che fossero nati.
Come fanno a bruciare le ombre?
Come fanno a bruciare le ombre, se sono ombre, se sono soltanto oscurità generata da un corpo opaco che intercetta i raggi emessi da una sorgente di luce? Ma anche la sorgente di luce si è immobilizzata. Anche il tramite tra i corpi e le ombre è stato spezzato, qui dentro. Ormai c’è solo questa fermentazione di ombre e questo bagliore di ombraluce immobilizzata dove si sta riforgiando il bagliore della materia immobilizzata del mondo. È per questo che le ombre piangono, sanguinano, bruciano. Solo le ombre bruciano, possono bruciare, qui dentro! Proprio perché si sono separate violentemente dai corpi a cui facevano ancora da tramite e persino da se stesse e si sono collocate in questo prespazio nuovo e senza speranza nello spaziotempo immobilizzato. Le ombre bruciano! Cosa credete che sia quel rumore ininterrotto di combustione che sovrasta ogni altro rumore in questo mondo, qui dentro? Sono le ombre che continuano a separarsi violentemente da se stesse e dai corpi che stanno andando ormai in combustione. Ogni rumore che riuscite a sentire è solo il suono di questa catastrofica combustione di strutture e di ombre che si leva dalle strutture della materia nella fornace nucleare immobilizzata e increata. Non solo quello che si leva dalle cataste dove le ombre incendiano altre ombre e incendiano anche se stesse, ma anche da tutti gli altri attriti di corpi che si comprimono nella catastrofe della distruzione e dell’invenzione e sfregano gli uni contro gli altri e si sfigurano e si proporzionalizzano nella tremenda compressione e fermentazione dello spaziotempo immobilizzato, come nelle combustioni stellari che divampano attraverso il cosmo immobilizzato e increato. Che cosa credete che siano quelle combustioni di stelle che si scatenano negli ammassi e negli sciami stellari gremiti di protostelle in via di condensazione? Che cosa credete che succeda, che stia succedendo, che succederà quando il loro centro collassa diventando miliardi di volte più denso di qualsiasi altro corpo solido e si trasforma in una stella di neutroni o addirittura in un buco nero, e si libera un’energia in grado di scatenare un’esplosione che spazza via gli strati esterni dell’astro facendo nascere una supernova? E così dappertutto, nel cosmo, pieno di stelle dall’enorme massa incendiata che scagliano nello spazio i prodotti della loro combustione attraverso i venti stellari, gli atomi di ossigeno che vagano nello spazio interstellare per centinaia di migliaia di anni per poi finire in una nube più densa che collassa per effetto della sua stessa attrazione gravitazionale fino a formare una stella circondata da un disco di polveri e di ombre di polveri separate e increate. Che cosa credete che siano quelle voci oscure di ombre che parlano tra di loro con le loro voci separate e immobilizzate, mentre vanno dentro la pancia di quel cavallo attraverso le mura di quella città immobilizzata e increata, se non il suono della loro combustione e invenzione che arriva per la prima volta fino alle vostre orecchie increate?
«Dove stiamo andando? Dove mi stai portando?» continua intanto a chiedere Shanghai 5.
Il padrefiglio non risponde, sbadiglia, si scorge nell’abitacolo oscurato dell’auto la sua bocca nuda che si spalanca, la sua arcata senza denti, le nude gengive sotto un velo di luccicante saliva.
«Non hai i denti!» esclama lei.
«No. Ma li avrò.»
«Perché non li hai?»
«Perché non ho ancora iniziato la prima dentizione.»
La macchina continua a correre in silenzio, oscurata, lungo il nastro dell’autostrada sollevata e separata dal suolo.
«Sarà un viaggio lungo?» gli domanda ancora lei.
Il padrefiglio non risponde. Guarda fuori, anche se non si vede niente.
L’autista guarda di tanto in tanto nello specchietto retrovisore, coi suoi occhi lucenti.
«Fermati qui!» gli ordina d’un tratto il padrefiglio.
L’autista rallenta, imbocca uno svincolo che porta a una grande stazione di servizio illuminata in piena notte.
La limousine si ferma, lentissimamente, senza fare rumore. L’autista resta in macchina, con le mani sopra il volante, immobile al posto di guida.
«Forza! Scendiamo!» dice il padrefiglio a Shanghai 5.
Escono dall’auto, fanno qualche passo sgranchendosi le gambe, distendendo e facendo scricchiolare i precorpi, mentre si dirigono verso un locale illuminato sul fondo.
Entrano. È pieno di gente, anche se è notte. Stanno tutti attorno al banco, seduti sui trespoli.
«Posso offrirti qualcosa?» le chiede il padrefiglio.
«Non ho fame, non avrò fame.»
«Allora avrai sete!»
«No, neanche sete, non posso avere ancora né fame né sete.»
Il padrefiglio le sorride, per la prima volta.
«Io invece mi papperò dei bei biscottini» le dice dirigendosi verso una scansia illuminata.
Esamina una dopo l’altra, golosamente, le scatole di biscotti esposti. Sceglie alla fine dei biscotti per neonati.
«Questi qui vanno bene per me!» le dice soddisfatto. «Sono morbidi, si masticano bene anche senza denti.»
Mentre lui si dirige verso la cassa, lei si guarda attorno.
Si blocca: nude, tutte in fila al banco, intente a bere qualcosa con la cannuccia, ci sono le quattro che avevano cercato di entrare dentro di lei nel grande magazzino.
Lei corre verso la cassa.
«Guarda!» grida a lui, che sta pagando i biscotti. «Ci sono anche qui quelle entranti!»
«Per forza!» le risponde lui senza neppure girarsi. «D’ora in poi ci saranno sempre.»
Finisce di pagare. La prende per mano, si dirigono verso l’uscita. Anche le quattro si staccano immediatamente dal banco. Si sentono i rumori furibondi dei loro tacchi che corrono all’impazzata verso l’uscita.
Il padrefiglio e Shanghai 5 escono. La limousine è proprio davanti a loro, segno che l’autista l’ha nel frattempo spostata portandola di fronte all’uscita. Lei entra, ma prima di entrare fa in tempo a vedere che anche le quattro si sono buttate dentro una macchina, hanno acceso il motore, e anche che il padrefiglio ha preso qualcosa da un bidone delle immondizie, qualcosa di grosso, di inerte, inventato.
«Che cosa hai preso ancora dalle immondizie?» gli chiede, quando anche lui è entrato.
«Guarda! Guarda!» lui le dice, orgoglioso.
Lei guarda: è un grosso gatto morto, dal pelo rosso fuoco.
«Buttalo via subito!» lo sgrida lei. «È cacca!»
«No! È mio! È mio! Non lo butto!»
«Buttalo! Ti dico buttalo! Non lo voglio qui in macchina! Cacca!»
«No! No!»
Lei fa per afferrarlo e buttarlo fuori. Lui resiste, tiene il gatto stretto nel pugno, per la coda.
«Se non lo butti non ti farò nascere!» lo minaccia lei.
«E io allora non farò nascere te!» le ribatte lui.
Lei rimane impietrita. La limousine riparte. Si capisce, da un rumore alle spalle, che anche la macchina delle quattro entranti è ripartita.
«Perché lo hai preso?» le domanda lei dopo un po’, più tranquilla.
«È il mio giocattolo!» piagnucola lui.
«Ma te ne compero un altro, di giocattolo!» prova a convincerlo lei.
Lui scuote la testa, batte i piedi.
«Perché hai preso quel gatto?» torna a domandargli lei, dopo un po’.
«Devo pur avere anch’io un’arma per difenderti!» le risponde lui, adesso perfettamente tranquillo.
«Ma è morto! Comincerà a decomporsi!»
«Non succederà, non potrà succedere.»
La limousine ha preso velocità, si indovinano dietro i vetri oscurati i fari della macchina delle entranti che non può che seguirli.
«Tu almeno lo sai dove stiamo andando?» gli domanda ancora lei.
Il padrefiglio non risponde. Tiene il gatto morto disteso sulle ginocchia, lo accarezza.
«Come posso chiamarti?» gli domanda lei, dopo un po’.
«Se tu nascerai, allora mi chiamerai.»
Di nuovo silenzio.
«E io come posso chiamarti?» le domanda lui, dopo un po’.
«Se io nascerò, allora mi chiamerai.»
Non si sente il più leggero rumore del motore, mentre la limousine corre in piena notte lungo l’autostrada, nel buio.
«E questo qui come lo chiamiamo?» domanda dopo un po’ il padrefiglio, indicando il gatto morto disteso sulle sue ginocchia, continuando a tenerlo per la coda.
«Se nascerà, allora lo chiameremo.»
Dove sei finita, Shanghai 5? Perché non ti riesco a incontrare? Eppure continuo a percorrere geneticamente le strade di questa immensa città inventata, mentre i tre entranti si allontanano e si avvicinano paurosamente al mio corpo, al mio precorpo, hanno cominciato a gravitare attorno al mio corpo come se fosse il loro stesso corpo, in mezzo a tutte queste polveri genetiche e genitali di luci e combustioni di particelle genitali di luci che si sono separate violentemente dalla luce prima ancora che la luce fosse luce, preluce, nell’urto di tempo e spazio immobilizzati. Perché non solo l’ombra, anche la luce si è separata violentemente da se stessa. Illumina, incendia, coi suoi atomi venuti dalle più remote esplosioni di stelle, altri atomi venuti dalle più remote esplosioni di stelle non ancora nate, che nasceranno, che forse nasceranno, se saranno, se nasceranno. Ma non è luce, non è più luce, non è ancora luce. Tutte le figure e i corpi e i volti e i pensieri e le forme separati da se stessi stanno dentro questo plasma separato di luce, di preluce. Non sono più forme, non sono più volti, non sono ancora volti. Per vedersi si vedono, ma si vedono all’incontrario, dall’altra parte, nel nonpiù, nel nonancora. Che cosa c’è tra il nonpiù e il nonancora? In quale regno siamo stati sbalzati, io e te, tutti gli altri, qui dentro? Come farò a renderti immortale se non sono ancora mortale, non sono più mortale? Come farà il mio fetore mortale a incontrare il tuo fetore mortale? Come faremo, in questo fiume genitale di luci, di preluci, a incrociare i nostri precorpi increati? Io ti scorgerò tra la folla illuminata e increata, riuscirò a distinguere tra mille altri volti il tuo volto separato e inventato, non ancora separato e inventato. Anche tu scorgerai il mio volto, come l’altra volta, come la prima volta, come quella che sarà la prima e l’ultima volta, come da prima della prima e dell’ultima volta. E io incontrerò te, riconoscerò te. Camminerò dentro questa voragine genitale, guarderò passare il fiume genetico e genitale che scorre nella preluce. E in mezzo a quello scorgerò te, inventerò te, e tu scorgerai me, inventerai me, in quella luce separata e inventata. Dove sei, mio piccolo fetore immortale? Dove sei?
E intanto, mentre avanzo in questa colla genitale di luce increata, con la mia testa inclinata in avanti e inventata, piena di prepensieri increati, in mezzo a tutti questi progetti separati di corpi e di ombre e di luci e preluci, percepisco, da un sommovimento e da una compressione di spazi in questo spazio agglutinato e inventato, che i tre entranti sono venuti avanti tutti insieme, di scatto. Non c’è più spazio tra il mio precorpo e i loro precorpi, anche se sembra che intorno ci sia dello spazio, eppure questo spazio si comprime ancora di più, si deforma. Capisco che vengono spinti verso di me da un contromovimento elastico nello spazio elastico. Faccio qualche passo di corsa, con la mia pistola sguainata, ma mi accorgo che la mia corsa aumenta la velocità anche della loro corsa. E non posso neanche fermarmi, perché allora mi entrerebbero dentro violentemente da dietro nel momento della loro massima controspinta. Cosa posso fare? mi chiedo. Nello stesso istante vedo un’enorme motocicletta luccicante e cromata, che mi ha superato venendo dalla strada, da dietro.
Si blocca improvvisamente al mio fianco.
«Salta su!» grida la voce della persona che guida. «Ti farò nascere!»
Mi butto da quella parte, salto sul sedile di dietro, alto, impennato.
La motocicletta riparte immediatamente, con un rombo, e io non so cosa sta succedendo, cosa succederà, ma almeno la motocicletta corre, corre, illuminata, increata. Scorgo il bagliore delle sue cromature contro il bagliore delle torri di cristallo e d’acciaio che sfrecciano dalle parti e la luce non c’è, non c’è più, non c’è ancora.
«Abbracciami!» mi grida la voce deformata dal casco. «Se no voli via!»
Stringo con tutte e due le braccia il corpo della persona che guida, serrata nella sua tuta e dalla testa ricoperta dalla bolla luccicante del casco, da molto più in alto, tutto raccolto su me stesso come un feto impennato, le gambe ripiegate, i piedi in alto, il torace e la testa contro quell’altra testa che continua a girarsi da una parte e a imperversare e a gridare:
«Come fare se la tua velocità aumenta in modo esponenziale anche la velocità degli entranti e non puoi neanche fermarti perché allora entrerebbero dentro di te con violenza, da dietro, nella luce immobilizzata e increata, nello spazio elastico?»
La sfera luccicante del casco ruota sotto di me mentre mi parla, e poi si gira verso il nastro separato e sospeso della strada inventata, sugli svincoli aerei e immobilizzati che immettono sull’autostrada.
«Ecco che allora appaio io!» continua a gridare. «Non posso che apparire io, a questo punto, quando bisogna inventarsi un diverso spazio di corsa che non sia un semplice aumento progressivo di velocità dentro lo stesso spazio immobilizzato, elasticizzato e increato.»
Tutto il mio corpo vibra, devo stringere gli occhi perché non c’è niente che li ripari dalla velocità della corsa contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, mentre sto con la testa attaccata al bulbo luccicante dell’altra testa lanciata.
«Eccoli! Sono là!» grida d’un tratto, con la voce deformata dal casco.
Mi volto, per un solo istante perché l’urto dell’aria è talmente forte che sembra strappare il bulbo della mia testa dal resto del corpo.
Ci sono tre grandi motociclette luccicanti e cromate che vengono avanti a testuggine sul nastro dell’autostrada.
«Ma allora non li hai seminati!» cerco di gridare da dietro per farmi sentire, con la bocca contro la sfera del casco.
«Non si può seminarli! Ormai gravitano su di te!» mi grida in risposta.
«Ma allora che cosa dicevi? Che bisognava inventarsi un diverso spazio di corsa?»
«Ce lo siamo inventato!»
«Allora non è servito! Sono ancora là!»
«Sarà sempre così, d’ora in poi! Però è servito a salvarti mentre stavano per entrare dentro di te. Tu adesso sei qui, sei ancora qui, sei ancora immortale!»
«E adesso cosa succede?»
«Succede che continueremo così, negli istanti a venire conquisteremo ogni spazio ponendoci in sempre nuove slogature di spazio dentro lo spaziotempo immobilizzato. E, ogni volta che ci raggiungeranno, ci inventeremo una nuova slogatura e un nuovo passaggio. Quell’istante che passa, che passerà tra due diverse irruzioni sempre più ravvicinate sarà d’ora in poi tutta la tua immortalità, la tua vita!»
Le tre motociclette volano alle nostre spalle, si allargano, si restringono, si tagliano la strada l’un l’altra, le loro ruote si sfiorano girando a velocità vertiginosa, sfuocate. Comincia ad apparire da lontano una galassia sterminata di luci.
«Che cos’è quella cosa?» domando.
«Un aeroporto.»
La motocicletta si inclina paurosamente da una parte e dall’altra, negli anelli lenti, lunghi, ascensionali, increati. Arriviamo di fronte all’ingresso di un terminal illuminato e gremito, anche se è notte, e le luci sono ancora separate e increate, anche le forme dei corpi e dei volti gettati avanti all’incontrario nella luce separata e increata.
«Forza! Forza!» mi grida la persona che mi ha trasportato fin qui sulla moto, balzando giù da una parte.
Balzo giù anch’io. Barcollo un po’, perché il mio precorpo è un po’ anchilosato per il vento e il freddo della corsa, mentre la persona che mi ha portato immobilizza la moto, apre febbrilmente il portacasco, tira fuori qualcosa, si sfila il casco, lo butta dentro.
Si mette a correre verso l’interno, tenendomi per mano. Con l’altra mano tiene quella cosa che aveva tirato fuori dal portacasco dopo avere bloccato la moto.
Giro la testa, correndo. Anche la persona gira la testa verso di me, senza smettere di correre a lunghe falcate, ancora serrata nella sua tuta luccicante e increata. Sbarro gli occhi, quelli che saranno i miei occhi: non è un uomo, è una vecchia.
«Che cosa c’è?» mi domanda continuando a correre. «Che cosa credevi? Cosa ti aspettavi?»
Non riesco a parlare. Fendiamo così la folla, quella che è stata una folla, che sarà una folla. Passiamo di corsa di fronte al check-in, senza neanche girarci, senza fermarci.
«Ho già i biglietti!» mi grida.
Corriamo verso gli imbarchi. Scorgo appena i capelli della vecchia che sventolano nella corsa, lunghi, bianchi, che le arrivano fino ai fianchi. Le barriere dei metal detector. Non ci fermiamo neanche lì, la vecchia apre la cerniera di una tasca, correndo, tira fuori un cartellino magnetizzato. I controllori si gettano indietro per farci passare. Io e la vecchia ci continuiamo a guardare con gli occhi sbarrati, correndo verso gli imbarchi. E intanto vedo con la coda dell’occhio, a una curva, che i tre entranti sono anche loro all’interno dell’aeroporto, sono fermi alla fila dei controlli al metal detector, si stanno disperando, stanno smaniando perché la fila va avanti piano, pianissimo, allungano il collo dalle parti per vederci mentre corriamo a grandi falcate verso le uscite a strapiombo sulle piste. Passiamo senza fermarci di fronte alla ragazza che controlla gli imbarchi. Ci fa passare anche lei, buttandosi indietro per farci spazio. Corriamo fuori. L’autobus è già partito. Corriamo attraverso le piste, fino a un aereo fermo, coi motori accesi, le luci spente. Due uomini in tuta stanno già staccando la scaletta. Ci corriamo sopra e intanto, su in cima, l’hostess che stava già chiudendo la portella dell’aereo si ferma un attimo, rallenta sempre più i suoi movimenti, li rallenterà, per farci passare.
Ci tuffiamo dentro l’aereo. Ci andiamo a buttare su due sedili appaiati. Guardiamo fuori. I due uomini in tuta hanno già staccato la scaletta dal ventre dell’aereo, mentre i tre entranti ci stanno correndo sopra. Arrivano fino in cima, si sporgono nella crepa di spazio che si è creata tra l’ultimo gradino della scaletta e l’aereo che sta già cominciando a spostarsi lungo la pista.
«Li abbiamo seminati!» dico girandomi verso la vecchia.
«No, è impossibile, ti raggiungeranno di nuovo» risponde.
Mi abbandono sul sedile. Chiudo per un istante gli occhi.
Che silenzio che c’è in questo aereo! Mi guardo attorno.
«Ma è tutto vuoto! Ci siamo solo noi!»
La vecchia sorride.
«Chi volevi che ci fosse!»
«Non c’è più neanche l’hostess...»
«Per forza!»
Continuo a guardare, con la testa girata verso le file dei sedili vuoti.
«Ma fanno viaggiare un aereo vuoto?»
«Faremo uno scalo. A quel punto salirà qualcun altro.»
Sbadiglia, sento le sue mascelle aprirsi e chiudersi scricchiolando. Anche le altre giunture di gambe e braccia serrate nella tuta lucente, delle lunghe mani ossute, delle falangi delle dita.
«Che cos’hai lì?» le domando indicando la cosa che tiene in mano dall’altra parte, che aveva tirato fuori dal portacasco della moto.
«È la mia bambola!» mi risponde.
La guardo. È una bambola, infatti. La tiene per mano. Ma tutta la sua testolina è aperta al centro, sfondata.
«Ma ha la bocca rotta, non ha la lingua!» mi accorgo.
«Gliel’hanno strappata.»
Resto immobile, contro l’imbottitura dello schienale, senza fiatare. L’aereo sta prendendo sempre più velocità lungo la pista. La vecchia comincia a giocare con la sua bambola, la tiene sulle ginocchia, la fa saltellare su e giù.
«Dove sta andando questo aereo?» le domando.
Non mi risponde.
«Perché non sono più muto?» provo a chiederle ancora.
«Perché lo sarai!»
Sento che l’aereo si sta separando di colpo dalla pista.
Siamo tutti inclinati all’indietro, immobilizzati.
«E tu chi sei?» le chiedo torcendo la testa di lato, per guardarla.
«Sono la tua madrefiglia.»
E intanto anch’io corro, correrò, precorrerò, al fianco del mio padrefiglio che tiene stretto per la rossa coda fiammante il suo gatto morto, verso dove non so, non saprò, ma verso di te, sempre verso di te, che non sei ancora te, con me che non è ancora me. E a un certo punto ti incontrerò, ti reincontrerò, per la prima volta, prima della prima volta, perché non c’è stata ancora la prima volta se non ci sarà mai una prima volta, se io non nascerò, se il mio padrefiglio non nascerà, se io non nascerò da lui, e lui da me, se tu non nascerai da me, e io da te, uno di fronte all’altra coi nostri corpi, precorpi, nudi, trasfigurati, immortali, quelli che noi sarà, presarà, rientreremo all’incontrario dentro la prima volta, io e te nel fiume seminale dei corpi di quella via di Chongquing, una di fronte all’altro, increati, immortali, guardandoci coi nostri occhi mai nati, anticipati, immortali, aperti nelle nostre teste, preteste, ci comprenderemo dentro la stessa visione, previsione, quella che c’è prima della visione, quella che vedono gli occhi prima ancora di essere occhi, che si sono separati violentemente dagli occhi, guardando all’incontrario, da dietro, da prima, da dietro gli occhi, da prima degli occhi. E io ti guarderò con questi occhi, e anche tu mi guarderà all’incontrario con i tuoi preocchi. E poi andremo e andremo e andremo e cammineremo lungo le vie piene di torri seminali e di occhi, preocchi, coi nostri corpi separati, inventati, cominceremo a conoscere, preconoscere i nostri arti, i piedi, le gambe che trasporteranno tutta la massa morbida dei nostri precorpi sorretti dalle cartilagini e dalle ossa non ancora inventate, a venire, le nostre teste ossee con le loro gocce seminali precerebrali, le dita delle nostre mani per la prima volta intrecciate, non ancora nate eppure intrecciate. Le nostre premani pulseranno l’una intrecciata all’altra come se stringessimo tutti e due con la mano un unico cuore separato e inventato. E tu mi guarderai e io ti guarderò. E poi arriveremo là, nella precasa che io mi sarò inventata per te, e tu per me. E tu mi spoglierai, e io ti spoglierò, tu spoglierai me che non è ancora me, come io te che non è ancora te. Tutte quelle fibre non ancora separate e inventate e quei fili tessuti che ci saranno attorno ai nostri corpi che non ci sono ancora, che ci saranno se noi saremo. L’uno di fronte all’altra, preconcepiti, immortali. E io ti prenderò tra le mani la testa, quella che sarà la tua testa. E tu mi prenderà tra le mani la testa. Le nostre labbra si toccheranno, quelle cose molli increate che sbucheranno fuori dalle nostre capsule ossee per andare a toccare le tue labbra, e tu le mie labbra. E tu mi accarezzerà, e io ti accarezzerò. E tu entrerà dentro di me, per far nascere te, per far nascere me, me prima ancora di me, dopo di te, te prima di te, dopo di te. E io sentirò il tuo corpo scavare dentro di me in cerca di te, in cerca di me, come quando si va a testa in giù dentro gli strati digestivi dell’acqua immobilizzata e increata, e si muovono le mani e le braccia e la testa dentro la massa gastrica che si immobilizza contro lo spaziotempo immobilizzato, e più si scende e più la goccia seminale delle nostre teste cerebrate e munite di occhi fa un tutt’uno con la massa seminale dell’acqua che diventa sempre più spessa, configurata, nello schianto che avviene al momento della separazione e dell’increazione, quando lo spazio si immobilizza, nel momento massimo dell’indistinzione, solo nel punto massimo dell’indistinzione avviene la separazione e l’increazione. E io sarò là, in quel punto là, aperta sotto di te che non sei ancora te, e tu dentro di me che non è ancora me. E io sentirò, presentirò i lunghi getti cerebrali roventi che si faranno strada dentro di me, prima ancora di essere dentro di te, e io dentro di me che diventerò me. Come nascerò? Come prenascerò? Come fa a separarsi quella cosa precerebrata da sé che non è ancora sé, per entrare e lacerare me che non è ancora me, tu dentro te prima ancora che te, all’incontrario che te, all’incontrario di me che non è ancora me, ma che è già per te prima ancora che te? E poi starai ancora per un po’ dentro di me, e poi uscirai da me e da te, tutto gonfio, scuro, luccicante, bagnato ancora di me che non è me, sarà me. E io rimarrò ancora per un po’ a gambe aperte vicino a te, separata, increata. E tu mi prenderai la testolina seminale increata, mi accarezzerai i capelli non ancora inventati. E io verrò sopra di te, con la bocca, la testa, le guance, contro il tuo torace che si solleva e si abbassa per l’aria che entrerà e uscirà da te prima ancora che te, quella che c’è già, che ci sarà già, che non è te, che non è ancora dentro di te, che è già immobilizzata dentro di te. Ti bacerò dove l’aria si separa da te, non è più te che non sei ancora te, se io sarò me. E ancora ti bacerò e ti accarezzerò, come può fare solo chi non è ancora sé. E allora tu mi dirai, predirai, con la testa vicino alla mia piccola testa non ancora configurata, tra i miei capelli non ancora inventati:
«Dove sei?»
E io ti risponderò:
«Sono qui.»
«Dove qui?»
«Qui con te, attaccata a te.»
«Dove sarai?»
«Sarò qui.»
«Vicino a me?»
«Lo sarò.»
«Sono dentro di te?»
«Lo sarai.»
«Sei immortale?»
«Lo sarò.»
«Sei immortale qui?»
«Lo sarò là.»
«Come farò a renderti immortale se non sono ancora mortale?»
«Lo sarai.»
«E allora adesso che cosa sarò? Può essere immortale quello che è prima che?»
«Solo quello lo sarà, se sarà.»
«Ma se non sarà?»
«Io sono qui.»
«E io è qui?»
«Tu è qui.»
«E allora, se io è qui e tu è qui, come fa a essere là?»
«Perché là è là.»
E allora lui si ribalterà, e io mi ribalterò, e lo sentirò ancora dentro di me che non è ancora me. E poi si separerà, e poi di nuovo immobilizzati, abbracciati. E poi di nuovo entrerà, spingerà, eiaculerà, increerà.
«Cosa ne sarà di noi?» ti dirò, mentre tu sarai ancora con la testa sopra il mio torace respirato, inventato, con le labbra gonfie, respirata, scopata.
«Sì, ma noi chi è?» mi dirai.
«Quello che sarà noi.»
«Ma adesso allora chi dice noi?»
«Quello che sarà noi.»
«Sì, ma da dove parla quello che dice noi?»
E allora le accarezzerò i capelli e poi il volto morbido e poi le labbra gonfie, baciate, increate.
«Tu adesso mi accarezzerà?» mi domanderà.
«Io ti accarezzerà.»
«E allora io ti bacerà.»
«E io ti stringerà, ti leccherà, ti inventerà.»
«E io ti dirà.»
«E allora poi anch’io ti dirà.»
«Se noi sarà qui, sarà là.»
«Prima di essere qui, di essere là.»
E poi ancora noi resterà là, prima di essere là, e poi dormirà, e poi di colpo ci sveglierà.
«Che cosa succederà?» tu dirà.
E un rumore forte arriverà. E noi ci butterà giù dal letto che ci sarà, se ci sarà. E ci vestirà, e poi fuggirà.
«Giù di qui!» tu mi dirà, per la scala di servizio perché dalla parte dell’ascensore e dal pavimento del corridoio arriverà un rimbombo di passi e di macchinari spostati, e poi uomini in tuta che ci sarà, che camminerà.
«Che cosa sarà?» chiederà.
«Sono quelli che poi verrà!» risponderà.
«E che cosa farà?» chiederà.
«Traslocherà! Tutti i mobili strapperà, per portare me là, perché io intanto è là. E tu allora verrà, e non mi troverà, e mi cercherà. Scappiamo prima che io sarà là!»
E mentre noi che sarà correrà giù per le scale di servizio, vedrà quelle tute bianche venire avanti, che verrà, e intanto tenere in mano quelle cose, che terrà.
«Che cos’è quelle cose che avrà?» noi domanderà.
«Pistole genetiche che terrà!» noi risponderà, se noi sarà là.
E poi giù a strapiombo lungo le scale, e poi balzerà nell’aria che ci sarà, nella notte che scenderà. E tutta la luce si accenderà, e noi allora andrà, correrà, tenendoci per mano noi correrà, nell’immortalità. E tutte le torri e le strade si illuminerà. E allora noi saremo là, non ancora là, non più là. Uno verso l’altra noi camminerà. E ancora non ci conoscerà. Nel fiume seminale camminerà. Ancora, non ancora, noi camminerà. E allora all’improvviso io ti vedrà, e tu mi vedrà. Per la prima volta noi ci vedrà. La tua gazzella ti apparirà, il tuo cervo profumato e inventato ti apparirà. E allora anche noi sarà. E sarà anche l’immortalità.
Uelen 7
La limousine continua ad andare, verso dove lei non sa, non saprà. Anche il padrefiglio sta correndo al suo fianco verso la propria nascita. Io invece sono Uelen 7, la mia voce vi arriva dal punto estremo del continente asiatico, a strapiombo sul canale di Bering. Dall’altra parte c’è la penisola di Seward, comincia l’Alaska. È da qui che 25.000 anni fa sono passati i primi uomini semighiacciati e ricoperti di pelli che hanno cominciato a discendere nel continente americano, quando si poteva camminare su questo braccio d’acqua indistinguibile dal resto delle terre ghiacciate per l’abbassamento e il congelamento degli oceani in seguito alla prima era glaciale, con i loro geni silenziosi, i cromosomi semighiacciati, i mitocondri, entrati in simbiosi con le loro cellule un miliardo di anni fa, discendenti degli australopitechi e delle ombre degli australopitechi separate violentemente da se stesse nello spaziotempo immobilizzato e ghiacciato. Eppure ancora, anche qui, anche qui dentro, quando un solido viene riscaldato le sue molecole vibrano per l’energia aggiunta e spingono verso l’esterno, contro i confini dello spazio immobilizzato in cui sono rinchiuse e costringono la sostanza a espandersi. Come negli ammassi globulari, nelle aggregazioni dense di stelle. Tutto il mondo, tutto l’universo è immobilizzato, divaricato, incendiato. Le ombre stanno bruciando. Sono loro l’unica luce che si vede ancora, qui dentro. Alla loro luce riusciamo ancora a vedere Shanghai 5 e il padrefiglio che continuano a viaggiare nella limousine oscurata. Nessuno parla. D’un tratto Shanghai 5 si gira verso il padrefiglio, perché le sembra di avere sentito qualcosa muoversi. È il gatto morto, tenuto per la coda dal padrefiglio, che si è girato su se stesso e sta morsicando la mano che lo tiene serrato.
«Guarda, ti sta mangiando la mano!» dice Shanghai 5 al suo padrefiglio.
«Lo so» le risponde il padrefiglio, tranquillo, «deve pur mangiare qualcosa!»
«Ma come fa a mangiarti la mano, se è morto?»
«Si vede che adesso è vivo.»
«Ma come fa a essere vivo, se non è ancora morto?»
«Si vede che è stato morto.»
«Ma quando è morto? Prima di noi o dopo di noi?»
L’autista continua a guidare in silenzio, le sue pupille fisse sulla strada brillano nello specchietto retrovisore, nella penombra. Adesso sono tutti in silenzio. La limousine continua a correre nella notte, increata. Dopo un po’, a poco a poco, lentamente, rallenta. Si ferma.
«Scendi!» ordina il padrefiglio a Shanghai 5.
«Dove siamo?» gli domanda lei, madrefiglia.
Il padrefiglio non le risponde.
«Se non me lo dici non scendo!» gli dice Shanghai 5, gli dirà.
«Se tu non scendi io non ti faccio nascere!» la minaccia il padrefiglio, la minaccerà.
Scendono tutti e due dall’auto. Adesso si trovano, si troveranno in una piccola stazione di servizio in un luogo lontano da ogni città, da ogni luce, all’interno di una piccola pista fra i boschi da cui si levano in volo degli elicotteri.
Il padrefiglio si sgranchisce le gambe, le braccia, mentre il gatto morto continua a morsicargli la mano, tutto rovesciato su se stesso.
Camminano verso la porta dei servizi.
Entrano.
«Va’ a fare la pipì!» le ordina il padrefiglio.
«Non mi scappa!»
«Va’ lo stesso! Approfittane. Non so quando potrai farla ancora!»
«Ti dico che non mi scappa!»
«Però ti scapperà!»
«No, non mi scapperà!»
«Sì che ti scapperà!»
Non c’è nessun altro dentro il gabinetto, solo quella luce immobilizzata, separata e inventata, contro le mattonelle, dentro gli specchi immobilizzati che sovrastano i lavandini.
«Forza, bambina» le dice il padrefiglio, con dolcezza, «dovrai farla, la pipì, se nascerai!»
Allora Shanghai 5 entra in uno degli stanzini, si abbassa con un unico gesto jeans, mutande e collant, si siede sopra la tazza.
«Brava! Brava!» sente che sta dicendo da fuori il suo padrefiglio quando comincia a venire il rumore della sua pipì che cade dentro la tazza. «Lo vedi che sei brava, che fai la pipì!»
Shanghai 5 si alza, si passa tra le gambe un segmento di carta igienica, se la passerà.
Esce.
Il padrefiglio è immobile di fronte allo specchio, il gatto morto continua ad avventarsi con la testa contro la sua mano tutta morsicata e mangiata, si vedono già qua e là i tendini allo scoperto.
«Molla subito quel gatto!» gli ordina Shanghai 5, madrefiglia. «Ti sta rovinando la mano!»
«Non posso!»
«Perché non puoi?»
«Non potrò!»
Però un secondo dopo si mette a gridare rivolto al gatto: «Brutto! Cattivo!». E poi lo sbatte violentemente contro le piastrelle del muro, una volta, due volte. La testa del gatto sbatte forte, le piastrelle si sporcano di sangue, anche il muso, le orecchie, i dentini, le labbra.
«Per questo l’ho preso rosso!» le dice il padrefiglio respirando violentemente per lo sforzo e ridendo. «Così si vede meno il sangue sul muso quando lo devo punire!»
Il gatto morto adesso pende tramortito dalla sua mano, gocciola sangue dalla bocca, sul pavimento. Il padrefiglio lo guarda, lo guarderà.
«Brutto! Così per un po’ non mi mangi!» dice al gatto.
Si sente solo il frusciare delle luci nel locale deserto.
«Adesso vacci tu a fare la pipì!» ordina Shanghai 5 al padrefiglio, madrefiglia.
«No, non ci vado!»
«Vacci, ti dico!»
«No, no, non mi scappa!»
«Niente storie! Ti dico che ti scappa, ti scapperà!»
Gli indica lo stanzino da cui è appena uscita. Il padrefiglio comincia a piangere, però entra nello stanzino. Dopo un po’ Shanghai 5 sente che sta facendo la pipì.
«Bravo, bravo!» lo consola da fuori.
Il padrefiglio esce. Piagnucola ancora, ha i calzoni un po’ bagnati sul davanti.
«Ecco, non sei stato attento! Quante volte te lo devo dire! Non hai scosso bene il pisellino prima di rimetterlo dentro, ti sei bagnato tutto!»
«Per forza!» continua a piagnucolare il padrefiglio. «Ho dovuto fare la pipì con una mano sola perché con l’altra tenevo il gatto!»
Escono tutti e due dal gabinetto, percorrono fianco a fianco il breve tratto che li separa dalla pista da cui si alzano gli elicotteri. Il padrefiglio tiene il gatto con una mano, con l’altra Shanghai 5. C’è molta gente in attesa sulle piste, fanno ressa per entrare negli abitacoli degli elicotteri, le eliche cominciano a girare più forte, sempre più forte, più forte, gli elicotteri si sollevano nel cielo buio, tra i boschi, si alzano, si alzeranno, uno dopo l’altro, nella notte, nel buio.
«Dove vanno tutti quegli elicotteri?» domanda Shanghai 5.
Il padrefiglio non risponde.
«E l’autista non viene con noi?» gli domanda ancora.
«No, lui non nascerà.»
Il padrefiglio la trascina verso uno degli elicotteri con la portella spalancata, trasparente, in attesa. Stanno già entrando nel turbine d’aria prodotto dalla grande elica che ha cominciato a girare ancora più forte, con le teste abbassate, i vestiti che volano. Un istante dopo sentono alle loro spalle un rumore di passi, di grida. Il padrefiglio si volta. Anche lei si volta.
«Le entranti!»
Stanno correndo all’impazzata, nude, verso la pista, per gettarsi a capofitto nell’abitacolo del loro elicottero che sta per partire.
Il padrefiglio le affronta, alza il braccio, comincia a mulinare nell’aria il gatto morto, che morirà. Le colpisce sulla testa, sul volto. Le entranti si disperdono per qualche istante, quanto basta a loro due per gettarsi all’interno dell’elicottero che immediatamente spinge al massimo il motore. L’elica ruota violentemente nello spazio immobilizzato, si alza da terra, si solleva sempre più, comincia a spostarsi in avanti, inclinata, nella notte, nello spazio immobilizzato.
«Vieni qui, bambina! Vieni qui, mammina!» le dice il padrefiglio prendendole la testa con la mano libera e posandosela sulla spalla.
Shanghai 5 abbandona la testa sulla sua spalla.
«Dove mi porti?» gli chiede.
«Da lui» le risponde, le risponderà.
Intanto anche Chongquing 3 sta volando con la sua madrefiglia nell’aereo vuoto. Guarda fuori dal finestrino, solo buio immobilizzato. Nessun altro passeggero, non un’hostess, penombra, tutti gli altri sedili vuoti.
«Dove mi porti?» chiede anche lui alla sua madrefiglia, che ha appoggiato la testa sulla sua spalla, e intanto tiene ancora in mano la sua bambola dalla lingua strappata.
«Da lei» gli risponde la madrefiglia, gli risponderà.
Chongquing 3 si gira di nuovo verso il finestrino. «Come farà a volare questo aereo, se lo spazio è immobilizzato?» si domanda, si domanderà. «E le luci a spostarsi attraverso lo spaziotempo immobilizzato? Solo nello spaziotempo immobilizzato le luci possono spostarsi, gli aerei volare, le ombre bruciare, e io andare, verso di lei andare, prima di me, di essere me, verso te prima di essere te, solo perché non sono ancora me posso volare verso di te, perché tu non sei ancora te. Se no come farebbero gli aerei a volare, come farei a volare verso di te, se io fossi già me, e tu fossi già te?»
E intanto, mentre ero trasportato dalla corrente sempre più lontano da Sydney, e passavo da quella dell’Australia orientale a quella antartica e poi a quella di Humboldt e poi venivo sbalzato nella controcorrente equatoriale e poi salivo attraverso la corrente della California e poi quella del Nord Pacifico e attraversavo con il mio corpo gelato lo stretto di Bering, fra quei due continenti separati e immobilizzati e le loro ombre continentali separate, immobilizzate e ghiacciate contro il muro dello spaziotempo immobilizzato, e infilavo la corrente Oia Scrivo o quella delle Curili, quando ripassavo da lì quasi privo di conoscenza, e poi la Curo Scrivo, e poi venivo ripreso dentro una corrente che mi riportava verso nord, più all’interno, prima di risalire verso la Kamčatka, e guardavo di tanto in tanto verso le coste, quando l’acqua saliva dal basso e mi trasportava più in alto sulle creste delle onde immobilizzate e gelate, e la mia testa scaturiva tutta bagnata e increata dall’elemento liquido che mi portava, e guardavo tramortito le grandi masse del Mar Rosso separato e immobilizzato e i resti sfasciati della flotta del Kublai Khan che galleggiavano qua e là dopo avere cozzato contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, e poi il mio corpo veniva sollevato di nuovo da un’altra onda, i miei occhi si riaprivano per un po’, semiassiderati, guardavo ancora di tanto in tanto verso altre terre e altre coste, quando l’acqua saliva paurosamente dal basso e mi trasportava in alto sulle creste, verso le luci lontane di altre coste che si spostavano nella notte e stavano andando anche quelle chissà dove contro il muro di tempo e spazio immobilizzati e riuscivo a scorgere di tanto in tanto, tra le mille e mille luci delle auto che si muovevano sulle autostrade che incombevano sugli oceani anche quelle della limousine che stava trasportando, che sta trasportando, che starà trasportando Shanghai 5 e il suo padrefiglio verso la loro nascita. E poi quelle della macchina delle quattro entranti che hanno cominciato a gravitare su di lei. E poi la strada curvava verso l’interno. Vedevo dopo un po’ levarsi nella notte un elicottero dalla carlinga illuminata nel buio, persino la sua grande elica immobilizzata e sfuocata, il tubo di flusso dentro il quale viene pompata l’aria immobilizzata e increata, i vortici liberi elicoidali e persino le molecole che attraversano il disco dell’elica caricando le proprie velocità lineari. E anche, in mezzo a tutte quelle altre luci immobilizzate e inventate, quelle della motocicletta che trasportava Chongquing 3 e la sua madrefiglia, che trasporta, che trasporterà, e poi quelle delle motociclette dei suoi entranti e poi quelle dell’aereo che si leva in volo poco dopo dalla pista dell’aeroporto, che si solleva nell’aria, si solleverà, virando sempre più verso l’interno, chi lo sa verso dove, chi lo sa perché stanno viaggiando tutti quanti verso l’interno, mi domandavo mentre ero risucchiato da una corrente che saliva di nuovo verso l’alto, e poi dal vortice delle Curili. Chi sono? Chi saranno? Dentro dove sono? Dove stanno convergendo, staranno?
Semarang 8
Isola di Giava, Indonesia, formata da corrugamenti di terre emerse e vulcani che si sono aperti nello squarciamento della terra contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Matrice del genere umano. Sono nati qui il pitecantropo eretto di Trinil, il neandertaloide di Solo, il protoaustrale di Wadjak Sawah. Il paese dei corpi immobilizzati e inventati, e poi del regno sumatrano di Malayu e di quello di Srivijaya, che dominava gli stretti di Malacca e della Sonda e le sue correnti marine e poi del regno sivaita di Sanjaya e poi della dinastia giavanese dei Sailendra discendenti dai sovrani del regno indocinese del Fu-wan, artefici del colosso del Borobudur immobilizzato e inventato contro lo spaziotempo immobilizzato e inventato, montagna architettonica a nove piani piena di scalinate immobilizzate e terrazze circolari e quadrate, fino alla cuspide della stupa immobilizzata e inventata contro lo spaziotempo immobilizzato e inventato.