Sedici

Fife comincia subito a raccontare quelli che crede siano i suoi ricordi. Dice di ricordare di aver scorto Nick Dafina davanti alla Feeney’s Pharmacy quando si è fermato a Strafford alla fine di marzo del 1968. Gira la testa di lato e accelera passando oltre l’ombra di Nick, fingendo di non averlo visto o riconosciuto, concedendo a Nick l’opportunità di fare altrettanto. A nessuno piace incontrare vecchi amici all’improvviso, senza prima abituarsi all’idea o prepararsi o darsi una sistemata. Non a Fife, di sicuro, e probabilmente neanche a Nick. Fife vorrebbe che Nick chiudesse il cofano della sua Mustang rossa parcheggiata, tra tutti i posti possibili, proprio dietro la Plymouth che ha noleggiato lui, che si sedesse al volante, che mettesse in moto e se ne andasse sgommando… come farebbe lui se ne avesse la possibilità.

È troppo tardi, però. Nick, con la faccia sporca di grasso, l’espressione corrucciata, distoglie l’attenzione dai problemi del suo motore, permettendo a Fife di vederlo e di riconoscerlo con certezza, troppo tardi per poter svicolare all’improvviso. Decide, perciò, di passare con noncuranza tra la parte posteriore della Plymouth e il radiatore della GT Fastback di Nick, aggirando con attenzione il suo corpo chinato in avanti, che sta scomparendo, con una chiave a tubo in mano, sotto il cofano della sua auto.

Fife attraversa la strada deserta, si avvia dritto verso la Feeney’s Pharmacy ed entra. Raggiunge il banco dei tabacchi, sulla sinistra, e domanda alla commessa adolescente se hanno una carta stradale di Strafford. È la sorella minore di qualcuno, una ragazza alta e magra con le spalle strette e una faccia tonda vagamente familiare e devastata dall’acne, una ragazza che lui crede di aver conosciuto quando era una bambina dalle guance rosa, mentre ora è presa nella morsa degli ormoni, dell’ansia e del desiderio. Di chi sarà la sorella? si domanda Fife. Chi è il fratello o la sorella maggiore a cui assomiglia? Di sicuro si tratta di qualcuno che lui conosceva ai tempi del liceo. Fife aveva diciotto anni, allora. La sorellina minore, negli ultimi dieci anni, è cambiata ben piú di lui. Se Fife è quasi in grado di riconoscerla, lei è di certo in grado di identificare lui.

La ragazza smette di rimirarsi le unghie artigliate color ciliegia e gli sorride guardandolo in faccia, dicendo che le dispiace, ma non crede che ci siano carte stradali nel negozio. Ah, a meno che non ce ne siano nell’espositore delle riviste in fondo al negozio.

Si volta verso l’ampia vetrina accanto all’entrata in cerca dell’espositore delle riviste. Non c’è, dice Fife. Lo hanno spostato.

Che cosa hanno spostato? domanda lei, sorpresa.

Il raccoglitore delle riviste.

No, è lí, in fondo al negozio, vicino al bancone del bar. Dov’è sempre stato.

Gli piace l’accento nord-bostoniano della ragazza. L’orecchio di Fife è sintonizzato sulla parlata della Virginia costiera e pedemontana, e quella della ragazza, con le vocali appiattite e la caduta della r, lo colpisce per contrasto. Giusto, dice lui. Dov’è sempre stato.

In fondo al negozio, Fife fruga tra la massa di riviste settimanali e mensili e guide di astrologia e almanacchi e manuali per hobbisti. Di carte stradali di Strafford non ce n’erano. E neanche della Boston suburbana, che avrebbe potuto passare per materiale di ricerca e giustificare la decisione di fare tappa lí, invece di proseguire sull’autostrada senza imboccare l’uscita per Strafford, come gli sarebbe convenuto fare.

Si volta e torna nella parte anteriore del negozio, con lo sguardo fisso davanti a sé, senza guardare verso il lungo banco in formica a cui cinque o sei persone di varie età sono sedute, di spalle, sui loro sgabelli. Quando passa, ha l’impressione di sentirsi chiamare: Ehi, Fife! Leo Fife! Accelera ed esce sul marciapiede.

Devo passare davanti a Dafina, pensa. Si avvicina alla Mustang di Nick – bande sulla fiancata, enormi pneumatici Dunlop, presa d’aria sul cofano ancora spalancato, la parte inferiore del corpo di Nick penzolante dalle sue fauci. Nick, probabilmente, non lo ha visto, se non di spalle. Se lo ha visto in faccia, sarà stato solo per un secondo e, dato che Fife ha finto di non riconoscerlo, Nick lo avrà preso per uno che ha una straordinaria somiglianza con il suo vecchio amico Leo Fife, anche se sfoggia baffoni da hippie e ha una decina d’anni in piú di quanti ne avesse l’ultima volta che Nick lo ha incrociato lí a Strafford.

Fife si porta d’istinto una mano sopra il labbro superiore. I baffi ci sono ancora. Sono reali. Non se li è immaginati. Prosegue verso la sua auto. Nick chiude di colpo il cofano della Mustang e con un gran sorriso guarda Fife in faccia. Lo stomaco di Fife si chiude come un pugno e preme contro il petto, mentre le gambe gli diventano molli, e lui, allora, si ferma e sorride fiacco, come un po’ sofferente.

Nick dà tre manate sul cofano della sua auto. Leo Fife, figliodiputtana! Si infila d’impeto tra le due auto e sale sul marciapiede, urtando con il suo corpo tozzo la struttura magra e slanciata di Fife, si allontana di un passo e, afferrata la mano destra di Fife, comincia a scuoterla. Leo, figliodiputtana! Credevo fossi sepolto a un milione di miglia da qui! Oh, Cristo, come minchia stai? Mi era parso che fossi tu, quando sei sceso dalla Plymouth e sei entrato da Feeney’s, ma poi ho pensato: No, non può essere. Non può essere proprio Leo Fife. Non qui a Strafford. Che cazzo ci fai qui?

Be’, ero solo… solo di passaggio, balbetta Fife, sorridendo come un ebete, lo sa, ma non può farci nulla. Sto andando nel Vermont. Mi serviva una carta stradale, e ho pensato di fermarmi e di prenderne una da Feeney’s, dato che è l’unico posto aperto. È domenica. Ma tu come stai? Come te la passi? Si sente la faccia pietrificata in un sorriso.

Nick dice che sta bene. Poi dice: In realtà, no. Non sto per niente bene, sono conciato da buttar via, dice sereno. Ma non importa, dimmi piuttosto che cosa hai fatto tu! Oh, Cristo, Fife non crederà a quello che Nick ha sentito raccontare delle sue avventure. Da quando se n’è andato da Strafford, Fife è diventato una cazzo di leggenda da ’ste parti. Dài, dice, andiamo da Feeney’s a bere un caffè. Ti va un caffè? Hai tempo, vero? Non stai ripartendo al volo, vero? Nick lo prende per una manica e lo tira verso il negozio.

Entrano, Nick che, con un braccio intorno al collo dell’amico come una sciarpa, parla a raffica e dice che Fife è in formissima, che è cambiato pochissimo, a parte i baffi, ovvio, che gli stanno da dio, davvero, e che lui è strafelice di vederlo, soprattutto in questo momento. E che è strano, di piú, pazzesco che lui si ripresenti a Strafford proprio adesso, ripete.

Si siedono al bancone del bar, da soli. I pochi clienti che erano lí poco prima se ne sono andati. Una donna truce con capelli grigi e occhiali, che sembra una capoinfermiera, prende le loro ordinazioni: caffè nero e un sandwich integrale con uova e insalata per Fife, caffè con panna e muffin inglese tostato per Nick. Per qualche minuto parlano come due vecchi amici che si incontrino inaspettatamente dopo tanti anni: delle cose del mondo fisico nelle piú immediate vicinanze, come se faticassero a collocarsi nel qui-e-ora, per resistere alla potente attrazione della memoria. Parlano un po’ rigidi e quasi cerimoniosi dell’inusitato tepore della giornata. Della sorprendente assenza di clienti nel negozio. Della Plymouth verde che Fife ha parcheggiato davanti alla Mustang di Nick.

È la tua auto? domanda Nick, incredulo.

No, no, l’ho noleggiata a Boston.

Cristo, hanno solo auto scarse, le agenzie di noleggio. Da chi l’hai presa? L’agenzia, dico.

Da Avis.

Sei sicuro che sia la Avis?

Sí, Avis.

Fammi prendere il numero di targa, quando usciamo. Ti farò avere uno sconto. Quella è roba che costa.

Lo so. Costa tanto.

Che tariffa ti hanno fatto? Undici e undici?

Dodici dollari al giorno e dodici centesimi per ogni miglio. Dodici e dodici.

Bastardi.

Lo so, costa tanto. Che assurdità dire una cosa del genere, pensa Fife. Come se per lui facesse differenza. Undici e undici, dodici e dodici, tredici e tredici… C’è qualcosa di sbagliato nel fatto che gli importi di questo dettaglio. Però gliene importa, e non saprebbe dire perché. Ricorda a sé stesso che ormai ha a portata di mano cosí tanti soldi che i termini «costoso» o «economico», dollaro piú, dollaro meno, non hanno piú senso per lui. Vivere in una simile, insensata relazione tra costi e reddito era il sogno della sua infanzia, un sogno corrotto dal desiderio.

Non preoccuparti, amico. Ti faccio avere uno sconto, dice Nick.

Conosci qualcuno?

Nick risponde con la sua vecchia, familiare interpretazione del Mafioso, una caricatura di uno dei goodfellas di Scorsese. Ehi, Nick Dafina conosce sempre qualcuno. Fife viene investito da un’ondata di dolci associazioni, ricordi di risate da goffi adolescenti ubriachi di birra e di pomeriggi estivi spensierati in auto con i finestrini abbassati e la radio a tutto volume, quando tutti provano, ma nessuno tranne Dafina riesce a combinare l’inflessione, la durezza, l’arguzia e la spocchia necessarie a imitare e, simultaneamente, a parodiare le versioni cinematografiche e televisive del padre di Dafina e dei suoi soci.

Fife si rilassa e, distaccandosi dalle cose concrete e luminose che circondano lui e Nick, si lascia trasportare dalle acque mosse del suo passato. Vede galleggiare e avvicinarsi le facce di vecchi amici, di cui ricorda i nomi senza la minima difficoltà. Vede benissimo la loro andatura e le pose e i gesti, sente le loro voci, e allora rivolge a Nick le domande che per dieci anni ha posto a sé stesso.

Vic Donovan corre ancora dietro alle donne che hanno il doppio della sua età, adesso che ha quasi trent’anni? E ti ricordi del povero Roger Callahan? Alla fine, è andato o no a lavorare al National Register per suo padre? E poi: c’era una ragazza, Fife non ricorda come si chiamava, ma Mike Clifford se la scopava da quando avevano entrambi compiuto quattordici anni, e lui diceva sempre che non era un problema, qualunque cosa intendesse dire, perché si sarebbero sposati appena finito il liceo. Carol Barnes, ecco come si chiamava. Insomma, se l’è sposata o ha scoperto che tante compagne di studi alla University of Massachusetts te la dànno anche se non le sposi, purché tu faccia parte della squadra di football? Ed è morto qualcuno? C’è qualcuno, tra quelli che loro frequentavano, che sia finito in Vietnam? C’è nessuno che abbia deciso di andarsene lontano, come lui, e di non ritornare piú ad abitare a Strafford, Massachusetts? E gli altri sono ancora tutti lí, come quando Fife se n’è andato dieci anni fa, identici a come se li ricorda, le vite annodate tra loro da ambizioni e paure condivise, impigliati in una rete di piccole umiliazioni e piccoli trionfi?

Questo posto è davvero quello che appare a lui? Non è che magari, chissà come, si trova da qualche altra parte, tanti anni piú tardi, e sta sognando? Non è che magari, lí al bancone della tavola calda di Feeney’s, ora alzerà gli occhi dal suo sandwich con uova e insalata e vedrà un’altra faccia del suo passato, questa volta di ragazza, Evelyn Rose, immutata, per sempre fissata nei suoi diciott’anni, non esattamente provocante e sofisticata, ma abbastanza da risultargli irresistibile, che mormora, mentre tutti sentono e ammiccano tra loro: Leo, amore, ti va di restare qui stasera e di portarmi con la tua grossa Plymouth a noleggio al drive-in, sulla Route One, a Revere, dove andavamo sempre il venerdí sera, cosí posso farti una sega su quell’enorme sedile anteriore? In omaggio ai vecchi tempi.

Cristo, Evelyn, te lo dirò forte e con decisione, in modo che tutti qui possano sentirmi: sono cambiato. Sono un uomo sposato, ora. E sono cambiato.

L’uomo seduto accanto a Fife – Oh, mio Dio, è Mr Varney, del negozio di abbigliamento maschile – posa la sua tazza di caffè, si pulisce la bocca con un tovagliolo di carta e si volta verso di lui. Se posso permettermi, Leo, spero tu abbia sposato una brava donna. La donna che ti meriti, ragazzo. Comunque, se mai dovessi aver bisogno di lavorare, Leo, sarei felicissimo di riprenderti al negozio, perché tu eri come un figlio per me. Dico davvero.

Mr Varney si volta lentamente verso la donna anziana che gli siede accanto e dice: Vuole parlare con Leo, Mrs Fife?

La madre di Fife guarda al di là di Mr Varney ed emette un sibilo: Psst, Leo! Sono io, dice, tua madre. Sono ancora qui, figliolo. Stai bene? È cosí tanto che non abbiamo piú tue notizie che cominciavo a pensare ti fossi dimenticato di noi. Com’è la tua nuova moglie, Leo? È come la prima? Mi piacerebbe conoscerne almeno una. Non le hai mai portate da noi. Tuo padre mi ha detto di salutarti. Gli dispiace, ma non ce l’ha fatta a venire giú dal Maine: sta ancora facendo il turno di notte in ferrovia. È fiero di te, Leo. Fierissimo. Te lo direbbe di persona, ma per lui non è facile parlare di sentimenti. Lo sai. Ora, però, siamo felicissimi. Non abitiamo piú a Strafford. Ci siamo trasferiti poco dopo che tu sei andato a Cuba rubando a Mr Varney i soldi e i vestiti dal negozio. È stato un brutto periodo, quello, soprattutto per colpa tua. Hai dei figli, Leo? Quanto mi piacerebbe vedere i miei nipoti. Credi che verrai, un giorno o l’altro, a trovarci nel Maine, ora che non abitiamo piú a Strafford? Tuo padre è vecchio, Leo. È sempre stato vecchio. Ma non si lamenta mai. Nemmeno del turno di notte. Mi ha detto di dirti che è felice che tu sia tornato al college per finire gli studi che avevi cominciato al Rumford. E hai fatto persino il master! Che meraviglia. È sempre bene finire quel che si comincia, figliolo. Ha detto pure che dovresti prendere seriamente in considerazione la proposta di Mr Varney e tornare a lavorare al negozio, per ripagarlo di quanto ancora gli devi. Mr Varney non è uno che porta rancore, figliolo. Ma tu non devi piú lavorare per vivere, vero? È vero che riesci a guadagnare scrivendo racconti e libri? O è solo una diceria? E tua moglie viene da una famiglia ricchissima. Un’ereditiera? È meraviglioso! Meraviglioso! Sono molto felice per te. E anche tuo padre lo è.

La donna continua a parlare, persino mentre Mr Varney la conduce gentilmente fuori dal locale. Dal marciapiede, sua madre lo saluta attraverso il vetro ed esce di scena accompagnata da Mr Varney.

E Nick? Tutto è rimasto uguale a prima, per lui? Non è il tipo da lasciare il paese e scomparire, come invece ha fatto Fife, per provare a rifare la stessa cosa da un’altra parte. Nick ha sempre saputo che, qualunque cosa avesse fatto in vita sua, avrebbe potuto farla lí come in qualsiasi posto. Tra tutte le persone che Fife conosceva ai vecchi tempi, Nick era l’unico che avesse ben chiari i suoi desideri e bisogni, tanto da non perdersi mai per strada. Non è stupido come lui.

Fife sa che Mr Dafina, un dandy vedovo e pieno di sé, è un malavitoso, e piuttosto in alto nella gerarchia. Nick non lo ha mai negato con i suoi amici. È quasi orgoglioso del padre delinquente. Per Fife una situazione del genere sarebbe stata paralizzante; Nick, invece, sfrutta la facciata di rispettabilità e legittimo successo finanziario del padre, accettando persino di frequentare una buona università cattolica come la Holy Cross. Nick è abbastanza scaltro da vedere che, agli occhi del resto della società, suo padre non è diverso da tutti gli altri figli di immigrati che hanno fatto tanti soldi alla svelta. Nick sa che l’intelligenza istintiva e la spietatezza del padre, la sua cocciuta risolutezza nel battere quel Paese protestante al suo stesso gioco, hanno risparmiato al figlio quella fatica. Hanno permesso a Nick di avere un lavoro regolare, studiare Legge o Medicina o fondare un’impresa di successo. È il sogno americano, no? Qualunque cosa lui faccia nella vita, l’avrà potuta scegliere sulla base dei suoi soli desideri. La sua vita, diversamente da quella di Fife, non si è dipanata per un caso o un incidente, per situazioni contingenti, per reazione. Non ha passato la giovinezza a correggere di continuo la rotta.

Leo, Cristo santo, stai sempre lí a preoccuparti troppo, dice Nick. Dài, lascia stare la tua idea di portare il culo su nel Vermont per la cena o quel cazzo che è. Tanto, in ogni caso non faresti in tempo. Eppoi, l’occasione di passare una domenica pomeriggio con il tuo vecchio compagno del liceo non capita tutti i giorni della settimana. Dài, Leo, andiamo a berci qualcosa sulla Pike. Là saremo liberi di parlare. Tra l’altro, questo posto mi dà sui nervi.

Un tempo eri praticamente di casa, qui da Feeney’s.

Mi dà sui nervi, fidati. Mi mette ansia. Sento la pressione.

La pressione?

Sí, una cosa cosí. Inoltre, fanno un caffè schifoso. E non dimenticare che in questo cazzo di paese non si può comprare un cazzo di drink neanche a morire, di domenica, cazzo.

Sí, cazzo, cazzo, cazzo. Okay, ti seguirò sulla Pike con la mia auto e da lí ripartirò per il Vermont.

No, no, non se ne parla. Tu vieni con me. Con una tariffa di dodici e dodici spendi già abbastanza lasciando quel bidone parcheggiato. Dài, metti il culo sulla mia Mustang e dimmi che effetto ti fa quando mollo la frizione. Ho messo un motore FE da 6,4 litri, trecentoventi cavalli, seimilatrecentonovanta centimetri cubici. È un cazzo di motore mostruoso, amico mio. Ti do un consiglio, per farti un’idea di quello che ho ficcato nel cofano della mia bambina: sali e metti una moneta sul cruscotto. Ce l’hai mezzo dollaro?

No.

Okay, te lo do io. Ora chiudi quella cazzo di portiera. Piazza la moneta lí, in quell’incavo del cruscotto davanti a te. Okay, perfetto. Non riprenderla finché non siamo partiti. Appena partiamo, invece, devi cercare di acchiappare la cazzo di moneta dal cazzo di cruscotto, okay? Aspetta solo che io molli la frizione. Okay! Adesso! Adesso! Adesso! Dài, prova a prenderla! Prendila! Prendila!

Fife viene scaraventato all’indietro sul sedile. La mostruosa, violentissima forza gravitazionale che sente in accelerazione e decelerazione, il rombo tagliente del motore, gli pneumatici che sfregano sull’asfalto stridendo e gemendo, quando la Mustang affronta a tutta velocità le curve e accelera in prossimità dei semafori o passa sfrecciando senza badare agli stop, sono terrificanti. Nick non guidava cosí, quando sono scappati insieme all’Ovest, a sedici anni, e facevano turni di quattro ore ciascuno al volante, finché non hanno finito i soldi per la benzina ad Amarillo, Texas. Ai tempi, Nick era un guidatore iper prudente e persino timido. Era stato Fife a finire in un campo di pannocchie con la vecchia Oldsmobile rubata e a rischiare di tamponare un camion fermo a un semaforo, a Oklahoma City.

Dieci minuti dopo, quando Nick inchioda davanti all’Happy Jack’s Bar & Grill a Revere, sulla Route 1, e spegne il motore, Fife riesce finalmente ad afferrare la moneta dal cruscotto.

Incredibile, dice.

Senza preavviso, senza evocarlo, gli cala davanti un pallido velo che offusca e oscura, nella sua testa, il ricordo di essere seduto sulla Mustang di Nick nel parcheggio dell’Happy Jack’s Bar & Grill. Nick Dafina e quel suo quasi accidentale ritorno a Strafford perdono di colpo interesse, per Fife. Gli torna in mente, invece, la sua stanza al Rumford College, svuotata di ogni suo oggetto personale: vestiti, libri, disegni, coperte, asciugamani. Gli appare strana, pubblica e impersonale, pronta per un altro borsista diciottenne che la occuperà nell’istante preciso in cui lui chiuderà la porta e lascerà l’edificio.

I non-borsisti condividono stanze piú grandi o appartamenti, ma il college alloggia i cinque o sei studenti vincitori della War Memorial Scholarship in piccole stanze singole situate in fondo ai lunghi corridoi del dormitorio, una per ciascun piano, che tanti anni prima dovevano essere occupate, ognuna, da una cameriera o da un maggiordomo a disposizione dei ragazzi. Secondo il responsabile che ha accolto Fife alla registrazione, la stanza singola sarebbe un privilegio. Fife, però, sa bene che non è cosí. È uno dei tanti modi con cui il college impedisce che i borsisti come lui si mischino indiscriminatamente con i figli dei capitani d’industria, i figli di uomini come il padre di Roger Callahan, che pagano la loro retta. Fife spegne la luce nella stanza, si carica in spalla il borsone della biancheria e spinge con un piede la valigia davanti a sé, in corridoio, per poi richiudere la porta senza far rumore.

Il corridoio, sfolgorante di luce al neon e piastrelle verdi, è deserto a quest’ora. Persino i gemelli di Washington, D. C., due tipi enormi sempre ubriachi che fanno parte della squadra di lotta e hanno l’appartamento all’altro capo del corridoio, sono crollati a dormire, sfiniti dopo aver trangugiato birra e giocato ai domatori con le sedie fino alle due di notte. Arriveranno di nuovo in ritardo alla lezione delle otto, pensa Fife passando davanti alla loro porta.

Scende i tre piani di scale fino al pianterreno e dal bel tepore del dormitorio riscaldato esce al freddo pungente dello spiazzo coperto di neve. Nel buio, avvicina il suo Timex alla faccia: sono le 3,15. Si ferma per un attimo sull’angolo dove due dei quattro dormitori in pietra si congiungono a L. In alto, i rami scarni degli olmi e delle querce cozzano tra loro mossi dal vento. Un cane abbaia lento, costante, da qualche parte in paese, ai piedi della collina. Il vento spolvera i tetti facendo volare folate di neve, e lungo il vialetto deserto, dallo spiazzo dei dormitori verso il centro del campus, i suoi stivali fanno scrocchiare la neve compatta e il ghiaccio.

I vialetti, lí nel centro del campus, solitamente cosparsi di sale al mattino poco prima che gli studenti vadano alla messa quotidiana, sono ghiacciati, e Fife, davanti alla Wiggin Hall, la palazzina di Geoscienze, scivola e rischia di cadere. Sposta il borsone della biancheria dalla spalla destra alla sinistra e, dopo aver cambiato di mano anche la valigia, riprende a camminare con piú attenzione, finché non esce dal comprensorio e si avvia lungo la strada a due corsie, appena pulita dallo spazzaneve, che porta in paese. Quando passa per il centro dell’abitato, alcuni lampioni formano pozze ovali di luce pallida nei giardini e nelle stradine laterali. Si volta a guardare gli ottocenteschi edifici in pietra che risalgono la collina fino ai dormitori in cima.

Nessun rimpianto, pensa. Nessuno. So quel che faccio. Sono convinto.

Il rumore di un’auto che slitta e sbanda lungo la strada da qualche parte alle sue spalle lo convince a scavalcare i cumuli sul ciglio e a muoversi nella neve fresca alta al ginocchio, fino a un olmo dove si accuccia e aspetta per evitare di essere visto. L’auto si avvicina lenta, una Ford station-wagon con due uomini a bordo che fumano sigarette. La freccia posteriore segnala a nessuno una svolta a destra un centinaio di metri piú avanti, sulla statale che si collega alla Everett Turnpike una quarantina di chilometri piú a sud. Dopo di che l’auto scompare.

Fife decide di raggiungere la stessa svolta, dove proverà a chiedere un passaggio. Non può rischiare di essere visto in paese da un professore o da uno studente piú grande che soffre d’insonnia ed è finito a bere caffè al College Café, aperto tutta la notte. Uno studente del Rumford in giro a quell’ora con una valigia e una sacca. Hmmm. Strano. Preoccupante. Sarà il caso di chiamarlo e di domandargli dove sta andando cosí tardi. Fife lo liquiderebbe con una risposta secca, al che quello telefonerebbe a casa del rettore, svegliandolo per dirgli che uno studente, chiaramente una matricola, sta fuggendo a notte fonda.

Lavori qui all’Happy Jack’s? domanda Fife a Nick. Cioè, è questo il tuo lavoro? Il ricordo che ha scalzato il ricordo precedente scivola via e scompare dietro una cortina di neve che cade, come se Fife fosse imbarazzato o spaventato dalle scene della sua fuga dal Rumford College, e cosí ritorna con Nick all’Happy Jack’s Bar & Grill sulla Route 1, a Revere, dieci anni dopo.

Sí, faccio il barista qui tre sere alla settimana, dice Nick. Non è granché a vederlo a quest’ora di giorno, osserva, ma è proprio un bel localino. C’è una band che suona. E nelle sere del fine settimana ci vengono in massa le studentesse del Simmons College, dell’Endicott e della Salem State. Rimorchia un bel po’ di fica, lí, aggiunge.

Ti sei mai sposato, Nick?

Eh, sí, si è sposato, certo. Ed è ancora sposato, per la legge. Lui e la moglie, però, non vivono piú insieme da quasi un anno. Lei è una brava cattolica e non vuole sentir parlare di divorzio. E per lui non è un problema. Almeno finché non gli verrà voglia di sposare un’altra donna.

È andata male, eh? Con il matrimonio, dico.

Sí, uno schifo, dice Nick. Lei ha finito per farlo uscire di cranio. Lui stava cercando di diplomarsi al college e quando gli è morto il padre la situazione si è fatta insostenibile, cazzo.

Non sapevo di tuo padre. Mi dispiace. Dev’essere stata dura. Ti sei sposato quando eri ancora al college?

La morte del padre non è stata poi cosí dura, come cosa. Ah, quante ne sono successe dall’ultima volta che si sono visti. Non parlano da quando Leo se n’è andato a… Da quando era partito per Cuba o dov’era andato. Giusto? Ricordo che ne abbiamo parlato, quando sei tornato dal Rumford.

Nick era all’Holy Cross, ai tempi. Poi, ha abbandonato, dopo la sessione primaverile, e si è iscritto per un po’ alla Boston University, ma neanche lí ha funzionato. Fare il pendolare tutti i giorni e vivere con suo padre, che teneva la casa come una cazzo di canonica, era una merda. Perciò, l’estate successiva è partito per l’Europa. Arrivato l’autunno, quando il padre gli ha detto: Dài, Nick, è ora di tornare a scuola, lui gli fa: Mi spiace, pa’, resto nel nostro vecchio Paese. Dato che Nick si trovava a Napoli, il padre, che come Fife sa bene era innamorato dell’Italia, dice: Okay, Nick, resta a Napoli, ma iscriviti a qualche facoltà. Qualcosa di regolare, ha in mente lui, e dopo un po’ sistema il figlio in una ditta di import-export di olio d’oliva che sta cercando di mettere in piedi. Questo, almeno, è il suo progetto. Nick gli dice: Okay, pa’, mandami solo cinquecento dollari al mese e il necessario per una bella Lancia o per un’Alfa, e poi vediamo cosa succede. Quel che succede è che lui incontra questa ragazza italiana, Gina, una che dipinge, che studia arte a Roma ed è a Napoli in vacanza. Ragazza di gran classe, duchi e duchesse di tutti i tipi come zii e zie, e la pollastrella non parla d’altro che di andare in America. Pensa un po’! Una nobile italiana, eppure vuole andare in America a fare la cazzo di vita dell’emigrata. Lui perciò le dice: Okay, e vengono sposati dal cugino di lei, il cardinale, dopo di che partono per l’America, stabilendosi a Boston, dove lui non vede l’ora di terminare gli studi e diplomarsi al college. Persino nella cazzo di Organizzazione ci vuole la cazzo di laurea, ormai, anche se lui non ha particolarmente voglia di lavorare per l’Organizzazione, dice. Comunque, alla fine della fiera, all’Holy Cross non lo riammettono, e lui deve iscriversi alla Northeastern. Ricomincia ad andare a scuola tutti i giorni, okay?

Okay.

E suo padre è incazzato con lui per mille motivi, perché è tornato negli Stati Uniti, perché si è sposato un’italiana, per non parlare di tutte quelle cacate nobiliari, che per il padre non significano niente, e anche perché è finito alla Northeastern, perché studia ancora al college a venticinque anni. Il padre gli dice: Nick, è ora che ti guadagni il pane da solo. Nick, allora, dice a Gina: Vedi se riesci a farti mandare qualche lira dal ducato. Magari suo cugino, il cardinale, riesce a spedirgli qualcosa dalla Banca Vaticana, cosí lui può finire gli studi e trovarsi un lavoro come si deve. Gina, però, si è ormai trasformata in una cazzo di italo-americana. Dice: Va’ a farti fottere, Nick! Non ho intenzione di mantenere un marito americano. E neanche la mia famiglia ne ha intenzione. Va’ a scavare i fossi, se non trovi altro, come ogni bravo marito americano. Tipo che lei è ancora l’artista, e non parla bene l’americano, e non prova neanche a impararlo, perciò lui deve andare in giro a farle da interprete, maledizione, ogni volta che lei deve comprare un cazzo di pennello. Le dice: Okay, al diavolo, e si trova un lavoro notturno, come barista in un locale di Boston. E per i due anni successivi, frequenta la Northeastern di giorno e lavora di notte, abbastanza da mantenersi con Gina e pagarsi l’affitto di un bilocale in un palazzo del North End, mentre lei dipinge quadri e si trasforma in una cazzo di aspirante immigrata italo-americana. In quartiere, tutti parlano italiano, perciò lei si sente a casa. Dopo di che muore il padre di Nick.

Mi dispiace.

Fa niente, dice Nick. A quel punto, ormai, lui lo odiava, quello stronzo, e per come è morto, alla fine, è andata bene. Suo padre è rimasto ucciso in un incidente aereo mentre tornava dalle isole Turks e Caicos, dove aveva aperto un conto in una banca per impedire al governo americano e a certi suoi colleghi e al figlio di mettere le mani sul denaro esentasse che accumulava da anni nelle cassette di sicurezza della vecchia Strafford Trust Bank. L’aereo su cui viaggiava è precipitato prima che potesse spostare il denaro, e Nick è riuscito a mettere le mani su tutti quei soldi. Dice a Gina di trovarsi un italo-americano del North End da scopare e trasloca nella casa del padre in Lake Street. Gli studi li ha finiti, perciò si trova quel lavoro all’Happy Jack’s. Come facciata, principalmente, ma anche per evitare di impazzire, di notte, nella casa paterna. Non è malvagio come lavoro, tre notti a settimana. Senza contare che c’è fica in abbondanza.

Quindi sei sistemato, ora.

Eh, già. Si è comprato la Mustang, con cui l’estate ventura parteciperà alle corse, giú a Lime Rock. Il padre ha lasciato un mucchio di soldi. Lo stronzo ha avuto fortuna a morire in un incidente aereo, invece che con le scarpe di cemento nel porto di Boston, perché prima o poi qualcuno dei suoi amici avrebbe scoperto quello che stava facendo. Stava fregando gente piú in alto di lui, dice Nick, e non mi riferisco solo ai federali. Quando il padre è morto, Nick ha dovuto soltanto pagare la tassa di successione sulla casa e sui mobili e i vecchi dipinti che c’erano in casa. Non c’era traccia di nient’altro. Nessun documento. Tutto in contanti.

E Gina?

Lei non sa niente. Non gli ha mai creduto quando le diceva delle attività del padre. Credeva che lui avesse fatto soldi vendendo birra verde agli irlandesi nel giorno di San Patrizio o cose del genere. È piú o meno quello che pensavano anche i federali. Inoltre, lei vuole tornare in Italia, adesso, e se lui si offre di pagarle il biglietto aereo, forse lei acconsentirà al divorzio senza pretendere gli alimenti. A quanto pare, lei non è poi cosí aristocratica, quanto a crediti. Non ha un cazzo di centesimo, se si eccettua qualche dollaro che Nick ogni tanto le manda. Di solito, si limita, una volta al mese, a mandarle la paga di una settimana di lavoro all’Happy Jack’s, quarantasette dollari al netto delle tasse. Lei è convinta che lui riesca a campare grazie alle mance che recupera lavorando part-time al bar, perché non deve pagare l’affitto da quando ha ereditato la casa del padre.

Fife domanda: Quanto pensi che potranno durarti i soldi di tuo padre, Nick? Non puoi usarli per comprare azioni o titoli e neanche investirli in immobili. Sarà tutto denaro irregolare, no? Non puoi neanche depositarlo in un libretto di risparmio per ricavarne gli interessi.

Nick dice che per come sta vivendo spende otto-novecento dollari al mese. A quel ritmo, anche calcolando l’inflazione, è a posto per altri settantacinque anni circa.

Cristo!

Puoi scommetterci il culo, baby. È la classica cosa che può fare di me uno scapolo a vita. Dài, finisci, cosí ne ordiniamo un altro. E metti via quel cazzo di portafoglio, Cristo santo. Se Nick Dafina ti dice che offre lui, offre lui.

I ricordi di Fife scorrono come diapositive in un proiettore. Gli torna in mente la neve che scende vorticando nel buio, picchiettandogli la faccia e le spalle. Raccoglie la valigia e il borsone e procede un po’ a fatica lungo il ciglio della strada, affondando nella neve farinosa fino alle caviglie, per un altro centinaio di metri. I suoi piedi costeggiano la statale, urtando di tanto in tanto contro la neve indurita a lato. È da un pezzo che non passano auto. E che non si vedono luci di case. È al sicuro, ha superato il paese di dieci o dodici chilometri forse, e se adesso dovesse apparire un’auto lui proverebbe a chiedere un passaggio, perché ha freddo, molto piú freddo di quel che aveva previsto. I piedi, in particolare, sono gelati e diventano ogni secondo piú pesanti. La valigia e il borsone si sono trasformati in blocchi di ghiaccio, e lui riesce a trasportarli, al massimo, per un centinaio di metri alla volta, dopo di che deve posarli e infilare le mani inguantate nelle tasche del loden, ritraendo le dita irrigidite e chiudendole a pugno all’interno del guanto. Le orecchie e la testa sono protette dal cappuccio ben legato, tant’è che deve ruotare il tronco per guardare la strada alle sue spalle, nella speranza di vedere un automezzo in arrivo. Dal buio, però, non arriva che il vento, un vento raggelante. La faccia è ormai intorpidita. Cristalli di neve secca hanno formato una cresta sulle sue sopracciglia. La fronte gli pulsa tanto da fargli male. Ha gli occhi semichiusi che piangono esili lacrime dagli angoli, mentre le narici sono indurite dalla brina. Respira dalla bocca a brevi ansiti.

La neve cade piú pesante, ora, e il vento che gli soffiava alle spalle si è gradualmente spostato a sinistra. Fife si china, toglie un po’ di neve dalla valigia e dal borsone, solleva la valigia con una mano e poi con l’altra si carica il borsone su una spalla. Continua a camminare. All’improvviso, dei fanali spargono luce nel buio dietro di lui, e Fife resta sorpreso dalla vastità dello spazio aperto che lo circonda. Guarda a bocca aperta per un secondo la strada bianca e liscia, molto piú ampia e liscia di quel che immaginava, e si ricorda di dover implorare un passaggio solo quando l’auto gli è sfilata davanti ed è scomparsa, sprofondandolo di nuovo nel buio e nel minuscolo scrigno del suo corpo che congela lentamente.