Questo è ciò che ricorda, e cerca senza successo di far vedere e sentire anche a Emma tutto quello che lui ha visto e udito.
Che il taglio del terreno, a un certo punto, è cambiato in modo radicale e repentino nel New Hampshire, a nord di Franklin. Lui, però, ci fa caso solo ora che è quasi buio. Se prima la strada incideva la piana costiera, ora segue un fiume verso monte, fiancheggiando controcorrente il suo corso in direzione nord, verso la sua sorgente glaciale. In principio, nel New Hampshire meridionale e centrale, il fiume era il Merrimack, ma quest’ultimo, a nord di Franklin, muta il proprio corso e si disperde verso nord e verso est, con piccole rapide e poi torbiere e paludi, prima di allargarsi a formare due laghi grandi e freddi.
Fife taglia diagonalmente verso ovest all’altezza di Plymouth e attraversa il piú ampio e profondo fiume Connecticut a Orford, facendo il suo ingresso nel Vermont. Alla sua sinistra il cielo ha un colore tra il rosa annacquato e l’arancione. Procedendo, l’ampia e ombreggiata valle si restringe e le colline vengono sostituite da montagne di granito su cui resistono chiazze di neve antica. Querce e olmi, faggi, ciliegi tardivi e larici americani si aggrappano ai pendii scoscesi e aguzzi, prima di cedere il passo alle conifere. Tsughe canadesi e abeti, pini bianchi e di Banks e cedri irsuti si abbarbicano ai ripidi declivi di quei cumuli di detriti glaciali. A Fife piacerebbe vivere in una casa di legno in cima a uno di quei mucchi di pietre. E tenerla contro l’assalto del mondo. Diventare un poeta eremita, come Hanshan.
A causa del vento che soffia dal Canada, la vegetazione scompare a bassa quota, poco al di sopra dei milleduecento metri. Il vento cristallino, lí, raschierebbe via ogni scoria dalla sua mente in una sola stagione. Dovrebbe vivere in una caverna, come un orso, con i pensieri lenti e ispessiti dal sonno, per evitare che il vento e la neve e il ghiaccio lo estinguano. Per sopravvivere, dovrebbe limitarsi a pensieri semplici e chiari come torrenti di montagna. Questo vorrebbe. Crede sia ciò di cui ha bisogno.
La strada torna a ondeggiare verso nord, poi verso ovest. La valle che la definisce da piú di centocinquanta chilometri si sta restringendo e da qui in avanti, fino in Québec, continua con un alternarsi di aperture intervallate da altopiani piuttosto elevati. Non appena il sole è andato via, il freddo è calato alla svelta, premendo come una mano inguantata sul terreno tortuoso e in brusca ascesa. L’orizzonte a est è scomparso nel buio. A ovest, è un graffio rosa sempre piú tenue inciso a mezza altezza nel cielo. Sotto quella linea, Fife scorge le luci di rare fattorie e, piú a sinistra, le luci di Montpelier, la capitale dello stato, che ha le dimensioni di una piccola cittadina. Cinque chilometri a est di Montpelier, imbocca un’angusta strada a due corsie che segue le anse del fiume Winooski. Tsughe e pini alti trenta metri incombono su entrambe le rive del fiume, e al di là degli alberi, dove brandelli di neve incrostata luccicano nell’ultima luce, si ergono le montagne, nere, enormi, impenetrabili. Ha le mani fredde. La faccia fredda. Non riesce a trovare l’interruttore del riscaldamento e non vuole fermarsi per dargli la caccia nel labirinto di lucine e manopole, pulsanti e levette. Intravede il cielo, ma solo piú avanti e in alto, un manto blu scuro trapunto di stelle. Una luna crescente lampeggia nei varchi tra le fronde. Fife cerca il Grande Carro e invece trova quello Piccolo: l’Orsa Minore. E all’estremità del manico piegato c’è la stella polare. Il Piccolo Carro è capovolto. Segno di pioggia? Tracciando una linea dalla stella polare, si arriva a due stelle del Grande Carro. O è il contrario? Tracciando una linea dalle ultime due stelle del quadrangolo dell’Orsa Maggiore – il Grande Carro – si trova la stella polare. Non ricorda granché dell’unico corso di astronomia che aveva seguito al Richmond Professional Institute. Il fatto di attribuire un nome alle stelle dà anche a lui una collocazione nell’universo, non per trovare la rotta da un luogo all’altro, ma per conoscere l’esatta posizione del suo corpo sul pianeta in relazione al resto della galassia. Individua e nomina Vega, a est. E di fronte, posata sull’orizzonte, Cassiopea.
Una ventina di chilometri piú a nord di Montpelier, Fife entra in una selva di ombre sussurranti, interrotta solo di rado dalle luci delle fattorie. Segue una curva veloce della strada – che ricorda di aver percorso anche a gennaio durante la sua gita al Nord con Alicia – e si infila in un varco tra le montagne. Il fiume Winooski gorgoglia impetuoso lungo la strada, e alte rocce si affollano pressanti alla sinistra di Fife sulla riva opposta. Non riesce a vedere le rupi: vede soltanto la strada illuminata dai fari della Plymouth. Sa che le pareti di roccia sono lí, nell’oscurità piú profonda. E la grande ansa del fiume, ricorda, segna la presenza, a meno di dieci chilometri, del paesino di Plainfield: venti o trenta case, una manciata di negozi e altrettanti edifici, tra pensionati universitari, palazzi per aule e uffici e impianti vari del Goddard College, di cui Fife sta per diventare un dipendente piú o meno retribuito. E in paese c’è anche la casa di cui entro domani pomeriggio lui e Alicia saranno proprietari e in cui andranno ad abitare.
Giunto a un bivio, meno di due chilometri a sud di Plainfield, svolta a destra su una strada non asfaltata che si allontana dall’abitato. Un centinaio di metri piú avanti, gira a sinistra su uno sterrato ancora piú stretto che attraversa il Winooski su un ponte di legno a una sola corsia, oltrepassa il segnale che annuncia l’ingresso a Pierce’s Mills, una frazione priva di un vero abitato, una località senza un centro, e si immerge nella foresta. Sfrecciando per avvallamenti e avvitandosi adagio su e giú per i pendii, aspettandosi a ogni nuova ascesa di vedere la strada spianarsi, arriva in cima a una cresta che lo accompagna sulla destra da quando ha lasciato la strada principale dalle parti di Montpelier. Poi scavalca la cresta, e lí non vede altro che un’ampia distesa di cielo stellato nero-blu. Discende di un centinaio di metri e all’improvviso è a destinazione. Lascia la stradina per imboccare il vialetto di ghiaia pieno di solchi per cui si accede alla casa di Stanley e, arrivato in fondo, ferma l’auto bruscamente, con un gran frastuono, davanti alla porta aperta del fienile.
Il motore ticchetta nell’improvviso silenzio. I fanali della Plymouth illuminano l’interno del fienile. Ha un’aria fredda e spoglia, come se fosse abbandonato. Magari si sono trasferiti, pensa Fife. Magari, dall’ultima volta che gli ho parlato al telefono, una settimana fa, è successo qualcosa di terribile, e Stanley se n’è andato altrove e non ha potuto dirmelo perché era in grave pericolo. Fife spegne le luci dell’auto, apre la portiera e scende, investito da una folata di gelida aria notturna.
Magari, Stanley ha lasciato Gloria. Magari, l’ha abbandonata per un’altra donna. Stanley e Gloria non hanno figli. Magari l’ha mollata. Facile, quando non ci sono figli.
Inspira a fondo, prende la ventiquattrore e si avvia verso la casa, situata piú indietro e a sinistra del fienile. A causa del freddo e dell’impietosa topografia e degli indiani, la frazione chiamata Pierce’s Mills e il paesino di Plainfield sono stati colonizzati piú tardi degli altri centri del New England. La casa di Stanley, costruita all’inizio dell’Ottocento, è tra gli edifici piú antichi in questa parte dello stato. Circondata da una foresta di seconda e terza crescita, è una tipica casa rurale in tipico stile di Cape Cod, un cubo quasi perfetto con un grande tetto al centro del quale è piantato un grosso camino. Le zone domestiche sono collegate al fienile per mezzo di un pergolato di legno adiacente alla cucina, e la casa, il pergolato e il fienile si affacciano su un’angusta valle e su una serie di morene ed esker che si allontanano in direzione nord. Quando Fife e Alicia sono stati qui a gennaio, Stanley diceva che nelle giornate limpide si vedono la Presidential Range del New Hampshire a est, le Green Mountains del Vermont a ovest, le Berkshire Mountains a sud e il Québec a nord. Tutti gli altri giorni, non si riesce a vedere oltre lo sterrato che si attorciglia oltre la casa e scende verso il fondo alberato della valle.
Gli interventi di Stanley si sono limitati praticamente all’arredamento. La casa non ha elettricità né impianto idraulico, se si escludono un pozzo artificiale, una pompa manuale accanto al lavandino della cucina e un gabinetto esterno. Per riscaldarsi ci sono i caminetti, quattro, e due stufe a legna, una in cucina e una nel grande salotto al pianterreno che Stanley ha adibito a studio. Quando fa freddo, chiudono del tutto le piccole stanze da letto quadrate al piano superiore e dormono in salotto su un materasso steso a terra, davanti al camino. Vivono come coloni del primo Ottocento. Per scelta… ma di Stanley, non di Gloria: Fife ne è sicuro.
Prima ancora che lui possa bussare, la porta si apre, ed eccolo lí, grande e grosso come un orso, la faccia rossa, la barba, il gran sorriso, la salopette e la camicia di lana a quadri. Stanley prende la mano di Fife nella sua enorme zampa e la scuote su e giú, in silenzio ma felice, come se stesse mimando la messinscena di un saluto, dopo di che afferra l’amico e lo avvolge in un abbraccio, sollevandolo da terra prima di mollare la presa. Tenendolo per un polso, lo conduce tutto cordiale in soggiorno e poi lo fa voltare verso la porta della cucina. Raggiante e orgoglioso, come se Fife fosse un dipinto appena terminato, Stanley mostra il vecchio amico a Gloria, che sta arrivando in soggiorno dalla cucina con un mestolo di legno in mano. Ed è cosí che Fife se la figura immancabilmente: mentre arriva in soggiorno dalla cucina con un mestolo o una spatola in mano.
È arrivato! strilla Stanley. Finalmente, è arrivato! Credevamo ti fossi perso! urla. Fife socchiude gli occhi per reazione alla voce tonante dell’amico. Ogni volta che si rivedono a distanza di tempo, lui ha bisogno di un’ora o due per abituare l’udito agli strepitii di Stanley. Una volta gli ha domandato perché gridava. Io! Parlo! Cosí! è stata la risposta.
Gloria sorride a Fife da lontano, senza dir nulla, come suo solito, compensando il frastuono del marito con un ostinato silenzio, ma a quanto pare, stando al sopracciglio un po’ sollevato e al sorriso appena percettibile, è contenta di rivederlo.
Sono stato trattenuto, dice lui, rivolgendosi a entrambi. È raro che gli riesca di rivolgersi soltanto a Gloria. Quando parla, si rivolge o a Stanley o a tutt’e due, come se fossero una sola persona. Fife ha la sensazione che Gloria preferisca cosí. Lui e Stanley sono amici intimi da quando Fife aveva poco piú di vent’anni e Stanley poco piú di trenta, dai tempi di Boston, molto prima che Gloria gli venisse presentata: Ti presento la mia nuova fidanzata! aveva ruggito Stanley, quando lei si era trasferita da lui nel monolocale di Symphony Road. Fife crede che la sua amicizia con Stanley durerà piú a lungo del suo matrimonio, nello stesso senso in cui la loro amicizia esisterà ancora quando Stanley non sarà piú proprietario di questa vecchia casa diroccata nella natura selvaggia del Vermont. Alicia ha seguito l’esempio di Fife. Vede il legame del marito con Stanley come l’unico anello di congiunzione significativo tra le due coppie e, pur sostenendo di provare simpatia per Gloria – e di ammirarla, persino – per la sua disponibilità a sopportare quello che sarebbe per lei un tipo di esistenza e di matrimonio intollerabile, la tratta semplicemente come un ulteriore aspetto inspiegabile della vita caotica di Stanley. Il quale, a sua volta, viene trattato come un innocuo, divertente residuo dell’antica bohème del marito, del suo passato in rapida dissolvenza.
Fife ha provato a vincere le paure di Alicia per l’isolamento che li aspetta ricordandole che avrà almeno Gloria, come amica. Gloria? È scoppiata a ridere. Gloria è carina, lo so, ma dubito che farò mai gli oltre trenta chilometri da Plainfield a casa loro, su quelle strade, poi, solo per sedermi in una stanza piena di spifferi a bere un caffè e a parlare… di cosa? Di quanto è disperata? No, grazie, tesoro. Troverò delle amicizie in paese, immagino.
Infatti, dice Fife. Le ricorda che, per quanto il college sia piccolo, ci saranno diverse giovani donne interessanti con cui fare amicizia. E le professoresse. Ci saranno di sicuro delle donne tra i docenti.
Be’, io avrò due figli che mi terranno occupata.
Certo, certo. Queste cose si risolvono da sole. È sempre stato cosí. Non conoscevano nessuno neanche quando si sono trasferiti a Charlottesville.
Quella era Charlottesville, Virginia, un centro urbano di una certa grandezza a paragone di Plainfield, Vermont, gli fa notare lei. Ma non c’è da preoccuparsi, lei si troverà bene. Vuole anche lei trasferirsi a Plainfield. Non lo farebbe, altrimenti. È una decisione condivisa, gli dice, sorridendo.
Lui le assicura che tutto si sistemerà.
Fife perlustra la frugale semplicità del soggiorno in cerca di una poltrona, senza trovarla. La stanza è la galleria d’arte privata di Stanley. Le pareti intonacate sono coperte da grandi quadri astratti bianchi e neri. Lasciali perdere, quelli, dice Stanley, presumendo che Fife stia osservando i dipinti. Possiamo guardarli domani alla luce naturale. Non sono fatti per essere visti a lume di candela. Vieni in cucina, fa piú caldo, lí, prescrive. Prende Fife per un gomito e lo conduce nella grande cucina, immersa nel bagliore arancione di un paio di lampade a cherosene posate sui ripiani di lavoro e di una terza piazzata al centro del tavolo di pino. Beviamoci una birra! Vuoi qualcosa di piú forte? Il viaggio è stato lungo, eh?
Fife annuisce fiaccamente, rendendosi conto all’improvviso di essere stanchissimo, come se avesse trascorso le ultime ventiquattrore nella spasmodica attesa di un imminente disastro. Sí, una birra fredda è proprio quel che ci vuole, dice. La stanza, calda e raccolta per via del fuoco che arde nella stufa, profuma di pane appena cotto e di carne arrostita. Fife e Stanley si siedono ai capi opposti del lungo tavolo e aprono ciascuno una lattina di birra fredda e tagliano grossi pezzi di cheddar canadese, mentre Gloria si rimette a preparare la cena, lavando e tagliando verdure accanto alla pompa manuale che si trova presso il lavandino di pietra nera, fermandosi a intervalli di pochi minuti per controllare la temperatura del forno e regolare il tiraggio della grande cucina economica. Lo stomaco serrato e i muscoli della schiena di Fife si rilassano. Come se fosse una sensazione mai provata prima, si rende conto di nutrire pura e semplice gratitudine per il fatto di trovarsi lí in quel preciso momento.
Non ho mangiato niente tutto il giorno, esclama, come se fosse sorpreso. Be’, da stamattina a Richmond, perlomeno, ricorda. Gli pare un momento remoto, una cosa di ieri, se non di una settimana fa. E comunque, no, ha mangiato anche un sandwich per pranzo, borbotta, ricordandosi della tappa da Feeney’s, a Strafford, con Nick. Sto perdendo la cognizione del tempo, evidentemente. Gli ultimi giorni sono stati strani.
Gloria sorride e continua il suo lavoro in silenzio, come se aspettasse da lui una spiegazione. Stanley apre un’altra lattina di birra e continua a parlare. Con i suoi baffi folti e la barba e il cespuglio di capelli neri e crespi, sembra un personaggio di un romanzo russo. Ha la faccia larga, con un naso appiattito e occhi scuri, piccoli e ben separati, quasi sperduti dietro gli zigomi alti e prominenti. La faccia di Stanley gli ha sempre ricordato una fotografia di Franz Kline, il pittore, e Stanley si compiace del paragone. Kline ha avuto per anni un posto di rilievo nel suo pantheon di eroi e divinità, qualcosa di piú di un eroe, poco meno di un dio. Da qualche tempo, Stanley si arrovella sull’opportunità di includere tra i semidei un nuovo nome, Jasper Johns, ma non ne ha ancora trovato il coraggio. Johns lo confonde. Stanley sospetta che questa confusione derivi dai pregiudizi che lui ha ereditato dal pantheon di eroi e divinità che finora si sono sempre dimostrati totalmente affidabili. Non lo hanno mai indotto all’eresia, perciò non gli pare del tutto giusto aggiungere questo nuovo nome. Non ancora, almeno. Le implicazioni sono di vasta portata, lo sa, perciò procede con cautela. Se ammettiamo che Jasper Johns abbia ragione, se la sua opera ha davvero rilevanza, allora nella lettura che Stanley dà della storia dell’arte devono esserci dei gravi errori. Per questa ragione è tornato a studiare storia dell’arte, dice a Fife. E con molta attenzione.
Storia dell’arte? domanda lui, sorridendo. È un discorso vecchio, che hanno fatto tante volte. Perché non lasciare la storia dell’arte agli storici dell’arte? Non esistono giusto e sbagliato nel campo dell’arte. Stanley è un pittore, un bravo pittore. E tanto piú lo sarà quanto piú riuscirà a dimenticarsi di cose come il consequenziale dispiegarsi della storia dell’arte, dice Fife, ripetendo quanto detto proprio da Stanley in una precedente occasione. Quelle sono solo stronzate accademiche, dice. Tu hai frequentato un po’ troppo il Goddard dopo le lezioni per chiacchierare in sala professori, aggiunge gioviale.
Fife comincia a rilassarsi. Quella birra ha un gusto meraviglioso. Le schegge di formaggio che gli si sbriciolano in bocca e il calore pressante della stanza e l’odore della legna che arde rumorosa nella stufa e il faccione intenso del suo vecchio amico dall’altra parte del tavolo si armonizzano in modo naturale, e Fife si domanda per un attimo se abbia fatto bene, l’inverno scorso, a scegliere una casa in paese, a Plainfield, invece di optare per qualcosa di simile a questo posto, alla casa di Stanley, una fattoria del primo Ottocento, radicata come un’antica quercia sul fianco di una montagna a diversi chilometri dal primo centro abitato. Solo in un secondo momento ricorda che Alicia ha escluso in modo categorico di poter vivere in un tale isolamento, senza acqua corrente, riscaldamento centralizzato ed elettricità. Soprattutto con un bambino piccolo e un neonato. Stanley e Gloria sono come gli hippie, gli ha detto, che giocano a vivere in campagna.
Ah, Stanley, dice Gloria all’improvviso, senza alzare gli occhi dalla pentola in cui rimesta delicatamente con un cucchiaio di legno. Non dimenticarti di dire a Leo della telefonata.
Quale telefonata? domanda Fife. Ha telefonato Alicia? Cristo, le avevo detto che l’avrei chiamata appena arrivato.
No, sua madre, dice Stanley. Come si chiama? Jessie? Oggi pomeriggio, saranno state le quattro. Mi ha chiesto di dirti di farti sentire, appena arrivato. A qualsiasi ora. Parole testuali, dice, sorridendo alla sua birra, rigirandosi la lattina tra le mani grassocce.
Sarà meglio che vada a telefonare, allora. Dov’è il telefono?
Risponde Gloria, come se Fife l’avesse domandato a lei. Lí, alla parete.
Fife si alza infiacchito dalla sedia, attraversa la cucina e compone il numero di Richmond, lo stesso che ha memorizzato piú di cinque anni fa, quando Alicia è tornata a casa dal college per le vacanze di Natale e lui si aggirava per le fredde e ventose strade di Boston, ripetendosi in continuazione che sarebbe stato meglio per lui sposare subito quella ragazza, e che andasse come doveva andare. A posteriori, è meglio affrontare il senso di colpa per un atto compiuto piuttosto che fare i conti con il borbottante rimpianto di essere stati troppo timidi, ha deciso. E a quel punto, presa la decisione, ha subito cominciato a smaniare per sposarla. La sua smania, però, era programmatica, non impulsiva. A quei tempi, credeva che tutti gli errori e i disastri della sua vita derivassero dalla timidezza, non dai suoi sconsiderati impulsi.
Gli risponde Benjamin.
Pronto, Benjamin. Sono Leonard, dice Fife. Domanda al suocero se va tutto bene. Dice che è appena arrivato a destinazione, e Stanley lo ha informato della telefonata di Jessie nel pomeriggio. Tutto a posto, da quelle parti?
La voce di Benjamin è stranamente fioca. Di solito, parla con la forza di un uomo che crede ai propri cliché e luoghi comuni, ma ora dev’essere accaduto qualcosa di inaspettato, perché balbetta con una voce flebile e lontana. No, Leo… adesso… sí, va bene. Non preoccuparti. Noi… ci siamo presi un bello spavento…
Come sarebbe a dire? È successo qualcosa a Cornel? Sarebbe pronto a ucciderli se fosse successo qualcosa a Cornel mentre era affidato alle loro cure. Suo figlio, lasciato ai nonni e alla servitú e a una madre al sesto mese di gravidanza. Fife avrebbe dovuto rimandare tutta questa operazione a dopo la nascita del bambino. O forse avrebbe dovuto lasciar perdere il lavoro al Goddard e la casa in paese. Restare in Virginia. A Richmond. Accettare la proposta del padre e dello zio di Alicia e assumere la responsabilità dell’impresa di famiglia.
No, no, no. Cornel sta benissimo. Dorme, ora. No, Cornel è a posto. Sissignore.
Che cosa c’è che non va, allora?
Fife sente la voce di Jessie. Si immagina Benjamin che lentamente diventa invisibile. Pronto, Leo, sei tu? Leo, sono Jessie.
Sí! Che cos’è successo?
Alicia sta bene, Leo, però ha avuto un aborto spontaneo. Questo pomeriggio.
Un aborto spontaneo? Oh, Cristo, no! Lei sta bene?
Sí.
Il bambino… il feto…
Era una femmina, Leo. Non era a posto, però. Era malformata, ha detto il dottore. Il dottor Gold, bravissima persona. Un ebreo. Suo padre è stato il mio ostetrico, oltretutto. Per caso era di turno quando Alicia è arrivata al pronto soccorso.
Malformata? È per questo che la gravidanza è andata a monte? Cioè, Alicia non è caduta o cose del genere, vero?
No, no. È successo tutto molto in fretta. Subito dopo pranzo. Ha cominciato a perdere sangue e abbiamo chiamato un’ambulanza. Alle quattro del pomeriggio si era già rimessa. Non c’è niente di cui preoccuparsi, Leo. Alicia sta bene, adesso. Forse è meglio cosí, dato che la bambina era… be’, te l’ho detto. Ho parlato con lei un’ora fa. Mi ha detto di dirti che ti ama e che si sente bene, solo un po’ stanca, e che non devi preoccuparti. È triste, ovviamente. È stato un grande dispiacere per noi tutti.
È il caso che io torni subito a Richmond, secondo te? Già stanotte, intendo. O è meglio che io aspetti domani? domanda, colpito dalla dizione perfetta di Jessie, fatto insolito in una persona del Sud. La moglie di Robert E. Lee parlava cosí, probabilmente. Alicia ha lo stesso accento quando si arrabbia o si emoziona o quando sta scopando: in quei casi, perde la forzata inflessione Tidewater che tanto infastidisce Fife.
Jessie dice che secondo lei non è necessario che Leo si precipiti a Richmond. È tutto risolto e sistemato, ormai. Alicia è al sicuro e di ottimo umore, considerando quello che ha passato. Resterà in ospedale solo un paio di giorni e poi tornerà a casa. Jessie, dopo una breve pausa, aggiunge che, se proprio doveva succedere, meglio che sia successo a Richmond, e non a Charlottesville, a casa loro. Là non avrebbero avuto nessun aiuto, osserva, e Alicia avrebbe avuto dei problemi a trovare qualcuno a cui affidare Cornel e la casa con un preavviso cosí breve.
Sí, credo tu abbia ragione. Cornel sta bene?
Certo! Gli ho appena detto che la mamma è stata male ed è dovuta andare all’ospedale per qualche giorno, finché non si rimetterà. Cornel è un bambino molto sereno, Leo, aggiunge, come se fosse lei la fonte della serenità del nipote.
Be’… ma, secondo te, non potrei telefonare ad Alicia in ospedale?
Non ha ancora il telefono. Jessie ha chiesto che gliene mettessero uno in stanza, ma lo faranno solo domattina. In ogni caso, Alicia starà dormendo, a quest’ora. È stata una giornata tremenda, per lei. E profondamente traumatica. Puoi immaginare il dispiacere, dice. Anche se è stato un aborto spontaneo, Alicia ha dovuto sopportare tutto il travaglio e il parto. Per sua fortuna, il travaglio è stato breve. Quello di Jessie è durato piú di quaranta ore.
Sí, giusto. Quindi, non è il caso che io chiami.
Chiamerà lei domani, a casa dei tuoi amici.
D’accordo. Starò qui domani mattina finché non la sento, assicura Fife.
No, Leo, dice Jessie. Meglio che lui faccia quel che deve fare e veda il funzionario della banca e l’agente immobiliare e l’avvocato per la chiusura dell’affare, come previsto. Magari, il telefono nella stanza di Alicia lo metteranno un po’ piú tardi, e non ha senso che lui sprechi l’intera giornata ad aspettare la sua chiamata. Quando tornerà a Richmond, lei sarà già a casa al sicuro. Qui la situazione è sotto controllo, Leo, gli garantisce.
Probabilmente ha ragione lei. Fife dice: Grazie, Jessie. E grazie anche a Benjamin. Digli che gli sono grato. Sono grato a entrambi. Domani sarò in giro per Plainfield tutto il giorno, credo. Sai, per incontrare l’agente immobiliare e l’avvocato, per andare in banca eccetera. Ma tornerò qui ogni tanto a casa di Stanley, per vedere se Alicia si è fatta sentire. Okay?
Mi sembra una buona idea, caro, dice Jessie. Non deve preoccuparsi di niente. Ha già tante cose a cui pensare, lí nel Vermont. Di tutto il resto si occuperanno loro. Tu cerca di passare una buona nottata, caro, gli dice.
Fife la saluta, e Jessie riaggancia per prima, lasciandolo per alcuni secondi ad ascoltare le centinaia di chilometri di filo inerte che si srotola verso sud lungo strade e autostrade, dalla cucina di Stanley Reinhart fino al telefono Princess beige che si trova sul comodino accanto al letto a baldacchino di Jessie e Benjamin nella grande casa in muratura di Richmond, Virginia, sull’altura che sovrasta il fiume James. Fife lascia cadere la cornetta sulla forcella e torna a sedersi a tavola.
Cazzo, quanto mi dispiace, Leo, dice Stanley. Alicia sta bene, vero? Gloria ha smesso di mescolare ed è in piedi in silenzio accanto alla cucina a legna, con il mestolo che le penzola dalla mano.
Sí, sta bene. Gli torna in mente la sua pancia tonda e tesa, come l’ha vista quella mattina, nella luce grigia della camera da letto, e prova a immaginare come dev’essere adesso che il bambino non c’è piú. Sarà sgonfia, non rattrappita. Si sarà afflosciata, come una tenda senza sostegni. Una bambina. Non le hanno ancora dato un nome. Dovranno darglielo, probabilmente. I Kennedy l’hanno fatto. Ma erano cattolici. Forse è la legge canonica, non quella civile, che richiede ai genitori di dare un nome a un bambino nato troppo presto per poter sopravvivere. Si rammarica di non aver pensato a darle un nome, insieme ad Alicia. Un nome per la loro bambina malformata e mai nata. Non un nome qualsiasi. Patrick Bouvier Kennedy. Patricia? Dovranno farle il funerale? Seppellirla?
PATRICIA BOUVIER KENNEDY FIFE
31 MARZO 1968 - 31 MARZO 1968
La bambina non ha neanche mai respirato, e loro devono farle il funerale? E seppellirla al cimitero? Non ci aveva mai pensato, ma è vero, un essere umano ha bisogno di un suo posto al cimitero. A un uomo non basta possedere un pezzo di terra e una casa, un fienile per i macchinari e la legna per il fuoco. Non basta avere un pozzo per l’acqua e uno scarico per i liquami e mobili per il comfort e un’automobile per trasportare la famiglia e attrezzi per riparare le cose quando si rompono. Vestiti per sé e per i suoi e piatti e pentole e padelle con cui preparare da mangiare. No, un uomo ha pur sempre bisogno di un piccolo angolo di terreno, preferibilmente su una collina, in un cimitero poco fuori dall’abitato, dove seppellire i corpi dei figli nati morti, dei bambini nati cosí presto da non aver neppure un nome.
Alicia starà dormendo, ora. In pace, spera Fife. E Cornel. Il figlio che solo di rado gli sembra non essere figlio di qualcun altro, di un uomo che nessuno di loro due ha mai conosciuto. Cornel è piuttosto un figlio di sole donne, un maschietto il cui parente maschio piú prossimo è il nonno materno, non suo padre. Fife non ha motivo di provare questo sentimento nei confronti del figlio, se non perché non riesce a considerarsi padre di nessun figlio, di nessun figlio vivo, dovunque esso sia, chiunque sia la madre. Eppure, sa di aver già messo al mondo tre bambini. Due ancora vivi: la figlia abbandonata da qualche parte in Florida con la prima moglie, a sua volta abbandonata, e il figlio affidato alle cure dei nonni e della loro servitú in Virginia. Eppure, malgrado questa consapevolezza, l’improvvisa, inaspettata nascita di una femminuccia e la sua morte immediata, insieme alla grande distanza che lui sente tra sé e questi due eventi, sembrano per qualche istante far breccia nella materia di cui sono fatte le sue percezioni di sé, stratificate, angoscianti, piene di senso di colpa. È un padre, finalmente! Padre di una bambina malformata, una bambina nata morta e senza nome e troppo presto. Lui, però, è un padre lo stesso.
Gloria posa i piatti sulla tavola, piano piano. Gli uomini si alzano e vanno in soggiorno. Stanley domanda, voltandosi, quanto ci vorrà perché la cena sia pronta.
Venti minuti, risponde Gloria.
Facciamo due passi, propone Stanley.
Fife lo segue ed escono dalla casa, avviandosi lentamente per la strada sterrata che scende verso la valle, nel buio freddo e profondo, parlando sottovoce delle improvvise variazioni del terreno, di come sia impossibile impararne l’andamento, perché non ci sono costanti.
Sono antiche, queste montagne e colline. Pre-cambriane. Le montagne piú antiche del continente. Neanche i ghiacciai sono riusciti ad allinearle. L’unica possibilità di conoscere questo territorio è quella di memorizzarlo, dice Stanley. La sua voce sembra colorata di stanchezza, come se avesse già provato in ogni altro modo.