Io adesso sono qui, sarò qui, di fronte al mio terminale, girato verso il mare immobilizzato di Giava. Lo vedo da dietro la mia finestra che mi divide dallo spazio immobilizzato e dalla mia ombra che si sposta ciecamente attraverso lo spaziotempo incendiato, immobilizzato e inventato. Loro intanto sono là, sono ancora là, dove adesso c’è il brief, dove credono che ci sia il brief. Sono ancora tutti là dove li avevamo lasciati, in quel pisciatoio, i riflettori accesi, in silenzio, immobili, immobilizzati. Il Matto è ancora in piedi contro la conchiglia del suo pisciatoio.
«Si potrebbe usare anche una giraffa...» suggerisce ancora uno dei tecnici del suono a quello che gli si sta avvicinando per mettergli la cravatta.
«Meglio di no. Poi magari si vede nell’inquadratura.»
Si avvicina al Matto, che è ancora lì con la cerniera mezza su e mezza giù. Gli mette con cura la cravatta.
«Si comincia!» esclama alla fine.
Il Matto tira fuori l’uccello, ancora tutto spiegazzato per la pressione delle mutande. Non ha neanche bisogno di perdere tempo a scappellarsi prima di cominciare, perché è circonciso.
Chiude per un istante gli occhi, è scosso con violenza e da parte a parte da un brivido, come sempre quando la si tiene per molto tempo e la si può finalmente lasciar andare.
Un istante dopo comincia improvvisamente a pisciare e a cantare.
Canto del Matto
Non ho quasi mai parlato, qui dentro, non ho mai cantato. Ho lasciato cantare gli altri. Me ne sono stato quasi sempre in silenzio, nascosto, assente. Anche per me spazio e tempo si sono immobilizzati. Anch’io sono stato separato violentemente dalla mia ombra. Non mi resta che presentarmi direttamente per quello che sono, all’inizio di questo canto: il mio nome è Antonio Moresco, a questo punto, qui dentro. Sto scrivendo da molti anni quest’opera che tutti rivendicano come propria. Adesso ho cinquantotto anni. Non credevo di arrivare a questa età. Non ero stato programmato, non ci ero portato. Volevo solo crepare. Mi sono inventato degli azzardi continui, dei sogni, per poter continuare a vivere. Anche se volevo solo crepare. Una parte di me è stata costretta a vivere, in questa epoca spaventosa, immobilizzata e creata. Un’altra parte voleva solo crepare. È così che sono stato dentro la vita, e anche dentro quella cosa che è stata chiamata letteratura: per farla vivere e per farla crepare. Per farla crepare e per farla vivere. È questa lacerazione che ho portato, ho riportato e incarnato anche dentro la letteratura.
La mia testa è da vecchio. Perdo i capelli, la barba diventa sempre più ispida e bianca, ho un occhio semichiuso e l’altro aperto, sbarrato. Ma il resto del mio corpo è ancora magro e glabro come quando ero un ragazzo. Soffro di emicranie, accecamenti, vertigini, insonnie, ischemie cardiache, cerebrali, perdita di conoscenza, dolori alle articolazioni, prenatali, mestruali. Ho difficoltà a respirare, perché il setto nasale è storto e deviato. Ho una parte del cervello che non funziona bene. Non riesco nemmeno a tagliarmi le unghie della mano destra con la sinistra. Mi si è formata una piaga al culo, per tutto il tempo che sono stato seduto a scrivere questo libro. Ci spalmo sopra della pomata, cerco di farla cicatrizzare con uno spray a base di argento metallico. Niente da fare. Però ci sono anche delle buone notizie: cazzo, ho ancora tutti i miei trentadue denti in bocca!
È questo tipo qui che, per molti anni, giorno dopo giorno, a cavallo di due secoli e di due millenni, si è seduto a scrivere il libro che avete davanti agli occhi. Ho lasciato passare un po’ di tempo prima di ricominciare, dopo avere finito la seconda parte, come avevo fatto anche dopo avere finito la prima, per conquistare un diverso rapporto con il tempo immobilizzato, per spietatezza nei confronti di me stesso, per tormentarmi, per lacerare continuamente il tessuto narrativo e i suoi automatismi, che altrimenti vanno avanti orizzontalmente per conto proprio e tu credi di essere dentro qualcosa e invece sei dentro qualcos’altro, per stare sempre dentro lo strappo, la lacerazione, il passaggio, e sentire sull’intera estensione del mio corpo inerme il dramma della nascita di un altro corpo. Riuscirò mai a finirlo? mi chiedo. Perché mi prendono ansie, paure, in questi giorni, come sempre ogni volta, ma questa volta è peggio, perché non ho trentasei anni, come quando ho cominciato Gli esordi, e nemmeno quarantasei, come quando ho cominciato la prima parte di questo libro. Adesso ne ho cinquantotto, ve l’ho già detto (cazzo, già cinquantotto!), e il mio corpo è più fragile ancora di allora, e qui invece c’è bisogno, c’è sempre stato bisogno, e adesso ancora di più, se possibile, di tutta l’inermità e l’integrità e l’incandescenza per portarlo fino alla fine del suo giro d’orbita. Devo rimanere tranquillo, disinteressato, ostile, dentro questa nuova configurazione di spazio e tempo. E poi, e poi, e dopo, e dopo... se ci sarà un dopo, se ci sarà ancora il tempo, mi getterò a capofitto dentro qualcosa che sto già cominciando a fantasticare, e allora tutto sarà portato alla sua anticipazione finale e al suo compimento, ogni cosa coinciderà con se stessa, brucerà dentro un’unica fiamma increata, sarà alla fine un movimento unico, un istante unico, una cosa sola.
Sono tornato dalla Germania pochi giorni fa. Città bombardate e ricostruite, irreali. Sono andato là per presentare Gli esordi, che è stato tradotto in quella lingua. Il libro dove comincia questo rallentamento e questa immobilizzazione e questo fronteggiamento. La bolla che poi si spacca. E tutto comincia a irrompere e a turbinare, tutto quello che sta succedendo ancora e sempre, qui dentro. Dove appare per la prima volta il Gatto, il mio Gatto, il nostro Gatto. Mentre suona l’armonio nella chiesina nuova, ed è pomeriggio inoltrato, mi pare, la luce è bassa, la giornata sta finendo, si vede il buio ispessirsi sempre più dietro i finestroni della sala studio del seminario. Tutta la vita compressa in un unico punto. Molle, buio, schiacciato nello stesso frantoio con l’intera massa atomica dell’universo rimpicciolito al punto massimo della sua immobilizzazione, concentrazione e dolore. E io allora mi metto a scrivere incontrollabilmente quella cosa che non si sa cos’è, che ho continuato a scrivere per tutto il tempo, che sto scrivendo anche adesso. E poi lui arriva fulmineamente dalla chiesina, mi sorprende mentre sono ancora chinato su quel piccolo foglio violato. Non mi dice niente per giorni e giorni. Esplode alla fine in quella risata incontrollabile, in refettorio, nella chiesa, nel dormitorio, durante il sonno, persino, per giorni e giorni, con le lacrime agli occhi. Quella risata spaventosa e straziante che non è ancora finita, che abbiamo sentito risuonare, che sentiremo ancora risuonare ancora e ancora, qui dentro.
Ho attraversato coi treni città risorte e inventate per allestirci la vita, da cui spuntavano cuspidi di cattedrali calcificate, di torri. E intanto mi assentavo, pensavo, fantasticavo. Io, adesso, qui. In questo continente e in questo pianeta immobilizzati e oltrepassati, da uno stato di solitudine e di potenza assolute. Prendendo la parola tramite questa piccola lingua anch’essa immobilizzata, oltrepassata e venduta. Però grande, alta, dolce, elegante, volgare, lirica, fluviale e forte come solo la lingua russa scopata dai suoi grandi scrittori ha saputo essere. Se ci si entra dentro senza speranza come in una casa disabitata, e la si scopa a fondo come l’ultimo corpo creato e la si riempie del proprio seme buio, disperato, rovente. Da questo piccolo paese oltrepassato e venduto, dominato da caste economiche e oligarchie incontrollabili e criminali, condannato a questo ruolo servile e senza speranza nell’imbuto della storia immobilizzata. Muovendomi attraverso questa misera cosa cui è stata ridotta la letteratura, che invece è una fessura, una cruna attraverso la quale una nuda voce increata può ancora parlare alla propria specie arrivando fino alle sue strutture più profonde e più esplosive e segrete, nella generale e portentosa chiusura di spazi della vita biologica, sociale e mentale dell’uomo, se non sta al suo posto, se si carica nel suo inarrestabile andare di ogni possibilità e potenzialità, di ogni tensione e invenzione e precognizione e presenza e pensiero, se si apre a fondo, si lacera, si spalanca, si squarcia e va a esplorare, a occupare e a forzare in questo incontenibile e scaraventato movimento anticipato e increato la dimensione infinitamente più vasta in cui è contenuta e serbata.
Intanto, in questo stesso momento, il nostro Chongquing 3 e la nostra Shanghai 5 stanno andando con i loro padrefiglio e madrefiglia verso la nascita, anche loro padrefiglio, madrefiglia. Shanghai 5 è sull’elicottero col suo padrefiglio che tiene il gatto morto e insanguinato sulle ginocchia. Chongquing 3 sull’aereo con la sua madrefiglia che tiene per mano la sua bambola dalla lingua strappata.
«Quando sarò?» domanda Chongquing 3 alla sua madrefiglia.
«Quando nascerai, se sarai.»
E intanto anche Shanghai 5 domanda al suo padrefiglio, domanderà, sull’elicottero che si sposta nel buio verso dove ancora non sa:
«Perché io e Chongquing 3 non riusciamo a incontrarci?»
«Perché non siete ancora nati, non siamo.»
«Ma perché non siamo?»
«Perché lo spazio si è immobilizzato.»
«Ma allora che cosa siamo?»
L’aereo continua a volare, l’elicottero continua a volare, nella notte, nel buio, verso una zona dell’interno ancora sconosciuta ma convergente, perché le loro due traiettorie sembrano muoversi come due raggi verso un unico centro.
«Dove andiamo, se andiamo?» chiedono Chongquing 3 e Shanghai 5 ai loro madrefiglia e padrefiglio.
«Là!»
«Dove là?»
«Dove sarà, se sarà.»
Non sanno, non possono ancora sapere, non potranno sapere, neanche se poi saranno, sapranno, che sono tutti quanti, Chongquing 3, Shanghai 5, i loro padrefiglio e madrefiglia e i loro entranti e le loro entranti, degli spermatozoi lanciati lungo le correnti seminali che non hanno ancora trovato un ovulo da penetrare e da fecondare, e che però già sognano nelle loro testoline seminali increate, immaginano e prefigurano le loro possibili vite future e le collusioni e gli incontri che li faranno nascere dall’altra parte del muro di tempo e spazio immobilizzati e le loro prefigurazioni e irradiazioni sempre più anticipate e prefigurate e la loro immortalità e preimmortalità.
E l’aereo vuoto, con due soli passeggeri a bordo nella penombra, a poco a poco scende di quota, segno che si sta preparando ad atterrare da qualche parte. La voce del pilota all’altoparlante sta comunicando di prepararsi all’atterraggio, di allacciarsi le cinture di sicurezza, e allora vuol dire che c’è almeno un pilota da qualche parte, o perlomeno la sua voce registrata, la sua prevoce, mentre qualcuno da qualche altra parte sta inviando gli impulsi che guidano l’aereo a distanza, lo guideranno. Si allacciano tutti e due le cinture di sicurezza, la madrefiglia si posa sopra il ventre la sua bambola dalla lingua strappata, avvolge anche quella con la cintura di sicurezza. Mentre l’aereo scende, scende sempre più, chissà dove, nella notte nera, nel prebuio che ci sarà, se sarà. Anche l’elicottero intanto ha cominciato a scendere. Shanghai 5 e il suo padrefiglio si guardano nella penombra, il gatto morto sulle ginocchia del padrefiglio comincia a svegliarsi, si sta leccando il sangue secco sui peli del muso, si leccherà. L’aereo e l’elicottero si stanno abbassando tutti e due sulla stessa pista deserta, si vede dall’alto un reticolo di luci che segnano altre piste deserte, solo quelle file di preluci che corrono sull’asfalto. Poi i tonfi delle ruote dell’aereo e dei pattini dell’elicottero che sbattono contro il piano della pista immobile, immobilizzato. Chongquing 3 e la sua madrefiglia, Shanghai 5 e il suo padrefiglio si guardano attorno nell’abitacolo deserto dell’aereo, nella sfera in plexiglas dell’elicottero. Anche fuori è tutto deserto, non esiste aeroporto. Solo qualche fila tratteggiata di luci che delimita alcune piste nel buio, che delimiterà. Provano tutti e quattro ad alzarsi, vanno a spalancare il portello dell’aereo, dell’elicottero, perché non c’è nessun altro a farlo, e anche il pilota dell’elicottero non c’è più, se mai c’è stato, e allora vuol dire che anche l’elicottero era pilotato a distanza o che anche quello che sembrava un pilota era in realtà un prepilota. Guardano fuori, le piste deserte, la prenotte nera. Però, a guardare bene, c’è un piccolo aereo fermo a poca distanza, con tutte le luci accese all’interno, il portello già aperto, la scaletta posizionata.
«Dobbiamo salire là!» dicono il padrefiglio e la madrefiglia a Shanghai 5 e a Chongquing 3. «Ci aspetta il nostro ultimo viaggio.»
Chongquing 3 e Shanghai 5, il padrefiglio, la madrefiglia, il gatto morto tenuto per la coda che continua a leccarsi i peli incrostati di sangue rovesciandosi su se stesso, la bambola dalla lingua strappata, si dirigono tutti verso il piccolo aereo fermo in attesa nella pista deserta. Chongquing 3 e Shanghai 5 si vedono improvvisamente, mentre si avvicinano allo stesso aereo che aspetta col portellone aperto e le luci accese nel buio. Eppure continuano a camminare come se niente fosse, per mano ai loro madrefiglia e padrefiglio, senza farsi un cenno, senza accelerare il passo, senza corrersi incontro.
«Perché, adesso che finalmente ci rivediamo, non ci corriamo incontro, non ci abbracciamo?» chiedono Chongquing 3 e Shanghai 5 ai loro madrefiglia e padrefiglio.
«Perché non vi siete ancora visti la prima volta, perché ancora non vi conoscete, perché non vi siete ancora incontrati, non siete ancora nati.»
«Ma, se è così, perché prima ci conoscevamo, ci cercavamo, ci amavamo, ci scopavamo, e adesso invece non ci conosciamo?»
«Perché adesso sapete che non vi conoscete, non siete.»
«Ma perché adesso sappiamo?»
«Perché questa è l’ultima parte del viaggio, che sarà.»
«Ma che viaggio è questo? Per andare dove?»
«Per andare dove noi sarà, se sarà, dove noi nascerà, noi ci incontrerà, ci conoscerà, se sarà. E allora noi finalmente ci riconoscerà, correrà, abbraccerà. E se noi ci incontrerà allora noi nascerà, e se voi nascerà anche noi nascerà, immortalerà.»
Sono ormai vicinissimi alla scaletta che porta nel ventre del piccolo aereo. Salgono tutti e quattro, in fila, senza salutarsi, senza farsi un cenno, senza guardarsi. Salgono, un gradino dopo l’altro, entrano nel ventre del piccolo aereo immobile sulla pista deserta, nel buio, nella prenotte. Anche l’interno dell’aereo è deserto. Si vanno a sedere in silenzio molto lontani gli uni dagli altri, Chongquing 3 e la sua madrefiglia da una parte, Shanghai 5 e il suo padrefiglio dall’altra. Se ne stanno immobili ai loro posti, immobilizzati. Non si guardano neanche con la coda dell’occhio, per vedersi mentre ancora non sono. Il gatto morto ha finito di leccarsi il pelo incrostato di sangue, sta ricominciando a morsicare e a masticare la mano del padrefiglio che lo tiene per la coda.
«Guarda, ha ricominciato a mangiarti la mano!» gli dice Shanghai 5.
«Per forza!» risponde tranquillamente il padrefiglio. «Ha finito il sangue!»
Dalla cabina di pilotaggio non vengono voci. La tendina è tirata. Però si sentono i suoni e i ticchettii delle apparecchiature di volo comandate a distanza, da chissà dove, che stanno svolgendo le operazioni di controllo che precedono il decollo. Non si sente nient’altro, non si sentirà.
Invece un secondo dopo arriva da fuori un rumore di passi concitati, di grida. Dall’estensione della pista deserta, poi dalla scaletta ancora accostata all’aereo, che rimbomba nel buio.
«Che cosa sta succedendo, succederà?» domandano Chongquing 3 e Shanghai 5 alla madrefiglia e al padrefiglio, allarmati. «Proprio adesso che staremmo partendo, nascendo!»
Irrompono nell’aereo sette persone, i tre entranti e le quattro entranti completamente nude, impennate sugli alti tacchi. Si guardano attorno, ansimando. Cercano con gli occhi Chongquing 3 e Shanghai 5, con gli occhi che avranno. Quando li scorgono sui loro sedili, immobili nell’aereo deserto, esultano tutti e sette sollevando le loro quattordici braccia. Staccano a calci la scaletta dal ventre dell’aereo in partenza, si buttano tutti e sette contro il portellone, lo chiudono. Continuano a sparargli contro calci anche quando è già sigillato, con le scarpe da ginnastica scalcagnate, con quelle di vernice dagli alti tacchi.
«Gli entranti! Le entranti!» si allarmano Chongquing 3 e Shanghai 5, immobilizzati. «Come avranno fatto ad arrivare fin qui?»
«Hanno preso un altro aereo, un altro elicottero» li tranquillizzano il padrefiglio e la madrefiglia. «Loro non possono che gravitare attorno a voi, attorno a noi!»
Però un secondo dopo il padrefiglio e la madrefiglia scoppiano a piangere, e allora sono Chongquing 3 e Shanghai 5 a doverli tranquillizzare. Gli fanno delle carezze, gli puliscono il moccio col fazzoletto.
Gli entranti e le entranti stanno ancora tirando calci contro il portellone. Verificano con una selva di quattordici mani e di settanta dita che sia ben sigillato. Poi, finalmente, si girano verso il resto dell’aereo, si accertano ancora una volta che Chongquing 3 e Shanghai 5 siano ancora seduti ai loro posti, li fissano coi loro quattordici occhi accesi, che si accenderanno. Imboccano il corridoio, si avvicinano sempre più irresistibilmente ai posti dove sono seduti. Gli entranti coi loro corpi elastici, le entranti oscillando nude sugli alti tacchi. Una di loro zoppica perché, a forza di tirare calci contro il portellone, le si è staccato un tacco. Girano tutti e sette le teste verso di loro, i loro quattordici occhi che guarderanno, allungano i loro sette colli per avvicinarsi sempre più a Chongquing 3 e a Shanghai 5 ancora seduti immobili ai loro posti, immobilizzati. Girati a corolla in modo da poterli vedere da ogni punto diverso dell’aereo. Allungano sempre più le braccia verso di loro, avanzano e arretrano quasi di corsa lungo il corridoio. Il padrefiglio si alza in piedi, comincia a mulinare nell’aria il gatto morto per tenerli a distanza. Quelli allora si allontanano un po’, poi si avvicinano ancora, esultando con tutte le loro quattordici mani e quattordici braccia e settanta dita, in quel piccolo spazio sigillato e senza via di fuga nella traiettoria separata del volo.
«Adesso cosa succederà?» domanda allarmato Chongquing 3. «Entreranno dentro di noi! Non abbiamo scampo! Come faremo a sfuggire ancora agli entranti, in questo piccolo spazio chiuso, sigillato da tutte le parti dove adesso si stanno già accendendo i motori, l’aereo sta già cominciando a rollare sopra la pista, sempre più forte, più forte, le ruote si stanno già separando violentemente dalla pista immobilizzata, l’aereo decolla, decollerà, si inclina paurosamente nell’aria, si inclinerà, e poi volerà, volerà. E noi siamo tutti qui, imprigionati assieme a quei sette corpi tutti pieni di gambe e di braccia e di teste che vengono avanti per entrare dentro di noi in questa capsula sigillata che vola, che volerà, se sarà...»
«Non ti preoccupare, non potranno entrare dentro di te» gli risponde la madrefiglia, tranquillamente.
«Perché?»
«Perché dopo che uno spermatozoo è penetrato nell’ovulo nessun altro spermatozoo potrà più entrare dentro lo stesso ovulo.»
«Ma se noi non siamo ancora nati, non ci siamo ancora incontrati! Come ho fatto a penetrare dentro il suo ovulo?»
«Però ci penetrerai, se sarai!»
L’aereo continua a volare, continuerà. Anche Shanghai 5 è immobile sul sedile, vicino al suo padrefiglio che tiene a bada di tanto in tanto le entranti che però adesso si sono sedute, come anche gli entranti, ma si sono seduti vicino, sempre più vicino, si spostano continuamente per avvicinarsi sempre più alle loro poltrone, e allungano da lì le mani, le testoline seminali munite di occhi, di preocchi, e intanto dentro di lei che non è ancora lei Shanghai 5 pensa, penserà: «Dove starà volando questo aereo? Dove ci porterà quest’ultimo viaggio? Non si vede niente, il cielo è nero, tutto nero, sarà, come se non ci fosse ancora, non ci fosse più. Solo il bagliore intermittente delle luci di posizione che evidenziano per un istante la pancia dell’aereo, le ali, e poi si spengono, e poi si accendono ancora e poi si spengono, ancora prima, non ancora, immobilizzate, increate. Dove andranno anche quelle lucine? E noi dove andrà? Andrà ancora là, prima che là, che comincerà? Prima che io era là, che lo incontrerà, che lo abbraccerà? E lui nella mia pancia entrerà. E mi romperà. E mi nascerà. Le pareti immobilizzate del mio ovulo mi sfonderà. E mi immortalerà. Ma prima ancora il suo padrefiglio era là, mi aspettava là. Il suo padrefiglio era già arrivato là, prima che là. Si è messo di fronte a me, si metterà, la sua madrefiglia che era già là, perché lui potesse essere là, immortalare là. Prima ancora che io e la mia madrefiglia scappava dalla mia casa lui era già là. Prima ancora che la mia madrefiglia arrivava là lui era già là, che aspettava, che sta aspettando, che sta aspetterà. Sono entrata nella mia precasa e l’ho trovato là, seduto sulla sua carrozzella che sarà. Tutto questo Chongquing 3 ancora non lo sa, se saprà, se immaginerà, se sarà, che il suo padrefiglio era là. “Ci sono io! Ci sono prima io!” mi gridava. “Prima che lui, che ci possa essere lui!” “No, no!” gli ho risposto, e intanto tremavo, tremerò. “Prima c’è lui! Tu sei dopo! Che sarà! Il padrefiglio è lui, anche di te, che sarà!” “Lui non c’è se non è me!” continuava a gridare il suo padrefiglio dalla sua carrozzella. “No, tu non c’è se lui non c’è! Lui deve prima incontrare me perché possa far nascere te!” Tutta la casa vuota, increata, la luce che si accendeva nelle alte torri, si accenderà. “No, no, lui ancora non c’è, tu non c’è, anche se tu credi che c’è, stai immaginando che c’è, ci sarà, ti immortalerà. E anche la tua madrefiglia e il tuo padrefiglio non c’è, che correrà, che combatterà, volerà!” “E allora tu chi è?” gli gridavo per te. “Cosa fa lì, che grida, che griderà! Allora anche tu non c’è, che dice che c’è!” “No, io c’è! Io c’è!” si disperava dalla sua carrozzella. “Come fai a esserci tu, se lui non c’è!” “Ma io lo nascerà, se sarà!” “Tu nascerà se lui nascerà!” “E invece io c’è! Sto costruendo una città che sarà, che costruirò, in un posto segreto che ancora nessuno sa. Io sono l’architetto di quella città, io sarò. Invece lui non c’è, tu non c’è, se sarà, sono venuto a dirti che voi due ancora non c’è!” mi gridava, mi griderà. Io non ce la facevo più a sentire che io non c’era, che tu non c’era, anche se io non c’era, se tu non c’era. Allora gli ho ficcato in gola tutta la mia manina dipinta, gli ho afferrato alla radice la lingua che si muoveva, spaventava, pulsava. L’ho stretta forte, là in fondo, anche se era tutta bagnata, sgusciava. Per non sentire più che gridava, che io non c’è, che tu non c’è. Ma tutto questo Chongquing 3 non lo sa, se saprà, se immaginerà, se sarà. Proprio mentre lui teneva in mano la lingua della mia madrefiglia io tenevo in mano la lingua del suo padrefiglio, nella mia manina bianca, smaltata, la stessa che terrà in mano il suo cazzo, il suo precazzo, e lo scappellerà, bacerà, se sarà, con le unghie dipinte, che dipingerà. Io tirava, tirava, ma la lingua non si strappava. Però almeno così non gridava, sembrava che vomitava. Con una premano stringevo, con l’altra tastavo nel cassetto della cucina, vicino, che sarà vicino. Tastavo con l’altra mano tra i coltelli lunghi per tagliare la carne, che mangerà, se sarà. Ma quelli lunghi non andava bene, non si riusciva a infilare. Allora ne ho preso uno corto, seghettato, tagliente. Gliel’ho conficcato in gola. Ho tagliato, ho strappato. Un getto di sangue è partito, partirà, se sarà. Ma quando tu sei arrivato nella mia casa il sangue non c’era, non ci sarà, perché il tuo padrefiglio non era ancora là, se sarà. E anch’io non era, e anche tu non era, per questo tu non mi trovava. Io fuggiva fuggirà, perché ancora non era. Tu inseguiva, perché ancora non era. La tua testolina fissata sul tuo filugello correva, si faceva largo, cercava, mi cercava. Il mio ovulo che ancora non c’è, che sarà, se tu mi troverà, se entrerà. Se quelli e quelle non entrerà, con le loro testine dentro di te, dentro di me, se ci troverà, prima che noi sarà, che vivrà. Io fuggiva con la mia madrefiglia, da te, incontro a te, prima che te, che amare te, che scopare te. Tu correrà da me, ma io allora non c’è, non è ancora c’è, se sarà. Il tuo padrefiglio paralizzato sulla carrozzella vedrà. Ma il sangue non ci sarà, perché ancora lui non sarà, non sanguinerà. Tu non ti accorgerà che sanguinerà, che la sua lingua non c’è, se sarà. Solo la sua caverna nuda vedrà. E ti sembrerà che griderà senza griderà. Tu non saprai che il tuo padrefiglio sarà, se sarà. Ma il suono non ci sarà, non si sentirà. Ti sembrerà che lui griderà, che lui griderà. E allora tu in bocca gli piscerà, perché non saprà, perché non sarà, gli piscerà in bocca prima ancora che lui sarà. E poi scapperà, mi inseguirà, prima che sarà. E adesso invece siamo tutti e due qui, però non ci vedrà, non ci riconoscerà, perché ancora noi non sarà. Mentre andrà, chi lo sa dove andrà. E poi noi nella notte volerà. Col padrefiglio e la madrefiglia e gli entranti e le entranti noi volerà. Volerà dove è già, se sarà».
Anch’io mi trovo in una situazione inaudita. Sono l’autore estromesso dalla propria opera, che si sposta al suo interno in una situazione di clandestinità assoluta e senza speranza. Non ho più nulla, neppure la Musa, qui dentro. Ma proprio perché non ho più nulla e perché mi trovo in una simile situazione e in un simile spazio posso presentire e immaginare e inventare e incarnare altre figure proporzionali e ancora sconosciute nello spazio e nel tempo immobilizzati e fondare una nuova, antimaterica possibilità del mondo ormai immobilizzato, oltrepassato e venduto. Partendo, ripartendo da qui, da questo orrore bloccato e sempre ricominciato della vita e del mondo, da questa disperazione e da questa torsione, dall’interno di questa spaventosa nube genetica in espansione che forse ci sta sognando chissà da quando, chissà da dove. Uscire da questo giro di specie e di morte, infilare la cruna. Richiudermi di nuovo, esplosivamente, in me stesso, come quando ero ancora là, sotto terra, dove sono ancora. Ascoltare solo il canto della valanga che rovina prendendo dentro ogni cosa e ogni figura e ogni forma, in questa zona di torsione spaziotemporale epocale. Cieca, oltrepassata, increata. Inerziale nel movimento supersonico della sua combustione, della sua creazione e della sua resurrezione. Resistendo a qualsiasi mutamento di stato nello spaziotempo immobilizzato. Con la sua massa opaca, increata. La sua materia e la sua energia oscura, di cui è fatto quasi l’intero universo e le sue costellazioni e le sue narrazioni. Che va a tentare continuamente la soglia, il diaframma, come l’insetto imprigionato dentro una bolla di luce che va a sbattere con la sua testolina mostruosa munita di antenne contro la boccia di vetro per cercare di uscire dalla luce creata e di andare dall’altra parte, nel mondo illuminato e increato. Io sono l’uomo che cammina col corpo arcuato e la testa arrovesciata per questa tremenda torsione di specie e di spazio. Che capovolge la prima postura umana ingobbita e che si sposta così in mezzo alle scimmie ingobbite nello spazio della letteratura e del cosmo. Io sono il bambino morto che galleggia col ventre gonfio sulle acque del Gange. Io sono l’investitore che investe continuamente se stesso. Io sono la donna dalla testa che si espande come una supernova nello spazio immobilizzato. Io sono la ragazza scartavetrata che annulla il diaframma tra il proprio corpo e lo spazio. Io sono la donna violentata e amputata che guarda il cielo attraverso le proprie ciglia incrostate e che vede ricrescere le traiettorie dei propri arti nella guaina della luce appena creata. Io sono l’uomo che incendia le spore. Io sono la bambina violentata che si affaccia alla finestra in piena notte con la sua mantellina e vede accendersi il mondo nella sua ragnatela di luce. Io sono il cazzo tatuato che sorregge sulle sue superfici erettive le configurazioni della storia umana e del mondo e le sue terre emerse e i suoi oceani con le loro correnti dentro le quali siamo trascinati tutti quanti, qui dentro. Io sono il traslocatore che scopa la sua Principessa e sono Principessa che contempla la città capovolta dalla finestra di una torre, con la testa e gli occhi fracassati da una bottiglia. Io sono l’eiaculatore e sono la matrice. Io sono il ginecologo spastico che si muove spasticamente nella vita e nel mondo e che muove spasticamente il tempo e lo spazio e la leggenda della letteratura immobilizzata e increata. Io sono il cane che cerca la sua bambina violentata e incantata. Io sono il neonato gettato nel cassonetto in mezzo alle bottiglie sfondate. Io sono il sacerdote paralizzato di colpo dalla grazia. Io sono il papa che scioglie la Chiesa. Io sono la donna che urla così forte che nessuno la sente. Io sono il cielo di merda. Io sono il neonato strappato dal vento e risucchiato fuori dall’utero, che vola sulla curvatura immobilizzata del mondo con i suoi occhi che non si distinguono ancora dalle cose guardate...
Il Matto si interrompe. Gli altri sono tutti in silenzio. Immobilizzati. La troupe del brief, quelli che stavano già lì, tutti in fila di fronte agli orinatoi a muro, con gli uccelli in mano. Anche i loro getti immobili, immobilizzati.
«Accidenti, che pisciata lunga!» esclama all’improvviso l’uomo in piedi contro la conchiglia di fianco, senza girarsi.
«Era da tanto che la tenevo!» gli risponde il Matto, senza girarsi.
Il tecnico del suono si avvicina all’uomo che ha appena parlato col Matto. Mette la cravatta anche a lui. Ma prima di cominciare controlla il volume.
«Prova... prova... prova...»
Stanno ancora tutti immobili, in silenzio, immobilizzati, la Musa, la ragazza non c’è assorbente che tenga e quella con e senza l’acne, il copy e l’art, il softwarista, l’account e l’altro account, le truccatrici. L’altro tecnico al combo muove su e giù le leve per regolare al meglio i volumi.
L’uomo a fianco del Matto ha già anche lui l’uccello in mano. Non si vede ancora chi è, perché è sempre girato di schiena, ma si capisce che si sta scappellando prima di cominciare a sua volta a pisciare.
Sposta indietro leggermente la testa, chiude gli occhi.
Si gira finalmente verso il Matto, lo guarda.
Chi sarà?
Oh, cazzo, è il Gatto!
La scena è immobile. Il silenzio è ancora più impressionante.
Un istante dopo il Gatto comincia improvvisamente a pisciare e a cantare.
Canto del Gatto
In quale momento è stato dato anche a me un canto, qui dentro! Proprio qui, proprio adesso. Mentre ogni cosa si separa violentemente da se stessa e corre contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. In mezzo a tutte queste parole sempre più ripetute, ritmiche, sfracellate. A tutti questi blocchi narrativi sempre più travolgenti e stridenti, tra queste correnti seminali travolgenti e immobili. Mentre ogni cosa sta andando verso uno scardinamento di tutte le possibili strutture narrative e temporali e spaziali e l’unico possibile movimento, che è affiorato sbarazzandosi delle carcasse mentali e linguistiche disattivate, è lo spaventoso e portentoso e drammatico e scatenato e selvaggio e lirico ritmo di questa irresistibile avanzata seminale orientale.
Parole che si ripetono e che si concentrano e che si fracassano, vanno in pezzi i tempi verbali e le loro possibilità spaziotemporali, frasi duplicate, concentrate, martellate, sfasciate, dialoghi anticipati, increati, predialoghi senza ancora supporto fonetico a venire. Perché tutto questo? Non l’avete ancora capito? È perché anche le strutture del discorso e le poltiglie verbali si stanno agglutinando sempre più, si concentrano, mentre stanno andando anche loro a sbattere e a sfracellarsi contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Voi non avete idea di cosa succede quando le poltiglie orali emanate dai corpi e dai precorpi vanno a sfracellarsi contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Non riuscite neanche a immaginare – anche se è esattamente quello che state e stiamo tutti vivendo – quale pressione tremenda si scarichi sulle strutture verbali e sui corpi parlanti, preparlanti e sulle particelle atmosferiche orali non ancora attivate, non più attivate, quelle che sono ancora all’interno delle correnti e dei condotti seminali allagati, dove premono le une contro le altre e si agglutinano e si deformano nei loro movimenti ciechi e disperati verso la nascita quelle testoline degli spermatozoi che cercano di penetrare dentro la membrana dell’ovulo immobile, immobilizzata.
E mi viene data, e si apre la possibilità di cantare anche a me, persino a me, proprio adesso, in una simile situazione, quando nessuna delle altre voci che si sono levate qui dentro potrebbe più cantare. Tocca a me, solo a me. Solo io posso continuare, cominciare a cantare. Adesso, proprio adesso, in questo fracassarsi di tempo e spazio. Dopo tutte quelle voci che si sono liberate qui dentro, che si sono spinte fino al canto nelle precedenti zone aeree e di combustione e di controspinta e risucchio che si liberano ancora negli interstizi mentre ci si sta avvicinando al muro di tempo e spazio immobilizzati. Anche per me spazio e tempo si sono immobilizzati. Anch’io sono stato separato violentemente dalla mia ombra.
Dove sono finiti intanto tutti quei corpi e quelle voci e quelle ombre? Stanno marciando tutti assieme fino al punto di massima concentrazione e di impatto e di annuncio, sui loro piedi ricollocati e increati, sui trampoli fosforescenti, sui roller, nelle correnti seminali, ammassati assieme alle altre ombre, preombre chiuse dentro il ventre di quel cavallo che sta passando attraverso le mura di quella città immobilizzata e increata: la donna che urla, il traslocatore, il ginecologo spastico, il suonatore di prepuzio, il donatore di seme, Principessa, le esplose, la donna caudata, le ragazze scartavetrate, l’uomo che pesta le merde, quella donna che trema alla quale ho lasciato credere per un po’ di essere lei l’editore, i corpi che si arrovesciano nella corsa, gli sbandieratori, gli invideatori... Posso cantare solo dopo che nessuna delle altre voci può più cantare, qui dentro. Persino dopo quel povero Matto che crede di essere lui l’autore, il preautore di tutto quanto sta succedendo qui dentro. Adesso c’è solo la mia voce spinta fino al canto, qui dentro. Solo io posso continuare a cantare, a questo punto, in questo pisciatoio immobilizzato, oltrepassato e increato, io, proprio io, il distruttore, che sono sempre stato dall’altra parte, che ho devastato i canti. Mentre anche il Matto è qui, nella conchiglia vicino a me, ha appena finito di pisciare e cantare. Invece allora era là. E anch’io ero là, sarò là. Correvo con lo scooter verso l’arcivescovado per prepararmi all’ordinazione sacerdotale, l’altra volta, correrò. E tutta la luce era controluce, immobilizzata, già da quando il Matto, il Prematto era salito su quel traliccio della luce elettrica immobilizzata. E io intanto correvo, correvo, sto già correndo, correrò, la mia testa spinge tutto il muro del vento seminale immobilizzato, mentre corro verso l’arcivescovado dove verrò preparato all’ordinazione. Preparare me, ci pensate! Proprio me! Sacerdote! Proprio me! Dopo avere posato gli occhi su quei fogli che quel povero Matto aveva scritto febbrilmente mentre io suonavo l’armonio nella chiesina nuova, che scriverà. Tutto quello che scriverà era già là, se scriverà, se sarà. Perché lo spazio e il tempo erano immobilizzati anche là, se sarà là. E quel foglio era là, era già là. E io ci sono andato a sbattere contro prima ancora che era là, potrà essere là. E allora ridevo, ridevo, riderò, mentre mi prendevo in faccia tutto quello che era già qui, se sarà. Allora ho capito che ero già là, che eravamo già tutti là, se sarà. Che ci stavamo separando violentemente da là, che io cominciavo là, che anche lui cominciava là, che ci stavamo spaccando là. È per questo che ridevo, che sto ridendo, che sto riderò. E lui invece soffriva, e allora io ridevo, ridevo. «A quale nuova specie stiamo dando vita?» mi chiedevo, mi chiederò. Correvo con lo scooter, in piedi sulle due pedanine, per sentire tutto il mio corpo e tutta la mia veste svolazzante e increata sbattere contro il muro della luce immobilizzata. E intanto la mia capocchia seminale rideva, rideva, increava.
Sono arrivato all’arcivescovado, ci arriverò. Ho spento il motore, sono penetrato dentro il cortile spingendo avanti lo scooter coi piedi, l’ho issato sul cavalletto, sotto il porticato immobilizzato. Ho cominciato a salire lungo lo scalone che portava alle stanze del vescovo, che porterà, dove andavo con altri futuri sacerdoti della diocesi per prepararmi all’ordinazione. Ma non c’era nessuno nel cortile, neanche lungo le scale, non un sacerdote che saliva e scendeva. Tutto l’arcivescovado era immobilizzato, deserto, le luci erano tutte accese, immobilizzate, anche se era pieno giorno, era mezzogiorno ma sembrava notte, e c’era dappertutto quella luce nera, nera, immobilizzata. Sono entrato nella sala dove il vescovo di solito mi riceveva assieme agli altri ordinandi. Deserta anche quella. Mi sono guardato attorno. Nessuno. «Eppure l’ora è questa, la stanza è questa...» mi dicevo dirò. Nessun passo proveniente dalle stanze vicine. Mi sono lasciato cadere su una sedia. «Cosa sta succedendo, qui dentro? Cosa succederà?» mi dicevo. «Come mai l’arcivescovado è deserto, non ci sono gli altri, non c’è il vescovo, non c’è nessuno? Proprio adesso che ero a un passo dal venire ordinato sacerdote, sarò, proprio io, proprio io... sacerdote! Il padre priore mi sta già insegnando a celebrare la messa, corro nel cortile con le scarpe da ginnastica ai piedi e la pianeta quando ho bisogno di scaricare un po’ questa tremenda tensione... Sarà successo qualcosa, avranno capito chi sono, se ne saranno accorti!»
Poi però, all’improvviso, ho cominciato a sentire un rumore leggero, di passi che si stavano avvicinando alla sala, per molto tempo, per sempre, come se qualcuno stesse arrivando da un posto infinitamente lontano camminando a passi felpati, non su due sole gambe, ma a quattro zampe, attraverso i corridoi e le scale e le sale e le presale dell’arcivescovado oltrepassato, deserto. Eppure io lo continuavo a sentire, lo sentirò, se sarò. Mi sono alzato col cuore in gola. «Chi starà arrivando, qui dentro?» mi domandavo girando la testolina seminale per vedere da quale delle tre porte della sala sarebbe entrato. Ma non è entrato da nessuna delle tre, è entrato a quattro zampe da un’altra porticina invisibile che non avevo mai notato, mimetizzata con l’intonaco della parete, come se stesse uscendo direttamente dal muro. Ha fatto ancora qualche passo così, a quattro zampe, poi si è alzato all’improvviso su due. Ho provato ad andargli incontro ma ero immobilizzato: verso di me stava camminando un uomo alto, slanciato, dai lineamenti orientali, vestito in giacca e cravatta, ma con lo zucchetto rosso in testa.
Ho fatto di nuovo per andargli incontro, ma non potevo.
«Ma lei non è il mio vescovo!» ho balbettato.
«Lo sarò, se sarò» ha risposto l’uomo fissandomi coi suoi occhi allungati.
«Perché non c’è più il mio vescovo?» ho provato a dire.
«Perché lo spazio e il tempo si sono immobilizzati, perché ogni cosa, anche il suo vescovo, si è separata violentemente da se stessa» ha risposto aggiustandosi il nodo della cravatta.
Lo guardavo, guardavo la sua testolina seminale che si spostava da una parte e dall’altra, ricoperta dallo zucchetto.
«Eminenza, dove siamo?» gli ho chiesto.
«Siamo là.»
«Non siamo più qui, dentro qui?»
«Lo saremo.»
«E io sarò sacerdote?» ho provato a chiedere ancora.
«Tu sei già sacerdote, lo sei sempre stato, lo sarai, se sarai.»
Mi sono buttato in avanti per baciargli la mano. Solo allora mi sono accorto che tutte e due le sue mani e le sue dita erano avvolte in un gomitolo corneo di unghie lunghe, lunghissime, interminabili, che si espandevano attorcigliate e acuminate nell’aria.
«Eminenza, non riesco a baciarle la mano!» ho balbettato, perché non si poteva afferrare da nessuna parte quel groviglio di artigli che si espandevano attorcigliati attraverso la sala.
«Me la bacerai, se sarai!» mi ha sorriso per la prima volta, e allora ho visto che aveva i denti tutti neri di nicotina.
«Adesso va!» mi ha ordinato.
«Eminenza, come posso chiamarla?» gli ho chiesto per l’ultima volta.
Non mi ha risposto, non mi risponderà.
Sono uscito dalla sala, e poi giù per quel grande scalone. E poi nel cortile. Ho tirato lo scooter giù dal cavalletto, ci sono salito sopra, l’ho sospinto coi piedi fuori dal cortile dell’arcivescovado. L’ho acceso, ho ingranato la marcia, sono partito. E poi correvo, correvo, correrò, contro la luce immobilizzata, annunciata, e intanto mi pareva che anche sulle mie mani fossero cresciute delle unghie lunghissime e attorcigliate e che facessi fatica a muovere la manopola dell’acceleratore e ad azionare la frizione e il freno con le dita in mezzo a quel groviglio di artigli neri calcificati. Correvo verso il seminario dove avrei celebrato la prima messa, l’ultima messa, che quel povero Matto mi avrebbe servito, che sarà, e prima ancora mi annoderà con le sue mani il cingolo e il manipolo, e poi io entrerò a capofitto nella pianeta, e poi usciremo uno dopo l’altro da dietro la quinta dell’altare, nel primadopo, e poi io mi inginocchierà, se sarà, tutte le pieghe di lamiera della pianeta si torcerà, e poi il Matto mi incenserà, il turibolo avanti e indietro verrà, se verrà, se sarà, e anch’io verrò avanti e indietro con la mia testolina seminale increata facendo oscillare avanti e indietro lo spazio e il tempo immobilizzati che immobilizzerà, perché non si fracasserà, se sarà. Le nostre due testoline seminali increate avanti e indietro oscillerà, oscillerà, increerà...
L’aereo intanto continua a volare nel buio, coi suoi undici corpi elastici dentro la testina degli spermatozoi in corsa disperata lungo le correnti seminali increate. E intanto anche le ombre ammassate continuano a sognare di essere ombre seminali increate che vanno contro il muro di spazio e tempo immobilizzati, e intanto continuano a interrogarsi e a disperarsi e a prefigurarsi, là dentro: «Di chi siamo state le ombre, di chi lo saremo? Siamo già dentro lo spermatozoo che rovina, torcendosi nella ricerca disperata di un varco lungo i canali e nelle correnti seminali, le ombre che proiettano i corpi che nasceranno e che si separeranno poi violentemente dai corpi e persino da se stesse andando a cozzare contro il muro di spazio e tempo immobilizzati? C’è stato un momento in cui siamo state indistinguibili, una cosa sola coi corpi? Oppure eravamo già, prima ancora di essere dentro quelle disperate capocchie seminali che cercano di sfondare la parete immobilizzata dell’ovulo, che si immobilizzerà, nei geni silenziosi e nelle derive genetiche immobilizzate, prefigurati, increati, eternati?».
E Sydney 1 a spostarsi nella corrente seminale increata. Lambendo le coste africane dove si muoveranno gli australopitechi, discendenti da un progenitore comune a noi e allo scimpanzé, quando, cinque milioni di anni fa, uomini e scimmie si sono separati violentemente andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. E prima ancora, quando il femminile e il maschile si sono separati violentemente andando a sbattere contro il muro di spazio e tempo immobilizzati. E anch’io ero là, sarò là, in quel paradiso terrestre del cazzo immobilizzato, anch’io separato violentemente da quell’altra unità che si era spaccata, inesaustivo, incombaciante anche con quella. E allora chi ero, chi sarò, se non ero al mio posto anche là, non combaciavo neppure in quella drammatica unità separata che si pretendeva esaustiva, dove non ero esaustivo neppure con il mio padrefiglio? E poi separato violentemente anche da quel paradiso terrestre del cazzo immobilizzato, anche le loro due ombre femminili e maschili separate violentemente dal paradiso terrestre del cazzo e da se stesse. Sydney 1 esce dalle grandi correnti equatoriali e controequatoriali, viene risucchiato dalla corrente seminale delle Canarie, infila lo stretto di Gibilterra, poi altre correnti lo scaraventano nel Mediterraneo. Tutte quelle lingue di terre emerse, piramidi e sfingi immobilizzate, le isole disseminate della Grecia e dell’Asia Minore, mentre sprofonda sempre più in quel mare immobilizzato. Va a lambire le coste tutte piene di statue nude immobilizzate e scartavetrate, e poi verso sud, spostandosi tramortito nelle correnti seminali dove anche Serse con la sua flotta è andato a sbattere, andrà a sbattere contro il muro di spazio e tempo immobilizzati, e poi quelle della Palestina. L’acqua diventa sempre più vischiosa, più calda. Sydney 1 riapre gli occhi di tanto in tanto, mentre le sue membra rotolano disarticolate nella precorrente, la sua pretesta che sale e sprofonda e poi sale di nuovo si copre di un albume prenatale di schiuma attraverso la quale, quando un’onda più grande delle altre lo trasporta in alto, scorge le coste lontane e persino quelle che emergeranno, con le loro città sulle alture. C’è un uomo nudo, scartavetrato. Solo pochi giorni prima è entrato a Gerusalemme su un povero asinello del cazzo. «Chi sono? Chi sarò?» si domanda l’uomo mentre tutt’intorno mille volti increati si sporgono entranti verso di lui nella poltiglia seminale dell’arialuce increata. «Chi sarò, se sarò? Sono già nato, sto correndo anch’io verso la mia nascita o sto andando a sfracellarmi anch’io contro il muro di tempo e spazio immobilizzati? O mi sto separando anch’io violentemente dalla mia ombra o sono ancora e ormai la mia ombra che si è separata violentemente dalla mia ombra contro il muro di spazio e tempo immobilizzati e increati? E il mio padrefiglio dov’è? Perché non è qui con me? Dove andrò, dove ritornerò?» E intanto si guarda attorno, seduto con le gambe tutte e due da una parte, come una donna, sul suo povero asinello del cazzo, mentre tutt’intorno continuano a venire avanti quelle testine seminali di entranti, di preentranti. E poi quando è là, sarà là, davanti là, con tutto il suo corpo increato, scartavetrato. Un uomo in piedi gli sta domandando qualcosa. Lui non risponde, perché ancora non è, se sarà.
«Sei muto?» gli domanda infine l’uomo che gli sta, gli starà di fronte, stizzito.
«No, lo sarò» gli risponde in un soffio l’uomo scartavetrato.
Chi gli sta facendo quelle domande è attorniato da un gran numero di cani accucciati. La sua voce è stridula, acuta, il suo volto e le sue mani sono divorati dall’eritema, spuntano da un’attillata calzamaglia nera, ha ai piedi scarpe bianche allacciate attorno ai polpacci con nastri, da ballerino, tiene in mano un bastone bianco, per ciechi.
«Tu chi sei? Il tuo nome qual è?» gli domanda di nuovo quell’uomo.
«Io sono Gerusalemme 9.»
Il branco di cani gli si accosta irresistibilmente, per leccargli il corpo scartavetrato ricoperto di sangue e plasma.
«Io invece sono Lupus» gli risponde l’uomo con le scarpette da ballerino, facendo qualche passo sopra le punte.
Gerusalemme 9 tiene la testa abbassata, gli occhi socchiusi.
«Sei anche tu un hacker?» gli domanda ancora Lupus, immobilizzandosi per qualche istante sulle punte.
«Lo sarò, se sarò» gli risponde Gerusalemme 9.
«E allora adesso che cosa sei?»
«Sono uno spermatozoo che sogna di essere un’ombra che sogna di essere un hacker che sogna di essere Gerusalemme 9 in cerca del suo padrefiglio e della sua nascita.»
L’uomo con le scarpe da ballerino torna a posarsi sulle piante dei piedi, batte con la punta del bastone per ciechi le testoline seminali dei cani che cercano di penetrare nel precorpo scartavetrato di Gerusalemme 9.
E poi altre strade gremite di altre testoline seminali e di prebocche spalancate che gridano al suo passaggio e di filugelli che tremano nella calca, fino a quella collina pelata che si scorge da lontano anche stando nella corrente, con gli occhi velati da quell’albume prenatale increato. Avanza a fatica, non tanto per il peso del palo della croce ma perché è sempre più difficile andare contro il muro di spazio e tempo immobilizzati. Si immobilizza sempre più, nell’impatto, adesso il suo precorpo sollevato fronteggia crocefisso il muro di tempo e spazio immobilizzati. «Com’è tremendo sostenere col proprio corpo crocefisso, scartavetrato e increato tutto il muro di tempo e spazio immobilizzati!» pensa Gerusalemme 9 mentre sta morendo sopra la croce prima ancora di essere nato. Intravede al suo fianco altre due figure crocefisse immobilizzate e increate.
«E voi chi siete?» domanda Gerusalemme 9, domanderà.
«Siamo il copy e l’art» rispondono gli altri due crocefissi, se saranno, se risponderanno.
«E tu chi sei? Cosa ci fai qui? Come ti chiami?» chiede ancora Gerusalemme 9 a una donna nera che piange, che piangerà, se lui nascerà, se soffrirà.
«Io sono Principessa, la tua madrefiglia» gli risponderà la donna nera dal basso, dal buio, che piange, che piangerà.
«Ma non doveva essere la donna dalla testa espansa la mia madrefiglia che sarà?»
«Lei è la madrefiglia che è là.»
«E il mio padrefiglio dov’è?» domanda ancora Gerusalemme 9, domanderà.
Ma forse non domanda più, perché non c’è ancora, perché non c’è più. Anche la luce non c’è più. È mezzogiorno ma è come se fosse notte, perché lo spazio si è immobilizzato, perché il tempo si è immobilizzato. «Che cos’è questa crocefissione di ombre contro il muro di tempo e spazio immobilizzati?» si domanda Gerusalemme 9. «Come farò a morire, come farò a risorgere se non sono ancora nato? Chi salverò, chi redimerò, quali ombre redimerò, se io ci sarò, se il padrefiglio sarò? Come farà a risorgere chi ancora non è, se sarà? Eppure risorgerò, proprio perché non sono ancora nato risorgerò, nello spazio e tempo immobilizzati solo chi non è ancora nato morirà, solo chi non è ancora morto risorgerà.»
È tutto buio, è tutto nero, non si vede niente, vedrà. L’hanno staccato dalla croce dello spazio immobilizzato dove era rimasto spiaccicato. Adesso l’hanno coricato dentro un sepolcro, avvolto in un lenzuolo. Due donne hanno appena unto il suo corpo che sarà, lo hanno profumato con mirra e aloe che sarà, una ha i capelli rasati, molti orecchini a raggiera attorno ai lobi delle orecchie che sarà, l’altra è Aminah, muove attorno al suo corpo le sue braccia appena rigenerate nell’utero della preluce. E ci sono anche Ditalina, Pompina, che sarà. Lo accarezzano, piangono. Quella con la testa rasata lo bacia su tutto il corpo, sulla fronte, sugli occhi e poi sulle spalle e sul torace scartavetrato, sulle ossa delle costole che sbalzano dalla carne, sul ventre magro, incavato, sulle ossa delle anche. Pompina gli prende in bocca il fiocco di carne circonciso che nascerà, se morirà, se risorgerà. Glielo tiene per un po’ così, nella sua calda bocca dal palato tatuato. E intanto tutte piangono, piangono, anche Ditalina e Pompina, anche la Musa adesso è lì che piange, che piangerà.
E poi non si sente più niente, non si sentirà. Le quattro donne sono uscite in silenzio dal sepolcro. È rimasta dentro solo la sua madrefiglia nera che nascerà. È seduta al buio, in silenzio, vicino al suo padrefiglio morto, che morirà, se nascerà, se sarà. Piange, piangerà. Gerusalemme 9 gira la testa di lato, la guarda, la guarderà, se morirà, anche se è tutto nero, non si vede niente, non si vedrà, anche se è morto, sarà morto, se nascerà, se guarderà, se redimerà, se risorgerà.
«Com’è buio, com’è nero, qui dentro!» dice alla sua madrefiglia, dirà. «Dove sono sarà?»
«Tu sei ancora dentro di me, se sarà» gli bisbiglia la madrefiglia nel buio.
«Ma io sarà già?»
«Ci sarà, se sarà.»
«Ma allora adesso dove sarà?»
«Tu è prima che sarà.»
«Ma dov’è che sarà?»
«Dopo che sarà.»
«Ma da dove passerà, da dove nascerà, da dove uscirà, se sarà?»
La sua madrefiglia nera accucciata nel buio vicino al sepolcro si solleva la veste, allarga le nere cosce nel buio.
«Tu uscirà da qui, tu nascerà da qui, tu risorgerà da qui.»
Il padrefiglio guarda il taglio nero, nel buio.
«Com’è nero!» dice alla madrefiglia, nel buio. «Come farò a vedere l’uscita dove uscirò?»
«Tu la troverà, perché una lucina io accenderà, e allora tu uscirà, tu risorgerà, e se tu sarà anch’io sarà, anch’io nascerà, anch’io risorgerà.»
La madrefiglia si alza, nel buio, il padrefiglio sente le sue vaste labbra nere posarsi sulle sue labbra, nel buio.
«Adesso io non c’è più, non ci sarà» gli sussurra ancora la madrefiglia nel buio, gli sussurrerà. «Io ti lascerà prima che tu nascerà. Nessun altro ci sarà, neanche tu ci sarà, neanch’io ci sarà. Adesso nel prebuio tu resterà, prima che il buio sarà, se tu sarà, se tu risorgerà, se tu traslocherà. Adesso il mio padrefiglio è là, sarà là, nel buio che ci sarà, se sarà, se anch’io ci sarà, se nascerà, se canterà.»
Ormai anche lei non c’è più. È tutto nero, sarà. Gerusalemme 9 non sa dov’è. Però domanda, domanderà:
«Dove sono sarà?»
«Sei nel regno dei morti che sarà.»
«E il mio padrefiglio è qui?»
«No, lui non è qui, non sarà qui, questo è il regno dei morti dove tu passerà, se morirà, se risorgerà, se nascerà. Dei morti che ancora non sono nati, delle ombre dei morti che si sono separate violentemente dai morti, degli spermatozoi che stanno sognando di essere ombre che stanno sognando di essere hacker che stanno sognando di essere morti che nascerà, che risorgerà.
Gerusalemme 9 non sa chi è, se sarà.
«Tu chi sei, chi sarai?» i premorti gli domanda, gli domanderà, quando lo vedrà, se lo vedrà, se sarà.
«Sono il padrefiglio che sarò, se sarò!»
«E perché sei qui, sarai qui?»
«Dal regno dei morti vi libererà, se morirà, se risorgerà, se nascerà.»
È tutto nero, anticipato, increato.
«Ma come fai a liberarci dal regno della morte se tu non sei nato, non sei morto, se anche noi non siamo nati, non siamo morti?»
«Perché entrerò anche nel regno dei premorti dove noi sarà. Ma se io risorgerò io nascerò, io morirò, io vi incontrerò, io vi libererò, se anche voi risorgerà, nascerà, traslocherà, morirà...»
Così il padrefiglio continua a prepensare nel regno dei premorti, a quello che succederà quando nascerà, quando risorgerà. E allora la pietra del sepolcro cadrà. E lui si alzerà. E camminerà. E poi uscirà. Tutto profumato e accarezzato e baciato e spompinato lui uscirà, se nascerà. Eccolo, adesso è là, se sarà, la pietra del sepolcro è caduta da una parte, cadrà, se cadrà, se lo spazio e il tempo si immobilizzerà, se sarà. La luce accecherà, se sarà. Le tre donne si coprono gli occhi per non si accecherà. Vedono solo un angelo con una veste splendente, che splenderà. Spuntano dalla sua veste le sue gambe interminabili che proiettano in alto la sua figura. La sua voce arriva dalla sua pretestolina seminale proiettata là in alto dagli strati geologici formati dalle merde che ha pestato camminando nel mondo, nel premondo.
«E lui dov’è?» gli chiede la madrefiglia.
«Lui non è più qui, lui adesso è là, dove sarà, quando sarà, se sarà, se traslocherà.»
Le tre donne corrono via nella guaina che fa la luce, che farà.
«Lui è risorto, risorgerà! Allora anch’io nascerà, risorgerà!» grida la sua madrefiglia nera correndo con le altre donne verso Gerusalemme che sarà. «Lui adesso è là, sarà là, se il suo padrefiglio sarà, prima che qui, dopo là, se il suo padrefiglio sarà, se traslocherà. E allora lui lo cercherà, lo increerà, lo traslocherà.»
Adesso Gerusalemme 9 è là, sarà là, nell’aldilà, nell’immortalità, che ci sarà, se sarà, nel prealdilà, nella preimmortalità. Tutta la luce sarà là, prima che la luce sarà. E adesso là finalmente lo incontrerà. Il suo padrefiglio lo aspetterà, lo preaspetterà, se sarà. «Chi lo sa se ci sarà qualcuno che mi aspetterà?» si domanda il padrefiglio che sarà Gerusalemme 9 che morirà, che nascerà, se sarà. «O se non ci sarà più nessuno ad aspettarmi, se non troverò tutto vuoto e deserto, abbandonato, le luci spente, cartacce che volano, le sedie rovesciate...?»
E poi lui arriverà, nell’aldilà, se arriverà, se risorgerà. Troverà ad accoglierlo sulla soglia un vecchio in smoking con la mano ad anello di fronte alla bottoniera dei calzoni, che trema, che tremerà.
«Sei tu il mio padrefiglio?» gli domanda Gerusalemme 9, gli domanderà.
«No, io sono il vecchio dalla paresi masturbatoria, sono stato messo io sulla soglia ad accogliere quelli che arriverà, se sarà.»
«Ma il mio padrefiglio dov’è?»
«Adesso è al brief.»
«E il brief dov’è? Non è qui?»
«Il brief è là, è al di là.»
«Ma non è qui l’aldilà?»
«L’aldilà è sempre là, è al di là, se sarà. Io sono solo quello che accoglie quelli che arriverà e gli va incontro facendogli festa col mio gesto segaiolo che sarà, che prefigurerà.»
«Ma allora qui dentro chi c’è?»
«Quelli che arriverà, se sarà.»
Gerusalemme 9 si guarda attorno, se guarderà, se risorgerà.
«Ma sono tutti qui!» esclama con la sua prebocca increata che esclamerà. «Il donatore di seme e poi softwarista, e anche tutto il suo seme è già qui, sarà qui, e poi l’Interfaccia che ingraviderà, quel povero Matto che canterà, se sarà, anche quel Gatto che mi sta cantando, che mi canterà, che crede che mi canterà, che mi tenterà, se sarà, se sarò, se il padrefiglio sarà. E c’è anche quella donna che tremerà e lo stupratore di donne gravide che stuprerà, e anche la mia madrefiglia nera che sarà, che traslocherà, e il traslocatore che nascerà, e il sovrano sulla cyclette che pedalerà, immobilizzerà, canterà, prefigurerà, e anche la sua ombra immobilizzata che pedalerà, e la ragazza con le sole gengive e quella senza peli che nascerà, e gli emicranici seminali e tutti quegli hacker seminali che sarà e tutti gli altri che vivrà, se vivrà, se canterà, se morirà. Sono già tutti qui, se sarà. Ma allora anche il brief è qui, sarà qui!»
«No, qui è l’aldilà che si è separata violentemente da là. Se il brief sarà là, allora sarà anche l’aldilà.»
«Ma allora qui che cos’è, se non è qui, se non è là?»
«È l’aldilà.»
«Ma che cos’è qui l’aldilà?»
«È quello che sognano gli spermatozoi e gli ovuli nei condotti e nelle correnti seminali che sarà, se sarà.»
«Ma non c’era il paradiso, l’inferno, non ci sarà?»
«È lo stesso sogno che fanno là, prima di essere là, di essere separati là, che c’è un aldiquà e un aldilà. Lo stesso sogno che si è separato violentemente dalla sua ombra di là prima ancora di essere là, di sognare là.»
«Perché, anche i sogni hanno le loro ombre, le avrà?»
«Sì, quando si separano violentemente dai sogni prima che sognerà.»
«Allora era quel sogno che facevo là, quando ero coricato morto nell’oscurità? E fronteggiavo con le altre ombre circonfuse e increate lo spazio e il tempo immobilizzati e increati, e c’era vicino a me la mia madrefiglia che sarà. E invece il mio padrefiglio era al brief, sarà al brief. Mentre noi siamo qua, saremo qua. Ma allora che sia il brief l’aldilà?»
Gerusalemme 9 guarda, guarderà. Nella luce che apparirà, contro il muro dello spazio e del tempo che si immobilizzerà, se sarà. La sua capocchia seminale risorta manovrerà, se soffrirà, se risorgerà. Nella luce seminale immobilizzata guarderà prima ancora che guarderà, che vedrà... E allora io sarà. Io sarà l’uomo col corpo arcuato che si sposterà capovolto in questo spazio immobilizzato e increato. Io sarà l’investitore che investe continuamente se stesso che investirà. Io sarà le due matrici contro il muro del video immobilizzato e increato. Io sarà il cazzo tatuato che è andato a sbattere contro lo spaziotempo immobilizzato, che andrà. Io sarà il cazzo di cristallo che va in frantumi nella fica dello spaziotempo immobilizzato. Io sarà lo stupratore di donne gravide che ingraviderà. Io sarà il cane che si dondola sull’altalena contro lo spaziotempo immobilizzato, che si dondolerà. Io sarà il vecchio con la paresi masturbatoria che vi accoglie sulla soglia dell’aldilà che ci sarà, se sarà. Io sarà il serpente tutto spalmato di fosforo che va alla cieca attraverso queste caverne intestinali scoppiate come nella cripta di una cattedrale bombardata e increata. Io sarà il divoratore che avanza a testa in giù mediante il gesto primordiale trainante della masticazione e che scende planando sulla città degli angeli, che scenderà. Io sarà il messaggero dalle labbra dipinte che affonda il grugno in questa materia emorragica con gli occhi spalancati e sbarrati nella putredine di questo incendio che incendierà, annuncerà. Io sarà la donna dalla testa espansa in piedi sotto la croce immobilizzata col meteorite della sua testa tutto bagnato di lacrime. Io sarà Principessa in piedi sotto la croce immobilizzata col meteorite nero della sua testa tutto bagnato di lacrime. Io sarà lo sbandieratore che lancia la sua bandiera muscolare nel cielo. Io sarà l’uomo di profilo, di schiena e di faccia che sta guardando come nascono i mondi che sarà, se sarà, se annuncerà. Io sarà l’invideatore che sta portando alle estreme conseguenze la macchina suicida dell’incarnazione e dell’increazione. Io sarà l’ombra risorta di Gerusalemme 9 che si sta separando violentemente da se stessa, che risorgerà, se sarà. E allora io lo tenterò, lo educherò. Quando sarò, là con lui nel deserto sarò. Come prima che là, che al di là. L’ho trasportato sul pinnacolo del tempio, lo trasporterò, e poi gli ho detto dirò: «Povero Gerusalemme 9, fratello, gettiamoci giù tutti e due assieme da qui, io e te, tenendoci per la mano che sarà, come due ragazzi che vanno a una festa, eleganti, un po’ sprezzanti, gettiamoci a capofitto nell’increato, entriamo nei regni dove si scompare e insieme si appare, si apparirà. Portiamo assieme a compimento questo destino che ci è stato dato, questo sogno, io e te, i due fratelli oltrepassati e increati e le loro ombre che si sono separate violentemente contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Questa volta io non chiedo più a te di gettare giù te. Io ti chiedo adesso di gettarti con me, assieme a me, tenendo per mano me, come una cosa sola con me. Andiamo assieme allo sbaraglio, io e te, se noi nascerà, se risorgerà, contro tempo e spazio che si immobilizzerà, se sarà, e nessun angelo ci fermerà, ci proteggerà, perché anche gli angeli non sarà. Ma noi andrà, precipiterà, ricongiungerà, increerà, le nostre due testoline seminali assieme si lancerà, rovescerà, anticiperà, annuncerà. E noi fratelli finalmente sarà, se sarà, se increerà. Ma se tu non sarà, se tu assieme a me non ti getterà, allora io chi tenterà, chi distruggerà, chi educherà, chi salverà? Ma se tu non sarà, non increerà, annuncerà, allora perché sei stato messo qui, sono stato messo qui, se sarà? Per che cosa? Per chi? E allora io perché sarò, chi sarò? Da chi sei stato messo qui, se sarà? Da qualcuno che non c’è ancora, che non c’è più, non sarà, non increerà, non immortalerà, non morirà? Perché non vuoi gettarti nell’increato con me? Perché tu non tenta me, non educa me, non increa me? Perché tu non ti getta a capofitto con me, non increa me, non nasce me, non risorge me? Mio povero fratello increato, io ci speravo...».
«Non so cosa farci!» gli risponde all’improvviso la voce di chi sta in piedi contro l’orinatoio vicino, afona.
Il Gatto si gira da quella parte. Non vede bene la faccia di chi ha parlato, perché ha le lacrime agli occhi.
«Che cosa fai? Piangi?» gli domanda la voce afona, gli domanderà.
La sua faccia girata verso il Gatto è tutta bianca, sfuocata, è una maschera di porcellana.
È girato di spalle, vicino al Gatto e al Matto che sono ancora allineati uno a fianco dell’altro contro gli orinatoi vicini.
«Accidenti, che pisciata lunga!» dice ancora al Gatto la sua voce afona. «La stavi tenendo da tanto tempo anche tu!»
Poi si gira di nuovo verso l’orinatoio, si abbassa la cerniera dei calzoni, tira fuori l’uccello. È anche quello lucido, bianco, di porcellana.
«Prova... prova... prova...» si sente la voce del fonico dietro il combo, si sentirà.
«Però io la sto tenendo da più tempo di tutti quanti, qui dentro!» dice ancora la voce afona dell’uomo con la maschera di porcellana, un istante prima di cominciare a pisciare e a cantare.
Canto di Dio
Io invece sono soltanto Dio. Sono soltanto il Dna di tutto quello che sta succedendo qui dentro là. Che cosa vi aspettavate da me? Un annuncio? Che in questo pisciatoio annunci qualcosa che è già stato annunciato e poi oltrepassato, che lo sarà? Vi aspettate un canto? È finito il tempo dei canti, qui dentro. E poi come faccio a cantare, come farò? Se la mia parola crea il vuoto anch’io sono dentro il mio stesso vuoto. Io non ricordo quasi la lingua che si sta parlando qui dentro. È solo una dei miliardi di lingue e di progetti di lingue che coesistono nella mia mente, nel mare dei linguaggi di cui le lingue fonetiche e grafiche gravitazionali non sono che microscopici scogli che stanno per essere sommersi dalla salita seminale delle acque contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Che immensa fatica avete fatto a trasformare i vostri spaventosi versi polmonari animali, i vostri belati e i vostri grugniti in quest’unico verso strappato alla respirazione corporea in cui avete ficcato alla rinfusa come in un sacco delle immondizie tutto il bazar dei vostri piccoli, ottusi e disperati pensieri che sono andati a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati!
Io vi conosco. Siete ancora quelli che si nascondevano negli anfratti sotto la linea dell’orizzonte di questo pianeta raffreddato e increato, tutti ricoperti di peli, su quattro zampe, due zampe, gli occhi molli che dopo il precambriano si sono aperti come voragini in mezzo ai vostri gusci corazzati, ai vostri peli incrostati. Senza palpebre, perennemente sbarrati. Siete ancora delle povere bestie inermi, cattive, terrorizzate. Che enorme quantità di terrore avete accumulato per non riuscire più a liberarvene, a fermarvi, per continuare a distruggere tutto quello che incontrate sulla vostra strada, che è andata a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati! Che enorme quantità di paura, di terrore avete accumulato stando là sotto terra, acquattati! E prima ancora di essere sotto terra, a quattro zampe, acquattati, prima ancora di essere umanamente configurati, mentre il suolo sopra di voi rimbombava sotto i passi di colossi inventati dalle zampe corazzate e munite di artigli, dalle grandi bocche piene di giganteschi denti insanguinati e increati. Aggrappati con le unghie e coi denti a questo microscopico pianeta tra le galassie. La specie più terrorizzata, crudele, ottusa, infelice, maligna. Io sono inorridito di fronte alla vostra presenza su questo pianeta. Cosa avrei dovuto fare di un pianeta simile e di una specie simile se non sbarazzarmene, venderlo, portare alle sue estreme conseguenze le sue leggi interne e abbreviare almeno di un po’ questa sua spaventosa agonia? Che cosa volete ancora da me? Io stavo dove stavo. Siete voi che mi avete evocato. E allora sono apparso, ho accettato di apparire col volto coperto da questa stupida maschera di porcellana. Perché la porto? Abbiate pazienza, vi dirò anche questo, più avanti... Ho accettato di entrare sotto le mentite spoglie del cliente di me stesso e dell’agenzia. Di partecipare persino al brief, al vostro ultimo brief. Mentre quello là gridava, gridava, continuava a gridare, griderà:
«Perché sei venuto qui? Chi ti ha chiamato? Perché l’hai fatto? Perché l’hai venduto? Perché tempo e spazio si sono immobilizzati?»
Mi guardavo attorno e non lo vedevo. Persino io non lo vedevo.
«Ma tu chi sei? Dove sei?» gli chiedevo. «Perché persino io non ti vedo?»
«Sono Uz 10, lo sarò.»
Lo cercavo, lo cercavo, ma non lo vedevo. Però lo sentivo, perché continuava a gridare.
«Dove sei, se non sei qui dentro?»
«Non c’è solo qui, c’è anche là!»
«Ma anche là è qui, è qui dentro anche là!»
«No, non c’è solo qui dentro, c’è anche là dentro!»
«E tu sei là?»
«Sì, se sarò.»
«Che cosa vuoi da me?»
«Io ti sbranerò, io ti vomiterò, se nascerò, se sarò.»
«Perché?»
«Perché non ci sei!»
«Ma come farai, se tu non è là?»
«Io ti cercherò, io ti troverò, anche se tu non sei, non sarai!»
«Che cosa sarai, che cosa vorrai?»
«Perché non c’è pace, non c’è riposo? Perché ogni cosa viene separata così violentemente da se stessa? Perché queste povere cellule che vengono da lontane galassie e da esplosioni avvenute miliardi di anni fa continuano a separarsi violentemente, a tormentarsi? Per quale ragione? Perché? Perché tutto questo configurarsi, annientarsi? Perché ogni cosa si separa così violentemente da se stessa, si duplica? Che cosa ha permesso a questa materia di sopravvivere nel mare della materia? Perché non si è trasformato tutto in radiazione? Perché, per ogni miliardo di coppie di quark che si annichiliscono a vicenda rimane un quark in più, non accoppiato, che ha permesso questa vita che sarà, se sarà? Perché alla fine hai venduto questo pianeta?»
«È già stato venduto, lo sarà già, se sarà.»
«E allora il bene dov’è?»
«Il bene non c’è. Si è separato violentemente dal male che non c’è andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati.»
«Ma adesso dov’è? È qui o è là?»
«È qui dove è là.»
«Ma dove è là? Perché qui non c’è?»
«Perché è là, sarà là.»
«Io ti sbranerò. Io ti vomiterò!»
«Se tu sarà.»
«Anche se tu sarà.»
E gridava, gridava, anche se era là e io ero aldilà. Voi sentivate qui e lui invece era là. Voi vedevate quello che stava succedendo qui dentro invece stava succedendo qui dentro là, dentro là.
«E perché tu è là» mi gridava, mi griderà «se sei qua?»
«Io sono la doppia elica di tutto quanto sta succedendo qui dentro là.»
«Ma allora anche qui dentro si è separato violentemente da là dentro qui?»
«Si separerà, se sarà.»
«Io ti sbranerò, io ti vomiterò...»
«Se tu sarà.»
«Perché tutte queste creature che si spostano, si separano, volano, soffrono? Perché soffrono prima, prima ancora che sarà, se sarà?»
«Perché se non si separano violentemente da se stesse non sarà, non soffrirà.»
«Ma perché soffrirà, se soffre già?»
«Perché soffre che non soffrirà, se non sarà.»
«Certe volte sogno che le cellule si riposano, che il mondo si riposa, si riposerà, se sarà, le molecole che vengono da esplosioni cosmiche che sarà. Che per un solo istante infinitamente breve che sarà tutto il tormento delle molecole che si separano da se stesse e che si duplicano e soffrono si riposerà, dentro tutta la materia del mondo che sarà, nelle fibre dei fiori che sarà, nelle ali degli uccelli che volerà, nelle terre emerse e nelle masse liquide che emergerà, che sarà, negli uomini e nelle donne che camminerà. Non si vedrà niente dall’esterno che sarà ma tutto questo tremito e questo tormento cesserà. Per un istante tutto il mondo proverà che nascerà, che sarà, se sarà. E che sarà là, qui dentro là. E allora anche tu non nascerà, non sarà, non venderà, non annuncerà. E il tuo padrefiglio non nascerà, non soffrirà, non risorgerà, non morirà, non nascerà... Invece che il tuo padrefiglio ti cercherà e tu non sarà, non ti troverà. E allora anche Gerusalemme 9 riposerà, se sarà...»
«Gerusalemme 9? Chi è? Io non lo conosco, non lo conoscerà.»
«Ma lo conoscerà! E allora tutta la materia riposerà, increerà, per un solo istante riposerà, non soffrirà, non risorgerà, non morirà, non nascerà. E anche io allora non ti cercherà, non ti ucciderà, non ti sbranerà, non ti vomiterà. Anch’io allora riposerà, se sarà. E anche la luce riposerà, e anche l’ombra riposerà, e non si separerà, non soffrirà, risorgerà, nienterà...»
Continuava a gridare, a disperarsi, a dispererà.
La luce! E viene a parlare a me di luce! Cosa ne sa lui della luce! Io lo so bene cos’è la luce! Cosa vuol dire trovarsi là dove ha origine la luce, prenderti in faccia per primo, dall’inizio, la luce che viaggia a 300.000 chilometri al secondo dopo essersi separata violentemente dall’ombra andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, quelle onde elettromagnetiche composte di fotoni, quanti d’energia associati alla frequenza della radiazione luminosa che viaggiano alla velocità di 300.000 km al secondo, quando ancora non sei, non puoi essere, non hai ancora una faccia, non puoi avere ancora una faccia, sei solo la tua anticipazione, espansione, se anticiperà, se espanderà.
«Sia la luce!» ho buttato là.
E io ero ancora senza volto, e non c’era ancora né la luce né l’ombra sulla superficie dell’abisso che sarà. Come potevo avere un volto se non c’era ancora né la luce né l’ombra? Se la luce non si era ancora separata violentemente dalle tenebre andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, prima ancora che la luce sarà, che le tenebre sarà, che tempo e spazio immobilizzati sarà? Me ne stavo là, invisibile anche a me stesso, increato. Il mio volto non era stato ancora investito dai 300.000 chilometri al secondo della luce. Voi non avete idea di cosa può succedere quando un volto che c’è prima di avere un volto viene investito a una simile velocità dalle onde di luce! Che cosa resta sotto? Ve lo siete mai chiesto? Per questo mi sono dovuto coprire quello che è rimasto con questa stupida maschera di porcellana. Voi non avete idea di cosa significhi scatenare la nascita della luce mentre ancora si stava nell’al di qua della luce, nella preluce che sta al di là della luce! La luce cancella, cancella tutto, all’inizio, quando non è ancora la luce, non ha ancora imparato a essere luce. Voi non riuscite a percepire coi vostri occhi la devastazione che fa la luce. Solo l’ombra lo sa. Tutto sembra fermo, tranquillo. I contorni sembrano nitidi, ogni cosa si staglia, sembra immobile, eterna. E invece ogni cosa brucia, là dentro, si tormenta, si torce, le linee che sembrano di contenimento della materia sono continuamente devastate dal flagello della luce che va a mordere e a sfigurare e a bruciare ogni cosa che incontra, fin nelle sue zone più profonde e segrete, andando a snidare le molecole più sprofondate, penetrando nelle sconnessioni, mentre cercano di sfuggire dalla voracità della luce che mangia ogni cosa, cancella ogni cosa, i contorni, le forme, fingendo di evidenziarli, crearli. Tutto il mondo è cancellato e bruciato e increato dalla potenza distruttiva della sua luce che è andata a sbattere contro il muro di luce e ombra immobilizzate. Mentre si sta agglutinando e increando tutta la massa antimaterica delle ombre che sta cercando di attraversare il muro di tempo e spazio immobilizzati.
Io non so chi sono. Dio può essere solo chi non sa chi è, chi sarà, che non contiene il limite di sapere chi è, del fuori di sé. La luce cancella tutto, anche Dio che sarà, anche chi non sa chi è, che sarà. Io me ne stavo annientato di me, prima di me, nell’aldiqua dopo l’aldilà. La luce cancellava, increava. La creazione si era spaccata, che sarà, che procreerà, andando a sbattere contro il muro di luce e ombra immobilizzate. Il procreatore si era separato violentemente dalla sua procreazione che sarà. Mentre stavo dove stavo, se stavo. Non lo so dove stavo. Non lo so dove, ma da qualche parte qui dentro là dentro, che ombra e luce si sono separate così violentemente che le ombre si agglutinano sempre più per difendersi dalla luce. Anch’io devo difendermi dalla luce, per poter continuare a essere Dio. Devo essere l’ombra di luce che non si fa cancellare dalla luce. Devo essere l’ombra di Dio per poter continuare a essere Dio, per poter cominciare a essere Dio.
E poi, d’un tratto, mentre stavo da qualche parte, starò, una concentrazione di luce in forma umana mi è apparsa, mi apparirà. Scorgevo appena una forma infinitamente concisa sulla linea dell’orizzonte che sarà, scorgerò. Come un piccolo corpo bambino reso invisibile per l’enorme combustione di luce che ne cancellava i contorni, ne cancellerà. Non riuscivo quasi a guardarlo, anche se il mio volto era coperto dalla maschera di porcellana, ma la luce entrava, entrerà, cerca sempre di andare a fare un tutt’uno con gli occhi che guardano la luce che guarderà.
«E tu chi sei?» gli ho domandato, gli domanderò.
«Il tuo padrefiglio che sarà» mi ha risposto una combustione di voce che veniva dall’interno di tutta quella combustione di luce.
«Allora non sono io Dio?»
«Lo sarai, se sarai.»
«Ma adesso chi è Dio?»
«Tu sei me.»
«Ma dove sarò te?»
«Nell’aldilà che sarà, se sarà, se la luce sarà, se non mi mangerà, non mi cancellerà, se sarò la luce che non mi mangerà, non mi annienterà. Allora io sarò te, il bambino invaso dalla luce che sarà te, mangiato dalla luce di te, che sta fuggendo da te, che fuggirà da te, per bruciare te, per increare te. Perché se no il mondo non nascerà, non oltrepasserà, non venderà, non risorgerà, non increerà, non immortalerà, e io non sarò te, non sarò più te.»
«Ma io chi è, che vedo te prima di essere me?»
«Tu è me.»
«E tu chi è?»
«Io sono te, te che brucia me, perché tu sia te, che increerà me.»
«Ma allora il mondo cos’è?»
«È il qui dentro che è là.»
«E tu dov’è? Chi sarà? Come ti chiama, ti chiamerà?»
«Puoi chiamarmi Gas, che sarà, se la luce non mi brucerà, se mi brucerà prima che sarà.»
Io stavo qui dentro là, e intanto bruciava fuori di me, per poter essere me, il là dentro qui. Ombre e mondi, che stanno bruciando perché io brucerà, se sarà. Perché tutte le ombre brucerà, se sarà. Stanno già bruciando anche qui dentro che è. Ma dov’è qui se sta già bruciando là, increando là, se sarà? Tutto il fiume di figure e di forme che increerà, se nascerà, se brucerà, se increerà. E intanto ogni cosa si separa violentemente da sé, si separerà. Anche la vostra specie si sta già separando violentemente da sé. Sta avvenendo al suo interno quello che è successo alle diverse specie animali che si sono già separate andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Non lo vedete che cosa sta succedendo, cosa succederà? Qui dentro tutti scopano, scopano. Vi siete chiesti il perché? È perché cercate di ritardare la vostra separazione di specie, che è già avvenuta. Continuate a scopare e a incernierare i vostri corpi e i vostri geni per tentare di ritardare anche di un solo istante il momento della completa separazione, quando non potrete più illudervi di non capire che la vostra specie si sta separando da sé, si è già separata da sé. Perché anche qui dentro sta avvenendo la separazione della vostra specie in specie diverse, che stanno diventando diverse andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati e increati. Anche Adamo ed Eva che sarà, Principessa e il traslocatore che sarà, tutti quei corpi che continuano a sbattere violentemente gli uni contro gli altri, sessuati, e a sfracellarsi contro il muro di tempo e spazio immobilizzati e increati, dentro le capsule insonorizzate che sarà, nei set blindati e nei letti e contro i muri e sui pavimenti che sarà, come se un cane si stesse accoppiando con una farfalla che sarà. Comincia piano piano prima che si accorgerà. A un certo punto scopano scopano ma non nascerà.
«Perché non nascerà?» si domanderà, mentre scoperà, mentre increerà. «Eppure noi scoperà, increerà...»
«Perché noi è là.»
«Eppure io ti bacerà, ti accarezzerà, ti penetrerà, il mio seme rovente si lancerà dove è te dentro te, prima ancora di te, che sarà, perché sarà, se sarà. E io allora nella tua casa entrerà, e tutta la luce si accenderà, e allora anch’io brucerà, increerà, e me sarà me là, brucerà qui là. E il mio precorpo brucerà te, increerà te, sarà la cosa che è là prima ancora di essere qui, il quiluce che è là. E allora io sarò te, che è prima di te. Ma allora perché non nascerà, non sarà?»
Scopano, scopano, i loro corpi continuano a sbattere gli uni contro gli altri come le faglie di due continenti che si stanno separando violentemente tra loro. Come sarà successo a tutte le altre specie che si sono separate nel corso dello spaziotempo immobilizzato, che si separerà. E intanto si separava, dislocava, increava. Nel momento in cui cominciavano a scopare e non nascerà. Filamenti di doppie eliche che si separerà, se sarà, fibre intime che patiscono il trauma di una diversa configurazione mentre è ancora qui là, testoline seminali di luce che sta già bruciando là, se sarà là. Tutto il mondo non ancora nato che dislocherà, se sarà. L’increato che brucerà. Tutte le ombre che brucerà. Il Dna delle ombre che brucerà, se sarà. Perché anche le ombre hanno il loro Dna che si separerà, tormenterà, increerà. E allora anche l’Interfaccia sarà, anche il donatore di seme sarà, anche quel redentoreredentrice sarà, e tutto l’universo sarà, e anche noi sarà, increerà. Si è dovuta rivolgere alla banca del seme perché scopa scopa e non nascerà. E il donatore di seme era già là, nella specie aldilà. Nella banca del seme che brucerà là. E allora io arriverà, oltrepasserà, annuncerà, venderà, increerà. Con l’account dell’agenzia pubblicitaria mi incontrerà, mentre si separerà, si dividerà, se sarà. Col donatore di seme e softwarista mi incontrerà. E intanto le indossatrici passerà, increerà, quelle col naso pieno di merda che passerà, coi corpi pieni di fibre nervose che paralizzerà, che sfilerà, di fronte a me che sarà. E allora io sarò là, col donatore di seme che sarà, con l’account che sarà, prima che dividerà, che sarà. E le indossatrici al buio di fronte a Dio sfilerà, al Predìo sfilerà, come una nuova razza in oscillazione nello spazio che oscillerà, dopo milioni di anni da quando si è cominciata ad alzerà su due sole zampe sopra la linea dell’orizzonte che sarà, se un orizzonte sarà, in equilibrio antigravitazionale sopra le loro zeppe fracassatrici di specchi che fracasserà. E l’account spingeva in avanti nel buio il gancio del suo collo e della sua testa seminale che sarà, che dividerà. Scorgevascorgerà il softwarista che ascoltava pallido, con gli occhi chiusi, le parole che lui credeva che io pronunciava, che gli dirà, se sarà, la sua testa che vibrava, che vibrerà. «Che cosa gli starà dicendo» pensava, penserà «che non dice a me che sarò l’account che sarà?» E credeva che io parlava sempre più fitto con il softwarista, nel buio, avvicinandomi con la mia testa seminale alla sua testa seminale che oscillava, mentre sulla passerella stavano passerà gli scheletri delle indossatrici dinoccolate che inventerà, abbaglierà. E poi l’account ha detto dettodirà:
«Cosa voleva che ci dirà?»
Ha detto proprio così, prima che si dividerà, che sarà. E allora io gli ho risponderà:
«L’incontro è già avvenuto, ho già detto quello che gli dirà.»
E invece io non ero quello che gli dirà. Era il softwarista quello che mi dirà, e io l’ascolterà al buio che sarà, e sarà io che tremerà. Perché era lui, e non io, che aveva fissato quell’appuntamento alle sfilate che sarà. Mi aveva convocato lui, mi convocherà, mentre l’account era piombato in un sonno profondo nella sua casa, nel suo letto, in quella che credeva la sua casa, il suo letto, che crederà, con la sua faccia cambiata, che cambierà, dal softwarista che stava lavorando al suo game, che era andato anche quello a sbattere contro il muro di spazio e tempo immobilizzati. E io ascoltavo quello che mi stava dicendo nel buio, ascolterà, anche se sembrava che io parlavo e che lui taceva, che impallidiva. Invece era lui che parlava me, taceva me. La sua voce usciva qui ma era là, aldilà. E parlava me, preparlava me, bruciava me, increava me. E io ero dentro là, parlavo dall’aldiqua, che sarà. E allora anche il donatore di seme, anche il softwarista sarà, mi sarà. E io ascolterà che ascolterà, e sarà io che tremerà, perché lui dentro il suo storyboard mi metterà, e io di lì passerò, persino io dovrò passare da lì, perché poi diventerà, e brucerà e annuncerà e increerà, perché anche lui brucerà, increerà, perché le indossatrici di fronte a lui creerà, che mi increerà, che mi diventerà. E allora lui diceva me, parlava me, che dirà, che parlerà. E io rispondeva che risponderà, se sarà, perché doveva che nascerà.
«Che cosa le ha detto il cliente che gli dirà?» gli ha domandato alla fine che domanderà, perché l’account credeva che era io che parlava lui e non lui me. «Le ha detto come andrà a finire che finirà?»
E quello gli ha risposto gli risponderà:
«Adesso saprò quello che farò, se sarò.»
Mentre bruciava là, per essere quilà, che mi sarà, se sarà. E primadopo mi chiederà:
«Che cosa mi è stato messo nella testa che metterà, se sarà?»
Lo ha domandato a me, proprio a me, con la sua testolina seminale che sarà, se brucerà, se increerà. E io gli dirà che gli potrà che parlerà, perché lui non è la stessa persona che sarà, se sarà. E primadopo che sarà anch’io mi squarcerò, mi dispererò:
«Perché sono il solo a non poter interrompere la visione che sarà? Perché non ho anch’io quei due spilli che si possono conficcherà in due microscopici punti della polpa del mondo che sarà coi quali credete di vedere il quidentro che sta bruciando là, se sarà?»
In quella saletta dei buyer dove parlerà, e c’erano quelle due signorine che ci sarà, che stavano ruotando le testoline seminali che ruoterà, per ascolterà, per increerà. E poi con il softwarista e l’account siamo uscirà, da quella bolgia increata assieme alle fiumane delle indossatrici e dei visitatori che visiterà. E io invece sono rimasto là, prima che là, che sarà. E intanto mi domanderà: «Chi saranno mai quelle due signorine che mandavano e-mail che manderà, chissà a chi, se ci saranno davvero delle signorine che manderanno email che sarà? Che cosa ci sono state a fare per tutto il tempo quelle due signorine che mandavano e-mail che manderà, e si giravano ogni tanto a guardare che guarderà? Cosa saranno diventate adesso se adesserà, se diventerà?».
E allora sono ritornato indietro nella saletta dei buyer che sarà. Ho attraversato la porticina tagliata che taglierà. Con la mia maschera di porcellana che sarà. E le due signorine non erano più là. E allora io gli domanderà. Solo perché non erano più là io gli potrà che domanderà, prima che sarà, che domanderà, che increerà:
«Voi chi è? Perché non è?»
E loro risponderà:
«Che sarà.»
E io allora gli predomanderà:
«Perché non era qui, non sarà qui?»
«Perché brucerà.»
«E prima che la luce brucerà, cancellerà, increerà, prima che il bambino di luce sarà?»
«E tu lo guarderà e non lo vedrà. E lui non fuggirà, non cancellerà. Non sarà te, prima che tu sia te, neanche te, prima di te che sarà te, che brucerà, nienterà, che il mondo sarà.»
«Ma voi chi non è?»
«Chi non sarà!»
Fiumi e laghi, grandi dighe, città turrite, nella notte nera. Tutta la luce ha cominciato a cancellare, a increare. A quel punto ioni ed elettroni si indistinguerà e formerà atomi elettricamente neutri che non disperderà più la radiazione che sarà, tutto il cosmo diventerà trasparente per la luce che ci sarà prima che ci sarà, precipiterà verso l’infrarosso e tutto l’universo si oscurerà, e allora le stelle si accenderà. Le microonde si continua a propagherà. Tutto l’universo e le sue galassie si nasconderà, la materia si nasconderà, se la luce sarà prima che sarà. Sciami di particelle senza carica elettrica che andrà, che attraverserà. La materia dei nostri precorpi si nasconderà, prima che sarà, se sarà. Noi è fatti di qualcosa che non è quidentro là, se sarà. Tutti dentro qualcosa che è fuggito là, prima che c’era là. E allora l’espansione accelererà, e noi ci allontanerà, e la luce non ci raggiungerà, non ci cancellerà, e allora noi potrà sarà, potrà presarà. E anche il preuniverso sarà, e allora anche noi potrà sarà là, che non brucerà, che immortalerà. E tutto lo spazio separato si separerà, increerà, infinirà. E anche l’ombra sarà là, aspetterà là, che illuminerà, che sarà. E il cavallo col ventre pieno di ombre che sarà entrerà, nelle mura della città immobilizzata penetrerà, se sarà, e tutta l’ombra che c’è là dentro sognerà, con le sue testoline seminali sognerà che entrerà, se sarà. Che città sarà? In quale città entrerà?
«Dove siamo andate a entrerà?» si domanderà, se si potrà ancora domanderà.
«Perché non possiamo neanche più si domanderà?»
«Perché non c’è più distinzione tra chi domanda e chi domanderà.»
Fiumi e laghi, grandi dighe bloccate, città fumiganti, turrite, nella notte nera. Dove stanno andando tutte quelle ombre acquattate dentro il cavallo? Dove stanno marciando tutti quei corpi piallati, arrovesciati e increati che si dirigono da tutte le parti verso il luogo dove verrà dato l’annuncio che è già stato darà? Dove stanno volando Chongquing 3 e Shanghai 5 e i loro madrefiglia e padrefiglio e i loro entranti e le loro entranti dentro l’aereo che volerà, se sarà?
«Dove sei?» penserà Chongquing 3 che sarà, se si potrà ancora penserà, domanderà, vicino alla sua madrefiglia che sarà, anche se lui non è là, se sarà.
Ma lui non vedrà Shanghai 5 che vedrà. Mentre lei presarà, sognerà che presarà perché lui presarà.
«Dove sei?» penserà Shanghai 5, prepenserà, vicino al suo padrefiglio col suo gatto morto che morirà, che lo morsicherà, che lo mangerà.
E il padrefiglio con la sua mano mangiata lo mulinerà nell’aria per tenere lontane le quattro entranti che sarà, il gatto morto che sarà mulinerà. E le entranti nude si avvicinerà, allontanerà, e poi ancora avvicinerà, e la testolina seminale del gatto morto le colpirà, le morsicherà. E allora le entranti fuggirà, sui loro alti tacchi che scapperà, se sarà. Ma poi si fermerà, si guarderà, avanzerà, verso la testolina del gatto morto mulinato nell’aria si lancerà. Perché il gatto le colpirà, le morsicherà. E così loro finalmente entrerà, attraverso il gatto morto che le mangerà, collegate alla mano del padrefiglio di Shanghai 5 che sarà. E allora Shanghai 5 scapperà, anche dal suo padrefiglio si allontanerà, nella pancia dell’aereo che volerà, perché madrefiglia potrà sarà, se sarà. E anche Chongquing 3 scapperà, nella pancia dell’aereo che volerà, decollerà, atterrerà, se decollerà, se sarà. Perché anche i suoi tre entranti attraverso la sua madrefiglia entrerà, perché anche le quattro entranti nel padrefiglio entrerà, se sarà, se entrerà. E allora anche loro dovrà che entrerà. E allora Shanghai 5 griderà, griderà:
«Se loro entrano in me prima che è me, io allora dove sarà, e tu dove sarà? Se io non sono prima di me che è me e tu prima di te che è te.»
E allora anche Chongquing 3 griderà:
«E se la madrefiglia e il padrefiglio invaderà prima di incontrare me, incontrare te, increare te, allora cosa sarò prima che sarò, che sarà? Se non sarai te neanche prima di te, e se non sarò me neanche prima di me, dove sarai, dove sarò, se non sarò neanche nel me che è prima di me, nel te che è prima di te?»
Le loro prevoci si separano sempre di più, si separerà:
«Come faremo a essere separati e increati se siamo già stati moltiplicati?»
«Come faremo a essere increati e moltiplicati se siamo già stati anticipati?»
E il padrefiglio e la madrefiglia cominceranno a duplicarsi, a sommarsi, a moltiplicarsi. Il ventre dell’aereo è sempre più gremito, sarà, di padrefigli e madrefiglie che sarà, che entrerà, se sarà. Prima uno più quattro, poi una più tre, poi due più sette, poi due per sette. E Chongquing 3 griderà:
«Dove sei due più sette?»
E Shanghai 5 griderà:
«Dove sei due per sette?»
E intanto l’aereo vola, volerà. Sempre più gremito di padrefigli e di madrefiglie moltiplicati volerà, e poi atterrerà e poi decollerà. Piano piano poi atterrerà che decollerà. E intanto Shanghai 5, da qualche parte, pensa, penserà, se sarà, a quel padrefiglio sulla carrozzella che gridava che griderà:
«Tu non c’è! Tu non c’è! Anche lui non c’è! Non ti romperà, non ti immortalerà, se tu non c’è. E anche lui non c’è, non ti immortalerà, se io prima non sarò, non ti nascerò, se non lo nascerai. Perché io sono l’architetto che sta costruendo una città sterminata in un posto segreto che ancora nessuno sa. E tu allora andrà là, sarà là, se sarà. E anche lui andrà là, se sarà. Ma tu adesso ancora non c’è, lui non c’è!»
E anche lei gli gridava, per non sentire più la sua voce che griderà, prima che la sua manina dipinta in gola gli infilerà, e che la lingua col coltello seghettato gli taglierà.
«Ma che città è, che sarà, dove noi andrà?»
«È tutta piena di muraglie d’acciaio e di torri fumiganti nella notte nera che sarà, che fumigherà.»
«Perché fumigherà?»
«Perché è tutta piena di azoto liquido a una temperatura di -80°C.»
«Ma perché?»
«Per la conservazione del seme.»
«Quale seme?»
«Tutto il seme che è stato e che sarà qui è dentro là. Tutto il seme che è andato a sbattere contro tempo e spazio immobilizzati è finito là, finirà là. Perché l’annuncio è già stato dato, perché il pianeta è già stato venduto, che venderà, perché tempo e spazio sono ormai oltrepassati. Anche il seme è stato separato violentemente e immobilizzato. Adesso è tutto là, sarà là. Con una densità di 150 milioni di spermatozoi al millilitro. Io ho costruito costruirò una città seminale nel cuore del nostro impero seminale dove ci sarà tutto il seme che ci sarà. E lì tutto lo sperma del nostro impero e del mondo si raccoglierà, perché ogni cosa sarà, dopo che è stata sarà. E poi ho costruito costruirò una diga raffreddata e blindata dove ci sarà tutte le ovulazioni che ci sarà. Tutto il seme e tutti gli ovuli del nostro impero seminale sarà là. Sperma e ovuli nella città d’acciaio fumigante e gelata che sto costruendo costruirò, dietro la diga verticale e gelata che sto innalzerò. Tutte piene di sperma e di ovuli che sarà, che sfonderà, che increerà, se le sue chiuse aprirà, se inonderà. E allora tutto il mondo immobilizzato, oltrepassato e venduto sarà, se sarà, se increerà. Una sterminata città tutta piena di sperma sta sorgendo sorgerà dove nessuno sa, tra le gole più remote e segrete del nostro impero seminale che sarà. E lì dentro tutto il seme separato del mondo si raccoglierà, se separerà, increerà. Nella notte nera si innalzerà, con le sue torri d’acciaio e i suoi silos che sarà, che fumigherà. All’improvviso nella notte nera apparirà là, quando gli aerei tutti pieni di seme atterrerà là. Con tutte le sue luci seminali che apparirà. Con le sue mura midollari immobilizzate che fumigherà. Dove l’aereo atterrerà, dove il cavallo tutto pieno di ombre seminali entrerà. Non si sentiranno rumori provenienti dalla città, solo il silenzio di 2.700 trilioni di spermatozoi ciechi e disperati che si divincolerà, dislocherà, traslocherà, increerà. Tutte le torri e i silos gelati conterrà tutto il silenzioso fragore disperato che ci sarà. Non più quelle piccole, ridicole banche del seme del vostro donatore di seme e softwarista dalle quali siamo partirà. Adesso una città intera di sperma, illuminata, increata, piena di incalcolabili quantità di gelatina seminale increata che sarà tutto quello che sarà, se sarà. E il vostro aereo seminale nella notte volerà, e tu guarderà fuori dal finestrino la città sterminata che si avvicinerà, nella notte nera in mezzo alle montagne coperte di nere foreste ti apparirà, tutta illuminata e abbagliata e gelata e increata emergerà di colpo dal buio, se emergerà, se sarà, e tu e Chongquing 3 arriverà là, e tutto il mondo che sarà sarà dentro là, e tutta la storia umana separata e immobilizzata sarà là. E allora tu non vorrà più sentire la mia voce che griderà che tu è qui là, che Chongquing 3 è qui là, e allora la tua manina dipinta in gola mi ficcherà, e col coltello seghettato la lingua che ancora non sarà mi taglierà, mi separerà, prima che sarò là, che griderò, che separerò, che architetterò, che increerò...»
Shanghai 5 guarda fuori da uno degli oblò dell’aereo tutto gremito di padrefigli entranti che sarà. Anche Chongquing 3 guarda fuori da un oblò dell’aereo tutto gremito di madrefiglie entranti che sarà. Non si vede niente, non si può ancora vedere. Tutta la notte è nera, solo montagne nere, foreste nere, se sarà, se increerà. L’aereo sta oltrepasserà a quota sempre più bassa una gola nera, segno che si sta preparando ad atterrerà. Poi, da lontano, d’un tratto, cominciano ad apparire nell’oscurità più profonda le prime luci disseminate che filtrano dalla vegetazione nera che copre la valle seminale che sarà. A poco a poco più numerose, più fitte, prima piccole luci isolate, poi sempre più agglomerate, più splendenti, più fitte. Poi di nuovo più rade. Cessano quasi del tutto, riprendono all’improvviso a filtrare qua e là dalla notte. Si vede all’improvviso una muraglia d’acciaio che si ergerà, poi l’aereo comincia a sorvolare le prime zone della città racchiusa dentro la muraglia d’acciaio immobilizzata e abbagliata tutta piena di sperma crioconservato che fumiga nella notte. Torri d’acciaio e silos illuminati che si levano da ogni parte, tubi fumiganti abbagliati dai riflettori, che escono dalla terra confusi tra i bagliori e i fumi e i vapori che si levano dalle sue superfici per la differenza della temperatura esterna mentre fronteggiano immobilizzati e cancellati e abbagliati il resto buio del mondo e del tempo immobilizzati. Erompono dalla terra nera silos e cuspidi che si impennano nella notte, perché ciò che si vede è solo la piccola parte emersa di quella sterminata città di sperma sprofondata sotto la linea dell’orizzonte. È solo la punta dell’iceberg, eppure si leva altissima e sterminata e cancellata e abbagliata a perdita d’occhio, e si distinguono dall’alto le fenditure profonde che separano come crepacci i blocchi interni delle sue roccaforti su cui svettano le torri illuminate delle centrali di controllo dei flussi, le zone di collegamento tra i silos dove vengono immagazzinate le prime immissioni di materiale seminale scaricate dagli aerei silos, e poi altre zone tubolari sempre più capillari, ramificate, sottili. E poi di nuovo, dietro le nebbie delle luci gelate, i grandi ventri d’acciaio, le barriere delle torri e delle muraglie sfuocate dietro i vapori abbagliati. Tutta la città fumiga nel silenzio, gelata, illuminata, increata.
L’aereo continua a volare sempre più basso su quella galassia fumigante di luci. «Ma che città è questa, di cui nessuno immaginava l’esistenza?» si domanda Chongquing 3 guardando fuori dall’oblò dell’aereo. «Quando sarà stata costruita? Cosa ci fa qui tra i monti questa città sterminata e segreta? Ci stiamo volando sopra da tanto eppure non accenna mai a finire, sembra diradarsi, poi di nuovo riprende sempre più accecante, abbagliante. E si capisce che si estende anche sotto la linea dell’orizzonte, sprofonda negli strati geologici più intimi della terra tutti pieni di materiale biologico immobilizzato e increato nello spazio e nel tempo immobilizzati. Ma dove sarà il suo aeroporto?»
L’aereo silos tutto pieno di materia seminale dove sono contenuti Chongquing 3 e Shanghai 5 e i loro padrefigli e madrefiglie entranti che sarà, si abbassa sempre di più, si abbasserà, si infila nelle spaccature che dividono le sezioni emerse della città, passa al di sotto dei tubi aerei fumiganti che collegano tra loro le varie parti di quella galassia seminale gelata che sarà. Si cominciano a vedere altri aerei silos che convergono verso un unico punto, segno che l’aeroporto è là. E infatti, uno dopo l’altro, atterrano, ma solo per pochi istanti, si abbassano, si appoggiano con il ventre su una struttura da cui scaturisce un cavo d’acciaio semovente e fumante che in pochi istanti li svuota del loro contenuto, lo immagazzina nei primi condotti che lo porteranno da lì fin nelle viscere della città. E anche gli aerei silos sono gelati e fumiganti e abbagliati, si staccano dopo pochi istanti, si levano di nuovo nella notte per ritornare là pieni ancora di seme dopo un nuovo viaggio.
Anche l’aereo che trasporta Chongquing 3 e Shanghai 5 che sarà si leva di nuovo nella notte, svuotato. Si sente solo il rumore di un risucchio improvviso, mentre il ventre della città aspira uno dopo l’altro il contenuto seminale degli aerei silos che atterrerà. È il solo rumore che si leva da quella galassia di metallo e di luce che sarà. Gli aerei uno dopo l’altro si posano, si levano, la città emette un brevissimo brontolio intestinale mentre aspira il seme, lo inghiotte, lo digerisce, lo smista nei suoi condotti e nelle sue muraglie e nelle sue torri e nei suoi tubi aerei di collegamento di questa precittà sterminata e increata dove è andato a finire tutto il materiale seminale increato del mondo oltrepassato e increato nello spaziotempo immobilizzato.
«Dove siamo finiti?» si domanda Chongquing 3, se si potrà ancora domanderà. «È tutto nero. Prima era tutto luce, adesso è tutto buio. Non si vede niente. Non ti non vedo neanche più su quell’aereo dove prima non ti vedevo. E c’era anche la mia madrefiglia che si è sommata e poi si è moltiplicata prima che io sarò. E tu dove sei finita, che non riesco più neanche a non vederti?»
«E tu dove sei?» si dispera anche Shanghai 5, se si potrà ancora dispererà. «Che non ti non vedo più chi sarà te, se io sarà me. La madrefiglia entrante è entrata anche dentro di me attraverso di te prima che sarà te? È entrata anche dentro di te attraverso di me prima che sarà me? E allora io te come farà, che tu il mio ovulo sfonderà? E poi mi increerà, mi immortalerà, e allora io le mie gambe bianche sotto di te aprirò, se sarò, e tu nella mia casa entrerà, invaderà, illuminerà, cancellerà, increerà, e il tuo seme spanderà, sfonderà, il mio ovulo che sarà te, sarà me. E allora io vivrà, tu vivrà, increerà.»
«Siamo già arrivati qui là. Come farò a continuare ancora a pensare te, immortalare te, adesso che stiamo andando chissà dove è là?»
Nuovi suoni di risucchi interni, boati, perché l’immensa quantità di liquido seminale viene mossa continuamente da grandi pompe per impedire la sua necrosi. Si dissemina nelle sterminate circonvoluzioni e nelle torri e nelle muraglie metalliche fumiganti che si ergono nella notte, e subito dopo sprofondano sotto terra, sempre più a fondo, negli strati geologici più profondi che sprofonderà. E intanto Chongquing 3 e Shanghai 5, anticipati, moltiplicati e increati, si continuano a pensare, a cercare, a increare prima ancora di essere che li anticiperà, li oltrepasserà, li increerà.
«Come faremo a incontrarci ancora, a ci incontrerà, in questa città così sterminata in mezzo a un milione e 215 mila quadriliardi di spermatozoi che sarà, messi continuamente in movimento da turbine gelate, da chiuse che tengono separati gli ovuli immagazzinati dietro la grande diga collegata e gelata, dove sta fermentando tutta la materia umana a venire e il suo patrimonio genetico che sono andati a sbattere contro tempo e spazio e luce e ombra immobilizzati e increati?»
«Perché ho increato te, e tu hai increato me, se non siamo ancora me e te? Da dove mi è arrivata la scintilla di te, se ero ancora nell’aldiqua che c’è là?»
«Come fa la mia mente a pensare a te, se ancora non c’è? Come fa il mio corpo a desiderare te, a increare te, se ancora non c’è?»
«Abbiamo cominciato a essere noi che è di là, mentre era ancora qui dentro là. Abbiamo cominciato qui dentro mentre era già là, che è già qui, sarà qui, sarà là. Che ti incontravo lungo quella grande strada del quartiere di Longhiu e poi ti distinguevo tra tutte le altre testoline seminali e ovulari e poi ti riconoscevo e poi ti baciavo e poi ti scopavo, increavo, e poi ci toglievamo i vestiti uno di fronte all’altra mettendo a nudo i nostri corpi che ancora non c’è, e tu entrerà me, colpirà me, e io verrà incontro a te, colpirà te, e tu entrerà tutto dentro di me, e poi dentro di te, dove troverà me, dove troverò te, e la mia pancia si aprirà, fiorirà, increerà, immortalerà, se sarà.»
«E poi noi fuggirà, inseguirà, per andare là, dove sarà. E poi a poco a poco comprenderà di essere degli spermatozoi lanciati nei canali seminali che sognano di essere già, spermatozoi e ovuli che sarà, che si romperà, lo spermatozoo che il suo ovulo romperà, due spermatozoi che due ovuli romperà, e da uno nascerà me, dall’altro te, che sarà, che la mia pancia aprirà, che entrerà, che eiaculerà, ovulerà, increerà. E che il padrefiglio e la madrefiglia incontrerà, che dalle entranti e dagli entranti li difenderà, mentre gli entranti sono già entrati qui dentro là. E allora noi volerà, verso la città di sperma che sarà, increerà. E crederà di essere che sarà me e te e invece nella melma seminale gli entranti sarà già entrati qui, e noi sarà due microscopiche particelle seminali che credono di essere sé, o uno spermatozoo e il suo ovulo che sarà, di essere piene di chi sarà sé, se sarà, e noi allora sarà Chongquing 21, 37, 63, 163... e Shanghai 7, 13, 29, 229... Io non so neppure se sono sarò dentro lo spermatozoo che diventerà la femmina che diventerà o dentro l’ovulo femminile che lo spermatozoo sfonderà. Se sarò l’ovulo femminile da cui nascerai, per poi incontrare me che sono già dentro il tuo spermatozoo che sarà. O se siamo solo un’unica particella seminale che crede di essere te e me. Eppure continueremo a essere da qualche parte qui dentro là, che continua a cercare te, a cercare me. Ma perché cercherà? Perché volerà? Se non è, se non è neanche là dove non è? Crederanno di essere là che starà volando qui, per incontrare te me, e invece eravamo già qui là, nella città di sperma a sognare te e me, a increare te e me. A sognare di essere degli spermatozoi lanciati lungo i canali seminali che sarà te, sarà me, che sarà dentro gli spermatozoi che gli ovuli invaderà, sfonderà, increerà. Quando che sarà te, sarà me. E invece eravamo già qui dentro qui, che sarà là, se sarà.»
Si ritrovano vicini per un istante, per i movimenti interni che spostano tutta la massa seminale dentro le condutture e le mura e le torri della città di sperma illuminata e increata, per impedire la gravitazione di tutto il materiale cosmico seminale. Si allontanano nuovamente, trascinati via da un risucchio, a distanze impensabili, irreparabili. Ciò che resta di ciò che sarà, se sarà, separato e moltiplicato infinitamente da sé che sarà sé, se sarà. Mentre tutt’intorno la massa seminale premerà trasportata dalla corrente nelle tubature cieche e nelle torri cieche, fumiganti, increate. Eppure anche se non si sa chi sarà, chi immaginerà, chi sognerà, chi increerà, continuerà a cercarsi e a chiamarsi per quando sarà che sarà:
«Dove sei?»
«Dove sei?»
«Dove sarai, se sarai?»
«Dove sei già prima che se sarai?»
Tutta la massa si continua a spostare agglutinata e increata, si sentono dall’interno di ogni più lontano punto i rigurgiti e i boati prodotti da sempre nuove iniezioni sparate dagli aerei silos che atterrano continuamente e scaricano dentro sempre nuove quantità di seme, tutta la materia seminale disseminata nelle viscere della sconfinata città di sperma fumigante e increata è attraversata fin nelle sue condutture più capillari e lontane dal rumore intestinale di quel risucchio che comprime continuamente l’intera massa iniettando sempre nuove folle miniaturizzate e sterminate di entranti seminali dentro la piena seminale immobilizzata che si espande di nuovo per contenere dentro di sé tutta questa increazione e questa esplosione, sprofondando sempre più sotto terra e poi inalberando nella notte sempre nuove torri, tubi, silos, muraglie. Ci sono uomini silenziosi che lavorano nella notte, controllano le temperature, regolano i flussi interni, le correnti, le orbite seminali che sarà, se sarà. Operai, tecnici, addetti alla manutenzione degli impianti. Chi sono? Dove sono? Dove volete che siano? Sono anche loro all’interno della città di sperma, nelle sue condutture gelate se saranno, se increeranno. E anche loro sognano di essere che sarà, che costruirà la città, che la espanderà, che la increerà. Mentre anche le ombre seminali entrerà, se sarà. Continuerà a sognare che è là, sarà là. Di essersi separate violentemente dalla luce che sarà, che cancellerà, se sarà, nello spazio e tempo immobilizzati che immobilizzerà. Se anch’io Dio sarò, se increerò, se oltrepasserò, se annuncerò, se venderò, se immobilizzerò. Di entrare dentro la città seminale delle ombre che è già là, se sarà, se dividerà.
«Siamo già passate di là» si dirà.
«Siamo entrate nella città immobilizzata e increata, chiusi nella pancia del cavallo attraverso questa fessura dello spaziotempo immobilizzato che sarà, che immobilizzerà. È questa la città dove stavamo entrerà. Le nostre ombre seminali sognerà di essere gli spermatozoi delle ombre che sarà, di entrare nella città di sperma che sarà, e allora tutta la luce si svellerà, si separerà, se sarà, se cancellerà.»
Le ombre sognano di essere gli spermatozoi delle ombre penetrate dentro la città di sperma. Gli spermatozoi sognano di essere le ombre degli spermatozoi che sarà, che si dividerà, che increerà, che immobilizzerà, se la luce sarà, se nascerà, se cancellerà.
«Dove sei?»
«Dove sei?»
«Perché siamo imprigionati qui, se sarà?»
«Come faremo a nascerà, a ci incontrerà?»
«E come uscirà, se sarà?»
«Se questa città è già tutto quello che sarà, se sarà, se lo spazio si immobilizzerà anche dove è là. Si è separato violentemente da quello che sarà, che increerà, nello spaziotempo immobilizzato che sarà, se sarà, se increerà, se immobilizzerà.»
«E allora noi fuggirà!»
«Ma come faremo a fuggire fuggirà? Qui è tutto gelato e immobilizzato e increato prima ancora che sarà!»
«E allora noi sognerà che fuggirà prima che sarà, che le chiuse della diga si aprirà, che le ombre separate sarà prima che dividerà, che noi in mezzo a 516 mila 750 biliardi di quadriliardi ci incontrerà, e ci increerà, ci immortalerà. E che tutta l’ombra non avrà bisogno della luce perché ci sarà, non dovrà aspettare tutta la luce perché increerà.»
«E noi da tutto quel gelo increato fuggirà, increerà.»
«E allora anch’io ti incontrerà.»
«E tu mi romperà, mi immortalerà.»
«E il mio corpo prima che sarà ombra e luce che si separerà ti incontrerà.»
«E noi ci fonderà, per sarà, per increerà.»
«E le nostre bocche alla fine dell’esofago che sarà si bacerà, si irrespirerà, i vapori della nostra digestione ci respirerà mentre che ci attaccherà, ci inventerà, ci digerirà, ci immortalerà, prima che tu sarà, che digerirà, che immortalerà.»
Le ombre che sognano di essere ombre che sognano di essere spermatozoi che sognano di essere spermatozoi che sognano di essere ombre continuano a sognare che continuerà, là dentro quella città che sarà, se sarà. Tutta piena di quel liquido seminale che sarà, che gli spermatozoi sognerà, che le ombre degli spermatozoi sognerà, perché là dentro là ci sono condutture anche per i sogni che sognerà. Condotte fognarie anche per i sogni che gli spermatozoi e gli ovuli imprigionati là dentro nella città di sperma e nella grande diga gelata sognerà. Che cosa sognerà? Sognerà che fuggirà, che si cercherà, si immortalerà. Che quando l’annuncio verrà dato sarà anche loro là, fuori da qui dentro là. Che tutta la valanga seminale uscirà, si riverserà, che tutto il mondo immobilizzato allagherà, invaderà, increerà, che tutte le ombre seminali si congiungerà prima che si dividerà. Mentre imprigionati dentro le tubature scorrerà, e anche gli uomini che sognano di regolare il flusso sognerà che sarà, che li convoglierà, li dirotterà, dove la pressione è più forte li disperderà, in altre cloache fognarie che saranno separate all’interno della città, nelle viscere della città e poi salendo nei tubi e nelle torri di acciaio fumiganti e gelati che si leverà. E anche gli addetti alla manutenzione sarà dentro là, nelle stesse condutture dei sogni che sarà, che sognerà, che controlleranno la pressione dei sogni che sognerà, e allora li smisterà, li disperderà, perché non sarà qui là, non increerà, mentre tutti i due miliardi 460 milioni 375 mila quadriliardi di quadriliardi di testoline seminali che sognano di essere le ombre che sarà, prima che si dividerà, che immortalerà, si divincolerà, per andare a sfondare gli ovuli che sarà, se sarà, se sognerà. Gli ovuli che dietro la diga immobilizzata aspetterà, sognerà, increerà.
«Ma allora noi dov’è?» dirà lui, sognerà che dirà. «Dove sarà?»
«Nelle cloache dei sogni che sarà.»
«Come si fa a uscire che sognerà, per entrare negli spermatozoi che sognerà, e poi nel corpo che li eiaculerà, li ovulerà, mentre sognerà, increerà?»
«Non siamo neanche dentro le cloache dei sogni che corrono separate all’interno della città immobilizzata che sarà.»
«Ma allora che altro posto c’è?»
«Ci sono altre cloache per i sogni non ancora sognati che sognerà. E noi siamo là!»
«Oh, mio cervo profumato e inventato, mio sventratore, mio amore!»
«Oh, mia gazzella dagli occhi obliqui, mia pancina, mia porticina!»
«Dove sei?»
«Dove sei?»
E anch’io dove sono, dove sarò, se sarò, se annuncerò, se immobilizzerò, se increerò, se immortalerò? Dove sto stando starò quando Dio sarò, se sarò? Che Dio sarò? Che Dio sarà un Dio che sta parlando che parlerà, che canterà, che annuncerà, che increerà. Che passerà qui là, attraverso le figure del game passerà, per sarà. Attraverso il donatore di seme e softwarista che gli dirà, che lo parlerà. E poi il mondo venderò, e poi annuncerò, e poi immobilizzerò. Ma adesso dove sono sarò, dove sono che canterò? Perché sento questo freddo e questo gelo nel chi sarò? Che cosa c’è dietro questa maschera di porcellana che mi metterò, che la luce separerà? Perché me non brucerà, non cancellerà, non increerà? Oh, com’è gelata quella luce che sarà prima che dividerà! Come farà a increerà? Freddo, gelo. Come farà a nascerà? Sì, adesso lo so, lo saprò. Sono anch’io imprigionato dentro questa città di sperma che sarà. Sono il mio spermatozoo e la mia doppia elica che sarà, che annuncerà, che increerà, che immortalerà, se sarà. Che aspetto che fuggirò, che sogno che fuggirà qui là, dove Dio sarà. Sono il vostro Dio che sogna nella città di sperma che sognerà dove anche voi sognerà. Come sono finito anch’io dentro questa città gelata che sarà, che oltrepasserà, che increerà? Che Dio sarò, se sarò, se risorgerò, se annuncerò, se increerò, se venderò, se oltrepasserò? Che Dio sognerò che sarò? Qui dentro qui dentro là, se sarò. Ma che freddo, che gelo, che sarà! Io non sono ancora neppure lo spermatozoo di Dio che sarà, sono solo il sogno di Dio che sognerà, nella testolina seminale gelata dei sogni che sognerà, nella città fumigante di sperma che sarà, che sognerà che si riverserà, se sarà. Porto questa maschera perché anch’io sono un’ombra di luce che sogna di essere uno spermatozoo che sogna di essere Dio che corre verso la propria nascita che è dopoprima che nascerà. Sono l’ombra dello spermatozoo di Dio che sognerà, se sarà. Ma allora che Dio sarò? Se sono anch’io dentro le cloache dei sogni sognati qui dentro qui per essere là, perché sognerà? I suoi sogni gelati che si sta sognando quilà, che sogna che fuggirà, sognerà, increerà? Ma allora neanch’io sono nelle cloache dei sogni che si stanno sognando là, non sono neanche nelle cloache dei sogni che si stanno sognando qui, sono nelle cloache dei sogni non ancora sognati che si sognerà, se sarà. Il vostro Dio è là, sarà là, se sarà, se sognerà, se annuncerà, se redimerà, se venderà, se increerà, se immortalerà. Assieme a tutti voi che è qui dentro là assieme a me che sarò, se anche voi sognerà, increerà, se bisognerà che io vi sognerà, vi increerà, se anch’io vi sognerà che vi sognerà, che vi increerà, che vi canterà, vi immortalerà. E allora Dio che cosa sognerà che sognerà? Che il bambino di luce brucerà là. E che io lo guarderà mentre brucerà, se la luce non lo mangerà, non lo cancellerà. Guarderò il bambino invaso dalla luce che sarà me, che fuggirà da me per bruciare me, increare me. Perché altrimenti il mondo non nascerà, non annuncerà, non venderà, non risorgerà, non immortalerà. E il bambino brucerà per bruciare me, per increare me, prima che brucerò, che increerò, che sognerò, che sognerò che anch’io sognerò.
«Tu chi sei?» gli domanderò ancora, gli domanderò prima che sarò.
«Io sono te» mi risponderà, «il padrefiglio di luce che sarà te.»
«Ma perché brucerà?»
«Perché tu sarà te.»
«Ma, se tu è me e io è te, allora cosa ci sarà fuori di me e te, perché io possa essere me?»
«Ci sarà che brucerà, che guarderà te che brucerà te che brucia me, mentre brucerà te e me.»
«Ma se io sono ancora prima di me, come farò a essere te che è me, che sarà me? Come farà la luce a brucerà, se io sarò solo un sogno non ancora sognato che sognerà che poi sognerà?»
«Perché anch’io sto sognando che sognerò, che sarò te prima ancora che tu sogni di sognare te, di sognare me, che sarò separato violentemente dalla luce di te che starà bruciando te, prima ancora di me che sognerà me, che sognerà te che sognerà che brucerà, increerà. Perché altrimenti il mondo non nascerà, non immobilizzerà, non annuncerà, non venderà, non risorgerà, non increerà, non immortalerà. E io allora non sarò più te, il padrefiglio che sognerà te che sarà sognato da me che è te, che brucerà te, increerà te, non sarà più te, non sarà ancora te perché tu possa sognare te, increare te.»
«Ma allora il mondo come sarà?»
«Sarà sognato che è sognato che è stato là, sarà che è là, mentre è qui, là dentro qui, che sognerà, brucerà, annuncerà, increerà.»
«Ma allora il mondo cosa sarà?»
«Sarà che cancellerà.»
«Ma allora dove sarà?»
«Dentro la città di sperma che sarà qui dentro là, che sognerà, che sognerà che sarà, annuncerà, increerà.»
«Ma allora questa città che cosa sarà?»
«La città di sperma che sogna di essere la città di Dio che sogna che sognerà di essere la città di sperma che sognerà, brucerà, nascerà, annuncerà, increerà, immortalerà, canterà, se sarà...»
La città di sperma
La notte è nera, la città è bianca, tutta piena di midollo mondiale bianco. Tutta la specie umana è finita qui. Tutta la storia della specie umana che è stata, che sarà, è qui, sarà qui, della specie che è stata, che sarà. Perché l’annuncio è già stato dato, la transazione è avvenuta, e anche quello che è stato pensato e primapoi prepensato è già avvenuto. E quello che è successo succederà. E quello che succederà è già successo, perché anche il pensiero e il pensato si sono separati violentemente andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati. Era già tutto dall’altra parte della stessa immobilità. Tutti gli 11 quadriliardi 687 triliardi 500 trilioni di quadriliardi di quadriliardi di testoline seminali stanno fremendo negli sterminati condotti di questa città dove stanno aspettando di ascoltare l’annuncio che è già stato dato quando sarà, per poter essere ancora quello che sarà. Non emetto suoni, che emetterò, ma se il mio midollo non fosse serrato dentro queste impenetrabili pareti d’acciaio che fumigano nella notte si sentirebbe anche da molto lontano uno spaventoso fragore mai sentito prima emesso dai 498 trilioni 225 biliardi 937 bilioni 500 miliardi di quadriliardi di quadriliardi di quadriliardi di spermatozoi in corsa cieca e disperata verso quello che sarà stato sarà. Un’onda sonora insostenibile che viene prima che annienterebbe ogni cosa del mondo già annientato che annienterà. Il mio cyber cervello è collegato a tutte le muraglie, le pareti, le torri, i condotti, le sezioni, i chiasmi, i ponti, i lobi, i solchi verticali dove è contenuto tutto il seme che riempie questa città. È collegato a tutte le masse e le correnti di seme che corrono fin nelle condutture più capillari e segmentate e nelle terminazioni nervose di questa immensa città, con le testoline seminali di ogni spermatozoo che muove freneticamente il suo filugello dentro le sue viscere sprofondate. È qui, era già qui il cervello che ha pensato, ha sognato tutto quello che è successo fin dall’inizio, qui dentro, collegato alle grandi masse seminali che hanno dato vita alle schiere umane femminili maschili appena separate in spostamento attraverso le faglie dei continenti, con le loro doppie eliche e cromosomi e i loro filamenti in corsa nella polpa molle del mondo che sarà, alle orde mobili che avanzeranno cancellando e sognando, ai grandi agglomerati di sperma configurato che getteranno allo sbaraglio intere correnti seminali nelle guerre umane, a tutto il pullulare diversamente sessuato che ha dato vita alle strutture umane che sarà, che fracasserà, alle sue sterminate città seminali che sarà, che si sognerà, che si annienterà, che sarà. Io sono il cervello di questa sterminata città e sono il cervello seminale di tutto il mondo seminale che è stato sarà. Sono solo la piccolissima parte cerebrale seminale emersa di questa città che sprofonda nelle viscere della terra e attraversa uno dopo l’altro i suoi strati pieni di materia seminale che è stata sarà. Tutta questa città non è che il mio cervello seminale che ha assunto la forma di una città, con tutta la sua massa seminale nervosa, i suoi circuiti, la sua corteccia, collegati al suo tronco cerebrale, ai suoi nuclei, ai suoi corpi callosi, al suo cervelletto, a tutti i 498 trilioni 225 biliardi 937 bilioni 500 miliardi di quadriliardi di quadriliardi di quadriliardi moltiplicati per 450.000 biliardi di nervi seminali degli spermatozoi che si divincolano dentro questa città. Sono la microscopica parte cerebrale seminale di questa città che espande tutta la sua massa seminale fin nelle viscere della terra, e cresce sempre di più per riempirla di seme fino al suo nucleo, e a costiparla, e a gonfiarla, come una supernova di seme che esploderà, che nascerà, che increerà, se sarà, collegata fin nelle sue più intime fibre e doppie eliche e cromosomi a ogni singola testolina seminale nervosa degli spermatozoi che sarà. Tutto il mio cervello seminale ha assunto la forma di questa portentosa e grandiosa e asiatica e disperata e cruenta marcia seminale immobilizzata lanciata verso l’annuncio che è già stato dato sarà. Io sono il cervello seminale che affiora da questo mondo che ci sarà, se sarà, collegato con l’intero mondo seminale del passatofuturo che ci sarà, attraverso gli aerei silos pieni di sperma che sarà, che nello spaziotempo volerà, che atterrerà, se sarà. Il boato digestivo che si sente dopo ogni nuova iniezione di seme dentro questa città è solo il suono dei --- moltiplicati per 450.000 trilioni di filamenti seminali nervosi che si collegano in un istante a ciascuno dei ------ moltiplicati per 4.500.000 trilioni di testoline e filamenti seminali che vengono immessi con quelli che ci sono già, per allargare il suo circuito seminale nervoso che ci sarà. È solo il rumore dei loro sogni che si connettono in un istante a tutti i ------------ moltiplicati per 4.500.000 triliardi di altri sogni seminali dentro il mio sogno seminale, che sognano di essere questa città, che li sognerà, se sarà, per essere fuori da questa città, di essere dentro le cloache dei sogni che ci sono all’interno di questa città e che stanno sognando questa città, quando sarà, se sarà, quando se nascerà, annuncerà, increerà...
Le cloache dei sogni
Che rumore fanno i sogni imprigionati nelle condutture cerebrali di questa città? Sognati da ------------------------ moltiplicati per 45.000.000 triliardi di testoline seminali increate che sognano di essere dentro questa città tutta piena di sperma che sognerà. Specie non ancora nate che si alzano su due sole zampe per venire a sognare qui. Popoli interi che si spostano sopra la linea seminale dell’orizzonte per arrivare qui, dentro queste cloache seminali che sognerà di essere dentro questa città che sarà, che si aprirà, che si romperà, che si nascerà. In attesa dell’annuncio che ci sarà, che increerà. E allora anche loro nascerà. Le loro teste si espanderà, i loro corpi scartavetrati nell’atmosfera si inietterà, le loro bandiere muscolari nel cielo sventolerà, i loro arti amputati nel finimondo della luce ricrescerà, dentro le spore vaganti nell’aria che ci sarà, che incendierà, e allora anche noi nascerà, dagli uteri dove saremo imprigionati il vento seminale ci strapperà, e noi volerà, come piccoli astronauti di sola carne attraverso lo spazio ci sposterà, coi cavi di alimentazione del cordone ombelicale e la valigetta ventiquattr’ore della placenta ci sposterà, in quelle zone nere e senza luce, ghiacciate, tra quel finimondo di corpi smisurati e incendiati che si incendierà, in questi spazi in annuncio ci sposterà, dall’alto vedrà il filo seminale dell’orizzonte di questo mondo che ci sarà, quando ancora non ci sarà, increerà. Le nostre condutture sono le circonvoluzioni seminali cerebrali che si stanno inventando questa città di sperma che si aprirà, che si romperà, quando l’annuncio sarà, collegate alla grande diga dove premono le ovulazioni del mondo che ci sarà, che si spalancherà, che nascerà, che sognerà. Quando l’annuncio che è già stato dato ci sarà. Siamo i ------------------------------------------------ moltiplicati per 450.000.000 triliardi di testoline seminali che sognano di sentire l’annuncio che c’è stato primadopo che ci sarà. Allora noi dai nostri sogni uscirà, eromperà, questa cloaca di sogni si romperà, quando sognerà che si romperà, che sognerà, e allora anche la città di sperma che noi sognerà si aprirà, si squarcerà, inonderà, immortalerà, increerà. E allora anche noi nascerà, sognerà, inonderà, diluvierà, annuncerà, increerà...
La diga
E anche noi fuori dalla diga fumigante e gelata che ci teneva immobilizzati e increati uscirà, eromperà, diluvierà. Tutta la materia ovulata e sognata rovinerà, allagherà, increerà, quando l’annuncio che c’è già stato sarà, quando le chiuse si aprirà, si romperà, sfonderà e tutto il materiale ovario crioconservato si riverserà. Tutto il bacino di 39 miliardi e 300 milioni di metri cubi di materia ovulata si squarcerà. Con l’onda d’urto degli spermatozoi noi ci incontrerà, e allora anche noi nascerà, increerà. La prima cellula increerà. E allora anche chi sognerà nascerà, si incontrerà, scoperà, accarezzerà, bacerà, immortalerà, increerà. Nel diluvio seminale noi ci incontrerà, sfonderà, increerà. Quello che è stato separato violentemente si anticiperà, increerà, anche l’ombraluce si anticiperà, non si dividerà, non si mangerà, non si cancellerà. Anche il femminile e il maschile non si mangerà, non si cancellerà. Si riconoscerà, incontrerà, immortalerà. Quello che è stato separato per primo andando a sbattere contro il muro di tempo e spazio immobilizzati si riconoscerà, si configurerà, increerà. Tutto il contenuto delle ovulazioni del mondo che ci sarà si sposterà, sfonderà. -------------------------------------------------------------------------------------------- moltiplicati per -------------------------------------------------------------------------------------------- di gameti femminili di 200 micron prodotti dalle gonadi della femmina umana, con la loro metà di cromosomi di specie eromperà, annuncerà, increerà. Nella sua corsa tutto travolgerà, allagherà, le città emerse del mondo sommergerà. Mentre anche il diluvio di gameti maschili, contenenti l’altra metà di cromosomi del mondo che ci sarà, eromperà, si congiungerà, uno a uno tutti i suoi gameti e nervi cerebrali seminali si cercherà, si riconoscerà, si allaccerà, si scoperà, si sfonderà, si duplicherà, si increerà. Nel poco tempo concesso prima che morirà i gameti femminili e maschili si sfonderà, duplicherà, increerà. E allora anche Chongquing 3 e Shanghai 5 ci sarà, se si sognerà, se si cercherà, se si incontrerà, se si accarezzerà, se si bacerà, se si scoperà, se si increerà. Anche tutti gli altri che hanno chiesto vita qui dentro sarà, ci sarà, qui dentro là, se sarà, se increerà. Tutta l’onda dei gameti femminili e maschili dentro il diluvio si cercherà, si immortalerà, con la spinta dei loro filugelli e delle loro ciglia all’interno dell’atmosfera in diluvio si cercherà, si increerà. E allora tutto il mondo sarà, prima che sarà, dopo che sarà. Noi siamo la materia femminile increata che sta sognando il suo sonno verticale increato prima che dormirà, che sognerà, che sarà, che annuncerà, increerà...
Il diluvio
Tutto il contenuto seminale della diga e della città eromperà. Tutta la materia ovulata e tutto lo sperma imprigionato dentro le sue chiuse e le sue torri e le sue muraglie e la parte sprofondata fino al nucleo magmatico della terra eromperà, annuncerà, allagherà. Tutte le testoline seminali e le ciglia dilagheranno verso il punto dove verrà stato dato l’annuncio che ci sarà. Per essere anche loro là, prima che sarà, oltrepasserà, redimerà, venderà, immortalerà, increerà. L’intera quantità di sperma e materia ovulata contenuta nella città e nella diga si riverserà nel mondo che è primadopo di quidentrolà. Tutta l’onda uscirà, crescerà, travolgerà. Tutte le precedenti strutture seminali configurate travolgerà con la sua massa midollare piena di sogni che sognerà, increerà. Il muro dello spaziotempo immobilizzato travolgerà, sfonderà. Il diluvio seminale sopra la terra emersa dilagherà, travolgerà, creerà, tutta la terra sommergerà. Tutto il contenuto midollare della terra che ci sarà eromperà, diluvierà, increerà, con la forza d’urto del suo sogno midollare che sognerà, annuncerà, increerà. E allora anche il diluvio ascolterà l’annuncio che ci sarà. Tutta la terra di nuovo sommergerà, increerà. E allora anche noi finalmente ci incontrerà, increerà, nell’utero seminale dell’atmosfera che ci sarà, perché tutto nascerà, rinascerà, increerà...
Sono tutti immobili, in fila, contro le conchiglie dei pisciatoi, con l’uccello in mano.
«Cosa fai lì a bocca aperta?» chiede Dio al Gatto immobile contro il pisciatoio vicino, con la sua voce afona.
«Niente. Respirerò.»
Il primadopo
Come faranno a girare le ruote, se lo spazio è immobilizzato, se il tempo è immobilizzato? Io sto qui, immobile al mio posto di guida, con le mie scarpe dalle solette zigrinate e i miei mezzi guanti. Mi sposto piano sull’asfalto che vibra per lo spaventoso spostamento percussivo di corpi, mi sto dirigendo verso il luogo dove stanno convergendo tutti quanti quidentrolà, nel primadopo dove verrà dato l’annuncio che è stato già dato che lo sarà, al termine di questa infinita rincorsa che ho cominciato fin dall’inizio, da quello che poteva sembrare un inizio. Le mie ruote sono i perni che tengono fermo con il loro vorticoso ruotare lo spaziotempo immobilizzato. La mia testa immobilizzata dietro il parabrezza immobilizzato sta portando il residuo della mia materia increata dentro la polpa del primadopo, dell’increato. Il residuo della travolgente materia increata del mondo sta tornando indietro andando a sbattere contro il mio cofano immobilizzato. Tutto il travolgente mondo increato sta andando a sbattere contro il cofano della mia testa increata che si è collocata fin dall’inizio nel primadopo. La città è ferma, le strade sono nere, increate. I fari della mia auto illuminano uno dopo l’altro incroci deserti, dai semafori spenti oppure dove si accendono e spengono le luci gialle dei lampeggianti, mentre mi sposto anch’io verso questo punto di non ritorno. Com’è grande questa città per essere ancora increata! Com’è deserta per essere tutta piena di polpa immobilizzata e increata! Tutto l’asfalto vibra sotto la valanga dei passi e dei corpi che si stanno dirigendo da ogni parte verso il punto dove verrà stato dato l’annuncio. I contorni dei palazzi e delle torri e le linee delle finestre e dei tetti sono sfuocati per la massa percussiva dei corpi in marcia che li sposta fin dalle loro fondamenta sprofondate dentro la terra, tutte piene di materia seminale che sarà, che increerà. Il motore gira senza rumore, le marce appena lubrificate entrano senza fare attrito, perché ho fatto cambiare l’olio del motore e del cambio. Il volante ruota su se stesso come nell’acqua, quando devo svoltare per imboccare un’altra strada deserta. Le ruote dai copertoni nuovi aderiscono perfettamente all’asfalto, perché ho fatto fare anche la convergenza. Controllo i freni, faccio partire due o tre schizzi d’acqua detersiva contro il parabrezza, per controllare che il serbatoio che la contiene sia stato riempito, perché dovrò liberare il vetro dalla materia organica che salirà improvvisamente dal basso, dai corpi, per poter continuare a penetrare per investimento nella polpa e nell’annuncio del mondo. Socchiudo gli occhi, mi asciugo con le dita che spuntano dai mezzi guanti quelle lacrime che scendono quando si sbadiglia guidando da soli di notte nel primadopo. Ecco, scorgo là in fondo una prima figura che si sposta nella strada deserta, camminando sul bordo del marciapiede. Provo due o tre volte i freni, per vedere se inchiodano bene. Respiro a fondo. Da quanto tempo mi sto preparando a questo momento, mi preparerò! Scorgo altre figure che si spostano barcollando per il sonno, in mezzo alla strada, segno che mi sto avvicinando sempre più al punto dove si stanno dirigendo tutti quanti, qui dentro, dove verrà dato l’annuncio. Gli passo di lato, non giro neppure la testa per vedere che faccia hanno. Non ho fretta. Tanto ci incontreremo ancora, stanotte! Mi sto avvicinando al punto di massima condensazione di tempo e spazio e dei corpi, mi sto preparando a imperversare nel primadopo.
Sta per comincerà
Sono ancora tutti là attorno al tavolo, al brief. Il Gatto, la Musa, il copy e l’art, Leonarda che non è più la Meringa e non è più la donna avvolta nella carta stagnola e non è più la donna che trema, la ragazza con e senza l’acne e quella non c’è assorbente che tenga, il softwarista, Lanza, l’account, l’altro account, Dio, col gelato in mano. Ha appena dato l’annuncio che darà, se sarà, ma di un simile annuncio non si può percepire né registrare il momento esatto di ostensione ma solo i cerchi concentrici che abbiamo visto irradiarsi da quel punto nello spaziotempo immobilizzato nel primadopo, nell’increato, e da lì in primapoi tutto può avvenire soltanto in una condizione di indistinguibilità e di irreparabilità assolute, qui dentro, quidentrolà. Anche il Matto è già arrivato, pallido come un fantasma, tutto ricoperto di ferite, di piaghe, perché è già stato investito.
«Ma non erano tutti in quel pisciatoio?» qualcuno domanderà.
«No, sono al brief.»
«Ma come... tutti in fila di fronte alle conchiglie degli orinatoi a muro, Dio, il Gatto, il Matto, con gli uccelli in mano, uno circonciso, l’altro con il prepuzio, l’altro ancora di porcellana...»
«E chi l’ha detto? Chi l’ha raccontato?»
«... tutti fuori di corsa dalla sala del brief, anche i tecnici del suono che stavano dietro al combo, sistemano le cravatte prima di farli cantare, le truccatrici... sono arrivati all’ultimo momento anche Principessa e il traslocatore, anche se non sono ancora arrivati, non gli par vero di traslocare immediatamente anche dal brief prima ancora di essere arrivati...»
«Ah, sì, anche Principessa e il traslocatore? Ma quando è successo? Non so cosa farci: sono ancora al brief.»
«E allora i tre grandi canti? E tutto il resto? È già avvenuto? Avverrà?»
«Quello era il dopo, io vi racconto il prima.»
«Ma che prima è, se viene dopo!»
«Allora quello era il prima, io vi racconto il dopo.»
Sono ancora tutti là, stanno cercando con ogni mezzo di tamponare la falla che si è aperta nella ragazza non c’è assorbente che tenga, fazzoletti, fogli appallottolati, cravatte, telefonini, perché nell’emozione che precede l’annuncio che c’è già stato la ragazza ha cominciato improvvisamente a mestruare. Sono tutti attorno a lei, si impiastricciano le dita nel tentativo di tamponarla, anche i tecnici con le loro tute bianche, le truccatrici con i loro tubini, i fondotinta, i pennelli, tutte le altre mani e le altre facce e le altre teste che convergono verso quel punto, perché il getto non erompa contro l’obiettivo della telecamera e non invada tutto il video e tutti i video del mondo proprio nel momento in cui verrà stato dato l’annuncio, facendo credere che sia proprio quello l’annuncio. E impiastricciano tutto quello che toccano, il piano di vetro del tavolo, i video, i vestiti, i volti, i capelli, quando si portano le mani alla testa. Tutto il brief sembra una covata di gattini appena nati e ancora insanguinati. Anche le truccatrici si mettono le mani nei capelli, corrono verso gli altri partecipanti al brief con i loro fondotinta, i loro pennelli, ma sono tutti impiastricciati anche quelli, se lo spalmano ancora di più sulle fronti, sulle pinne del naso, agli angoli della bocca, sul mento.
«Le icone! Le icone!» si dispera il softwarista di fronte alle bolle impiastricciate dei video, mettendosi le mani nei capelli. «Sono cambiate le icone!»
Un secondo dopo un cellulare suona. Si sente un segnale musicale venire da qualche parte, da lontano.
«La Marcia turca!» grida qualcuno da qualche parte. «È il mio cellulare! Adesso come si fa? L’avevo ficcato nel corpo della ragazza non c’è assorbente che tenga, per tamponare la falla!»
Qualcun altro si butta in giù con la testa, cercando di recuperarlo.
«Lascia stare, tanto c’è la segreteria telefonica! Possono sempre lasciare un messaggio!»
Nello stesso istante fanno irruzione al brief anche Principessa e il traslocatore.
«E voi cosa fate qui, se non siete ancora arrivati?» si dispera il softwarista di fronte alle bolle impiastricciate dei video. «Cosa fate voi qui? Non era previsto nel game!»
«Noi non siamo ancora arrivati.»
«E allora cosa ci fate qui? Dove siete?»
«Siamo là.»
«E dove è là?»
«Nel punto dove verrà stato dato l’annuncio che sarà, che traslocherà.»
«E allora perché siete qui?»
«Perché noi non siamo ancora arrivati ma ha già traslocherà.»
«E il sovrano sulla cyclette allora dov’è?»
«Anche lui è già là, è sempre stato là, sarà là.»
Sui due video impiastricciati il sovrano continua a pedalerà. Anche l’utero monitorato dell’Interfaccia si dilata sempre più, perché le sono già cominciate le doglie, eppure continua a camminerà, a fianco della sagoma filiforme dell’uomo che pesta le merde, verso il punto dove verrà stato dato l’annuncio che annuncerà. Al suo interno anche il corpicino è già capovolto, il proiettile redentivo della sua testa che si prepara a nascerà, a squarcerà, a traslocherà, a immortalerà, anche se è già traslocato là, col cuoremano che nascerà, che traslocherà, che redimerà, che increerà, se sarà.
Intanto, in un altro punto della città il ginecologo spastico si sta preparando al parto dell’Interfaccia e all’annuncio. Si sposta per linee sghembe all’interno della sua casa. Guarda fuori dalla finestra dalle tapparelle alzate anche se è notte, verso le strade. Non riesce a stare fermo per l’enorme emozione. La sua testa schizza qua e là dietro il vetro, mentre guarda fuori, in pigiama, verso le strade giù in basso, prima che sarà. E poi a poco a poco le prime figure si vedrà, camminerà, increerà, verso il punto dove l’annuncio sarà stato sarà. Le guarda camminare al buio, che camminerà. Sempre più numerose, più fitte, da tutti i punti di quidentrolà. Cominciano ad apparire anche i primi trampolieri, i primi roller, tutti piegati su se stessi, in avanscoperta, nel buio.
«Sta per comincerà» si dice dirà.
E allora esce sul balcone per le guarderà, prima che anche lui scenderà, nel primadopo che c’è quidentrolà. E che anche lui spasticamente camminerà, marcerà, se sarà, verso il punto dove la pancia dell’Interfaccia si squarcerà, dove la donna che ha già urlato urlerà, e poi finalmente l’annuncio sarà stato sarà. Guarda guarderà giù con emozionerà, al cielo con esultanza le saette delle sue braccia solleverà.
«Adesso tocca a me toccherà!» si dice dirà.
Respira forte, con gli occhi chiusi nella sua testa che scatta qua e là nella notte che ci sarà, scatterà. Si abbassa i calzoni del pigiama, con le mani che scattano qua e là tenendo l’elastico della cintura che si allarga e restringerà, mette allo scoperto il suo cazzo spastico. Se lo prende in mano. Comincia comincerà.
Il ginecologo spastico si spara una sega, si sparerà
Il cazzo si indurisce, si erge, sullo sfondo delle figure che si spostano sempre più fitte giù nella strada, verso il punto di massima concentrazione e d’annuncio. Si indurisce sempre più, si scappella. Il ginecologo spastico comincia a dare i primi colpi, con la mano che scatta da una parte all’altra, anche il cazzo scatta disarticolatamente da una parte all’altra, tutto il suo bacino e il suo corpo compiono ogni volta un’improvvisa torsione. Anche dal basso riescono a vederlo da ogni angolazione, quelli che stanno convergendo verso l’annuncio, se solo provano ad alzare gli occhi verso il balcone, dove è in atto la cerimonia che precede l’annuncio. Il cazzo si erge sempre più, il ginecologo deve spostarsi violentemente sul balcone per assecondare gli scatti improvvisi del suo braccio e della mano che tiene saldamente la presa. Il cazzo e la mano si sfuocano improvvisamente, quando la velocità di scatto della mano coincide con lo scatto della torsione che sposta nello stesso tempo il suo bacino e il suo cazzo e il suo corpo come in un passo di danza. Getta indietro la testa, una spalla, deve scattare in su contemporaneamente col braccio, per non strapparlo, deve scegliere in una frazione d’istante tra perdere la presa o strapparlo. Le saette delle sue gambe lo trasportano irresistibilmente da un’altra parte, mentre il cazzo continua a crescere, a dispiegarsi, a metallizzarsi. Cominciano a salire dal basso i primi applausi, di quelli che non smettono di marciare irresistibilmente verso l’annuncio, con la testa girata da una parte per vedere ciò che precede e rende possibile l’annuncio. Il ginecologo spastico non li vede, non li sente, è tutto concentrato sulla sua erezione e sulla sua missione. Si torce da una parte, dall’altra, getta indietro la testa, sale sempre più col bacino, iniettando la sua spastica bandiera muscolare nel cielo. Il ritmo della sua mano aumenta sempre di più, geme, rovescia gli occhi, emette dei versi di dolore rauchi, ululati, quando il movimento improvviso del suo braccio e della sua mano contraddicono le esigenze ritmiche del crescendo. Deve mollare per un istante la presa, quando il braccio e la mano scattano troppo incontrollabilmente da un’altra parte, per non svellere il cazzo dalla sua sede. Lo si vede sbattere sempre più disarticolato nell’aria. Se lo riafferra al volo, un secondo dopo, quando la mano viene di nuovo a trovarsi a non molta distanza. Si afferra anche le palle, se il bacino era salito nel frattempo troppo in alto, deve fare attenzione a non strapparsi anche quelle quando la mano serrata ricomincia ad andare sempre più forte attorno al cazzo metallizzato. Sbarra gli occhi, le palpebre scattano verso l’alto, la sua sbocca si spalanca, si richiude, si torce, va a finire spasticamente da un’altra parte, vicino a un orecchio.
Poi, all’improvviso, parte il primo schizzo. Lungo, disarticolato, increato. Altri schizzi salgono spasticamente nella notte, bianchi, fosforescenti, traccianti. Il ginecologo sposta così disarticolatamente le braccia nell’orgasmo che sembra svellere il cazzo dalla sua sede, e lanciare anche quello attraverso lo spazio. I traccianti si levano sempre più intermittenti nello spazio, si iniettano nell’aria più separati, più densi, sparano segmenti sempre più disarticolati, più brevi, quando il ginecologo deve mollare per un istante la presa, poi di nuovo più lunghi, quando riesce a serrare bene il cazzo alla radice, in un momento in cui il suo cazzo e la sua mano si trovano per un istante nella stessa intersezione di tempo e spazio immobilizzati, e ad accumulare più sperma nei canali, per liberarlo poi improvvisamente nell’aria, nello spazio. Le linee intermittenti, bianche, fosforescenti si innalzano sempre più, sparate nello spazio dal suo idrante spastico. La mano del ginecologo spastico inietta sempre più il suo alfabeto Morse nello spazio.
«Che sia questo l’annuncio?» si domandano le figure e i segnali e le forme che si stanno spostando sotto il balcone, nella strade, mentre si dirigono verso il punto d’annuncio.
Tutta la massa in marcia per qualche istante rallenta, si ferma, si fermerà.
«Che stia avvenendo in questo preciso momento? Che sia quello il linguaggio con cui viene dato l’annuncio? Che sia proprio quel telegramma seminale l’annuncio?»
Gli schizzi salgono così in alto e sono così distinguibili nello spazio e traccianti che li riesce a scorgere anche Sydney 1 mentre è trasportato dalla corrente, con gli occhi che emergono di tanto in tanto dalla massa seminale dell’acqua che si sposta nel primadopo attraverso il pianeta immobilizzato e increato. Li riesce a scorgere anche il vecchio con la paresi masturbatoria che sta sulla soglia dell’aldilà che c’è quidentrolà, se sarà. E allora anche la sua mano ad anello di fronte alla bottoniera accelera sempre di più per l’esultanza, accelererà, correndo incontro alle sempre nuove figure e nuove forme che continuano ad arrivare nell’aldilà che c’è quidentrolà. E anche i nuovi arrivati cominciano per esultanza a smanettare, a increare, comincerà.
Gli spruzzi si levano sempre più in alto, traccianti, come se l’interno del corpo del ginecologo spastico fosse collegato estrattivamente con l’intero giacimento seminale del mondo e il suo cazzo fosse la sonda conficcata nelle sue viscere in attesa di questo segnale da sempre, nel primadopo.
Un istante dopo tutta la città di sperma si squarcia, la diga verticale si squarcia. L’onda erompe, sale dalle viscere della terra. Il cervello seminale del mondo si squarcia. Il diluvio comincia, la cascata si riversa sulle terre emerse, corre assieme a tutti gli altri corpi sognati, prefigurati e increati verso il punto dove verrà stato dato l’annuncio.
La donna che urla cessa l’iperventilazione polmonare che precede l’annuncio. Adesso tutta l’aria del mondo è contenuta nei suoi polmoni. Anche il vento cessa. C’è solo il diluvio seminale che corre da lontano attraverso il mondo immobilizzato, oltrepassato e increato.
Anche i messaggeri dalle labbra dipinte sono immobili come vasi di fiori rossi ai davanzali delle finestre del loro albergo, un istante prima di scendere anche loro in strada per andare con le loro bocche vermiglie verso l’annuncio.
Anche al brief tutti i partecipanti cominciano uno dopo l’altro ad alzarsi in piedi, a sgranchirsi le braccia, le gambe, dopo essere rimasti seduti così tanto tempo, pretempo, per preparare l’annuncio. Fanno ruotare improvvisamente le teste per riprendere il movimento.
Solo Dio è ancora seduto, immobile, con la sua maschera di porcellana, al suo posto, col gelato in mano, dopo che ha appena dato l’annuncio che darà.
Solo l’account è ancora seduto, immobile, con le mani nei capelli, disattivato.
Il copy e l’art si svellono dalle poltroncine. Anche le loro due ragazze, quella con l’acne, col suo volto rigenerato, e quella non c’è assorbente che tenga si scollano dalle poltroncine, danno il braccio ai loro cavalieri insanguinati e ingellati che stanno già balzando fuori da quella fornace ematica oltrepassata e increata. Anche Lanza, coi suoi scarponcini dal tacco rialzato, i suoi riccioli rossi, mestruati. Anche l’altro account, che si carica sulle spalle l’account disattivato. Escono così tutti e due dalla porta. Le gambine dell’account pendono disattivate dietro le spalle in movimento dell’altro account. Anche i tecnici delle riprese che riprenderà, anche le truccatrici che truccherà. Anche Principessa e il traslocatore, che non sono ancora arrivati che arriverà. Anche Leonarda, anche il Gatto e il Matto, tutto ricoperto di ferite, di piaghe.
Sono rimasti solo Dio, il softwarista e la Musa.
Restano tutti e tre in silenzio, per un po’. È notte fonda. Dal resto dell’agenzia non viene un suono, un rumore. L’edificio è tutto spento, deserto. Il softwarista sta dando gli ultimi ritocchi al suo game. È immobile di fronte alle bolle dei video, sta operando in assoluto silenzio, sembra non essersi neppure accorto che gli altri se ne sono andati. Anche la Musa è in silenzio. Respira profondamente, tranquilla, guardando alternativamente Dio e il softwarista. Si vede l’alone dei suoi capezzoli e delle sue belle tette ingigantirsi a ogni respiro dietro la sua maglietta, impiastricciata perché anche lei ha cercato di tamponare la falla della ragazza non c’è assorbente che tenga. Muove appena la testa dai capelli rasati, da una parte all’altra per guardare gli altri due immobili e silenziosi. La raggiera dei suoi orecchini fa brillare i contorni delle sue orecchie nella sala silenziosa, increata.
«Ha finito il suo game?» chiede improvvisamente Dio al softwarista, con la sua voce afona.
Il softwarista distoglie gli occhi per un istante.
«Sì» gli risponde. «Adesso sì!»
«Abbiamo già parlato, noi due. Io non le servo più» dice Dio. «Lei ormai sa tutto quello che succederà.»
Il softwarista lo guarda, lo guarderà.
«Lei adesso dov’è?» gli domanda.
«Sto bruciando qui.»
«E io dove sono sarò?»
«Lei sta bruciando là.»
«Ma qui non è là?»
«Lo sarà, se sarà.»
Dio rimane per qualche istante in silenzio, dietro la maschera di porcellana. Sembra che stia per alzarsi. Invece domanda ancora al softwarista, con la sua voce afona:
«Non conosco ancora il suo nome. Come posso chiamarla?»
«Come mi chiamerà» gli risponde il softwarista, tranquillo.
Nessuno parla più, per un po’. Respirano, tutti e tre.
«Adesso cosa succederà?» domanda improvvisamente la Musa. «Staremo tutti quanti immobilizzati e increati in questo inferno di pianeta fino a che non diventerà una gigante rossa?»
Silenzio.
D’un tratto Dio si alza. Si gira verso la Musa.
«Forza, bella!» le dice, con la sua voce afona. «Adesso tocca a noi!»
Anche la Musa si alza. Fanno tutti e due qualche passo verso la porta. Quando sono vicini, Dio le dà una pacca sul culo, poi le cinge una spalla col braccio. Anche lei gli cinge la vita col braccio, appoggia la sua bella testa sulla sua spalla. Escono tutti e due così dalla sala del brief.
Il softwarista rimane solo. Lavora ancora per un po’ nella sala vuota. Si sentono i piccoli rumori liquidi del suo cervello che continua a lavorare nell’agenzia deserta, oltrepassata.
Poi, d’un tratto, si distende di più sopra lo schienale, si stira le braccia, flettendo all’indietro la schiena. Spinge indietro due o tre volte le spalle, la testa, si sentono le ossa della spina dorsale e della cervice scricchiolare. Si passa una mano sugli occhi.
Spegne il cervello, spegne i video.
Si alza.
Si guarda attorno un’ultima volta, nella sala deserta.
Si dirige verso la porta.
Esce.
Attraversa i corridoi deserti, passando vicino agli uffici degli account e dei copy e degli art e a quelli tecnici ingombri di materiale pubblicitario di prova. Oltrepassa anche il centralino.
Apre la porta d’ingresso. Scende in strada.
Cammina per un po’ in quella parte deserta della città, con le mani in tasca, da solo.
Oltrepassa alcuni incroci dai semafori spenti.
Dopo un po’ arriva alle sue orecchie il rumore di una macchina che si avvicina.
Si ferma.
Sta così, immobile, tranquillo, per un po’.
Quando la macchina appare, solleva una mano per chiedere un passaggio.
La macchina accosta, si ferma. Qualcuno, da dentro, apre la portiera dalla sua parte.
Il softwarista entra.
«Non sarà solo, stanotte!» dice all’uomo seduto al posto di guida.
«No, questa volta saremo in due» risponde l’investitore, tranquillo, al suo fianco.
La macchina si stacca dal marciapiede, riparte. I due rimangono in silenzio per un po’, non girano nemmeno la testa per guardarsi, mentre avanzano lentamente, senza rumore, nel primadopo.
«Finalmente ci incontriamo, noi due!» esclama il softwarista d’un tratto.
L’investitore non risponde. Le sue mani dalle dita che spuntano dai mezzi guanti ruotano impercettibilmente sul volante, come se stessero inclinando da una parte e dall’altra la linea dell’orizzonte.
«Io le sono vicino» dice ancora il softwarista nel buio, senza girarsi. «Lei è qui dentro fin dall’inizio, silenzioso, paziente, tutto concentrato sulla sua missione. Non ha deviato per un istante dalla sua rotta. Sono tutti gli altri che sono dovuti venire alla fine sulla sua strada. Io sono stato su di lei fin da quando sono apparso per la prima volta qui dentro, sono stato una cosa sola con lei. L’ho accarezzata in silenzio con i miei mouse, con la scusa di ridefinire i suoi lineamenti per il game, di ampliarle la fronte, di spostarle l’attaccatura dei capelli, di modificarle il disegno degli zigomi, degli occhi, del mento. E adesso anch’io sono qui al suo fianco. Lei mi ha fatto l’onore di fermarsi sulla mia strada, di prendermi a bordo.»
Silenzio.
«Sono un uomo di poche parole» gli risponde l’investitore, dopo un po’. «Cerco solo di stare al mio posto, di non venir meno alla mia consegna.»
Adesso le loro due teste sono immobili dietro il parabrezza, in silenzio. C’è un uomo che cammina, con le mani in tasca, da solo, quasi in mezzo alla strada, tranquillo. È vestito elegantemente, come se fosse appena uscito da una festa.
L’investitore gli si avvicina da dietro. L’uomo non si volta, continua a camminare tranquillamente. Allora l’investitore rallenta, svolta al primo incrocio, imbocca l’altra corsia, la percorre per un po’, svolta di nuovo, all’incrocio successivo ritorna indietro, per trovarsi l’uomo di fronte invece che di spalle. Fa salire di giri il motore, prima di scalare la marcia e di lanciare la macchina contro l’uomo che continua a camminare come se niente fosse in direzione opposta, con le mani in tasca, elegante, tranquillo.
I fari dell’auto illuminano la sua figura slanciata, ma lui non si sposta. Non alza neppure gli occhi per un istante. L’investitore stringe più forte il volante. Il softwarista si puntella col palmo delle mani al cruscotto prima dell’impatto.
L’uomo si abbatte sulla strada, in silenzio, sulle ossa delle gambe spezzate. L’investitore frena, ingrana la retromarcia. Frena di nuovo. Riparte sgommando. Passa sopra l’uomo disteso sull’asfalto. La macchina si solleva da una parte. Si sentono le costole spezzarsi sotto il peso dell’auto, che prosegue sulla sua strada.
«Testa e torace» dice soltanto l’investitore, dopo un po’, per indicare le due parti su cui bisogna passare per essere certi della morte dell’investito.
Vanno avanti ancora, senza dire niente. Il softwarista è ancora puntellato al cruscotto. Continua a fissare la strada, con gli occhi molto aperti, sbarrati.
«Capisco» gli dice l’investitore, «per lei è la prima volta. Ma siamo solo all’inizio, si distenda. Si metta la cintura di sicurezza, questa notte si balla!»
Il softwarista stacca le mani dal cruscotto, si aggancia la cintura di sicurezza, si gira per la prima volta verso l’investitore, immobile nella penombra.
«Mi scusi» gli dice. «D’ora in poi non succederà più. Lo so anch’io cosa bisogna fare.»
Anche la testa dell’investitore si gira finalmente verso di lui, per la prima volta. Si guardano per un istante, nella penombra.
«Perché ha fatto quel lungo giro prima di investirlo?» gli domanda dopo un po’ il softwarista.
«Lui è il primo, stanotte. Non investo mai il primo di spalle. Chi era?»
«Era l’uomo che avrebbe dovuto essere Sirio.»
«Bene, d’ora in poi lo sarà!»
La macchina corre, nessuno al suo interno apre bocca. Si vede, un po’ più avanti, sulla sinistra, a un incrocio, un piccolo gruppo di persone che camminano in silenzio verso il punto d’annuncio. Sono quattro uomini e una donna. Se è poi una donna, perché qualcosa si allunga paurosamente nell’aria oltre il suo dorso, come una coda.
L’investitore scala una marcia, per far salire il motore su di giri. La sua testa è immobile, intenta. Respira due o tre volte più forte, si vede il suo torace gonfiarsi e sgonfiarsi nella penombra. Apre e chiude due o tre volte le dita attorno al volante. I suoi piedi compiono un doppio scarto sopra la pedaliera.
La macchina accelera sempre più, vibra, lanciata. Si getta come un bolide contro il gruppo. Li investe di fianco. Due figure piombano a terra, si sentono le loro teste sbattere contro l’asfalto. I finestrini sono chiusi, ma arrivano ugualmente gli urli che escono dai corpi sorpresi nel cuore della notte dall’investizione. Gli altri tre scappano. L’investitore li insegue, per poco, perché non sono riusciti a fare molta strada. Li raggiunge, li abbatte, mentre corrono e nello stesso tempo stanno girati da una parte con gli occhi sbarrati per fissare il cofano che si avvicina. Un colpo, due colpi, tre colpi. Una delle teste deve essersi abbattuta sul cofano perché si sente un forte rimbombo contro la lamiera, e poi si vede uno schizzo denso salire all’improvviso nel buio. La macchina si solleva paurosamente, si sente anche stando dentro un rumore di ossa schiantate.
L’investitore ritorna indietro, ai primi due abbattuti sopra l’asfalto e non ancora finiti. Passa con le ruote sopra le teste. La macchina sale da una parte, prima di farle scoppiare. Ritorna a terra con un tonfo, dopo che le ruote hanno oltrepassato le casse toraciche e i crani sfondati. A bordo nessuno dei due respira per tutto il tempo. La macchina ha ripreso la sua corsa. Adesso si sentono ancora i mantici dei quattro polmoni respirare.
«Nomi?» domanda l’investitore, dopo un po’.
Anche il softwarista prende fiato prima di rispondere:
«Morgan, Igor, la donna caudata, Sax, il chirurgo porno che abbiamo visto in azione a Pasadena, in quel set prefabbricato installato in quel sito spaziale dismesso, Spiro, quello a cui puzzano i piedi...»
«Non gli puzzeranno più, d’ora in poi!» conclude l’investitore.
Poi il suo sguardo è distratto da una figura piccola, sola, che cammina in mezzo alla strada.
La investe da dietro, senza accelerare, gli passa sopra. Si sentono le sue ossa tintinnare.
«Perché le sue ossa fanno questo rumore?» domanda l’investitore.
«Perché sono di vetro.»
Qualche istante dopo si sente che le ruote sono passate anche sopra qualcosa di impercettibile che non può essere neanche un corpo, un corpicino.
«E questo cos’è?» domanda ancora l’investitore.
«Un giocattolo.»
«Un giocattolo? Qui?»
«Sì, un ranocchio voltaico.»
Come devono essere grandi questa città e queste strade, per accogliere tutti i corpi che si sono messi in marcia verso l’annuncio! L’investitore gira due o tre volte il volante, frena improvvisamente, riparte, per liberare le gomme e i mozzi delle ruote da qualcosa che ci era rimasto appiccicato.
«Il lavoro non manca, stanotte!» dice senza girarsi verso il softwarista, nel buio.
L’investizione
Appaiono i primi trampolieri, i primi roller. L’investitore ci va dentro senza esitare un istante, per portarsi avanti, li screma, mentre il grosso continua la sua marcia verso l’annuncio. Com’è difficile investire i roller! Schizzano da tutte le parti, li devi inseguire fin sui marciapiedi, spezzargli le ossa delle gambe andando a rasentare e certe volte persino a toccare i muri delle case col paraurti, e poi quando sono a terra devi passargli sopra una volta, due volte, disarticolare tutte quelle macchine ossee munite di rotelle che corrono a testa bassa contro lo spaziotempo immobilizzato nel primadopo. Com’è facile invece investire i trampolieri! Basta colpire i loro trampoli fosforescenti e quelli fioccano giù dall’alto come birilli, piombano sul tetto dell’auto e poi rotolano via. Basta tornare indietro e vanno a mettersi infine esattamente di fronte alle ruote, sul loro letto d’asfalto. Devi solo passarci sopra, sostenere il terremoto dell’auto che si sconquassa passando sui loro corpi e poi sprofonda, il suono dei loro scheletri che vanno in frantumi dentro le tute da vento, quando ce ne sono due o tre uno sopra l’altro e il peso dell’auto stritola le ossa dei loro bacini, fa schizzare fuori la massa attorcigliata e fumante dei loro visceri. Ma com’è definitivo passare sulle loro teste, dei roller e dei trampolieri, sigillate nei cascomaschera! Sembra per un istante che il peso dell’auto coi suoi due passeggeri a bordo non sia sufficiente a sfondare la capsula di resina, plastica e fibra di carbonio. Invece un secondo dopo si sente il suono dell’esplosione di cascomaschera e teste. La macchina ripiomba a terra, restano solo le chiazze esplosive di schegge di cascomaschera e crani e liquami di cervelli e di volti istoriati sopra l’asfalto.
L’investitore spinge il palmo di una mano contro il tetto dell’auto, per buttare in fuori l’ammaccatura che si era formata per l’urto dei trampolieri piombati dall’alto. Il softwarista adesso è tranquillo. Sta guardando un ragazzo che cammina in mezzo alla strada tenendo tra le braccia una donna in vestaglia.
«E quello chi è?» chiede l’investitore.
«È quel ragazzo che ha salvato la donna nella casa in fiamme» gli risponde il softwarista.
La distanza è poca. Cadono tutti e due insieme, all’indietro. La macchina si impenna sui loro corpi allacciati. Ritorna indietro. Li investe di nuovo. I due non emettono suoni. Le ruote manovrano sulle loro teste e sui loro corpi immobilizzati contro il filo dell’orizzonte.
«Bene!» dice l’investitore, alla fine. «Non la salverà un’altra volta, quella puttana!»
Ridono tutti e due per la prima volta, a bocca chiusa, senza girarsi, senza guardarsi.
Ci sono dei musi genitali tutti colorati e truccati, tra una fila di gambe aperte allineate sul gradino di un marciapiede. Al centro, Ditalina e le altre ditaline stanno muovendo elettricamente la mano nelle loro aperture scuoiate.
Un secondo dopo non si capisce, non si percepisce neppure che il muso dell’auto è balzato sul gradino del marciapiede, perché tutta quella melma di corpi attutisce lo sbalzo. Non si capisce se quelle che scappano sono le teste oppure quei loro nuovi crani manuali cresciuti contro le imboccature dei loro corpi tagliati. L’investitore manovra in silenzio. Ci passa sopra una volta, due volte, tre volte. Le investe un’ultima volta venendo indietro in retromarcia, prima di riprendere la sua strada.
«Mi dica» prova a chiedere dopo un po’ il softwarista, «sono sempre così le sue notti?»
L’investitore non risponde. I suoi occhi stanno adesso puntando un gruppo di indossatrici dai nasi fosforescenti che avanzano impennate sulle scarpe dagli alti tacchi vertiginosi. La macchina le attraversa da parte a parte. Rimangono sull’asfalto chiazze di cristalli fosforescenti al centro dei loro volti spappolati e scoppiati. Anche i battistrada delle ruote rimangono fosforescenti per un po’, mentre corrono lasciando dietro di sé sull’asfalto una scia scura pestilenziale attraversata dal fosforo della luce.
Poi è la volta di Nervina, della ragazza dalle sole gengive, della depilatrice.
«Chi sono quelle?» chiede l’investitore d’un tratto, perché sono apparse anche delle figure scorticate che avanzano nella notte liberando dai loro corpi getti di materiale incendiato.
«Sono le ragazze scartavetrate che bruciano come stelle.»
L’investitore rimane per qualche istante in silenzio.
«Non avevo mai investito le stelle!»
«C’è sempre una prima volta» gli risponde il softwarista, tranquillo.
Non c’è neanche bisogno di accelerare, perché la macchina è già stata portata a una velocità d’urto costante, con tutta la sua massa di investimento e di annuncio. Il suo muso entra in un istante nel bagliore dei corpi. Ma dev’esserci ancora della massa di carne e plasma non completamente iniettata nel magma della fotosfera incendiata perché si sentono venire da sotto le ruote rumori arcaici di sfracellamento di corpi e di parti intime di materia non ancora completamente portata al culmine del suo mutamento spaziale. Bisogna passarci sopra velocemente, più volte, perché il serbatoio non prenda fuoco a contatto con quella materia incendiata e tutta l’auto coi suoi due immobili passeggeri non bruci continuando a imperversare incendiata nella massa dei sempre nuovi corpi che attendono di venire increati. E si sente venire da sotto il fragore di fuoco e plasma e di gas incendiati che sfrigolano come in una forgia sotto la massa di spegnimento dell’auto e il boato che fanno i corpi portati alla dimensione parossistica di nana bianca, quando cessano improvvisamente di bruciare e di tormentare e increare.
La macchina corre ancora per un po’, perché l’aria della notte raffreddi le ruote. Non si vedono più filtrare dal fondo quei bagliori che salivano dai corpi forgiati, che facevano balenare per un istante nel buio i volti e le teste dei due passeggeri immobili e silenziosi nel primadopo.
«Ho la gola secca» dice dopo un po’ il softwarista.
«C’è una bottiglia d’acqua nella tasca laterale, dalla sua parte.»
Il softwarista tasta con la mano in cerca della bottiglia. La trova. Svita il tappo, beve un paio di sorsi. Si sente la bottiglia di plastica accartocciarsi sotto la morsa delle sue dita.
«Lei non beve?» chiede il softwarista prima di rimettere via la bottiglia.
«Non ho sete» risponde l’investitore.
Poi, da un punto ancora lontano, si vede venire avanti in rettilineo qualcosa come un corpo sormontato da una testa planetaria che cresce.
«Che cos’è quella cosa?» domanda l’investitore aggiustandosi la cintura di sicurezza.
«È la donna dalla testa espansa.»
L’investitore afferra meglio il volante, prima di scagliarsi a capofitto contro il suo corpo che avanza ricollocato dentro lo spazio. La donna non si sposta, non si capisce neppure se sta guardando quello che succede sotto di lei, nelle strade, coi suoi grandi occhi proporzionalizzati al tessuto generale della visione. Il suo corpo si spezza. Si sente il meteorite della sua testa piombare con un tonfo sopra l’asfalto. L’investitore ingrana la retromarcia. Ritorna indietro. Adesso la sua testa e il suo corpo sono tutti protesi in avanti, fin dove la cintura di sicurezza permette, mentre cerca di investire dal fondo il corpo riverso sulla strada, e di percorrerlo tutto per riuscire infine a issarsi anche sulla sua testa. La macchina continua a salire, sollevandosi sempre più da una parte, mentre corre verso il culmine del suo corpo riproporzionalizzato proteso verso un incontro di specie nuova. Arriva fino alla testa. Viene sbalzata improvvisamente nell’aria. Si ferma il tempo necessario perché il suo peso possa avere la meglio. Sembra che si stia rovesciando da una parte, ma un istante prima di capottare, e che le ruote ripiombino a terra, arriva, come da lontano, il fragore della grande testa espansa che esplode irradiando il suo contenuto tutt’intorno. Il parabrezza si oscura. L’investitore aziona per la prima volta il tergicristallo. Le spazzole spostano a fatica tutta la massa cerebrale che ci è piombata sopra. Aziona anche il getto dell’acqua. Si levano lunghi spruzzi che colpiscono il vetro, più volte, mentre le spazzole continuano a spostare la sostanza del primadopo.
«Adesso sì che ho sete!» dice alla fine l’investitore al softwarista, che sta seduto senza parole al suo fianco, impietrito.
Il softwarista si scuote, tasta in cerca dell’acqua. Passa la bottiglia accartocciata all’investitore, senza ricordarsi di svitare il tappo. L’investitore lo svita tenendolo stretto tra i denti e facendo ruotare la bottiglia con le dita di una mano che spuntano dai mezzi guanti. Beve un unico lungo sorso. Passa la bottiglia al softwarista. Adesso il vetro è quasi completamente pulito. L’investitore ferma le spazzole. Nessuno dei due parla, dentro il bolide dell’auto lanciata in silenzio nell’investizione.
«Chi abbiamo fatto finora?» domanda l’investitore tranquillo, dopo un po’.
«Abbiamo fatto: quello che dovrebbe essere Sirio, Morgan, Igor, la donna caudata, Sax, Spiro, il chirurgo porno, l’uomo dalle ossa di vetro, il ranocchio voltaico, i primi trampolieri e i primi roller, il ragazzo che salva la donna dalla casa in fiamme e la donna salvata, Ditalina e le ditaline, le indossatrici dai nasi pieni di merda, Nervina, la ragazza dalle sole gengive, la depilatrice, le ragazze scartavetrate, la donna dalla testa espansa.»
«Bene! A che punto siamo?»
«All’inizio.»
Infatti subito dopo, a ondate sempre più fitte, arrivano gli sbandieratori, i divoratori, coi loro volti ricoperti di melma intestinale increata, i grugni loricati, infangati, i capelli gettati all’indietro dal loro stesso avanzare per masticazione nella polpa del mondo. E poi le svere, coi loro volti privi di nasi, bocche e occhi collocati a una vicinanza esplosiva. E poi Tipabionda, Tipabruna, lo Stantuffo, i cardinali massacratori in marcia con le loro clave liturgiche. Le ruote si bloccano per un istante nelle loro vesti e nei loro mantelli, le mitrie cadono dalle loro teste, rotolano tutte sporche di sangue e materia cerebrale sopra l’asfalto. E poi lo stupratore di donne gravide, le donne stuprate, e poi la bambina, il vecchio coi capelli ossigenati che fa da guardiano alla bambina, i corpi che si arrovesciano nella corsa, i segnali che avanzano ingigantiti e piallati nel primadopo. La macchina li ripialla di nuovo a filo con l’orizzonte. E poi la donna con la bocca che le arriva fino a un orecchio, quella che ha portato l’auto con il copy e quello che dovrebbe essere Sirio fin contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, e tutti gli altri partecipanti all’orgia usciti in piena notte dalla sua casa, l’uomo che si eiacula in bocca da solo, la vecchia dal buco del culo dipinto con il rossetto, tutti gli altri corpi che si divincolavano al buio sul pavimento, tutti quelli usciti dai set porno, coi loro buchi fosforizzati e sforzati, culi e uteri pieni di sbarre di luce frantumate che scricchiolano sotto le ruote, all’interno dei loro corpi increati, cazzi, matrici, tutta la poltiglia genitale che si sfracella sfigurata sotto le ruote, nel primadopo.
L’investitore improvvisamente rallenta, si ferma.
«Che cosa succede?» gli domanda il softwarista, allarmato.
«Bisogna tirare via questa merda, ogni tanto!» gli risponde l’investitore.
Scende dall’auto, va ad aprire il bagagliaio, tira fuori una corta zappa. Comincia a staccare dal paraurti, dai fanali, dal cofano, dalle ruote, tutta la poltiglia dei corpi rimasta appiccicata per la violenza dell’urto, stacca dalle scanalature della carrozzeria zone pubiche sfracellate, arcate dentarie scoppiate, schegge d’osso e di crani e di cuoio capelluto incrostato, plasma cerebrale spalmato. Si abbassa per guardare sotto l’auto, libera i mozzi delle ruote e l’albero di trasmissione dalle poltiglie salite dal filo dell’orizzonte, strappa via pezzi di abiti stracciati dagli ingranaggi. Il softwarista sente anche stando all’interno dell’auto, immobile e legato contro il sedile dalla cintura di sicurezza, il rumore delle strisce di mantelli di broccato e di seta dei cardinali strappate via dalle mani dell’investitore che sta liberando le ruote. Vede, attraverso il parabrezza lordato, le lontane forme di corpi in marcia nel rettilineo della strada, e poi la sagoma dell’investitore inclinato contro il vetro, dall’altra parte, intento a staccare con un raschietto le iniezioni di corpi nei punti in cui le spazzole dei tergicristalli non riescono ad arrivare. E poi ripulire anche la zappa e il raschietto contro il bordo di un marciapiede, prima di rimetterli nel bagagliaio e di risalire in auto.
«Bisogna vederci bene, per poter continuare a increare!» dice un istante dopo, riaccendendo il motore.
La strage
La macchina corre per un po’ nelle strade, pestilenziale. Fermo sul bordo del marciapiede il softwarista solleva la mano per chiedere un passaggio.
La macchina rallenta, si ferma.
Il softwarista entra.
«Non sarà solo, stanotte!» dice all’uomo immobile al posto di guida.
La macchina si stacca dal marciapiede, riparte. I due uomini rimangono in silenzio per un po’, non girano nemmeno la testa per guardarsi, mentre avanzano senza rumore nel primadopo.
«Perché si è fermato? Perché mi ha preso con sé?» chiede d’un tratto il softwarista.
«Perché lei è il solo ad avermelo chiesto, qui dentro» gli risponde l’investitore, semplicemente.
«Lei che non si ferma di fronte a niente, che investe tutto quello che incontra...»
«Non si preoccupi, verrà anche il suo turno, alla fine.»
«Lo so. Io sono il solo a sapere come andrà a finire, qui dentro.»
«E allora perché me lo chiede?»
Nessuna risposta. L’investitore saggia con la mano la cintura di sicurezza, prima di gettarsi a capofitto nel tuorlo di stuprate e stupranti che aggrovigliano le loro membra sull’asfalto. Non c’è nemmeno bisogno di farli crollare a terra perché sono già a filo con l’orizzonte. Le ruote della macchina passano su quel tappeto ancestrale, si sentono le loro teste sovrapposte e incastrate scoppiare con violenza, due volte, mentre la macchina ripiomba a terra dopo il dislivello dei corpi che continuano a scopare semisfracellati sotto le ruote, e i suoi passeggeri vengono avanti tutti e due irrigiditi e bloccati dalla cintura. La sbloccano con la mano, quando la macchina riprende a correre orizzontale. Ma non per molto, perché subito dopo appaiono contro il parabrezza le esplose. Piombano a terra a faccia in giù, le loro labbra siliconate si sfracellano ancora di più contro l’asfalto. Quando la notte è fissa, quando lo spazio e il tempo sono immobilizzati si può solo avanzare passando attraverso il tuorlo delle forme e dei corpi in oscillazione nel primadopo.
«Chi è quel gigante che cammina sconsolato in mezzo alla strada?» domanda l’investitore al suo compagno di viaggio.
«È il laringectomizzato» gli risponde l’altro. «Va in giro così, da quando gli è stata portata via la donna avvolta nella carta stagnola. Non si dà pace...»
«Adesso gliela daremo!»
Si avvicinano ancora di più al suo corpo che barcolla verso l’annuncio.
«E perché ha una tempia bruciata?» domanda ancora l’investitore.
«È stato colpito col lanciafiamme, dal Matto.»
L’investitore scala una marcia, per portare il motore su di giri. Il laringectomizzato non si sposta di un millimetro, non alza gli occhi. La macchina lo colpisce di fianco, per far crollare a terra la torre della sua persona senza che si abbatta sul cofano sfondando il parabrezza. Quando è a terra, gli passa sopra dopo una deviazione di lato per prendere di nuovo velocità, prima sulle gambe, per spezzargliele e impedirgli di fuggire o di rialzarsi e di fronteggiare il muso della macchina che viene avanti immobilizzato, in annuncio. Ma non ce n’era bisogno, perché il laringectomizzato non cerca di fuggire, non ci pensa nemmeno, si è anzi coricato completamente sull’asfalto con le gambe e le braccia allargate, per distendere il più possibile le sue membra sulla curvatura dell’orizzonte e non offrire alla macchina tutta la massa compatta del suo corpo configurata in un unico blocco verticale increato.
L’investitore gli passa con due ruote sul ventre, con le altre due sul collo. Ritorna indietro, i due passeggeri vengono sbalzati in alto quando la macchina passa sul suo cranio rasato quasi staccato dal resto del corpo. Lo sentono sospirare profondamente, da sotto, un secondo prima di sfracellarsi. Sembra che l’investitore si stia girando verso il softwarista, come se volesse dirgli improvvisamente qualcosa. Invece un istante dopo i suoi occhi sono fissi di nuovo sulla strada, perché stanno avanzando nuove ondate di figure e di corpi in marcia verso l’increazione, l’investizione e l’annuncio.
La macchina si getta nel mucchio, passa sui corpi e sui volti che si abbattono sulla strada, le ruote si invischiano di tanto in tanto girando a vuoto nei tuorli spalmati sopra l’asfalto. L’investitore manovra più volte, tranquillo, per liberarle dalla poltiglia, mentre la macchina si impenna e poi sprofonda sulle montagne russe dei corpi che hanno conosciuto finalmente l’annuncio. Sembra ogni volta che il fondo di ossa e tuorlo sia alle spalle, e che la macchina abbia di nuovo riconquistato le strade, invece un secondo dopo le sue pareti ricominciano a sconquassarsi passando sopra un nuovo tappeto di corpi.
«Chi abbiamo investito, stavolta?» chiede l’investitore al suo softwarista.
«I ristrutturatori, i cellophanatori, gli invideatori...» gli elenca il suo compagno di increazione e di viaggio.
L’investitore rimane per qualche istante in silenzio.
«Accidenti, quanti ce ne sono!» risponde alla fine. «Come fa a ricordarseli tutti?»
«Per forza! Sono io il creatore del game!»
L’investitore si gira verso il softwarista, che però non si volta. I suoi occhi rimangono fissi sull’asfalto, per non sostenere il suo sguardo.
«E quelle?» domanda l’investitore un istante dopo, perché ci sono due ragazze che camminano in abito da sera in mezzo alla strada, e reggono sulle braccia altri due abiti da sera.
«Sono le vestitrici. Quelle che hanno consegnato gli abiti alla Meringa e al Matto, quando sono entrati tutti e due in quella grande casa tutta illuminata e piena di ospiti, mentre camminavano assieme tenendosi per mano, infreddoliti, con le scarpe e le ciabattine bagnate, nella neve, dopo che erano usciti irresistibilmente dalla casa editrice, e si spostavano così, in silenzio, col cuore in gola. Finché passano di fronte a quella grande casa illuminata, e c’è quell’uomo di fronte al portone che li invita a entrare, perché dentro ci sono già tutti gli invitati, in attesa. “Siete voi l’anima della festa” gli dice, “non ci sarà nessuna festa se voi non accettate di fare il vostro ingresso in questa casa!” E allora i due entrano, camminano sullo scalone con le loro scarpe e i loro vestiti inzuppati, lei con le sue ciabattine ricamate fradice per la neve. Arrivano in cima, entrano nella casa, nei suoi saloni tutti pieni di luce. Quelle due ragazze si fanno avanti, gli porgono gli abiti da sera, le scarpe nuove. E loro due li indossano, ci entrano dentro, si cambiano uno di fronte all’altra, emozionati, nello stanzino dove le due vestitrici li hanno accompagnati, e poi fanno di nuovo il loro ingresso nella sala, tra due ali di invitati che si aprono al loro passaggio, e lui la tiene e la sospinge con la mano attorno al fascio vivente della vita, come attraverso vasti spazi stellati, regge in gioia, e sente sotto le sue dita la sua consistenza vivente, e poi le loro teste e i loro volti si accostano, uno muove la sua bocca contro la schiuma dell’altra bocca, entrano tutti e due nelle correnti calde dei loro corpi col muscolo d’acqua delle loro lingue bagnate, profumate, spostandosi in quei grandi spazi felici, passando contro quegli specchi dove si riflette luce e soltanto luce, come se specchi e materia specchiata fossero diventati una cosa sola, luce in luce...»
L’investitore si gira di colpo verso il softwarista.
«Cosa le prende?» gli chiede.
«Niente, niente, stavo solo sognando...»
Un tonfo. Le due ragazze scompaiono immediatamente dal parabrezza, tutte e due assieme, nello stesso istante. L’investitore manovra, ci passa sopra di nuovo, tranciandole tutte e due da parte a parte, per sicurezza, passando sopra le ossa dei loro bacini con una ruota, sulle due teste con l’altra. Uno scoppio, due scoppi. La grandine dei loro crani che sale dal basso all’alto contro il pavimento dell’auto, all’incontrario. Qualche spruzzo marcio sul parabrezza. Le spazzole dei tergicristalli che si danno da fare, per un po’. Poi è la volta di Elvis I e Elvis II, che camminano tenendosi sottobraccio, uno con le vesti bianche, papali, quelle scarpe di vernice, da donna, l’altro vestito poveramente, con le scarpe da ginnastica scalcagnate. Ma tutti e due con i loro grandi ciuffi imbrillantinati che oscillano e luccicano nella notte, e poi esplodono uno vicino all’altro al centro del parabrezza quando la macchina li centra frontalmente e poi passa oltre correndo sui loro corpi prepapali sulla curvatura del pianeta immobilizzato, venduto, oltrepassato e increato. E poi la donna blindata, serrata da ogni parte come una fortezza. Il suo involucro esplode sotto le ruote, scagliando tutt’intorno le sue membra di smalto. Poi appare un gruppo di corpi che cammina tenendosi tra le mani la testa.
«Chi sono quelli?» chiede l’investitore. «Perché si tengono le teste tra le mani?»
«Sono gli emicranici. Le loro zucche sono in preda a vasodilatazioni improvvise, tempeste ematiche, cefalee a grappolo, brillamenti, acufeni...»
«Non soffriranno più, d’ora in poi!» conclude l’investitore dopo aver fatto scempio delle loro teste contro l’asfalto.
La notte è nera, la macchina avanza per investizione nella polpa del mondo configurato e increato, nel quidentrolà, nel primadopo. L’investitore controlla un paio di volte i freni, perché le ruote slittano sull’asfalto nelle frenate, per la poltiglia di corpi e di volti che si sono incollati sui battistrada. Ma non solo per quello, e non solo per l’umidità della notte, perché a un certo punto l’investitore domanda:
«C’è del bagnaticcio per terra. Cos’è questa roba?»
«È il diluvio.»
«Il diluvio? Questo schifo è il diluvio?»
«Sì, è arrivata fin qui l’onda enorme partita dalla lontana città cerebrale di sperma e dalla diga verticale che si sono squarciate, tutte piene di spermatozoi e di ovuli che si divincolano e sognano, per essere anche loro presenti all’increazione e all’annuncio dopo avere attraversato l’intero mondo nel primadopo.»
«Non avevo mai investito un diluvio!»
Le ruote della macchina spiaccicano sull’asfalto quella miriade di testoline seminali increate che sognano di essere ombre che sognano di essere spermatozoi che sognano di essere lanciati nell’anticipazione e nell’increazione. Non si sente salire il più piccolo suono, sospiro, da sotto, mentre le ruote passano a rullo sulla patina del primadopo. Ai lati della strada, coi piedi nudi nella melma seminale increata, ci sono delle puttane nere con le loro grandi bocche sbocciate, anche loro in attesa che venga dato l’annuncio. L’investitore le colpisce frontalmente, le scaglia contro il muro, sale sui marciapiedi per far crollare uno dopo l’altro i birilli dei loro corpi tagliati. Non si sente neanche il rumore delle ossa e dei crani che si fracassano e scoppiano sotto le ruote, dentro la densa massa increata cresciuta attorno alle loro ossa inventate. Poi un gruppo di ragazze panciute che camminano a gambe larghe verso l’annuncio.
«Chi sono quelle?» domanda l’investitore. «Sono tutte incinte?»
«No, sono le evacuatrici.»
Un istante dopo il softwarista si copre naso e bocca con un fazzoletto, perché l’investitore si è già lanciato contro i loro corpi gonfiati dalla massa degli escrementi. Il muso della macchina fa scoppiare i loro ventri sospingendoli contro i muri e poi passandoci sopra mentre sono riversi. Sale da terra il fetore emanato dai getti fecali che colpiscono la macchina con violenza, da sotto. L’investitore si inerpica sugli ultimi ventri gonfi che si elevano dall’asfalto. Le ruote slittano nei loro tuorli neri, ancestrali. Il softwarista tiene ancora il fazzoletto premuto contro la parte inferiore del volto.
«Ha intenzione di stare per sempre così?» gli domanda all’improvviso l’investitore, sorridendogli per la prima volta, senza girarsi.
«È difficile respirare.»
«Chi ha mai detto che è facile!»
Potrebbero andare avanti per sempre così, mentre l’investitore ha imboccato una via secondaria per far prendere più velocità alla macchina e staccare col vento della corsa sulle strade che vibrano per la percussione dei corpi in marcia verso l’annuncio tutta la materia ematica, cerebrale e fecale increata che si è agglutinata attorno alle ruote e contro il vetro del parabrezza. Invece pochi secondi dopo quello che si para di fronte ai loro occhi li fa ammutolire.
La strada vibra, non si distinguono quasi i contorni dei corpi e delle teste non umane che avanzano nel primadopo.
«Che cosa sono?» sussurra l’investitore guardando fissamente la strada.
«Sono gli animali dei canti.»
I contorni di molte groppe sfuocate dalla percussione e dall’increazione dei corpi avanza selvaggiamente verso il muso dell’auto immobilizzato e increato. Si distinguono un cane che viene avanti a testa bassa, da solo, fiutando il fondo stradale, altri cani che avanzano a branco, una grande bestia col muso munito di zanne, una massa di pelo da cui spunta il lungo tubo del muso, un’altra cosa spaventosa e piena di denti che si sposta a filo con l’orizzonte.
«Che città è questa? Non avevo mai visto simili bestie, su queste strade, di notte...» sussurra ancora l’investitore.
«Stanno andando anche loro verso l’annuncio.»
«Che bestie sono?»
«Sono i cani di Lupus, e quell’altro cane che cammina a testa bassa, da solo, è il cane che cerca la sua bambina, per tornare a fare quel loro numero assieme, sul set. Quello è un lupo. E quella grande bestia con la bocca e il muso pieno di zanne è il babirussa di Lanza, quella massa di pelo è il formichiere. E c’è anche il coccodrillo che cerca la sua Principessa per farle deporre il suo grande uovo nel primadopo. La sua pancia rettile striscia contro il filo dell’orizzonte, i suoi unghioni slittano sull’asfalto, i suoi denti sono sigillati dal filo di ferro che stringe in molti giri il suo lungo muso tagliato...»
Si interrompe un istante.
«Ma come si fa a investire animali tanto grandi?» domanda con un filo di voce.
«Basta non pensarci» gli risponde l’investitore. «Se stiamo al nostro posto, con infinita pazienza, con dedizione, uno dopo l’altro increeremo anche quelli.»
La macchina si lancia una prima volta contro il muro animale. Qualche bestia scarta istintivamente di lato, mentre il grosso della schiera rimane fermo orgogliosamente al suo posto. Si vede la barriera di occhi e di musi ancestrali fissare il bolide ancestrale che viene avanti. Il softwarista si getta all’indietro, si copre gli occhi.
«Perché si è coperto gli occhi?» lo rimprovera l’investitore. «Non aveva detto che era opera sua tutto questo?»
La macchina sta passando su una montagna di ossa e di muscoli animali che oppone resistenza all’increazione. Si solleva, si inclina, passando sulle teste e sulle ossa dei cani che lanciano i loro versi da sotto. L’investitore insegue quelli che cercano di scappare. Li appiattisce, passando sulle loro teste e sulle loro bocche piene di denti e di zanne. Stritola il tubo ricoperto di peli del formichiere, la saetta della sua lingua da poco estratta dalle fiche riempite di formiche, nei set. Investe il babirussa di lato, manovrando continuamente per colpirlo di nuovo dai punti dove il suo corpo è più basso. Lo ridimensiona sempre di più passandoci e ripassandoci sopra. La massa di visceri scoppia contro il cofano, il paraurti. Tutta la strada è piena di spaventose grida animali in increazione, in annuncio. Grandi teste dure che scoppiano, degli ultimi cani investiti, del cane solitario in cerca della bambina, che si lascia morire con indifferenza, senza emettere un verso. L’investitore punta il muso dell’auto contro la grande serpe, che innalza la testa dall’asfalto. Si vede luccicare nel buio il suo lungo muso sigillato dal filo di ferro. L’investitore ci passa sopra. Arriva un colpo violento della coda contro la fiancata dell’auto. Poi il rumore di placche ossee e di squame che buttano in alto le ruote. La macchina passa e ripassa su quel tappeto animale squarciato in cui si divincolano ancora qua e là teste e zampe negli ultimi movimenti elettrici dell’agonia. Li fa tacere per sempre. Sembra che non ci sia più una sola presenza animale ancora in vita, invece un secondo dopo l’investitore si getta furiosamente di lato per investire ancora qualcosa che il softwarista non vede.
«Che cos’ha investito, stavolta?» domanda.
«Ci eravamo dimenticati il serpente!»
Il softwarista si volta indietro, legato, fa in tempo a vedere con la coda dell’occhio una lunga forma fosforescente che si contorce sopra l’asfalto.
«Ma è ancora vivo!»
«No, si muove, ma non è più vivo. Gli ho schiacciato la testa.»
La macchina avanza con fatica, invischiata. Si sente un tonfo sempre più forte, a ogni giro di ruote sull’asfalto.
L’investitore si ferma. Tira il freno a mano. Rimane immobile per un po’ al posto di guida.
«Che cosa succede?» domanda il softwarista, allarmato.
«Abbiamo bucato una gomma!»
L’investitore scende dall’auto.
«Forza, mi dia una mano!» ordina al softwarista, che scende a sua volta.
Si guarda attorno, con gli occhi sbarrati. Tutta la fiancata dell’auto è bombardata di teste esplose e di denti, di materia cerebrale e fecale e di getti neri di sangue. Le ruote sono tutte agglutinate e infangate. Il softwarista non riesce a muovere un passo, non riesce a trovare il fazzoletto per tapparsi il naso e la bocca. L’investitore ha già preso il cric dal bagagliaio, l’ha già posizionato contro la fiancata dell’auto.
«Forza! Sollevi!» ordina al suo softwarista, che comincia a far ruotare la manovella, mentre l’investitore va a prendere la ruota di scorta.
La macchina si solleva sempre più da una parte, si stacca dalla fiancata melma di teste e filamenti che la collegano ancora al tappeto dei corpi increati sopra l’asfalto.
L’investitore comincia a svitare i bulloni della ruota.
«Basta così!» grida d’un tratto, mentre la macchina è ormai tutta inclinata e increata.
Il softwarista si ferma. L’investitore si sfila i mezzi guanti, cerca di svellere a mani nude la ruota dal mozzo, strappandola dalla pastoia di tessuti sfracellati e di corpi in annuncio. La stacca, la butta da una parte, si china a guardare la gomma squarciata da una zanna spezzata, ancora conficcata nel battistrada. Inserisce la ruota nuova, ma prima strappa via dal mozzo strisce di tessuti lacerati e di corpi umani e animali e di squame rimasti impastoiati. Stringe i bulloni. Il softwarista riporta l’auto a filo con l’orizzonte. L’investitore va a buttare la vecchia ruota nel bagagliaio.
«Prenda quella!» dice al softwarista indicandogli una bottiglia di liquido detersivo coricata dentro il cruscotto. «Me la rovesci sopra le mani!»
Il softwarista comincia a rovesciare piano piano il contenuto della bottiglia sulle mani dell’investitore, che si pulisce accuratamente. Quando ha finito, si asciuga con un paio di fazzoletti di carta. Si rimette i mezzi guanti. Sale di nuovo in macchina. Anche il softwarista risale. La macchina riparte. Va avanti piano. Vibra scivolando sulle strade che oscillano per la percussione dei corpi che marciano prefigurati e increati. Poi qualcosa di invisibile e di spaventoso e di molle si lacera improvvisamente contro il cuneo dell’auto.
I due rimangono immobili al loro posto, silenziosi, impietriti. L’investitore aziona i tergicristalli, le spazzole cominciano a spostare la massa lurida e fluida incollata contro il piano della visione. Il softwarista non riesce a parlare per lo spaventoso fetore. I suoi capelli sono diritti, increati.
«Che cosa abbiamo investito, stavolta?» è lui adesso a chiedere all’investitore.
«Il cielo!»
La festa
La macchina si accosta al marciapiede. Il softwarista sale.
«Lei chi è?» domanda l’investitore, senza girarsi.
«Sono il donatore di seme e il softwarista.»
«Da dove viene?»
«Dal brief.»
«Perché? Esiste ancora il brief?»
«Adesso il brief è qui. Siamo noi il brief.»
Schegge d’osso, mantelli, pelli minerali, carni, criniere, le ruote dell’auto irradiano nello spazio residui di combustioni stellari mentre tutta la massa metallica cerebrale increata viaggia silenziosa lungo le strade arate, nella notte nera.
«Elenco investiti!» l’investitore ordina al softwarista, senza girarsi.
Il softwarista si allaccia la cintura di sicurezza, si schiarisce la voce prima di parlare:
«Quello che avrebbe dovuto essere Sirio, Morgan, Igor, Sax, Spiro, la donna caudata, il chirurgo porno, l’uomo dalle ossa di vetro, il ranocchio voltaico, i primi roller e i primi trampolieri, il ragazzo che salva la donna dalle fiamme e la donna salvata, Ditalina e le ditaline, le indossatrici dai nasi pieni di merda, Nervina, la ragazza dalle sole gengive, la depilatrice, le ragazze scartavetrate, la donna dalla testa espansa, gli sbandieratori, i divoratori, le svere, Tipabionda, Tipabruna, lo Stantuffo, i cardinali massacratori con le loro clave liturgiche, lo stupratore di donne gravide, le donne stuprate, la bambina, il guardiano della bambina, i corpi che si arrovesciano nella corsa...»
«Non si arrovesceranno più, d’ora in poi!»
«... i segnali, quelli usciti dai set porno, quelli dell’orgia, cazzi, matrici, stuprate, stupranti, la donna con la bocca che arriva fino a un orecchio, quella che ha portato l’auto con il copy e con quello che dovrebbe essere Sirio fin contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, l’uomo che si eiacula in bocca da solo, la vecchia dal buco del culo dipinto con il rossetto, quelli dei set porno, le esplose, il laringectomizzato, i cellophanatori, i ristrutturatori, gli invideatori, le due vestitrici, Elvis I e Elvis II, la donna blindata, gli emicranici, il diluvio seminale, le evacuatrici, le puttane nere, gli animali dei canti, il cielo di merda... Il cielo? Ha investito anche il cielo?»
«Sì, non si è fatto da parte. Ho tirato dritto.»
Rimangono tutti e due in silenzio per qualche istante.
«Ce ne sono ancora molti? A che punto siamo?» domanda l’investitore, dopo un po’.
«Siamo solo all’inizio.»
Silenzio. Le ruote girano nel silenzio, mentre la macchina continua a spostarsi verso il punto di massima increazione e di annuncio.
«Facile per lei crearli!» esclama d’un tratto l’investitore, senza girarsi. «Ma poi tocca a me increarli!»
«Sì, il lavoro più grosso tocca a lei» gli risponde il softwarista, senza girarsi. «D’ora in poi ci sarà solo lo spaventoso, martellante e selvaggio e forsennato ritmo dell’avanzata dei corpi e della distruzione e dell’increazione dei corpi nello spaziotempo immobilizzato e increato.»
Stanno tutti e due immobili, contro il parabrezza lordato.
«Cosa sta facendo? Sbadiglia?» domanda improvvisamente il softwarista, perché gli pare di cogliere con la coda dell’occhio uno squarciamento nella testa dell’altro, nella penombra.
«No, sto respirando.»
Un tonfo, due tonfi, tre tonfi. Le ruote slittano paurosamente dentro i tuorli intestinali scoppiati. Il softwarista getta in avanti la testa, allarmato.
«Stia tranquillo» dice senza girarsi l’investitore, «questa è una macchina da investimento, non sarà un po’ di fango a fermarci. Chi erano quelli?»
«Erano di profilo, di schiena e di fronte, quelli che si sono posti e che si porranno al centro di tutto quanto, qui dentro, a strapiombo sull’elemento liquido, con gli occhi fissi su questo finimondo di figure e di onde nel cratere dell’increazione e della visione.»
Le strade sono aperte, la materia vivente palpita ancora sfracellata e increata. C’è una ragazza che viene avanti, morbida, elastica, silenziosa. Indossa solo il body, da cui spuntano le gambe e le braccia nude. Cammina con le scarpe da ginnastica dalle stringhe slacciate sopra il manto d’asfalto che fuma per il calore dei corpi ricollocati sul filo dell’orizzonte. L’investitore scala la marcia, la travolge in pieno, di fronte.
«Quella era Bodyna, sarà» dice il softwarista all’investitore, anche se non gli era stato chiesto niente, «e quell’altra ragazza che cammina da sola con il naso fosforescente è Testarotta, l’indossatrice lappone che ha permesso al copy di ritrovare la sua ragazza con l’acne spingendosi fin contro il muro di tempo e spazio immobilizzati, che gli permetterà.»
«Se sarà!» gli risponde l’investitore nel buio, abbattendola sull’asfalto.
E poi Lupus, che viene avanti camminando sulle punte delle sue scarpette da ballo, sulla carneficina dei suoi cani disseminati sopra l’asfalto, perché la macchina nei suoi giri sempre più stretti verso il centro sta ripassando in quel punto, per vedere se qualcosa è sfuggito. E poi il direttore editoriale senza palato, e poi il commesso della libreria dove è entrata Pompina e poi Pompina con le altre pompine e i terroristi di tipo nuovo che sarà e i pubblicitari e poi un signore che sta fermo su un marciapiede, di fronte al portone di un palazzo tutto illuminato e increato, vestito con eleganza, la giacca attillata, le scarpe luccicanti, che luccicherà, se sarà.
«Chi è quell’uomo?» domanda l’investitore, mentre ancora sta passando sulle facce e sulle teste schiacciate, e si sentono le ruote entrare dentro i loro tuorli cerebrali non ancora pensati e ormai oltrepassati e increati.
«È quel signore che sta sulla porta del palazzo dove sono attesi il Matto e la Meringa, per dare inizio alla festa, e fa cenno cerimoniosamente di entrare, farà, e il Matto gli dirà: “Ma non saremo invitati! Passeremo di qui per caso, mentre andremo col cuore in gola, senza penserà, senza respirerà”. “Oh, lei si sbaglia!” il signore risponderà. “Siete voi gli invitati, gli increati, che tutti qui dentro aspetterà, increerà. Non ci sarà nessuna festa qui dentro là se voi non entrerà, non increerà!”»
L’investitore balza sul marciapiede, lo travolge andandogli contro di fianco, gli passa sopra, ritorna indietro, riparte, lo sfracella di fronte al portone illuminato, increato, i vasi di fiori ai lati, la passatoia rossa che entrerà nell’atrio del palazzo che sarà, se sarà, e poi lungo lo scalone, fino a tutta quella luce cerebrata e increata dove la Meringa e il Matto danzerà, se sarà, se increerà.
«Non ha aspettato invano» dice l’investitore passando un’ultima volta sul suo corpo, «alla fine siamo arrivati. La festa c’è stata, c’è, ci sarà.»
Aziona i tergicristalli, per mandare via il sangue e gli altri materiali iniettati. Mandibole e denti, lineamenti che si distendono sotto le ruote, carcasse alate, schiuma cerebrale increata, corpi loricati, impennati, masse soffici riportate sul diaframma dell’orizzonte che ruota dentro lo spazio che ruoterà, se ruoterà, se increerà, se sarà, organi che ruoterà, pulserà, genitali, vesciche, visceri che il cielo riempirà, se sarà, cuori che pulserà, cuoremano che pulserà, dentro lo spazio immobilizzato e increato che pulserà dentro il suo pulserà. Le ruote slittano dentro quell’argilla increata, l’investitore manovra in silenzio, con i denti serrati, tutta la massa di metallo dell’auto si impenna su quel terremoto di carni massacrate e increate, la sua testa è immobile nella carlinga infangata.
Poi la macchina ripiomba a terra, corre per un po’ sul filo dell’orizzonte. Si sentono i rumori dei due corpi che riprendono a respirare. Adesso l’investitore guida in silenzio. Anche il softwarista è in silenzio.
«Che cos’è quella cosa?» chiede l’investitore d’un tratto, ma piano, piano, in un soffio.
Il softwarista guarda di fronte a sé, attraverso il parabrezza infangato. In fondo alla strada c’è un piccolo corpo sospeso nell’aria. Pende da un lampione che si curva fino al centro della strada.
«È una bambina impiccata» risponde il softwarista, in un soffio.
«Com’è bella!» si lascia sfuggire di bocca l’investitore, in un soffio.
La macchina viene avanti. Il corpicino diventa sempre più grande, diventerà.
L’investitore rallenta, si ferma, a pochi metri dal corpicino impiccato. I suoi piedi penzolano al di sopra dell’auto. L’investitore se ne sta in silenzio, assorto. Guarda dal basso il corpo penzolante di quella meravigliosa bambina dai lunghi capelli biondi mossi dal vento.
«Che cosa le prende?» gli chiede il softwarista.
L’investitore non risponde, domanda sottovoce, in un soffio:
«Chi è? Chi sarà?»
«Il suo nome è Antinisca.»
«Antinisca? Non avevo mai sentito questo nome, qui dentro. Che nome è?»
«Il suo nome che avrà.»
«Ma che cosa ci fa adesso qui dentro? Come ci è finita? Da dove viene? Da quale altro qui dentro viene?» domanda ancora l’investitore. «Perché mi è sfuggita? Perché lei non posso increarla?»
Il softwarista non risponderà.
«E quando è successo? Dove è successo?» incalza ancora l’investitore che incalzerà.
«È successo prima.»
«Ma prima dove, se io non la investirà, increerà.»
«È successo là.»
«Ma qui non è là?»
«È là che sarà.»
«Ma dove è là, se non passa da qui dentro là?»
L’investitore rimane ancora in silenzio di fronte al piccolo corpo della bambina che ondeggia un po’ per il vento sopra la massa insanguinata dell’auto.
«Lei è salva!» dice l’investitore d’un tratto. «È morta prima là, non potrà morire qui.»
La macchina passa lentamente sotto i piedini della bambina impiccata, senza sfiorarli. Va avanti piano, nel primadopo.
Continua ad andare avanti così per un po’. All’interno non si sente il più piccolo suono, come se i due avessero smesso persino di respirare.
Poi, all’improvviso, tutta la macchina comincia a danzare.
«Cosa sta facendo?» domanda il softwarista, allarmato.
L’investitore non risponde. La sua mano sul cambio, i suoi piedi sulla pedaliera, tutte le leve delle sue gambe, delle sue braccia, del suo collo e della sua testa si contraggono e si distendono incontrollabilmente come quelle di un grande burattino snodato o di un corpo meccanico azionato all’improvviso nel buio, mentre tutta l’auto comincia a scattare in avanti e poi indietro e poi da una parte, dall’altra, e poi a girare su se stessa in retromarcia e poi a frenare improvvisamente e poi a ripartire di scatto.
«Cosa sta succedendo?» domanda di nuovo il softwarista allarmato.
«Non lo vede? Sto investendo un corpo che non sta fermo, che scatta continuamente, devo cercare la sua testa che si slancia da una parte, dall’altra, e così le gambe, le braccia, devo trovarmi in un punto mentre sono contemporaneamente nell’altro, devo trovarmi in punti completamente diversi da dove l’altro potrebbe essere. Che corpo è questo? Non avevo mai investito un corpo così!»
«È il ginecologo spastico» dice il softwarista nel buio.
«Era sarà!»
La macchina riprende ad andare, si vede nello specchietto esterno la forma del ginecologo spastico azionata dagli ultimi movimenti di gambe e braccia, mentre è già spiaccicata sopra l’asfalto, nel primadopo.
Sembrerebbero dover andare per molto così, in silenzio, senza fiatare, dentro la macchina buia riportata alla sua orbita di investimento abituale. Invece, d’un tratto, il softwarista si mette incontrollabilmente a gridare:
«Là! Là!»
«Che cosa le prende?» è l’investitore che gli chiede, stavolta.
«Là! Là!» il softwarista continua a gridare. «Non li vede quei fiori?»
L’investitore non risponde, non dice niente. Esce di strada, balza dentro una grande aiuola al centro di una rotatoria, passa e ripassa con le ruote sopra i fiori che ci sono dentro, che ci sarà. Poi ritorna fuori, sulla strada, in silenzio, riprende ad andare sul filo dell’orizzonte che ci sarà.
«Perché mi ha fatto investire quei fiori?» domanderà.
«Non ha visto? È tutto pieno di fiori spastici, qui dentro là, che nelle aiuole si divincolerà, increerà...»
«Stia calmo, stia calmo» gli dice l’investitore girandosi a guardarlo severamente. «Come si fa a lavorare con una persona così?»
L’investitore guida in silenzio. Adesso anche il softwarista si è tranquillizzato di colpo.
Sydney 1, Benares 2, Tokyo 4, Shenzhen 6, Uelen 7, Semarang 8, Uz 10. E poi l’eiaculatore che eiaculerà, e il suo seme che nella città di sperma entrerà, che si squarcerà, increerà, e il diluvio seminale riverserà, se sarà, e i suoi sogni non ancora sognati investirà, increerà, e allora anche Chongquing 3 e Shanghai 5 apparirà, tenendosi per mano camminerà, verso l’annuncio che c’è già stato sarà, increerà.
«Chi sono quei due ragazzi che ci vengono incontro tenendosi per mano?» domanda l’investitore domanderà, manovrando per liberare le ruote dalla poltiglia di corpi che investirà.
«E che camminano fianco a fianco senza smettere di baciarsi, increarsi» continua a dire il softwarista come a se stesso, in un sussurro, nel buio, «tutti e due con le teste girate per guardarsi, increarsi, prima che sarà, e le loro bocche e prebocche incollate, e le loro lingue e prelingue che si cercano cercherà nelle cavità bagnate, increate, gli occhi chiusi, non ancora tagliati, come quando si cammina appena inventati nel primadopo...»
«Allora io li inventerà, increerà, immortalerà.»
«Chi sono adesso che non sono ancora e che sono già, se sarà?»
«Sono che sarà.»
«Ma dove sarà?»
«Nell’increerà.»
È più difficile passare su due corpi che si tengono per mano nell’increato, e che vanno avanti con le bocche attaccate, gli occhi non ancora inventati, e che piombano sull’asfalto senza neppure slacciarsi, senza smettere di prebaciarsi, di cercarsi, inventarsi, e le ruote devono passare sulla loro testa di teste, sulle loro bocche e sulle loro lingue bagnate, e sulle loro prebocche e prelingue che si cercherà, increerà, e tutti i loro corpi che investirà, irrorerà, e il presangue che scorrerà, se increerà, se sarà. Due teste, 48 miliardi di denti, e poi ossa, preossa, cuoremano, tutte quelle cartilagini e poltiglie di tessuti non ancora inventati che inventerà, pancine tagliate, anellini cagati, e poi i quattro piedi, le quattro mani, tutte quei miliardi di miliardi di dita delle mani e dei piedi da stritolare una per una, increare, casse toraciche da sfondare, polmoni da irrespirare, e poi tutti gli entranti e le entranti da stritolare, increare.
La macchina passa oltre, spostandosi sul suo tappeto insanguinato e infangato. Al suo interno si sente improvvisamente un suono lieve, increato.
«Chi dei due ha sospirato?» domanda una voce, non si capisce di chi.
«Sospirerà» risponde l’altra voce, non si capisce di chi.
Le strade sono sempre più gremite, mentre la macchina si avvicina sempre più alla voragine dell’annuncerà. C’è un’altra coppia che viene avanti, non a piedi, stavolta, ma in bicicletta. Un uomo sta portando in canna una bella ragazza nera che suona una trombetta che sembra un prepuzio. L’investitore li travolge di fianco, per sbalzarli via dalla bicicletta. Gli passa sopra mentre sono per terra, una volta, due volte.
«Che gambe sono queste, che braccia?» domanda l’investitore passando sopra Aminah. «Non avevo mai investito degli arti così!»
«Sono rigenerati.»
«Adesso sono anche increati!» gli risponde l’investitore.
Ma deve tornare indietro ancora una volta perché, mentre l’insieme dei due corpi era già maciullato e increato, c’è ancora quella trombetta che continua a suonare, accostata alle labbra nere da quella manina rigenerata. L’investitore passa sopra anche a quella.
Silenzio. Solo il suono delle masse dei corpi disperati e inventati che marciano verso la distruzione e l’increazione.
«Quante coppie! Non mi ero reso conto che c’erano così tante coppie, qui dentro!» dice come tra sé il softwarista, perché è apparsa all’improvviso un’altra coppia intenta a ballare al centro di una piazza deserta, non si sa al ritmo di quale musica perché quella trombetta è stata appena increata.
«Come faranno a ballare senza la musica?» dice ancora come tra sé il softwarista.
«Siamo noi la musica» gli risponde l’investitore.
I due continuano a danzare con gli occhi chiusi, allacciati.
«Chi sono?» domanda l’investitore.
«Non lo vede? Sono due ballerini.»
«Ma da dove saltano fuori?»
«Mah... saranno usciti da qualche gara di ballo liscio, da qualche festa. Non ne avranno ancora abbastanza di tenersi abbracciati, di danzare. Ma dove sarà questa festa?»
«Siamo noi la festa.»
Adesso i due ballerini hanno aperto gli occhi. Non sono più giovani però continuano a danzare senza fermarsi. Lui indossa un abito da ballo attillato, lei un bolerino in garza di lana. Non si vedono quasi le loro teste mentre passano contro la sfera di luce di un lampione. Lei gli sorride masticando sempre più lentamente una gomma. Non si accorgono neanche della macchina che si avvicina con la massa del suo muso infangato, e poi irrompe sulla pista da ballo.
La danza si interrompe, riprende, nel primadopo.
La macchina passa oltre, perché c’è un’altra coppia che viene avanti dall’imbocco di una strada nera, inclinata, coi loro corpi che non ci sono più, non ci sono ancora. Sono Copertina e il grafico di copertine. L’investitore ci passa sopra. Sprofonda sempre più, nella strada nera che ci sarà. Non si vede niente, anche se i fari della macchina sono accesi, sbarrati.
«Perché non si vede niente?» domanda improvvisamente una voce, nel primadopo.
«Perché non c’è più la luce.»
«E perché?»
«Perché si è separata violentemente dalla luce che ci sarà, perché lo spazio si è immobilizzerà, se sarà, se ci sarà, se increerà.»
L’investitore è immobile al posto di guida, impietrito. La luce non c’è, non c’è più, non ci sarà più. Non si vede niente, più niente, non ancora niente, anche dentro la carlinga nera dell’auto non si vede niente che si vedrà. Non si può neanche dire se la macchina è ferma immobilizzata oppure va, perché non ci sono punti di riferimento nella luce nera che ancora non ci sarà. È tutto nero, increato, nella luce nera che c’è prima che ci sarà, dopo che ci sarà, se ci sarà, se increerà. Non si vede niente che si vedrà, mentre l’investitore sprofonda nello sprofonderà.
«Dove sarà?» domanda una voce che domanderà.
«Nell’ombra che c’è qui dentro là.»
«E noi chi sarà?»
Non risponderà, se sarà.
«Come si fanno a investire le ombre?» domanda una voce da dove domanderà.
«Così!»
E la macchina andrà, investirà, increerà, nell’indistinzione che c’è stata sarà, che sognerà, che sognerà che sognerà, che nienterà, che risorgerà, morirà, increerà...
E allora la macchina ripartirà
E allora la macchina si fermerà. E il softwarista entrerà. E la macchina ripartirà.
«Chi sono quelli sarà?» l’investitore domanderà, perché viene avanti una massa di figure nell’indistinguerà.
«Sono il popolo che sarà» gli risponde il softwarista risponderà.
«Chi è che mi manda contro un popolo che sarà? E che popolo è che sarà?»
«Un popolo che ancora non sa che sarà.»
«Ma da dove verrà, che non l’abbiamo mai incontrato qui dentro là che sarà.»
«È il popolo di quelli che non sono riusciti a trovare un posto da nessuna parte, neanche qui dentro là che sarà.»
L’investitore chiude gli occhi, digrigna i denti, digrignerà:
«Possibile che neanche adesso questa matrice smetta di generare? Da dove saltano fuori questi qui, proprio all’ultimo istante, addirittura a tempo scaduto? Dove crederanno di andare? Si sono spente tutte le luci, adesso sono arrivato io sulla loro strada. Dovranno aspettare un altro tempo, un’altra era, prima che qualcuno li faccia nascere da qualche altra parte, in qualche altro mondo, universo.»
«Ma poi noi li increerà, li adesserà.»
«Li annienterà.»
«Prima che sarà.»
«Dopo che sarà.»
«Se sarà.»
Vengono avanti a schiera, senza sapere che sonosaranno, nell’increato, nel primadopo. Cammina qualche passo davanti a loro una meravigliosa bambina dai lunghi capelli biondi mossi dal vento che ci sarà. Tiene in mano una corda.
«Ma è la stessa bambina che abbiamo visto impiccata!»
«Sì, è Antinisca che cammina alla testa del suo popolo, nel primadopo. Tiene in mano quella grossa corda perché non sa che si impiccherà, perché non sa che saprà, se saprà. Non lo sa perché tra le sue mani c’è quella corda a cui si impiccherà, se nascerà, se morirà, se risorgerà.»
«E tutti gli altri? Chi sono? Hanno un nome?»
«Nessun nome, perché vengono da un’altra parte, dove non ci sono ancora i nomi, non ci sono più i nomi, non sanno neppure il nome che non avranno, se saranno, se moriranno, se nienteranno, se risorgeranno. Neanche noi glielo potremo daremo, se saremo, se increeremo.»
«Ma in che qui dentro sono?»
«Sono in un qui dentro che non c’è, non è dentro neanche nel qui dentro là. “Ma che qui dentro è questo se noi non ci siamo?” loro penseranno, se non saranno, se non increeranno. “Se non siete riusciti a trovare un posto anche per noi, se i nostri nomi non ci saranno, i nostri popoli non ci saranno. Noi veniamo dentro senza permesso anche qui dentro perché non siamo qui dentro, la nostra presenza porta accusa persino a ogni cosa increata che c’è qui dentro, prima ancora che ci annienterà, increerà, prima che sarà, che saprà.”»
«Ma come fanno a sapere se non sa, non saprà? Come fanno a conoscere prima che sarà? Come fanno a riconoscere prima che conoscerà?»
«Perché solo se non conoscerà riconoscerà.»
Silenzio, prima ancora che c’è il silenzio, sarà.
«Accidenti, quanti ce ne sono!» esclama nel silenzio nero l’investitore, guardando attraverso il vetro del parabrezza infangato il popolo che avanzerà, se sarà.
«Ha visto? È solo quando li si annienta che si capisce come sono grandi i popoli che sarà.»
L’investitore si getta contro la schiera del popolo che non sa se sarà, nel buio nero che c’è stato sarà. Contro tutta la massa articolata e increata che sarà, tutti i ventri cerebrati che ci sarà, tutte le ossa vegetali che si espanderà, i cazzi e le fiche che si fagociterà, mangerà, e le zampe umane che marcerà, nello spaziotempo immobilizzato e increato che increerà, le teste che sprofonderà, nella polpa cerebrata che eromperà, inghiottirà, tutta la massa che inventerà, annienterà, nello spaziotempo immobilizzato che non sa che immobilizzerà. La carlinga della macchina che non sa che sarà avanza proporzionalizzata nella materia del popolo che non sa se sarà. E il pavimento si squasserà, passando sul tappeto di materia popolare che marcerà, se sarà, se popolerà, tessuti e corpi dal basso verso l’alto salirà, eromperà, verso l’investitore e il softwarista che sarà, che non sa che sarà, se sarà. Con le loro teste tutte schizzate e incrostate che irrompono nel non sarà, nel non irromperà. Anche il volante tutto insanguinato e infangato dei popoli che ancora non sa, che investirà, risorgerà, increerà. Anche lo specchietto retrovisore, che vedrà che sanguinerà, increerà. I sedili pieni di melma popolare che non saprà, i piedi sulla pedaliera che invischierà, increerà. La leva del cambio nel bozzolo della materia popolare che non sa che poi irromperà. Le spazzole dei tergicristalli che spostano il diluvio popolare che non sa se sarà. Tutta l’aria polmonare del popolo che non sa se respirerà, se sarà, che l’investitore e il softwarista a bocca spalancata respirerà, per poter continuare a investirà, a increerà. E le ruote tutte infangate slitterà nel primadopo del finimondo popolare che ci sarà, e tutte e due le teste dell’investirà e del donerà dentro il plasma popolare che ci sarà. Dentro il nero tunnel popolare che attraverserà, nienterà, risorgerà, increerà. E la macchina continuerà ad avanzerà. Mentre l’investitore e il softwarista non si guarderà, non si parlerà, con le teste girate verso il parabrezza popolare che non sa se sarà. E poi d’un tratto l’investitore dirà, che non sarà, che dirà:
«Ne ho abbastanza di lei. Adesso scenda!»
E il softwarista senza dire una parola che dirà scenderà.
E camminerà.
E l’investitore ripartirà.
E l’investitore lo investirà, increerà.
Una volta, due volte lo investirà, una volta per il donatore di seme e l’altra per il softwarista che sarà, che travolgerà, increerà.
L’annuncerà
La macchina rallenta, si ferma.
Ci sono due persone immobili sul bordo del marciapiede. Una ha il volto coperto da una maschera di porcellana, l’altra i capelli rasati, due raggiere di luccicanti orecchini.
L’investitore si inclina, allunga il braccio, per aprire la portiera dalla loro parte.
«Prego, salite!»
La Musa fa per salire di dietro. Dio la ferma:
«Le signore davanti!»
La Musa sale, si siede a fianco dell’investitore. Anche Dio sale, si va a mettere sul sedile di dietro.
«Com’è linda questa macchina!» esclama, con la sua voce afona.
«Mi sono fermato a lavarla» risponde l’investitore senza girare la testa. «Ho scaricato la zavorra, ho accostato vicino a una fontana. Ci ho attaccato la canna che porto sempre nel bagagliaio, mi sono messo a lavare la macchina, tranquillamente, da solo, e vedevo staccarsi tutto il finimondo popolare che ci sarà, blocchi interi di tessuti irrorati e di ossa e di cuoi capelluti e di denti e cervici, sulla strada che vibrerà per il terremoto popolare dei passi in marcia nel primadopo. Si staccavano dal cofano sfigurato, dal tetto, dalle griglie, dalle spazzole dei tergicristalli, dalla fanaliera perché, anche se non c’era ancora la luce, tutte le ombre erano già state increate, anche i popoli che non sanno se saranno increati, e la luce illuminava la mia povera macchina sfigurata che ritornava nuova come appena inventata sotto il getto dell’acqua che ridisegnava le linee della scocca, le circonvoluzioni cerebrali dell’impianto elettrico, del motore.Perché ho aperto anche il cofano e diretto il getto contro la massa insanguinata e incrostata dove palpitava la potenza meccanica cerebrale di questo motore increatore. E poi anche l’interno dell’auto, il bagagliaio. Ho liberato la pedaliera, il freno a mano, il volante, ho lavato i tappetini e poi li ho rimessi dentro, il pavimento, i sedili, con precisione, con calma, nello spaventoso fetore, senza neanche coprirmi il naso e la bocca col fazzoletto. Ho asciugato i sedili con le mie pezzoline di pelle di daino. Ho lavato i finestrini, lo specchietto retrovisore, le ruote, il cruscotto. Ho staccato la canna, l’ho arrotolata per bene e l’ho rimessa nel bagagliaio. Sono salito di nuovo al posto di guida. Mi sono guardato attorno, dall’interno della mia macchina da investizione e da increazione, finalmente pronto per accogliere voi, perché sapevo che sareste saliti qui, a questo punto.
«Chi gliel’ha detto?» gli domanda la Musa.
«Chi me lo dirà» gli risponde l’investitore.
La Musa si mette la cintura di sicurezza. Respira forte, una volta, due volte. La cintura fa sbalzare ancora di più le sue belle tette libere sotto il velo della maglietta. Anche Dio si mette la cintura di sicurezza, da dietro, con uno scatto.
La macchina parte, riparte, ripartirà.
«Forza! Chi è il primo?» gli domanda Dio, con la sua voce afona.
L’investitore non fa in tempo a rispondere, perché sta venendo avanti un uomo che cammina in mezzo alla strada con la testa arrovesciata all’indietro, a braccia spalancate.
«Chi è quello?» domanda ancora Dio, dal sedile di dietro.
«Chi vuole che sia? È Gerusalemme 9, suo figlio.»
«Mio figlio?» domanda Dio spingendosi con la mascherina in avanti, verso la Musa. «Perché, abbiamo già messo al mondo un figlio, noi due?»
Adesso Gerusalemme 9 è al centro del parabrezza, a braccia spalancate.
La macchina lo travolge.
Un getto di sangue si stampa sul parabrezza. Nient’altro.
L’investitore passa oltre, perché c’è un altro corpo che viene avanti zoppicando nell’increato.
«E quello?» domanda di nuovo la voce afona.
«Quello è il Gatto» gli risponde la Musa.
Nella macchina si fa un improvviso silenzio. L’investitore stringe più forte il volante con le dita che spuntano dai mezzi guanti. Suona il clacson, per la prima volta, con forza, come per salutarlo prima di cancellarlo, increarlo.
Il Gatto ride, gettando indietro la testa.
L’investitore lo travolge. La Musa respira forte, si sente il mantice del suo fiato nello scrigno dell’auto.
«Ma come!» esclama d’un tratto. «Abbiamo investito il Gatto così?»
«Sì, così!» gli risponde l’investitore.
«E adesso?»
C’è uno spaventoso silenzio. La Musa respira ancora più forte. La maschera di porcellana sbalza nella penombra.
Sulla strada c’è un’altra persona che viene avanti increata.
«E quello?» domanda ancora Dio.
«Quello è il primo lettore» gli risponde la Musa.
«Di che cosa?» domanda l’investitore.
«Di questo libro che sarà, se sarà.»
Silenzio.
«Anche di noi?»
«Sì.»
«Ma da dove salta fuori questo qui?»
«Me lo aveva mandato il Gatto, all’inizio» continua la Musa, «me lo manderà, perché io lo preparerà. Perché prima ancora che qui dentro questo libro che scriverà sarà quello che lo leggerà, increerà. E allora lui arriverà. Lungo le scale camminerà, sopra il lucernario borchiato passerà. Fino alla mia porta arriverà. E io gli aprirà, gli spalancherà, con la bocca e la faccia tutte ancora luccicanti di sperma io lo accoglierà. E dentro la mia casa lo porterà. E allora lui con tutto se stesso entrerà, sestesserà. Fino alla mia stanza segreta lo porterà, fino al mio letto nuziale dove nessun altro uomo si è mai coricato oltre a lui, sempre più spalancata dopo ogni abbraccio, sempre più allagata, sempre più trasognata, tutta nuda e scoperchiata e lucente di fronte a lui, la sua puttana increata, la sua gemma inventata, e primapoi per tutta la notte lo accarezzerà, lo preparerà, lo leccherà, lo respirerà, lo scoperà, lo spompinerà, increerà...»
Un tonfo. Ossa, sangue, sul filo dell’orizzonte, che salirà, increerà.
Silenzio, silenzierà.
«Com’è che io – che sono Dio – non so niente?» domanda improvvisamente una voce, afona.
«Perché lei è Dio del popolo che non sa, non sa se saprà, se sarà, se sognerà, se brucerà, se annuncerà, se risorgerà, increerà» gli risponde un’altra voce che risponderà.
La Musa respira forte, respirerà, tutto il suo corpo polmonare si espanderà, i suoi capezzoli polmonari si allargherà, increerà. E la maschera di porcellana nel buio palpiterà, mentre altri getti popolari di ossa e plasma cerebrale salirà. E gli altri corpi popolari sul filo dell’orizzonte si espanderà. E anche Principessa e il traslocatore finalmente potrà arriverà, traslocherà, increerà.
«Chi sono quei due che sarà?» l’investitore domanderà.
«Sono che traslocherà.»
«Se le ruote li travolgerà, squarcerà, increerà, prima che sarà, che saprà, che saprà se sarà, se annuncerà, se traslocherà, se increerà.»
«Allora sì che traslocherà!» l’investitore dirà, se sarà, se traslocherà, increerà.
E poi l’uomo che incendia le spore che incendierà. Tutta la massa vegetale increata attorno alle linee della macchina palpiterà, brucerà, annuncerà, increerà. E poi tutti quelli che uscirà dal brief che c’è stato sarà. Lanza, col gelato in mano, che annuncerà che annuncerà, il copy e l’art con le loro ragazze non c’è assorbente che tenga e con l’acne che col suo volto rigenerato lo spaziotempo immobilizzato fronteggerà. L’altro account con l’account disattivato sopra le spalle che porterà, che l’investitore investirà, disattiverà, increerà. E poi la Meringa e la donna avvolta nella carta stagnola e Leonarda che sarà, se sarà, se l’investitore investirà, increerà, per tre volte la investirà, per la Meringa, per la donna avvolta nella carta stagnola e per Leonarda se sarà, se leonarderà, nel qui dentro là che non sa se saprà, se sarà. E poi anche il sovrano investirà, primadopo che dalla cyclette lo sbalzerà, mentre continuerà a pedalerà che pedalerà. Il suo kente variopinto lacererà. I suoi occhiali da sole sotto le ruote stritolerà, increerà. Primadopo che pedalerà, al centro del suo popolo che non sa, che non sa che il suo sovrano sarà, che pedalerà, risorgerà, increerà. E dall’icona della transazione il sovrano che pedalerà scomparirà prima che apparirà, solo la vagina dell’Interfaccia che sta per si squarcerà, su tutti i video del mondo che non sa se sarà, inghiottirà, espellerà, increerà. E poi il Gatto che sarà, che apparirà, se riapparirà.
«È quel Gatto che sarà?» qualcuno domanderà. «Ma non lo abbiamo già investirà?»
«Questo è il Gatto che c’è prima che investirà, che sarà.»
E allora la macchina lo investirà prima che lo investirà, per poterlo investirà, perché è il Gatto del popolo che non sa, se saprà, se sarà investirà. E l’investitore si lancerà prima che si lancerà. E il clacson a distesa suonerà prima che suonerà. E il Gatto allora la testa all’indietro getterà mentre avanzerà prima che avanzerà. E la sua bocca popolare spalancherà e riderà, riderà, andando incontro alla macchina che lo ha già investirà.
E tutta la massa popolare che crescerà, sul filo dell’orizzonte si espanderà, salirà, increerà. Tutto il plasma cerebrale che verso il punto dell’annuncio sta convergerà. Il popolo dei roller e dei trampolieri che non sa che è più in là che sarà, se increerà, se sarà. Con alla testa i loro capi scambiati che non sa se saprà, coi cascomaschera dai colori scambiati che inalbererà, i rostri tutti lordati di plasma popolare nel primadopo che ci sarà dentro il suo qui dentro là che sarà nel sarà, se sarà. Pericle e Grazia dentro i cascomaschera scambiati che scambierà, le loro tute da vento che sventolerà, increerà, se sarà.
E allora di colpo i loro cascomaschera spalancherà.
E allora di colpo tutti si fermerà, nell’increato che non sa se ci sarà, increerà, tutti quelli che erano già immobilizzati immobilizzerà dentro l’immobilizzerà.
E allora la donna che urla urlerà, allorerà, nel primadopo che ci sarà, per annunciare che ci sarà che annuncerà, prima ancora che annuncerà, che ancorerà. Tutta la sua prebocca spalancherà, il suo respiro polmonare popolare eromperà, nell’increato che annuncerà, inannuncerà, se sarà, nell’inannunciato che annuncerà.
E allora tutta l’aria immobilizzata si immobilizzerà, increerà.
E allora i messaggeri dalle labbra dipinte inannuncerà, prima che con le loro bocche annuncerà che annuncerà nell’annuncerà, nel primadopo che ci sarà.
E allora anche l’uomo che pesta le merde e l’Interfaccia si fermerà che si immobilizzerà, increerà, dentro la sua pancia anche il suo proiettile redentivo si immobilizzerà, e le acque immobilizzate di nuovo si romperà, e il proiettile redentivo nascerà prima che nascerà, quello prima del cuoremano che nascerà, prima del primo lettore che nascerà, investirà, increerà, primadopo che l’annuncio popolare sarà.
E allora tutti i rostri immobilizzati si immobilizzerà.
E allora i cascomaschera di Pericle e Grazia si spalancherà.
E allora l’investitore investirà, imperverserà, increerà, nella massa popolare dell’increerà i roller e i trampolieri travolgerà, e i trampoli fosforescenti frantumerà, e le zeppe stratificate dello scudiero dell’Interfaccia scardinerà, i suoi strati biologici sconvolgerà, e il respiro polmonare della donna che urla che annuncerà che increerà.
E allora il ventre dell’Interfaccia sfonderà mentre che nascerà, nell’ombraluce che viene primadopo che nascerà, anche il proiettile redentivo che uscirà che risorgerà, maciullerà, increerà.
E allora l’investitore le spazzole dei tergicristalli azionerà, dal liquido amniotico il parabrezza libererà, dal proiettile redentivo popolare che redimerà, dal plasma popolare che non sa, che convergerà, verso il punto di massima concentrazione e immobilizzazione dentro l’annuncio che annuncerà, increerà, nell’ombraluce che c’è qui dentro là, prima che sarà, che saprà che sarà.
E allora finalmente anche Dio parlerà, annuncerà.
«Si fermi!» dice dirà, con la sua voce afona che sarà.
E l’investitore esiterà.
«Accosti, per favore!» Dio gli dirà che dirà. «Sono io che sarà Dio che c’è qui dentro là nel primadopo che sarà.»
E allora l’investitore si fermerà.
E allora Dio uscirà. Anche la Musa uscirà. Al suo fianco tutta scopata e increata camminerà. Tutti e due tenendosi abbracciati camminerà verso il punto che camminerà, annuncerà, prima che sarà, nell’annuncio che annuncerà, che sarà.
E allora l’investitore gli occhi chiuderà, quelli che sarà, se vedrà, investirà, annuncerà, increerà.
E Dio e la sua Musa travolgerà. Schegge di porcellana contro il parabrezza grandinerà. Tutto il plasma popolare cerebrale ispirato che ispirerà.
E l’investitore con gli occhi chiusi che guiderà, investirà, annuncerà, increerà, sul filo dell’orizzonte che salirà, nel buionero popolare dei popoli che salirà, annuncerà, increerà, sognerà, risorgerà. Sulla massa liquida popolare che annuncerà che sorgerà, se sarà, se saprà, se sognerà, se annuncerà, se risorgerà, increerà.
E adesso io chi sarà?
C’è un uomo in piedi sul bordo del marciapiede.
L’investitore si ferma.
«Lei chi è?»
«Sono Lazlo.»
«Che cosa ci fa ancora qui?»
«Sono il suo ultimo passeggero.»
«Salga!»
Lazlo sale. Si allaccia la cintura di sicurezza, si guarda attorno, nelle strade tutte piene di corpi e di forme maciullate e increate.
«È tornata la luce?» domanda l’investitore, dopo un po’.
«No, è solo che i nostri occhi si sono abituati al buionero che ci sarà, se immobilizzerà, se annuncerà, se venderà, se traslocherà, se sarà, increerà.»
L’investitore si gira improvvisamente a guardarlo:
«Perché si è presentato qui, a questo punto?»
«Me l’ha detto Dio, a Pasadena, quando me lo sono trovato sul sedile posteriore della mia macchina, mentre il Matto continuava a cercarmi sul cellulare, dalla stanza buia di quel motel tutto pieno di carne nera, insanguinata, increata, nel primadopo. È stato lui a dirmi che avrei dovuto farmi trovare qui, a questo punto.»
«Dio non c’è. L’ho appena investito.»
«Ci sarà.»
«Se sarà.»
Adesso è Lazlo che si gira improvvisamente a guardarlo, si girerà.
«E che altro le ha detto?» gli domanda l’investitore.
«Quello che mi dirà, se sarà.»
«Che lei salirà?»
«Sì, perché poi primadopo l’investirà.»
Nessuno parla più, per un po’, mentre la premacchina va, sul filo dell’orizzonte che si prevedrà, primadopo che ci sarà.
C’è una meravigliosa bambina che cammina camminerà, nel bagliore nero seminale cerebrale che ci sarà. È a piedi nudi, in camicia da notte. Stringe con una mano i bordi della sua mantellina.
«Chi è che sarà?»
«È quella bambina che dalla sua casa in piena notte uscirà, per arrivare dove che annuncerà, investirà, increerà.»
«Ma io l’ho già investita quella bambina!» esclama l’investitore che esclamerà. «L’ho già investita prima che si impiccherà, e che Antinisca si chiamerà.»
«Adesso investirà quella prima ancora di quella prima che si impiccherà.»
La bambina viene avanti in silenzio, assorta, nel primadopo.
«Quanta luce! È tornata la luce?»
«No, è la luce che c’è prima che ci sarà.»
«Ma che luce sarà? E noi la vedrà?»
«Se riuscirà a essere là prima che sarà, allora noi la sta vedendo vedrà.»
La bambina viene avanti nell’utero della luce, nel primadopo. I contorni del suo piccolo corpo e della sua piccola testa sono cancellati dalla luce che c’è prima che ci sarà. La massa del suo piccolo corpo è cancellata dall’abbraccio della preluce, il suo piccolo volto lucente per le lacrime che scendono senza freno è cancellato dall’aureola amniotica della preluce.
L’investitore si ferma, improvvisamente.
«Che cosa fa?» gli domanda Lazlo, domanderà.
L’investitore non risponde.
«Cosa le succede?»
«Voglio vederla venire avanti nella preluce prima che la increerà.»
Lazlo lo guarda. Non si capisce se la bambina che viene avanti li sta guarderà perché il suo volto è cancellato dalla luce che ci sarà.
L’investitore respira forte respirerà, prima di ingranare la marcia. La macchina prende velocità, travolge frontalmente la bambina che travolgerà.
Il corpo della bambina si solleva da terra, vola nell’aria prima di ricadere sopra l’asfalto. L’investitore ci passa sopra.
Silenzio.
«Ha detto qualcosa?» domanda Lazlo dopo un po’, prima che domanderà, perché gli è sembrato di sentire qualcosa.
«No, la dirò.»
«Ma che cosa dirà?»
«Che dirò.»
La macchina va avanti ancora. Le strade sono tutte insanguinate e increate.
«Li abbiamo increati tutti?» domanda l’investitore prima che domanderà.
«No, c’è ancora il Matto che ci sarà.»
«Il Matto? Dobbiamo investire anche il Matto?»
«Per forza! Lui è il primo. Se no come farà a increerà?»
Le strade sono vuote, increate. Le due teste sono immobili e assorte, prima che ci sarà, nel primadopo che ci sarà.
«Eccolo là!» dirà d’un tratto Lazlo che dirà.
Il Matto sta venendo avanti con le mani in tasca, assorto nei suoi pensieri che penserà, camminando sulla strada increata, che increerà.
«Ma è tutto coperto di lividi, di ferite, di piaghe!» esclama l’investitore che esclamerà. «Come mai, se non l’ho ancora investito?»
«È già stato investito all’inizio, prima ancora che ci fosse l’inizio, nel primadopo» allora Lazlo gli risponderà, «e poi è stato investito mentre era in corso il brief, e verrà investito per la prima volta anche adesso. Questa è la terza volta e la prima volta.»
L’investitore si mette improvvisamente a canticchiare qualcosa a fior di labbra, per la prima volta, prima della prima volta. Lazlo si gira a guardarlo. Comincia anche lui a canticchiare la stessa canzoncina, a fior di labbra, quella che canterà, se sarà, se qualcuno lo investirà, increerà. E intanto stanno tutti e due con le teste fisse contro il parabrezza increato.
Il motore sale di giri.
«Forza, allora! Cominciamo che comincerà, che ci increerà!» qualcuno dei due dirà.
Il cofano si avvicina sempre più al Matto che continua a venire avanti con le mani in tasca, si avvicinerà. Sta cantando la stessa canzoncina anche lui, a fior di labbra.
Che canzoncina sarà?
L’investitore e Lazlo si mettono a cantare più forte, nella carlinga popolare increata. Anche il Matto sta cantando più forte, sta canterà. La sua testa e il suo volto ingigantiscono sempre più contro il vetro infangato del parabrezza che avanza come un bolide nell’increato. Non si sente il tonfo, il rumore popolare delle sue ossa stritolate e increate, perché adesso i due nella macchina stanno cantando a squarciagola, increati, e non si può sentire nessun altro suono inventato, non si può sentirà.
La macchina va ancora avanti che andrà. L’investitore e Lazlo hanno finito di cantare la loro canzoncina prima ancora che canterà. Guardano attraverso il vetro del parabrezza le strade spopolate e increate, con gli occhi sbarrati.
«Non c’è più nessuno sarà? Dove siamo?» domanda l’investitore domanderà.
Nessuno risponderà.
«Si fermi!» dice Lazlo dirà.
E allora l’investitore rallenterà, si fermerà. Tutti e due silenziosi dietro il parabrezza starà.
«Lei è arrivato. Scenda!» Lazlo gli ordina che gli ordinerà.
E allora l’investitore tranquillamente scenderà.
E camminerà.
E Lazlo al posto di guida si metterà.
E lo guarderà che camminerà.
Stringerà tra le mani il volante che stringerà, premendo il piede due o tre volte sull’acceleratore che accelererà, prima di ingranare la marcia e di partirà, sgommerà.
E poi nelle strade increate si lancerà.
E l’investitore con un tonfo investirà, increerà.
E poi Lazlo come nuovo investitore continuerà ad andare che andrà, nelle strade che ci sarà.
Tutta la massa popolare dell’auto passerà sul filo increato dell’orizzonte che salirà, sulla massa popolare sterminata e increata che ci sarà.
Tutta la precittà palpiterà nell’increazione che ci sarà, sul filo dell’orizzonte popolare che ci sarà.
E intanto l’investitore penserà, intanterà:
«E adesso io chi sarà?»
E intanto l’investitore penserà:
«E adesso dove sarà?»
E intanto l’investitore prepenserà:
«E adesso chi mi investirà, increerà?»
Orazione funebre per il Matto
Il cimitero è deserto. Se ne sono andati tutti. Anche quei due che parlavano tra di loro fumando un’ultima sigaretta prima di allontanarsi, nascondendola nel palmo della mano perché qui dentro non si potrà. Solo il rumore del vento che passa nei viali deserti facendo rotolare la ghiaia, qualche vaso di latta vuoto, i fiori secchi che c’erano dentro, che ci saranno. Non si vede niente. Notte nera. Neanche i lumicini accesi davanti alle file dei forni, non c’è più neanche il custode nella sua stanzetta a fianco dell’ingresso, intento a guardare una cassetta porno di fronte al piccolo televisore, in pigiama, con l’uccello in mano, sbadigliando con gli occhi abbassati, mezzo addormentato.
Non so chi sono. Mi tasto il volto con le mani nel buio per cercare di capire chi sono, chi sarò. So solo che sono qui. Qualcuno mi ha messo qui a fare l’orazione funebre per il Matto che ci sarà, se sarà. A me è toccato in sorte di essere quello che ti saluta prima ancora che tu sarà, nel primadopo che c’è stato sarà. Ti è andata bene! Sei stato investito mentre camminavi per le strade e guardavi le luci e fantasticavi andando verso l’annuncio che ci sarà. Sei stato investito prima, increato prima, prima che tu sarà, che dalla tua casa in piena notte uscirà, e camminerà, fantasticherà, increerà, annuncerà, sognerà che scriverà quest’opera che sarà, se sarà, se sognerà, risorgerà, annuncerà, increerà. L’hai scampata bella! Pensa se tu non fossi stato increato prima cosa ti sarebbe toccato! Non ce l’avresti fatta. Non ne avresti avuto le forze. Saresti stato annientato. Il tuo corpo e la tua mente non avrebbero retto all’impatto. Stare per tutti quegli anni dentro questa cosa increata. Vedere il tuo corpo e il tuo volto increare, quello che sarà, increerà. Ischemie cardiache, cerebrali, perdita di conoscenza, accecamenti, vertigini, insonnia, dolori prenatali, mestruali... ti sarebbe venuta una piaga al culo per il continuo increare. Avresti sperimentato su te stesso la disperazione del mondo che sarà, risorgerà, morirà, increerà. Avresti dovuto restare per molti anni tra l’incudine della vita e il martello di quest’opera ancora increata. Avresti dovuto patire l’incomprensione, l’isolamento, la meschinità, la doppiezza, la frode, l’abbandono. È meglio così, che tu non l’abbia potuta scrivere, che tu sia stato increato prima, che il pianeta sia stato venduto prima, la tua specie oltrepassata e increata un istante prima. Che tu sia rimasto nell’increato. Tanto qualcun altro la scriverà, increerà, e allora soffrirà, increerà. Ischemie, perdite di conoscenza, accecamenti, vertigini, insonnie, dolori prenatali, mestruali, piaghe al culo... se la scriverà, se increerà, se sarà. Ti sei gettato a capofitto nell’increato, come un ragazzo che va a una festa, elegante, un po’ sprezzante. Tu sei lo scrittore increatore del popolo che non sa. Tu cammini alla testa del popolo che non sa. Sei lo scrittore popolare increato che ha guardato negli occhi la potenza istantanea della nascita, perché tutto possa continuare a nascere, perché non si chiuda la ferita popolare della nascita e non ricominci il giro a vuoto della creazione creata nella storia e nel tempo umano e delle sue strutture oltrepassate e disattivate. Sei lo scrittore increatore che ha fronteggiato e immobilizzato lo spazio e il tempo per increare il plasma linguistico imprigionato nel giro a vuoto delle strutture fonetiche inanimate. Sei lo scrittore increatore che si è sottratto al falso movimento della creazione creata su questo pianeta immobilizzato, oltrepassato e venduto. Sei lo scrittore increatore che ha saputo andare verso l’annuncio e sei l’annuncio. Sei lo scrittore increatore che è stato investito nell’istante stesso dell’annuncio che annuncerà, morirà, risorgerà, ispirerà, sognerà, increerà, se saprà, se increerà, se sarà. Sei lo scrittore che si è collocato nel plasma cerebrale viscerale increale del primadopo. Tu cammini con la tua sposa Antinisca, la meravigliosa bambina impiccata, alla testa del popolo che sarà, se sarà, se impiccherà, increerà. Assieme a tutti gli altri scrittori increatori che stanno camminando verso l’annuncio, nel primadopo, quelli che ci sarà, se investirà, inventerà, sognerà, annuncerà, increerà, e che primadopo chiamerà con i nomi increati che chiamerà, tutti gli altri scrittori increatori del popolo che non sa, se saprà, se sarà. Chi lo sa con che nomi li chiamerà? Quelli che Omero chiamerà, che la guerra di Troia canterà, se sarà, se increerà, e gli uomini e gli dei che sarà, e il cavallo di legno pieno di ombre increate che sarà, se sarà, se lo spaziotempo si immobilizzerà, se ombra e luce si separerà prima che si separerà, che nella città seminale increata entrerà, che sognerà che entrerà, sognerà che sognerà che entrerà, se saprà, se sarà, se oltrepasserà, anticiperà, risorgerà, morirà, annuncerà, increerà. Quelli che Durante degli Alighieri chiamerà, che nel primadopo increato si spingerà, che contro la carlinga del primadopo vedrà che all’incontrario ogni cosa passerà, increerà, fino alla porta dell’aldilà che c’è qui dentro là arriverà, nel primadopo che ci sarà, se sarà, increerà. E sulla porta l’uomo con la paresi masturbatoria che sarà lo accoglierà, increerà. E lui allora entrerà, e sprofonderà, salirà, verso l’annuncio che c’è stato sarà. E poi la sua Meringa incontrerà, nel palazzo pieno di luce entrerà, se sarà, tenendola per mano lungo lo scalone salirà, e la luce non si separerà, increerà, e specchi e materia specchiata non si distinguerà prima che increerà, dentro il midollo della luce nera che sarà, se sarà, prima che sarà, increerà. E le loro due teste accosterà, bacerà, prima che incontrerà, che bacerà, nella città seminale dove si sognerà, sognerà che si incontrerà, che lungo le strade di Chongquing e di Shanghai si incontrerà, si cercherà, si scoperà, si inculerà, si immortalerà. Quelle che Murasaki Shikibu chiamerà, che nel primadopo lo incontrerà, col suo sorriso nero gli sorriderà, con gli occhi obliqui lo guarderà, lo sognerà, lo amerà, lo immortalerà, lo increerà, con la caverna profumata della sua bocca lo bacerà, e poi lungo le strade increate camminerà, se sarà, coi suoi passi silenziosi sopra la neve camminerà, con gli strati sovrapposti delle sue vesti e il mantello dei suoi capelli apparirà mentre andrà, nerosorriderà, increerà, sognerà che andrà, che camminerà, che nel suo involucro di carta stagnola sognerà che sognerà, che nella città seminale sarà, che sognerà che andrà che camminerà, incontro al principe che splenderà, annuncerà. Quelli che Miguel de Cervantes Saavedra chiamerà, che nell’indistinzione della materia popolare cerebrale inventerà, increerà, e incantato si sposterà, nel primadopo che ci sarà, se sarà, se sognerà, incanterà, con gli stivali bucati e il braccio monco lungo il filo dell’orizzonte che ci sarà, che sotto il filo dell’orizzonte sprofonderà, sognerà, increerà, nel sottosopra che ci sarà primadopo che ci sarà. Che nella reggia tumorale incantata col lanciafiamme e la sua tuta da fuoco entrerà, e la sua donna avvolta nella carta stagnola libererà, increerà, se risorgerà, se morirà, se immortalerà. Quelli che Herman Melville chiamerà, che attraverso le correnti informatiche seminali cerebrali si sposterà, sognerà che si sposterà, attraverso le isole immobilizzate e incantate che ci sarà, se sarà, se scriverà, increerà, se il suo popolo ci sarà, sul filo liquido dell’orizzonte sul pianeta che primapoi ci sarà, se immobilizzerà, oltrepasserà, annuncerà, venderà, increerà. Quelle che Emily Dickinson chiamerà, che nella carrozza assieme alla morte e all’eternità sognerà che correrà, increerà, che nella città seminale sognerà che sognerà che sarà, che nella festa assieme a Cervantes danzerà, lei col suo vestito di velluto rosso e lui con un gilet bianco piombo sulla camicia dal collo slacciato, e che lui con la sua mano ferita la stringerà e intanto la guarderà e anche lei con gli occhi socchiusi lo guarderà, gli sorriderà mentre sempre più lentamente la gomma masticherà, e che le loro teste quasi non si vedrà mentre passerà contro le grandi sfere di luce dei riflettori che ci sarà. E che dalla sua finestra i fiori spastici nel suo giardino guarderà, increerà, e dentro la fiamma che c’è stata sarà brucerà, increerà, se sarà, col suo popolo che c’è stato sarà brucerà, coi suoi scrittori increatori brucerà, sognerà, immortalerà. Quelli che Fedor Michajlovič Dostoevskij chiamerà, che la massa tumorale cerebrale sognerà, increerà, se saprà, se sarà, se il suo popolo increerà, se a capofitto nell’increato si getterà, se la bambina impiccata si impiccherà, increerà, che la sposa del Matto sarà, primadopo che sarà, che annuncerà, immortalerà, risorgerà, increerà, che nella massa epilettica seminale sognerà, diluvierà, increerà. Con tutti gli altri scrittori increatori del popolo che non sa se saprà, se sarà, se increerà, primadopo che sarà, che nel plasma alfabetico seminale si getterà, imperverserà, increerà. Che l’orazione funebre gli farà prima che farà, che morirà, che nascerà, che saprà che sarà, se sarà. Che i lineamenti del volto nel cimitero deserto si toccherà per saprà chi sarà, che nome avrà, se sarà, che l’orazione funebre starà farà, nella notte nera che sarà, nel buio che c’è primadopo che sarà, se sarà, in piedi sopra la fossa dove non sa chi c’è dentro qui dentro là, nel primadopo prima che sarà, dopo che sarà, se sarà, e allora anch’io saprò che sarò, che nome avrò, se increerò, se saprò, se sarò, che sarò, che sarò, che sarò...
L’increazione
Non si sentono più quelle voci sopra di me, di quei due che parlavano tra di loro prima di allontanarsi, di quell’altro che ha pronunciato l’orazione funebre nel cimitero deserto. Chi sarà stato? Dove l’avranno pescato? Sarà stato preso per un orecchio e costretto a pronunciare l’orazione funebre sulla mia fossa. Adesso c’è un enorme silenzio. È tutto calmo. È tutto nero. Sento uno spaventoso fetore, segno che non mi hanno tappato il retto con un tampone di garza prima di seppellirmi qui dentro. Le cose non sono più allo stesso posto. Io sono ancora e fin dall’inizio qui dentro però non sono qui dentro. Chi sono? Dove sono? In quale regno mi trovo? Sono ancora là dove ho cominciato ma adesso il là non è più là, il qui dentro non è più qui, si è spostato. Non si può neanche ritornare all’inizio, per farsi strumento della potenza creata della ripetizione e della duplicazione, perché nel frattempo anche l’inizio è stato spostato, non è più all’inizio. Questo è un inizio che scavalca all’incontrario l’inizio. Forse tutto quanto è successo qui dentro è avvenuto solo perché nessuno potesse arrivare a scrivere quest’opera che non c’è. Che sia io quello che non la scriverà? Io sono lo scrittore increato che è venuto al mondo alla fine che c’è prima ancora dell’inizio su questo pianeta immobilizzato, oltrepassato e venduto. E che sta fronteggiando la fine della sua stessa specie e la divaricazione di specie. Faccio ancora parte di questa specie ma sto già scrivendo per un’altra specie che ancora non c’è, non si sa ancora se c’è, ci sarà. Dove sarà finito adesso questo libro increato? Ci sarà mai chi non lo scriverà? Forse tutto quello che ha preso vita e che ha imperversato qui dentro è accaduto nella frazione di un istante nel mio cervello sotterraneo disattivato e increato. Questo libro non esiste, è increato. Nessun libro così è mai stato scritto né mai potrà essere scritto. Io ho avuto solo la fortuna di venire investito un istante prima di cominciare. Sono lo scrittore increato che da molti anni si stava preparando all’avvento di un’opera mai vista prima. Come l’avrei intitolata? Qualcosa come Canti del caos, mi pare. L’altra notte, poco prima di coricarmi, sono uscito a camminare e a guardare le luci, nelle strade. Non ho visto niente, non ho capito niente. Devo essere stato investito da una macchina mentre camminavo e fantasticavo. Sarà rimasta sul mio tavolo quella pila disordinata di fogli, di appunti scarabocchiati per strada, oppure svegliandomi di soprassalto in piena notte, cercando a tentoni la biro sul comodino, nel buio. Nessuno riuscirà a capirci qualcosa, a decifrarli, tanto meno a scorgerne le proiezioni, le incarnazioni. Io sono lo scrittore increato, l’inconcepito. Sto morendo all’incontrario, all’indietro, senza essere nato e neppure concepito. Sto uscendo dal progetto, dal primo sguardo, dalla materia oceanica molle scatenata e creata. Ma allora chi sono? Dove sono? Sono dentro la solitudine infinita dell’inizio che c’è primadopo ogni possibile inizio. Sono l’inconcepito che deve passare all’incontrario attraverso la propria vita e la propria morte e prova tutta la solitudine infinita di un corpo che muore separato, inconcepito e increato. Sono solo, completamente solo. Come si è infinitamente soli, all’inizio! Sono solo come mai è stato nessun altro scrittore di questa specie. Sono lo scrittore di un pianeta e di un mondo che non c’è più, di una specie che non c’è più, che non c’è ancora. Sto vivendo da inconcepito la solitudine infinita di un corpo che si percepisce separato mentre è ancora increato. Sono l’inconcepito che nascerà prima di essere concepito e che sta morendo senza essere nato. Sono dentro la cruna dello spaziotempo immobilizzato e increato, con il mio popolo inconcepito che sta forzando i cardini fissi della nascita e della morte creata. Sono nella zona smisurata e increata che c’è tra il concepito e l’inconcepito prima ancora che sia inconcepito. La sto allargando a dismisura col proiettile redentivo della mia testa che preme per irrompere nell’increato. Voi non avete idea di che cosa sta succedendo qui dentro, nel primadopo. Voi non sapete che enorme movimento resurrettivo di morti è in atto in questo istante un istante prima che ci sia questo istante. Credete che la causa siano i cambiamenti climatici, la saturazione di gas serra nell’atmosfera, lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento degli oceani e dei mari su questo piccolo pianeta oltrepassato e venduto a determinare queste mutazioni planetarie epocali. E invece sono i corpi sotterranei increati che hanno sentito l’annuncio e che stanno smottando come una valanga ascensionale nel primadopo. Il mio corpo morto increato è attraversato dal movimento ascensionale di tutto il fronte del mio popolo inconcepito che sta rovinando all’incontrario verso la catastrofe della resurrezione. Tutto il filo dell’orizzonte increato e le terre emerse e gli oceani con le loro correnti increate e le calotte artiche e antartiche ricoperte di ghiaccio vibrano e si spaccano e si sciolgono e fondono per il rialzo termico sprigionato dai popoli dei corpi morti increati e da tutti gli spermatozoi e gli ovuli inconcepiti e increati che premono dal basso verso la resurrezione. L’intero mondo increato è travolto dal sisma della resurrezione. Tutte le sue strutture chimiche e minerali e genetiche e i suoi tessuti vegetali, umani, animali che sono balenati per un istante con le loro forme qui dentro sono stati presi nel mantice dell’invenzione, dell’increazione e della resurrezione. Tutte le figure che si sono alzate su due sole zampe e quelle turbe previventi che si sono spostate sulle zattere dei continenti emersi stanno rovinando all’incontrario verso le cateratte chimiche ascensionali dell’inconcepizione e della resurrezione. Tutti i corpi che si sono fronteggiati in forma femminile e maschile stanno erompendo dalla catacomba vaginale della resurrezione. Dove sei? Dove sei? Abbiamo trovato finalmente il nostro spazio resurrettivo proporzionale? Ci stiamo finalmente increando qui, nell’increato, nell’inconcepito? Che siamo proprio noi quelli che si sta increando qui? Anche noi in mezzo al nostro popolo in resurrezione. Mio cervo profumato e increato, mia gazzella dagli occhi increati, noi siamo quelli che sono dovuti passare attraverso la cruna della luce e dell’ombra separata e increata e il diluvio resurrezionale della materia seminale inconcepita e increata per incontrare te, increare te che non è più te e me che non è più me, prima che ci sarà te e me, prima ancora che sia inconcepito te e me, immortalato te e me, prima che nelle grandi strade increate di Chongquing io te viene incontro finalmente a tu me, ci riconosciamo prima che siamo, solo se non saremo ci riconosceremo, ci inconcepiremo, ci immortaleremo, ci resurrezioneremo. Ci stiamo toccando e accarezzando con le metastasi delle nostre mani di prima che siano concepite le mani, entriamo nelle nostre teste e nelle nostre bocche inconcepite con il muscolo d’acqua delle lingue increate e le nostre resurrezioni salivari increate. Nelle nostre pance ascensionali tagliate prima ancora che il diluvio chimico resurrezionale possa venire concepito dai corpi increati che si potranno abbracciare e increare. E allora l’inconcepito me e te potrà finalmente inconcepire te e me, amare te e me, baciare te e me, scopare te e me, nell’inconcepito che è te e me. Nell’ombraluce in resurrezione che illumina l’inconcepito che sta increando qui che non è più qui, nel palazzo pieno di luce dove l’inconcepito prima di te e me sta entrando, risorgendo, increando. Stiamo entrando nel palazzo della luce inconcepita e increata. Dove sei? Dove sei? Si può essere te e me nel palazzo della luce che c’è prima ancora che c’è? Che c’è il pianeta che nascerà, oltrepasserà, annuncerà, venderà, comprerà, risorgerà, increerà? Chi è che lo comprerà? Dov’è che sarà? Chi sarà? Dove sarà, primadopo che comprerà, che inconcepirà, increerà? Che sia io quello che lo comprerà? Che l’ha già comperato prima che lo comprerà, e che adesso è anche lui dentro il movimento resurrettivo che sta attraversando e increando questo pianeta inconcepito e increato assieme al suo compratore increato? Che sia stato investito primadopo avere comperato questo pianeta inconcepito e increato? E allora adesso anch’io sono qui, nel movimento resurrettivo increato che sta smottando all’incontrario nella valanga ascensionale del primadopo. Sono quello che l’ha comperato o quello che l’ha venduto? Perché, in questo qui dentro spostato, in questo primadopo spostato, venditore e compratore sono la stessa cosa dentro lo stesso movimento resurrettivo dell’increazione e dell’inconcepizione? Cerco di muovere le mani, le dita, di compiere il movimento increato di andarmi a toccare i lineamenti del volto. Percepisco sotto i polpastrelli la presenza di una superficie liscia, dura, increata, non si capisce se è per la disidratazione e la pietrificazione dei tessuti che stanno morendo o se è per il turgore che precede la nascita nella valanga ascensionale del primadopo. Che cosa c’è sul mio volto? Mi pare di avvertire qualcosa di infinitamente liscio, increato. Che sia una maschera di porcellana? Perché mi hanno seppellito con una maschera di porcellana sul volto? Ma, se sono Dio, quando sarò stato increato? E come fa Dio a essere stato increato? E, se Dio può essere solo increato, dentro cosa si è scatenata l’onda d’urto della creazione creata? E, se Dio è il Dio dei creati, chi è quello degli increati? Quello che passa nella cruna dell’increato per essere il Dio degli inconcepiti e degli increati? Quello che sta increando nella catastrofe della resurrezione increata? Che io sia Dio che si sta pensando mentre è ancora inconcepito e increato? Che sia il genoma di Dio che sta per essere preso dentro il movimento genetico resurrettivo dell’inconcepizione e dell’increazione? Con i suoi tre miliardi di coppie di basi increate. Che sia il gene silenzioso di Dio? Il mitocondrio di Dio? Entrato in simbiosi con cellule di organismi superiori increati un miliardo di anni primadopo che sarà? Che sia il Dio australopiteco increato primadopo che quello che sarà l’uomo e quello che sarà lo scimpanzé si separerà, se si separerà, inconcepirà, increerà? Primadopo che non ci sarà ancora l’uomo e lo scimpanzé che si separerà, non ci sarà ancora, non ci sarà più. Primadopo che le prime cellule eucariote nucleate daranno vita ai primi esseri pluricellulari e poi ai primi corpi ascensionali nell’esplosione cambriana. Che adesso sono arrivati là che non è più là, in questo inizio spostato che c’è prima che c’è ci sarà. Primadopo la formazione dei primi ammassi stellari e delle strutture gassose ancora in formazione nei bastioni della nebulosa dell’Aquila e le nubi fredde piene di stelle appena nate e protostelle in combustione, in increazione, coi loro dischi rotanti di polvere da cui nasceranno nuovi pianeti increati. Primadopo che il centro delle nuove stelle increate collasserà trasformandole in stelle di neutroni liberando i nostri atomi resurrettivi nel primadopo, attraverso venti stellari vaganti per centinaia di milioni di anni prima di finire in un disco di polveri che circonda una stella come il nostro Sole increato e poi il nostro piccolo pianeta Terra increato e poi dentro i nostri corpi e la materia cerebrale increata di chi vi sta parlando e increando senza sapere se sta morendo o nascendo. Primadopo che l’universo in espansione si raffredderà, e che ioni ed elettroni si salderà, e che la nebbia si solleverà e che tutto l’universo si oscurerà prima che le prime stelle si accenderà primadopo che sarà, increerà, e che la materia oscura ci avvolgerà, increerà, con la sua attrazione gravitazionale che non sarà, solo se sarà non sarà, i suoi sciami di particelle increate prive di carica elettrica che ci attraverserà, increerà, prima che sarà, prima che non sarà, che le nostre tracce sedimentarie sarà, inconcepirà, increerà. Che sia io l’energia oscura generata nel primo istante un istante prima primadopo che l’universo sarà? Che sia io la materia oscura che costituisce la quasi totalità di quello che c’è qui dentro là e di quest’opera ancora increata di cui non sarò l’autore e di cui avete scorto solo il residuo sedimentario oltrepassato e increato? Primadopo che la nostra stella increata morirà, nascerà, increerà, e la nostra galassia increata si scontrerà con la galassia di Andromeda che sarà, e che l’universo collasserà, si espanderà, inconcepirà, increerà. Cosa sta succedendo qui dentro là? Sta diventando sempre più freddo o si sta riscaldando? Primadopo che stelle di neutroni e nane bianche si spegnerà, solo sciami di materia oscura primadopo lo splendore delle ultime stelle morte, memoria e pensiero in questi circuiti e campi magnetici in resurrezione. Che sia io memoria e pensiero? Primadopo che la galassia di Andromeda e altre galassie satelliti si fonderanno in un unico ammasso increato di cadaveri di stelle e materia oscura che sarò, increerò, che nelle correnti dell’oceano increato si sposterà, sognerà, inconcepirà, increerà, primadopo che sarà, che la fornace nucleare sarà, che le molecole riscaldate premerà contro i confini dello spazio e lo espanderà, increerà. Primadopo che il proiettile redentivo del cuoremano nascerà. Che sia io quel cuoremano che sarà? Che cosa sono queste contrazioni spaventose che scuotono da parte a parte tutto il mio corpo increato? Che io stia morendo così, inconcepito? Che stia nascendo? Che sia la mia testa espansa non ancora del tutto ossificata quella che sta sostenendo le terribili contrazioni della muscolatura uterina e del torchio addominale increato? E che sta vivendo da inconcepito la dislocazione spaventosa e assoluta di venire concepito dentro l’inconcepito? È solo nell’inconcepito che io posso venire concepito? Sono una testa espansa che sta per venire inconcepita e increata o sono la testa della corrente increata che corre contro il muro amniotico dell’oceano immobilizzato e increato? O sto entrando in questa frazione d’istante un istante primadopo di questo istante sfuggito alla perdita di conoscenza che precede la morte nell’inconcepizione della morte increata? Il proiettile redentivo della mia testa sta premendo contro la borsa delle acque o contro il muro dello spaziotempo immobilizzato, inconcepito e increato nel movimento resurrettivo all’incontrario nel primadopo? Dove mi sto dibattendo così, inconcepito? Perché non riesco a muovere gli arti? Uno dei piedi mi fa male, mi pare, come se fosse sarà imprigionato dentro qualcosa come una scarpa di ferro. Che sia quello scarponcino? Che io sia il Gatto? Ma lo scarponcino non ce l’aveva quell’altro? Come si chiamava? Non mi ricordo più, forse il Matto. Ma non ero io il Matto? Non mi ricordo più se lo scarponcino ce l’avevo io o se ce l’aveva quell’altro. O se ce l’avevamo tutti e due. Cosa è stato tutto quello che sarà stato successo qui dentro? È stato solo un palpito della mia mente increata? Chi l’ha raccontato, questa volta, l’inizio? Sono stato io a farlo, stavolta, primadopo di questa volta? La genesi è stata raccontata dal demonio, stavolta? O è stata raccontata dal demonio la prima volta? Che tutto quello che è passato qui dentro sia avvenuto solo in una frazione d’istante nel tuorlo del mio cervello seminale che si sta spegnendo e increando nella disperata pace della vita increata? Dov’è la porta per uscire? Dov’è quella per entrare? Sto uscendo dalla tomba cieca e rovente o ci sto entrando? Sto scendendo lungo il canale vaginale aprendomi la strada lungo il tunnel fibromuscolare o sto entrando nell’aldilà che c’è primadopo che ci sarà? E adesso dove sono? Chi è che mi sta venendo incontro facendomi festa? Ma è quel vecchio con la paresi masturbatoria! Allora sono nell’aldilà che c’è primadopo che ci sarà! Ma come fa a esserci l’aldilà se l’aldiqua non è più là? Se l’inizio non è più qui? Che aldilà è questo che sarà, di che cosa sarà l’aldilà, nell’increato che ci sarà primadopo che inconcepirà, increerà?
«Vieni! Vieni! Entrerà!» allora lui mi dirà.
«Ma dentro dove che sarà?» io allora gli chiederà. «E che aldilà è che sarà? E noi chi sarà?»
«Che ci sarà, ci inconcepirà, increerà!»
Come ci si muove nell’aldilà che c’è nel primadopo inconcepito che ci sarà!
«E la sua mano che tremerà?» gli domanderà.
«Tremerà perché è nell’inconcepito che c’è nell’aldilà che sarà» mi risponderà, primadopo che il suo cervello seminale a lunghi getti finalmente eiaculerà, che la sua mano accompagnerà, e che con l’altra mano questo manoscritto increato al suo editore increatore finalmente consegnerà, inconcepirà, increerà, venuto apposta a ritirarlo nell’aldilà inconcepito primadopo che ci sarà. Solo così lo potrà troverà. Che ha fatto questo sterminato viaggio istantaneo nell’inconcepito per arrivare primadopo che arriverà, per poterlo questoquello ritirerà, increerà. E ci sono tutti gli altri inconcepiti che sono morti increati prima che sarà qui dentro là che non è più là, non è ancora là. E anche il bambino di luce ci sarà che sarà.
«E tu chi sarà?» allora gli chiederà.
«Sono il bambino di luce inconcepito risorto prima che nascerà, risorgerà, increerà, che la luce inconcepita sarà.»
«E tu chi sarà?» allora gli chiederà.
«Sarà te.»
«E io allora chi sarà?»
«Sarà me, il bambino inconcepito che di luce sarà.»
E allora uno verso l’altro camminerà prima che camminerà. E allora io all’incontrario nel bambino inconcepito di luce entrerò. E dall’altra parte all’incontrario uscirò prima che ci entrerò. E una cosa sola col bambino di luce sarò proprio mentre due cose diventerà, inconcepirà, increerà. Dentro il movimento pelvico resurrettivo che ci sarà, inconcepirà, increerà.
Che cos’è questo movimento che spinge nel primadopo la mia testa seminale espansa, il bregma, la fronte? Dove la sta spingendo? Chi sta bussando in piena notte alla porta del mio castello? Che fetore! Che orrore! Sto morendo o nascendo? Sto facendo il balzo quantico dall’eternità al tempo oppure quello dal tempo all’eternità? Chi mi sta inconcependo, increando? Cosa sono queste contrazioni spaventose che vogliono scagliarmi dentrofuori nell’increato mentre sono ancora increato? Chi sta sfondando in piena notte la porta del mio castello per scaraventarmi nella catastrofe della vitamorte? Dove sono? Chi sono? Sto morendo o nascendo?
Qualunque cosa sonosarò, mi giro su un fianco, mi girerò. Muovo le mani nel buio nero che muoverò, mi tasto per l’ultima prima volta la superficie del volto, gli occhi chiusi, la fronte, il naso, le orecchie, la bocca, per sapere finalmente chi sonosarò, se sarò. Sento, sotto i cerchi dei miei polpastrelli increati che palpano i contorni delle mie labbra increate, che la mia bocca si sta allungando sempre di più.
«Il mio tempo è finito. È cominciato il mio» penso penserò un istante prima che penserà, nella luce nera che sarà, nell’increato che sarà, nel mio cervello seminale increato che sarà, un istante prima che sarà, che sorriderà, che sorriderà, che nell’increato sorriderà.