Dodici

Senza attendere le istruzioni di Malcolm, Renée spinge Fife davanti alla videocamera di Vincent, piazza la sedia a rotelle sotto il faretto, mette il fermo alle ruote e scompare nel buio circostante.

Nessuno parla. Sloan compare accanto a Fife tenendo il microfono tra pollice e indice come una grossa pastiglia. Con la mano libera, afferra l’orlo inferiore della maglia nera di Fife e lo solleva per infilarci abilmente sotto il filo, facendo uscire il microfono dal collo a lupetto, dove poi lo attacca. Mentre sfila la mano, il palmo di Sloan lo accarezza, sfiorando appena il petto glabro e la pancia. La faccia di lei, incorniciata dai capelli fulvi, è abbastanza vicina a quella di Fife da permettergli di sentire l’odore del suo respiro: tabacco bruciato, caffè nero, dentifricio alla menta. Fife apre la bocca e assorbe il respiro caldo e lo assapora per qualche secondo e deglutisce, con un gemito sommesso.

Leo… Si sente bene, Mr Fife?

Lui annuisce ma non dice nulla. Non sta bene. Tutto ciò che gli dà piacere – la mano fresca di Sloan sul petto e sulla pancia, la sua guancia cosí vicina, l’onda di capelli rosso scuro sulla sua fronte liscia e chiara, la fragranza dell’interno del suo corpo – arriva avvolto nel dolore. Una specie di tristezza incorporata. Sarebbe piú facile, piú semplice, se in questi ultimi giorni piú nulla gli desse piacere, se nulla venisse a ricordargli ciò che non proverà mai piú e, peggio ancora, ciò che nella vita non ha mai provato. Tutto ciò che gli dà piacere, ora, gli ricorda soltanto che in passato nulla gli ha dato piacere e che presto nulla sarà quello che sentirà. Non perché la sua vita passata o le persone lo abbiano deluso. Non perché abbia sofferto. Bensí solo per via della misera qualità della sua attenzione. Non è escluso che abbia sprecato la sua vita.

A Boston, agli inizi degli anni Sessanta, quando lui e Amy erano marito e moglie, nonché padre e madre, adolescenti, se Fife avesse dato a lei e alla loro piccola Heidi il tipo di attenzione che ha appena prestato a Sloan, non le avrebbe abbandonate. Anzi, le avrebbe amate, e loro avrebbero ricambiato il suo amore. La sua vita e la loro sarebbero state diverse, migliori, piú preziose.

Se si fosse immerso nel mondo di Alicia e di Cornel, e dei genitori di lei a Richmond, Virginia, nel modo in cui si è immerso ora nella vicinanza fisica del corpo di Sloan, se li avesse assorbiti e apprezzati come ha appena apprezzato lei, il mondo di Alicia e di Cornel gli avrebbe garantito una vita di piacere inenarrabile, il profondo piacere redentivo dell’amore dato e ricevuto. Per tutti loro. La famiglia Chapman lo avrebbe avvolto e sostenuto. Ma lui non l’ha mai fatto. Non ha mai osato amare o farsi amare da un altro essere umano.

Non era inconsapevole dell’immanenza dell’amore. Sapeva che era lí, in attesa che lui facesse un passo avanti e semplicemente lo accogliesse. Ma lui lo rifiutava. Aveva paura del potere dell’amore. Solo all’inizio, però, ha avuto paura, perché poi si è abituato alla sua assenza e in breve si è dimenticato dell’amore che attendeva lui e chiunque. L’amore è diventato un niente. Fino a questo momento.

E adesso, che fare con Emma? I segreti e le bugie non schermano soltanto il subdolo bugiardo. Schermano tutte le persone che lui ha tenuto all’oscuro, tutte le persone a cui ha mentito. Il proprio io diventa invisibile e inconoscibile quanto l’io di ogni altra persona. Se i segreti e le bugie di Fife hanno impedito tanto a lui di vedere chiaramente Emma quanto a Emma di diventare l’oggetto delle sue migliori attenzioni, allora forse questo conclusivo, plateale, deliberato disvelamento dei suoi segreti e delle sue bugie è il suo modo – l’unico modo a lui accessibile – di dare infine a Emma la qualità di attenzione che rende possibile l’amore. Nonostante il suo passato privo di amore dato e ricevuto, Fife ha deciso di provare ad amare e a farsi amare. Senza segreti. Senza bugie. Non è un atto eroico. È la semplice conclusione di una vita di codardia.

Malcolm batte le mani davanti all’obiettivo della videocamera e dice: Intervista a Leonard Fife, Montréal, 1° aprile 2018. Leo, questa volta proviamo con un approccio diverso, okay?

Fife sente che Malcolm sta parlando, ma non capisce cosa sta dicendo. Le parole gli arrivano confuse e attutite. Fife è come la persona raffigurata nell’Urlo di Edvard Munch, con le mani premute sulle orecchie. Cosí immagina di apparire, con la sua bocca sdentata, asessuata e spalancata che lancia un grido silenzioso, mentre alle sue spalle due scure sagome umane si allontanano, chissà se per imbarazzo o disgusto. Forse entrambe le cose. O per paura. Forse tutt’e tre. Si domanda chi siano quelle persone. Sua madre e suo padre? Amy e Heidi? Alicia e Cornel? Emma e…? Sí, certo: Emma e Fife.

Dopo qualche secondo, ritrova la voce e dice: Okay, okay, e senza aspettare che Malcolm lo interpelli attacca a parlare. Non ha importanza quello che Malcolm vuole sapere da lui. Fife è convinto di raccontare la sua storia non a Malcolm o a Diana e neanche alla videocamera di Vincent o al microfono di Sloan, bensí a Emma. Blocca sul nascere l’approccio divergente di Malcolm. Si rifiuta persino di dare ascolto alla domanda. Ha a che fare con Joan Baez. Qualcosa a proposito del Mariposa Folk Festival e del 1969. Fife, invece, spiega a Emma che, in un’infinità di casi nell’arco di tutta la vita, lui ha avuto l’impressione che la sua realtà si riducesse, in pratica, alle pressioni rifratte dei suoi bisogni. Queste sono le parole esatte, scelte con cura, taglienti nella loro articolazione: le pressioni rifratte dei suoi bisogni. Sa bene cosa intende, ma non crede di essere riuscito a spiegarlo. Ci riprova. Le dice che i cambiamenti, le revisioni e gli scarti della sua realtà non sono stati altro che i cambiamenti, le revisioni e gli scarti dei suoi bisogni. Che cosa sono io, allora? le domanda. Qual è il mio centro? E come diamine si fa a localizzarlo?

Dice a Emma: Sono seduto in fondo a un Whisperjet. Ecco dove mi trovo. Quello è il mio centro. Fife guarda fuori dal finestrino che ha accanto, sulle fredde acque grigio ardesia, e riconosce il profilo della Boston anni Sessanta. La distesa dei cantieri navali diventa visibile. Oltre i tetri edifici ottocenteschi del distretto finanziario, si innalza, un piano dopo l’altro, il brutale nuovo Government Center in vetro e acciaio. Poco lontano la cupola d’oro della vecchia sede del governo locale e poi Beacon Hill, mentre piú vicino si vedono i palazzi di mattoni del North End. Cerca la Prudential Tower e trova la sua cima appiattita, cinquanta piani almeno al di sopra del resto della città raggomitolata, individuabile già da qui, da East Boston, sull’altro lato del porto, attraverso il finestrino spesso tre centimetri di un silenzioso aereo che è appena atterrato.

Fife raggiunge l’area del ritiro bagagli proprio nel momento in cui un’ampia saracinesca di ferro ondulato si solleva a rivelare, come fossero una scenografia, tre carrelli dalle ruote gommate carichi di valigie, trainati da una motrice gialla. Tre neri trasferiscono i bagagli dai carrelli su una bassa piattaforma che hanno davanti. I proprietari dei bagagli sgomitano su e giú lungo la piattaforma, a caccia delle rispettive valigie, e quando le vedono le afferrano e si allontanano in fretta. In breve si dileguano tutti, inclusi i tre facchini con i loro carrelli trainati dalla motrice, e Fife resta solo nello stanzone freddo e non verniciato con quattro bagagli non ritirati, tra i quali non c’è il suo.

Si avvia alla svelta verso lo sportello della Piedmont Airlines nell’atrio principale. Un uomo alto ed emaciato in uniforme grigia e baffi a manubrio lo saluta e domanda come può essergli d’aiuto. Fife spiega che il suo bagaglio è andato smarrito e gli fornisce i numeri dei voli da Richmond a Washington e da Washington a Boston.

La situazione è stranamente familiare, per Fife: la valigia smarrita, l’impiegato sorridente con i baffi, persino i facchini e i loro carrelli trainati dalla motrice gialla. Per un attimo ha paura di essere intrappolato in un sogno ricorrente. Devo noleggiare un’auto, dice. Devo andare nel Vermont, dove sono atteso nel tardo pomeriggio.

A questo riguardo, purtroppo, ci sarebbe un piccolo problema. Non insormontabile, però. Possiamo inviarle il bagaglio con una corriera della Greyhound. Qual è la città piú vicina dove possiamo farglielo recapitare?

Montpelier, probabilmente. Credo che Montpelier sia una fermata abituale sulla tratta Boston-Montréal. Io sarò a pochi chilometri da lí.

Per un istante pensa che gli converrebbe aspettare che ritrovino la sua valigia lí al terminal, per qualche ora. Poi, però, conclude che la valigia potrebbe anche non essere sul primo volo in arrivo, e a quel punto avrebbe perso diverse ore per niente. Nella ventiquattrore ha tutto quello di cui ha bisogno. Nella ventiquattrore – insieme al taccuino Moleskine e ad alcuni ritagli di giornale, al suo personale libretto degli assegni e a un libro di poesie di Hardy che ha intenzione di recensire positivamente per il «Raleigh News and Observer» – c’è l’assegno.

Eh, sí, l’assegno. Ventitremila dollari. Un fragile pezzo di carta rosa, un assegno circolare della Federal Reserve Bank di Richmond che lui dovrà depositare domani presso una banca di Montpelier, Vermont, per poter comprare – a nome di Alicia – la casa che hanno scelto insieme. Non sarebbe stato costretto a portarsi dietro l’assegno se fosse stato abbastanza previdente da aprire un conto in una banca di Montpelier. Il denaro sarebbe stato inviato da una banca all’altra, ma questa è la prima volta che si occupa di acquistare un immobile, e lui presumeva che, avendo a disposizione il denaro, fosse sufficiente scegliere la casa e poi mettere in contatto il venditore con la banca dell’acquirente che avrebbe saldato il venditore. Non ha importanza, pensava, che la banca in cui è depositato il denaro si trovi a Richmond, Virginia, mentre la proprietà da acquistare e il venditore sono a Plainfield, Vermont. Non ha importanza che il denaro di Alicia depositato alla Federal Reserve Bank di Richmond sia investito in vecchi pacchetti azionari e titoli ereditati, e non sia in contanti, e che il funzionario incaricato del fondo fiduciario, Mr Keefe, debba vendere parte delle azioni e dei titoli.

Queste complicazioni gli sono state spiegate con pazienza da Mr Keefe, in banca. È stato quest’ultimo a suggerire a Fife e Alicia di avere a che fare solo con una banca del Vermont, per l’acquisto della casa. Andando al Nord con l’assegno, Fife avrebbe fatto da corriere o poco piú. E la cosa gli è parsa perfettamente ragionevole, sin dal momento in cui Mr Keefe gli ha messo in mano la busta con l’assegno.

È un assegno pronto da incassare, gli dice Mr Keefe. Quando arriverà a Montpelier, dovrà semplicemente aprire un conto corrente alla Chittenden Bank o in un’altra banca a sua scelta. Tanto sono tutte uguali. Montpelier è la capitale dello Stato, ma è una cittadina piuttosto piccola. È chiaro che, per comodità, sarà un conto cointestato.

Certo, dice Fife. Ringrazia il funzionario della banca, fin troppo forse, e lascia l’ufficio con moquette e pareti rivestite in legno di quercia in preda al sospetto, come se Mr Keefe e il padre di Alicia, Benjamin, e lo zio Jackson e magari anche la madre di Alicia, Jessie, se non addirittura la stessa Alicia, incaricandolo di questo compito insulso, volessero metterlo alla prova. Se lui non seguirà le istruzioni alla lettera, la sua lealtà nei confronti di Alicia e della sua famiglia e della Federal Reserve Bank di Richmond saranno legittimamente messe in questione. Le istruzioni sono concepite per indurlo in tentazione, per vedere se disobbedirà. Mr Keefe e Benjamin e Jackson Chapman e anche Jessie Chapman e Alicia Chapman Fife hanno molta piú esperienza di lui in queste pratiche, e se lui dovesse dubitare del loro giudizio li autorizzerebbe a dubitare, e a ragione, dei suoi moventi. E i suoi moventi sono la cosa su cui Fife vuole fugare ogni dubbio. Soprattutto per quel che riguarda i soldi. I loro soldi.

Il noleggio dell’auto viene a costare piú del previsto, e Fife resta deluso quando la commessa al banco gli dice che non avendo prenotato in anticipo non può avere una Mustang né una Barracuda. Dovrà accontentarsi di una berlina Plymouth. Un’auto da commesso viaggiatore, pensa lui.

Getta la borsa sull’ampio sedile anteriore come un rappresentante di commercio e si sistema al volante. L’interno dell’auto è una stanza, una stanza mobile. Il veicolo si muove, ma il suo corpo resta fermo. In cerca dell’essenziale – lancetta del serbatoio, tachimetro, orologio – studia gli indicatori dai bordi cromati e le leve e i pulsanti che si affollano davanti a lui e, dopo un breve istante di confusione, separa i suoi tre obiettivi dal resto e appura che il serbatoio è pieno, l’auto sta viaggiando a centoquaranta chilometri all’ora e sono le 14,05. Guarda fuori dai finestrini chiusi e si rende conto di essere in una via affollata. Svolta a sinistra, e la strada improvvisamente si allarga e si unisce a un’altra via con un gran numero di altre grosse automobili americane che gli muovono incontro veloci da ogni dove… con un semaforo rosso un po’ piú avanti, poi proprio accanto a lui e ora da qualche parte alle sue spalle.

Per alcuni secondi si ritrova da solo su una strada che corre rapida verso una curva a S, che si trasforma in un quadrifoglio, con strade che si diramano in tutte le direzioni. Dà un’occhiata al tachimetro e vede che si sta avvicinando al quadrifoglio a una velocità prossima ai centocinquanta chilometri all’ora. Preme il piede sul pedale del freno e l’auto inchioda, stride e gira su sé stessa disegnando un lungo arco verso destra, fermandosi accanto al cordolo, rivolta in senso opposto a quello da cui lui è arrivato, con il quadrifoglio ormai invisibile alle sue spalle e tre corsie di automobili che stanno piombando implacabili su di lui. Riesce ad aprire la portiera di scatto, a scendere e ad allontanarsi di corsa, mentalmente in attesa dell’angosciante impatto dei veicoli in arrivo contro il suo e poi uno sull’altro.

Ma l’impatto non arriva. Solo le ventate del traffico sulle due corsie piú esterne e il crescente belato dei clacson dalla fila che si è formata nella corsia piú interna, dietro la sua Plymouth bloccata. Fife si sente nudo e stupido lí in piedi in mezzo alla strada. Torna di corsa all’auto, sale e trova che il motore è ancora acceso, ragion per cui innesta la retromarcia per salire sul cordolo e sull’aiuola erbosa. Al sicuro.

Dopo qualche istante il traffico si dirada. Il semaforo è di nuovo rosso, come se stesse fermando le altre auto per lui. Rimette la Plymouth in carreggiata e riparte nella direzione giusta. Riesce a superare con successo il quadrifoglio e a percorrere il breve tratto di superstrada fino al casello del Summer Tunnel. Paga il pedaggio, rialza il finestrino per proteggersi dalla salmastra brezza di primavera e passa sotto il porto, entrando in città da est.

A poco a poco, mentre gira intorno alla trafficata Haymarket Square e attraversa il centro in direzione del fiume Charles, riacquista fiducia nella sua capacità di guidare la Plymouth. È del veicolo che non si fida, perciò continua a ricordare a sé stesso come deve comportarsi in ogni possibile circostanza. Vacci piano con il freno, è sufficiente sfiorarlo. E modera la velocità, può darsi che tu stia pigiando troppo sull’acceleratore. Bene, bene, continua a girare il volante, appena un po’, ecco, piano, piano. Ottimo. Manovra perfetta, Leo.

È dai tempi in cui ha imparato che Fife non si costringe a guidare in questo modo: dirigendo consciamente le azioni del suo corpo, impedendo al suo corpo di operare in modo spontaneo. A parte i casi in cui gli è capitato di essere molto ubriaco, troppo ubriaco per non aver paura dei propri riflessi rallentati. Ricorda con un brivido tutte le volte che, a quei tempi, ha evitato per miracolo una morte improvvisa e violenta, ignaro forse di potersi sfracellare giovanissimo compiendo il semplice atto di rincasare in auto. O forse era del tutto consapevole di questa possibilità e aveva deciso di trasformarla in una probabilità continuando a corteggiarla ogni volta che usciva la sera presto diretto ai locali sulla spiaggia, a diversi chilometri da dove abitava, in centro a St. Petersburg, per sbronzarsi miseramente e incasinarsi e arrabbiarsi al massimo nell’arco di cinque o sei ore, finché verso l’una di notte, con i bar ormai tutti chiusi, lui non tornava barcollante al parcheggio e, localizzata la sua Studebaker verde scuro, rifaceva il tortuoso, sobbalzante e incerto tragitto fino a casa.

Attraversato il fiume, Fife costeggia l’ingorgo di Cambridge e procede verso nord, passando per Somerville, in direzione di Medford, accanto a scali ferroviari, fonderie e stabilimenti industriali, tracciando un raggio zigzagante dal centro di Boston attraverso la zona industriale annerita dalla fuliggine, con casette in legno a tre piani una accanto all’altra, costruite cinquanta o anche settant’anni fa, verso l’apertura dell’anello verde di sobborghi curatissimi. Superati i sobborghi, Fife prende la Route 93, la nuova interstatale che con le sue sei corsie incide in diagonale le foreste e le colline del New Hampshire verso il Vermont e il confine con il Canada. Ha lasciato vagare la sua attenzione dal passato a un passato ancora piú remoto. Non sta piú pensando alla guida. Ormai va in automatico.

Ricorda di aver guidato la sua scassatissima Studebaker Starlight coupé del 1948 dai locali lungo la spiaggia al suo sordido appartamento in affitto a St. Petersburg, a tarda notte, tra i fitti banchi di nebbia che si spostano a est dal Golfo del Messico, i viali praticamente vuoti di automobili e i marciapiedi finalmente disertati dagli anziani del Nord ustionati dal sole che arrivano lí per morire stupefatti. Durante il giorno, il lavoro alla serra tiene occupata la sua attenzione ed è sufficiente a distrarlo da sé stesso. Inoltre, quel lavoro gli piace: spostare piantine da un’aiuola a un’altra, spargere terriccio, muschio, fertilizzante e paglia, scavare piccole buche nella terra nera per poi riempirle con qualcosa del tutto diverso da ciò che ne era stato tolto.

Questo, però, vale solo per i giorni normali, dal lunedí al sabato, dalle otto del mattino alle sei di sera. Quando arriva la domenica, Fife percorre a piedi il mezzo chilometro scarso fiancheggiato dalle palme fino alla biblioteca pubblica di St. Petersburg che ha un piccolo giardino giapponese cinto da mura, di solito poco frequentato, soprattutto di domenica, con le panchine accanto ad aiuole di fiori tropicali e laghetti popolati da sonnolente carpe koi. Arriva poco prima di mezzogiorno, prende posto su una panchina vuota con un libro che pensa di dover leggere e resta lí, che poi legga o meno, finché il bibliotecario non esce e, con gentilezza e rispetto e dispiacere, gli annuncia che sono le sei e che la biblioteca sta per chiudere.

Con il graduale approssimarsi del crepuscolo, il cielo sopra il Golfo si screzia di rosa e di arancione, e di colpo le alte palme diventano nere sullo sfondo del cielo. Raggiunge lentamente a piedi le due stanze ammobiliate nel cubo a stucchi che corrisponde al suo indirizzo da quasi sei mesi, dal mese di gennaio, quando è arrivato lí da Strafford, Massachusetts, dove abitava con i genitori. Comincia a passeggiare nervoso da una finestra all’altra e di lí allo specchio del bagno condiviso, sul lato opposto del corridoio, e ritorno, nel soggiorno sempre piú buio, al basso frigorifero e alla piastra elettrica, la sua cucina improvvisata in un angolo del soggiorno, dove riscalda e mangia una lattina di stufato di manzo Dinty Moore, e poi in camera, sul letto infossato, dove si stiracchia sulla schiena e fissa il soffitto pieno di crepe, guardando disegni immaginari che scompaiono adagio nell’ombra, finché a un certo punto, che è sempre il punto finale del suo tortuoso rimuginare, non decide di smettere di aspettare.

Non sa nemmeno, di preciso, che cosa stia aspettando, ma sa che se questa cosa dovesse veramente arrivare e realizzarsi, mentre lui è lí cosí, in oziosa solitudine, l’esistenza stessa della fragile, esile struttura che lui chiama vita sarebbe compromessa. Teme che un giorno, forse anche molto vicino, non potrà piú decidere di non poter piú aspettare l’arrivo di quel momento e, invece di cambiarsi la camicia, prendere l’auto e andare nei torridi e rumorosi locali sulla spiaggia – dove può bere e ascoltare e parlare con chiunque avrà voglia di bere e ascoltare e parlare con lui, finché non riuscirà a trascinarsi nelle sue stanze desolate, dove potrà scomparire nel sonno – sopporterà il silenzio e la solitudine delle sue stanze lasciando passare il momento della partenza, e a quel punto non sarà piú in grado di arrestare la deliberata distruzione della vita che ha cercato di coltivare con giustificazioni e scuse e razionalizzazioni e speranza. La verità avrà il sopravvento sulle sue bugie. La sua vecchia vita si slancerà in avanti e strozzerà quella nuova.

Al suo arrivo in Florida ha già scartato diverse vite, iniziandone altrettante. Benché abbia solo diciannove anni, e da poco, ha già una certa familiarità con il procedimento. Crede che le sue ragioni per mettere fine a una certa sequenza di azioni per inaugurarne simultaneamente una nuova siano degne e necessarie. Cogenti, dice. Capisce quanto fossero cogenti solo a distanza di molti anni, quando si ritrova a cominciare un’ulteriore vita, la sua quinta o sesta o settima. Ormai ha perso il conto. Tuttavia, nessuna di queste vite successive, neanche l’ultima, deriveranno come in questo caso a St. Petersburg, Florida, da un confronto diretto con sé stesso, quando è fuggito terrorizzato dalla solitudine e dall’ozio e ha sposato una bella ragazza che, avendo visto il terrore nei suoi occhi, si è convinta che questo lo avrebbe indotto a non lasciarla mai piú e lo ha amato per il potere che questo terrore aveva su di lui.

Fife ha provato a spiegare ad Alicia che Amy non aveva niente che non andasse. Lui non la odiava, non l’ha mai odiata, dice, e a un certo punto è arrivato quasi ad amarla. Quello che non va è il matrimonio in quanto tale. Le ragioni che stanno alla base dell’esistenza del matrimonio, vuole dire.

Alicia gli chiede di spiegare che cosa c’è che non va nelle ragioni alla base del matrimonio. Glielo chiede con una certa irritazione.

Le ragioni alla base del matrimonio erano inficiate, per quel che riguardava lui, dalla paura della solitudine e, per quel che riguardava Amy, dalla disperata determinazione a farsi carico della paura di Fife. Non è tanto difficile da capire, ma è piú difficile da rispettare o ammirare, dice. Specie ora, ma lui e Amy erano tutt’e due cosí giovani e soli e, per ragioni diverse, cosí terrorizzati da quella solitudine che hanno finito per sposarsi. Si erano conosciuti in un bar, una sera. Cinque settimane dopo sono scappati in Georgia, dov’era legale sposarsi a diciotto anni senza il consenso dei genitori.

Questa storia ha un che di familiare, dice Alicia.

Già, dice Fife. Amy ha telefonato ai suoi per informarli di quel che aveva fatto, e loro le hanno detto di non tornare a casa. Erano fanatici religiosi, spiega. Lui e Amy, allora, lí sul ciglio della strada davanti a una cabina telefonica di Macon, hanno deciso di prendere la Studebaker e di emigrare al Nord, a Boston. Lei era già incinta, ma non lo sapevano. Credevano che sposarsi fosse un buon modo di amarsi.

Fife sta di nuovo guidando in direzione nord, ma questa volta si allontana da Boston, da solo, con la Plymouth presa a noleggio, la mente immersa in ricordi lacrimosi che, tempo addietro, aveva dimenticato a fatica. Esce rapidamente da Medford e imbocca un viale che qualche chilometro piú avanti confluisce nella Route 93 e prosegue verso il New Hampshire e il Vermont. All’altezza di Melrose, svolta a destra sulla Fellsway, come faceva sempre quando tornava a casa, a Strafford, e se ne rende conto solo quando la rampa d’accesso alla Route 93 è ormai superata da almeno cinque chilometri. Nota con autentico piacere quanto gli sembrano belli, dopo tanti anni, gli alberi e le formazioni rocciose lungo la strada tutta a curve che porta a Strafford.

Le antiche abitudini del suo corpo, abbandonate da piú di dieci anni, hanno guidato la sua auto verso il luogo che non pensava di visitare, che non desiderava visitare: la cittadina in cui ha trascorso l’infanzia e da cui è fuggito in preda alla paura e al disgusto, a diciotto anni, mettendo i genitori, rimasti senza il loro unico figlio, nella condizione di tornare alla casa della loro infanzia, abbandonata tanto tempo prima, nel Maine. Decide di non invertire la marcia e di proseguire fino a Strafford. Riprenderà la Route 93 piú a nord, anche se, cosí facendo, allungherà il tragitto di piú di trenta chilometri.

Ne varrà la pena, riflette, anche se finirà per essere una sofferenza e non un piacere. Dopo dieci anni di lontananza, però, non sarà piú tanto doloroso, pensa per rassicurarsi. Non ha piú paura della vergogna un tempo associata alla sola menzione di quel luogo. È una persona diversa, ormai. Le persone cambiano. Che male può fare alla sua nuova vita il fatto di accostarle questo posto? Quand’anche Strafford fosse completamente immutata, e lui ne dubita, non potrà mettere a rischio l’equilibrio e lo slancio che ha conquistato con tanta fatica. Non piú. È una persona diversa, ormai. Non sono piú in conflitto, Fife e la sua cittadina natale, il presente e il vergognoso passato di Fife.

Inoltre, pensa, potrebbe essere illuminante confrontare la Strafford attuale con quella di dieci anni fa, e la sua reazione emotiva di oggi con il suo sentimento di un tempo. Potrebbe dargli un’idea sulla natura e sul grado dei suoi cambiamenti, indipendentemente da quelli verificatisi in paese. Sono una persona diversa, pensa, per rassicurarsi. Ma quanto diversa? E come? Se non si misura la propria vita in rapporto alle vite altrui, non lo si può sapere con certezza.

Procede a velocità di crociera. Territorio familiare su entrambi i lati. Non è cambiato nulla, dunque. Un pomeriggio di sole. Una domenica di primavera. Finestrini abbassati, braccia magre che sporgono, polpastrelli sul volante. Non c’è una sola cosa che sia cambiata. Spugnosi prati primaverili che asciugano al sole. Alberi pronti a fiorire che sembrano avvolti in un pizzo verde. Il cielo si inarca azzurro e l’aria trasporta dolcemente verso l’alto tutti i suoni, invitando quaggiú alla pigra chiacchiera e a distratti tamburellii. È stato felice, per un po’, ai vecchi tempi, ed è felice, per un po’, anche ora.

Si dimentica di ciò che stava tentando a fatica di ricordare e, senza volerlo, ricorda altre cose, cose che non si era reso conto di aver dimenticato. Amy voleva vedere il paese in cui lui era cresciuto. Fife non le ha mai parlato di Strafford, le ha sempre risposto solo con qualche nome e fugaci accenni. Oppure mentiva. Strafford, Massachusetts… uno di quei sobborghi di Boston con un passato coloniale… una cittadina con la sua spocchia… non piú al passo con i tempi, ma anche vittima dei tempi… il risvolto della medaglia che sull’altra faccia reca inciso il ghetto… Cosí gliene parlava, riuscendo soltanto a incuriosirla di piú.

Amy ha passato la vita tra bungalow di calcestruzzo a stucco e motel e centri commerciali della costa occidentale della Florida, e questo New England orientale, con le sue strane giustapposizioni di vecchio e nuovo, la zona industriale e l’idilliaco abitato, i suoi bassifondi e la fattoria sulle colline, la costa e le località sciistiche, la affascina e la confonde in pari misura. Amy è spaventata dalle strade buie e umide di South Boston e di Roxbury, e non gli crede quando Fife le racconta delle ampie spiagge sabbiose a poco piú di quindici chilometri di distanza. Lei non capisce perché il famoso Bunker Hill Monument puzzi di urina, come se un cane gigantesco, periodicamente, passasse accanto all’obelisco di granito e alzasse la zampa per pisciare. E non capisce neanche perché i Lodge, i Saltonstall e i Lowell vogliano vivere sul pendio di una collinetta che, sul pendio opposto, è popolata da alcolizzati senzatetto che crollano già sbronzi a mezzogiorno e vomitano sul ciottolato delle strade fino a sera, quando la polizia li raccatta per la notte. Lei non vuole credergli quando le dice che il negozio di stivali e selle, situato sull’angolo di una viuzza in una casa settecentesca a graticcio che si affaccia su un porticciolo yankee, un tempo imbiancato dalle vele dei clipper che tornavano dalla Cina, è in realtà un posto per le scommesse clandestine gestito da amici, soci e nemici degli uomini i cui cadaveri vengono ripescati ogni giorno dai fiumi Charles e Mystic o ritrovati nei bagagliai di auto parcheggiate in posti deserti a Chelsea e nel North End.

Amy gli chiede ancora di portarla a Strafford.

Non c’è niente da vedere, lí. Niente, dice Fife. Un paio di pozze che la gente si ostina a chiamare laghi, qualche vecchio edificio risalente al Settecento, i giardini pubblici. Casette tutte uguali e palazzine a tre piani. Magari ci passiamo un giorno, butta lí Fife, vago. Magari ci passiamo quando andiamo nel Maine a trovare i miei. Passeremo da Strafford, lungo il tragitto, cosí avrai qualcosa di cui parlargli.

Quando?

Per la festa del Ringraziamento. Vorranno senz’altro averci con loro. Se non andiamo, cercheranno di dare la colpa a te, per non dover pensare che sono io che li odio e che non sono voluto andare. Prima incolpavano la geografia, perché stavo troppo lontano, in Florida, ma ormai quella scusa non vale piú. Perciò dovremo andarci.

Perché li odi?

Lo capirai quando li conoscerai, alla festa del Ringraziamento.

Lei, però, non ha voglia di aspettare cosí tanto per vedere il posto in cui lui è cresciuto. Le sarà utile per conoscerlo meglio, spiega. Lo stuzzica e lo blandisce per tutta l’estate, finché un sabato pomeriggio lui non cede e accetta di portarla a Strafford.

Escono dalla città sulla sua Studebaker e attraversano Somerville e Medford, per poi imboccare la Fellsway, e dopo alcuni ansiosi minuti, sotto gli olmi incombenti e oltre le basse colline, durante i quali lei parla del bel fogliame dell’autunno e di ruscelli e rigagnoli e dell’ambiente naturale accuratamente addomesticato, Fife, in cima a una collina, nota che la lancetta della temperatura e l’indicatore della pressione dell’olio stanno pian piano salendo. Ignora il messaggio e prosegue. La temperatura e la pressione dell’olio continuano a salire. A meno di dieci chilometri dalla meta, escono dai boschi che costeggiano la Fellsway e raggiungono la cima di una lunga e lenta salita, da cui si ammirano le sontuose ville vittoriane della vicina città di Melrose, e lí il motore della Studebaker emette un improvviso crepitio e cede.

Con calma, quasi se lo aspettasse, Fife toglie la chiave dal quadro e lascia che l’auto, con pezzi di metallo ancora sferraglianti sotto il cofano chiuso, arrivi per inerzia in fondo al pendio, dove rallenta, per poi fermarsi con un gran sibilo sul ciglio della strada. Davanti a loro un segnale stradale dà il benvenuto a Strafford, Massachusetts, fondata nel 1639.