Fife parla rivolto ai presenti nella stanza: Non mi avete mai sentito parlare di queste cose, vero?
Nelle ultime ore, ha trasformato il proprio occhio interiore in videocamera per mostrare solo quello che vuole tra tutto ciò che scorge lí dentro, tenendo per sé le sue opinioni e le difficoltà, i conflitti e le paure, il senso di colpa e la vergogna.
Non ha detto, però, quello che loro vogliono sentire. A Malcolm e Diana e Vincent e Sloan non potrebbe fregare di meno di tutti quei particolari del suo lontano passato e non si prenderebbero la briga di comprenderli, quei particolari, tanto meno di filmarli e registrarli, se lui non fosse la persona che è diventato negli ultimi cinquant’anni, in Canada. Prima del suo arrivo dagli Stati Uniti nel 1968, la storia che lui racconta è poco piú di un Bildungsroman dai margini sbrindellati, la storia scombinata degli inadeguati tentativi di un ragazzo americano di metà Novecento di inventarsi come adulto, la storia di un ragazzo e di un giovane piú o meno tipico del suo tempo, della sua nazione, della sua etnia e della sua classe sociale. Non meritevole di un’intervista filmata per la Cbc Television.
Ora, però, Fife è un ben noto e quasi famoso documentarista canadese che, incidentalmente, sta per morire… e, certo, tutti incidentalmente si muore, qualcuno prima e piú in fretta di altri. È un processo che comincia alla nascita e può terminare in un momento qualsiasi. La morte di Fife, però, è imminente, e lui è un personaggio eminente. Piú o meno. E, almeno per i prossimi giorni, immanente. E ha invitato Malcolm e la sua troupe a filmare e registrare ogni sua parola. E questo consente a Fife di fornire la versione definitiva, per cosí dire, lasciando per una volta che la videocamera sia puntata su di lui, sollecitandolo a dire la verità a coloro che siedono nel buio, abbastanza vicini da poter ascoltare tutte le cose su cui ha mentito o che ha tenuto nascoste per tutti gli anni in cui ha vissuto e lavorato al loro fianco. Non possono sapere come sia arrivato, lui, da lí a qui se prima non sanno dov’è questo lí.
Malcolm e Diana non hanno voglia di sentire questa roba. Gli chiedono di parlare alla videocamera di Vincent e al microfono di Sloan del film che ha girato sul concerto tenuto da Joan Baez nel 1969 al Mariposa Folk Festival di Toronto. Com’è andata? domanda Malcolm. È stato un vero fiasco, ho saputo. Non dico il tuo film, aggiunge. Quello l’ho visto tante volte, ed è davvero struggente. Soprattutto a riguardarlo oggi.
Malcolm si riferisce all’attacco che nell’occasione Joan Baez ha sferrato contro i sessantamila giovani americani fuggiti in Canada per non essere spediti in Vietnam, o in carcere per diserzione. Malcolm conosce bene la storia di quel film e la polemica che ha caratterizzato il concerto già all’epoca. Lui vuole qualcos’altro.
Leo, dice Malcolm, puoi parlarci delle aspettative dei renitenti alla leva e dei disertori prima del concerto del Mariposa e della delusione e della confusione che sono poi subentrate? Malcolm vuole che Fife racconti come gli è venuta l’idea di radunare e intervistare quella manciata di giovani americani prima del concerto, quando ancora credevano che Joan Baez, la cantante folk regina della protesta americana contro la guerra del Vietnam, sarebbe arrivata in Canada per lodarli e sostenerli.
Quei ragazzi, all’inizio del film, sono contenti come delle pasque, dice. Felici. E tu li hai immortalati con la tua videocamera. Lei era un po’ la loro Giovanna d’Arco che cavalcava sul suo bianco destriero e li ispirava e perorava la loro causa presso i cuori e le menti dei canadesi. Quindi hai rintracciato le stesse persone, quando il concerto era finito da pochi minuti, e le hai intervistate di nuovo, dopo che lei li aveva rimproverati dal palco per essere fuggiti in Canada invece di andare in carcere negli Stati Uniti. Baez voleva che tornassero in patria e andassero volontariamente in carcere, come suo marito, David Harris. Non sapevano se essere incazzati con lei o tornare negli Stati Uniti per consegnarsi alle autorità o restare in Canada sentendosi delle merde.
Fife era forse già al corrente, prima del concerto, dell’intenzione di Joan Baez di denunciare gli espatriati? E di chiamarli codardi? Cosí li ha definiti! Codardi. Mentre loro si consideravano esuli politici coraggiosi, costretti a quel sacrificio. Il film di Fife, infatti, non era incentrato sulla bella e famosa Joan Baez – Malcolm ha idea che fosse incinta, all’epoca, e ricorda che la videocamera di Fife aveva indugiato a lungo sulla sua pancia arrotondata – e neanche sul concerto in sé o su Joni Mitchell e Neil Young, che erano a loro volta presenti. Il film parlava di quegli espatriati americani, i renitenti alla leva e i disertori. Tutti gli altri hanno raccontato e filmato gli aspetti musicali e le celebrità, le star del folk rock americano e canadese che cantavano insieme sullo stesso palcoscenico in Canada. Fife, invece, aveva in qualche modo intuito che la vera storia umana sarebbe consistita nella denuncia da parte di Joan Baez dei disertori e renitenti alla leva americani e si è fatto trovare pronto.
Ma si era trattato di puro intuito o Fife conosceva qualcuno del giro di Baez che l’aveva avvertito di quel che stava per succedere? Il suo addetto stampa o qualcuno dei musicisti che l’accompagnavano. O magari lui conosceva proprio la cantante. Il mondo era piú piccolo, a quei tempi, prima di Facebook e Twitter e Instagram, e tutti sembravano conoscersi di persona o con pochi gradi di separazione gli uni dagli altri.
Fife dice di no, che non la conosceva veramente. L’aveva incontrata, ma non erano amici né altro. Quando lui abitava a Boston agli inizi degli anni Sessanta, o forse era la fine dei Cinquanta, ha conosciuto di sfuggita un ragazzo del Minnesota, un certo Bobby Zimmerman, un cantante-chitarrista folk che per un paio di mesi ha condiviso l’appartamento con uno degli amici piú intimi di Fife, Stanley Reinhart, che adesso è un artista molto noto, ma allora era solo uno studente della School of the Museum of Fine Arts. Bobby faceva delle serate a Boston, alla vecchia Unicorn Coffee House, e a Cambridge, al Club 47, e a volte Joan veniva su da New York per suonare e cantare con lui e stava a casa di Reinhart, dove Fife l’ha incontrata in piú di un’occasione. Bobby Zimmerman aveva dei capelli fantastici. Un’acconciatura che ai tempi veniva chiamata jewfro. Ai tempi, i capelli erano molto importanti, soprattutto quelli dei maschi. Bobby aveva una criniera scarmigliata di riccioli scuri che davano l’impressione di essere ben poco curati, ma lui ci teneva tantissimo, e nella tasca posteriore dei jeans, in bella vista, aveva sempre un pettinino, come se fosse un nero, e questo equivaleva a un gran vaffanculo, allora. Piú o meno nel 1960, o forse nel 1961, Bobby è tornato nel Greenwich Village, dove ha completato la sua trasformazione in Bob Dylan. E Fife, da allora, non ha piú visto né lui né Joan Baez.
Malcolm dice: Cristo, Leo, sei una specie di Zelig. Va’ avanti.
Fife sottolinea che, non conoscendo personalmente Baez né altri del suo entourage, non aveva idea della sua intenzione di denunciare i renitenti alla leva e i disertori americani – i resistenti, li chiama lui – dal palco del Mariposa Folk Festival. Fife era al corrente della situazione politica in Québec e nel New Brunswick in quell’estate-autunno, e quando i rifugiati americani al centro dei resistenti gli hanno raccontato con che ansia aspettassero l’arrivo di Joan Baez in Canada a sostegno della loro causa, lui li ha trovati stranamente naif, perciò li ha intervistati, riprendendoli con la stessa videocamera che aveva usato a Gagetown. Credevano che Baez avrebbe fatto pressione sul primo ministro Pierre Trudeau inducendolo a riconoscerli come rifugiati politici, mettendoli cosí al riparo dalle autorità militari americane e dagli agenti dell’Fbi che li inseguivano per tutto il Paese, da Vancouver a Halifax, per metterli in catene e trasferirli a sud del confine, e che, quando non riuscivano ad arrestare i resistenti, cercavano di convincere la polizia a cavallo canadese a catturarli e a estradarli.
Trudeau non era ancora sposato, allora, e si compiaceva di mostrarsi in pubblico in compagnia di musicisti celebri e, soprattutto, di musiciste di bell’aspetto. Si diceva che andasse a letto con Barbra Streisand. I resistenti alla guerra fuggiti a Toronto ritenevano che Joan Baez fosse la persona piú indicata al mondo per perorare la loro causa presso Trudeau. Fife, però, sapeva che non sarebbe accaduto. Non per Joan Baez, ma per Pierre Trudeau che, soggetto a enormi pressioni da parte di Lyndon Johnson e J. Edgar Hoover, stava prendendo tempo sulla concessione dello status di rifugiati ai resistenti. Aveva un’elezione alle porte ed era preoccupato per la questione separatista francofona, che era estremamente volatile e minacciava, in senso letterale, di far esplodere il Paese in una mezza dozzina di schegge.
Gli americani intervistati da Fife prima e dopo il concerto erano resistenti che aveva conosciuto all’ufficio del programma anti-leva a Toronto, in Yonge Street. Era arrivato da Montréal per il concerto in compagnia di Ralph Dennis, il tizio per cui lavorava nel New Brunswick. Fife e Ralph sapevano che Trudeau già faticava a tenere insieme il Paese e non avrebbe mai aperto un’altra questione identitaria capace di causare ulteriori divisioni. Era l’estate del 1969. Il mondo intero sembrava frammentarsi in piccole colonie di salvati. Persino il Canada. Fife, dunque, non aveva il minimo sentore dell’imminente condanna dei resistenti da parte di Baez. Lui, di suo, ci ha messo solo la certezza che Trudeau non avrebbe mai dato ai renitenti alla leva e ai disertori americani la protezione dello status di rifugiati politici. Semplicemente, non sarebbe accaduto. Né allora né mai.
Fife si rammarica di aver parlato davanti alla videocamera della realizzazione del suo film sul Mariposa. Malcolm, come la maggioranza dei registi, ma a differenza di Fife, si fa prendere facilmente dall’entusiasmo e ha la tendenza a spingere e a manipolare gli altri in modo da alimentare il suo bisogno di ulteriore entusiasmo. Fife si rimangerebbe ogni parola, se potesse. Cancellerebbe dall’intervista quello che ha detto del Mariposa. Taglierebbe la parte su Bobby Zimmerman e su Joan Baez, dove Fife passa per una specie di Zelig. Tutto quello che racconta della sua vita in Canada non fa che cristallizzare il mito di Leonard Fife.
Quando si è svegliato, stamattina, non aveva intenzione di tornare nei luoghi che ha visitato da quando la videocamera di Vincent e il microfono di Sloan hanno cominciato a registrarlo. In origine, aveva in mente di lasciarsi intervistare, come loro desideravano, sulla sua vita e sui film girati in Canada; di rispondere alle domande che avevano preparato, in modo naturale o almeno alla sua maniera caratteristica: digressiva e impersonale, con riformulazione delle domande per poter dire quel che vuole comunicare, né piú né meno, rafforzando e indorando l’immagine pubblica di Leonard Fife come uomo intelligente e pieno di fantasia e intellettualmente serio, ma anche affettuoso e bonario, schietto, che non si dà arie, uno alla mano, ma allo stesso tempo d’animo elevato e con saldi principî morali e politici. Di fare, insomma, quello che ha già fatto un centinaio di volte.
Quando si è svegliato stamattina, però, dopo che Renée gli ha dato le sue medicine e la mente ha cominciato a snebbiarsi un po’, si è reso conto con la violenza di un temporale che quella sarebbe stata la sua ultima occasione di dire la verità: a sé stesso e all’unica persona che ancora lo ama.
Non c’è proprio nessun altro che lo ami? Non gli viene in mente nessuno. Nessuno come Emma. Del resto, non sa neppure bene che cosa si intenda per amore, nel mondo. Non lo ha mai saputo bene. Ciononostante, ha deciso di dire la verità in maniera che Emma possa capire chi è l’uomo che lei ama, e lui per primo possa infine scoprire chi è. Presa questa decisione, la sua mente si è riempita all’istante, fino a traboccare, di ricordi della sua giovinezza e della primissima età adulta da tempo dimenticati, negati e camuffati. All’inizio, si sono srotolati in maniera spontanea, ma poi con il suo avallo. Nel momento in cui è stato spinto in quella scatola nera e piazzato al centro del palco e illuminato da un riflettore e invitato a parlare, si è preoccupato soltanto di ricordare e di raccontare la sua storia nel modo piú veritiero e semplice possibile, come se non fosse sua, ma di altri, di uno sconosciuto, e come se la videocamera e il microfono fossero nelle sue mani, sotto il suo controllo, non in quelle di Malcolm o di Diana o di Vincent o di Sloan.
Data la complessità della storia e le sue ambiguità morali, e dato che, per loro e in una certa misura anche per lui, si tratta di materiale inedito, Fife ha dovuto fare qualche salto temporale, con piú di un flashback per colmare lacune, e di questo si scusa. Mi spiace, dice al microfono di Sloan. Chiedo venia.
Inoltre, il mondo del suo passato è un mondo ricordato, non esattamente fittizio ma, come la fiction, riduttivo, selettivo, strutturato dall’intenzione e dal desiderio e dalle antiche e ineludibili convenzioni della narrazione. Lui vede e sente, quasi come se fosse in preda ad allucinazioni visive e uditive, le persone che pensava di amare e che avrebbe potuto amare e che ha soltanto provato ad amare: le persone che ha tradito e abbandonato. Sono presenti come ologrammi o come spettrali immagini residue, che camminano, parlano, piangono, fanno l’amore, litigano, implorano, mangiano, bevono, fumano, scherzano, fanno progetti, guidano, cantano e ballano agitandosi nell’aria buia tra lui e la videocamera e il microfono. E in mezzo a loro, nel punto centrale e piú significativo, c’è l’ologramma chiamato Fife, Leonard Fife, una sua versione che lui stesso sta rievocando.
Una donna anziana, conosciuta quando lei era ormai in età avanzata, aveva scritto e pubblicato un libro di memorie intitolato La mia autobiografia come la ricordo. Fife aveva ammirato il candore e l’evidente modestia del titolo, ma per chi aveva conosciuto da vicino l’autrice, cioè soprattutto i suoi figli ormai adulti, familiari e vecchi amici, il titolo non era altro che la licenza e la giustificazione per un libro di bugie. Bugie innocue, perché nessuna delle persone nominate nel libro, se non forse il suo compianto marito, veniva demonizzata o incolpata per la dura e lunga vita di frustrazioni, difficoltà e lutti dell’autrice, terminata con la disintossicazione dall’alcol grazie agli Alcolisti anonimi e, dopo la morte accidentale del suo ultimogenito, con un allentamento della disperazione e delle afflizioni grazie a un rapporto personale con Gesú.
Chiunque fosse al corrente di com’erano andate davvero le cose diceva dei vari episodi: Io me lo ricordavo diversamente. Ma quello era il libro di memorie dell’autrice, non il loro, e i ricordi erano i suoi, non i loro. In fondo, quand’anche tutti i suoi ricordi fossero stati mere giustificazioni di comodo per comportamenti che, visti in un’altra luce, sarebbero sembrati stupidi o narcisistici o superficiali, dal punto di vista dell’autrice avevano una funzione redentiva. Rivelavano le ragioni a fondamento della sua vita di dolore e tristezza e confusione. Davano un senso a una vita altrimenti incomprensibile e insulsa e, almeno ai suoi occhi, la redimevano.
È questo che Fife sta cercando di fare? Raccontare la sua autobiografia cosí come se la ricorda? Sí, dice, proprio questo sta cercando di fare oggi e domani e finché ne avrà il tempo.
Malcolm lo interrompe per chiedergli che senso ha la storia di quella donna e della sua autobiografia come lei se la ricordava.
Una domanda forse migliore, che a Malcolm, in quanto film-maker, non viene in mente di fare, sarebbe: A chi la stava raccontando? La risposta determina la forma in cui Fife racconta la storia, ciò che ne viene lasciato fuori come ciò che vi viene incluso. A prescindere da quel che Malcolm può credere, Fife non la sta raccontando né a lui né a Vincent e alla sua videocamera. E neanche a Diana o a Sloan e al suo microfono. E non la sta raccontando neppure alle persone che, come loro sperano, andranno a vedere il film che verrà ricavato da questo scombinato resoconto. E non la sta raccontando neanche alla sua infermiera Renée, a cui peraltro, comprensibilmente, della sua storia potrebbe non fregare una beata cippa.
No, lui sta raccontando la sua storia a sua moglie, Emma, perché vuole che lei finalmente lo conosca, l’unica persona che tante volte gli ha ripetuto di amarlo per quello che è, a prescindere da chi è lui. Soprattutto, però, per la stessa ragione, la racconta a sé stesso: perché prima di morire vuole conoscersi, a prescindere da chi è lui.
Conosci te stesso. L’ha sempre considerata un’ingiunzione inutile e banale, un credo da boyscout. Non ha mai provato sul serio a conoscere sé stesso, a capire se potesse definirsi buono o cattivo, e in che misura, a seconda del caso. Gli sembrava una questione risolta, un dato di fatto, e comunque una cosa non tanto importante o necessaria quanto conoscere gli altri, conoscerli principalmente per capire che cosa volessero da lui o che cosa lui volesse da loro.
Se in passato ha desiderato sapere qualcosa di sé stesso, è stato solo per cercare di identificare le proprie capacità, o la propria mancanza di capacità, per confrontarle con ciò che gli altri volevano da lui o che lui voleva da loro. Era un calcolatore. Lo è ancora. Non uno che valuta. Una valutazione è un giudizio sul valore di qualcosa sulla base di un approfondito esame di quella cosa nel contesto delle cose che le assomigliano. È cosí che si determina il valore, che si tratti di una casa, di un raccolto, di un’oncia d’oro o della vita di un uomo. Lui non l’ha mai fatto. Fino a oggi.
Siamo pronti, Malcolm, per ricominciare con le riprese?
Siamo pronti. Stiamo girando. Intervista a Leonard Fife, 1° aprile 2018. Montréal. Scheda due.
Quello che ho detto non avrà probabilmente alcun senso per voi, riattacca Fife. Me ne scuso. Scusate, ripete. Scusatemi.
Fife sa che cosa pensa e sente, ma alcune delle sue parole non sembrano connesse ai pensieri o alle emozioni. È come se gli fosse venuto un ictus nel sonno e lui stesse a poco a poco rendendosene conto. Il che spiega, forse, l’insolito silenzio di Malcolm e di tutti gli altri.
Conclude che non ha tanta importanza, non per lui, almeno finché capisce quello che pensa e che sente, e finché lo capisce anche Emma. Gli altri possono pensarne ciò che desiderano o anche niente. Possono cancellare tutto, se vogliono. Non prima che lui abbia finito di raccontare. Okay?
Okay. Certo, Leo, come vuoi. È il tuo spettacolo, in fondo.
Dov’ero rimasto?
A Strafford. Strafford, Massachusetts, se non sbaglio. Dove sei cresciuto.