Ventidue

Fife racconta che le lampade a cherosene, dall’interno della casa, soffiano sullo sterrato una luce color delle ossa vecchie che, nelle tenebre sempre meno fitte, dipinge teschi sul muretto in pietra lucido di brina sul lato opposto della strada e, appena oltre, una schiera di stentati e neri pini di Banks.

Fife cammina svelto per tenere il passo di Stanley. I contorni tondeggianti e grigi del suo fiato si proiettano con decisione in avanti, e lui si ricorda che camminare con Stanley richiede impegno. Stanley non si limita a camminare, anzi: lui marcia. Fife, invece, si sente come se il corpo fosse rimasto ad arrancare da qualche parte alle spalle di entrambi. Si sente rigido e improvvisamente pesante per il freddo, la zavorra delle braccia e delle gambe sempre piú difficile da reggere. Inizia a temere che, nonostante il suo desiderio di procedere, sarà costretto a fermarsi e a restare indietro, lí in mezzo alla strada, da solo, mentre Stanley si allontana nel buio.

Alla fine, fa davvero troppa fatica a muoversi e si arrende. Si ferma e resta immobile, come una stele o un albero. È incapace di spostare anche solo una mano o un piede. Solo gli occhi si muovono. Guizzano svelti dai suoi piedi al duro terreno sottostante, poi alle mani inerti e alla desolata aria circostante.

Dieci metri piú avanti, in rapido movimento, Stanley gli grida, senza fermarsi: Dài, Leo, voglio farti vedere il mio camioncino!

Ah-h-h! latra Fife, e la testa gli parte in avanti, come se fosse stata colpita alla nuca da uno scappellotto. Le spalle e il petto si proiettano in avanti e all’ingiú, le braccia cominciano a mulinare e le gambe scattano all’improvviso, e lui si ritrova a correre con le braccia che oscillano come pesanti pendoli tracciando lunghi archi. In pochi secondi, non solo raggiunge Stanley, ma corre trafelato ben oltre.

Stanley resta a bocca aperta. Fife scompare dietro la prima curva, e il trapestio dei suoi passi sfuma sopraffatto dallo sciabordio del vento tra gli alberi. Stanley lo chiama: Leo! Ehi, Leo! Voglio farti vedere il mio camioncino!

Nessuna risposta. Stanley si mette a corricchiare, aggira la curva e segue la strada per un altro centinaio di metri, fino a una seconda curva dove con notevole pendenza la strada discende a spirale fino in fondo alla valle. Dietro la seconda curva, Stanley vede emergere dal buio la faccia di Fife.

Cristo! Mi hai spaventato! Ti senti bene?

Fife ansima, senza fiato. Sí, sto bene, Io… sono rimasto rinchiuso tutto il giorno, credo. Prima gli aerei, poi l’auto. Non so. E adesso questa notizia terribile da Alicia. Dai suoi genitori, cioè. Il sudore sulla faccia gli si condensa per il freddo. Il gelo lo investe come un vento. Alza il bavero del blazer e si chiude i risvolti sul davanti. Infila i pugni nelle tasche dei pantaloni e poi, con fatica, apre e distende le mani alla ricerca del calore delle cosce.

Stanley dice: Già, brutta storia, amico mio. Mi dispiace davvero tanto. Per tutt’e due. Alicia come sta? Non so, sarà distrutta.

Fife ignora la domanda. Cos’è che dicevi a proposito del camioncino? chiede, respirando con affanno. Ti sei sbarazzato del tuo furgone Volkswagen?

Avevo bisogno di un camioncino. L’ho preso poco dopo che siete stati qui a gennaio. È proprio dietro di te. Alicia comunque sta bene, vero?

Non credo. Lo voleva tanto, questo bambino. Ha sempre voluto avere due figli.

E tu come ti senti?

Io… Sí, insomma, sto bene. Fife si volta e nell’ombra vede un’ombra piú profonda e piú scura. A poco a poco, riconosce il morbido profilo di un pick-up Ford da mezza tonnellata vecchio di trent’anni, parcheggiato con il muso verso la strada. Che cosa ci fa il tuo camioncino quaggiú, cosí lontano dalla strada principale? domanda.

Stanley spiega che ha tagliato legna tutto il giorno, ma alla fine non aveva ancora il cassone pieno, perciò ha lasciato il pick-up dove stava lavorando, insieme alla sega elettrica, all’ascia, alla mazza e a varie accette, abbandonate sopra la legna ammucchiata. Al margine della radura, piú lontano dalla strada, dietro il camioncino, betulle e piccoli aceri giacciono al suolo piú o meno sfrondati, alcuni con i rami, altri completamente spogli. Ha lasciato tutto lí, prosegue Stanley, per poter finire il lavoro alla svelta domattina e portare su tutto nel fienile in un unico viaggio.

Mi piace pensarci, prima di addormentarmi e appena mi sveglio, dice. Si immagina il lavoro finito, le frasche accumulate, il terreno ripulito, il pianale colmo fino all’orlo di legna tagliata, e tutti gli attrezzi puliti e asciugati e disposti in fila sul sedile accanto a lui, e il camioncino che risale lentamente le curve della strada fino al fienile. Mi piacciono i lavori di questo tipo, dice. Ti ripuliscono e schiariscono la mente. Lo stesso vale per il camioncino. Non c’è nessuna sua parte che io non sappia sistemare con le mie mani e con una cassetta degli attrezzi. È una specie di pornografia del lavoro, dice. Serve a mettere un po’ di pepe nella solita vita lavorativa.

Nella vita di Fife non c’è niente di simile a questo. Invidia il piacere che Stanley ricava dal suo camioncino, dai suoi attrezzi, dal suo trafficare. Il pick-up sembra una scultura, pensa Fife. Come se fosse stato collocato apposta, e con grande lungimiranza, su un lato della strada nel bel mezzo di una pozza di oscurità. Ammira quel veicolo, la sua funzionale bellezza pre-bellica, e considera con sincera ammirazione, quando gli vengono elencate a una a una dall’amico, tutte le oculate modifiche: la carrozzeria nera, i cerchioni dipinti, il volante di ebanite, una piccola ventola elettrica accanto al parabrezza che serve da rudimentale sbrinatore.

Stanley gli dice che ha passato febbraio e marzo a rifare completamente il motore, e da solo. Ho imparato a smontarlo e a rimontarlo, dice orgoglioso.

Fife sorride al pensiero del suo corpulento e barbuto amico al lavoro sul suo camioncino nel fienile non riscaldato, intento a risistemarlo in tempo per il taglio primaverile della legna da ardere, nel suo vivaio; al pensiero del ripetersi di quella fantasia meccanica e boscaiola da febbraio fino a ora, di quel manovrare rigido e goffo con chiavi inglesi gelate, sottozero, nel buio del tardo pomeriggio. Fife si immagina Gloria che chiede e richiede a Stanley di dedicare un paio d’ore ad aprire un sentiero nella neve fino alla cassetta delle lettere, per poter ritirare la posta senza doversi mettere gli stivali, ché poi si porta in giro la neve per casa. Stanley continua a lavorare sul suo camioncino. Si dimentica di spalare il vialetto. Ignora tutto ciò che potrebbe interferire con il suo lavoro.

Parlano lentamente, con voce bassa e rilassata, come uomini che stiano dando da mangiare al bestiame in una stalla. Poi Fife domanda a Stanley: Dove porta questa strada?

Questa strada? È Catamount Road. Sai che cos’è un catamount?

No.

Il catamount è il puma. Queste colline ne erano piene. Doveva esserci una tana quassú, tanto tempo fa. Ora sono quasi estinti.

Dove porta questa Catamount Road?

Tra le montagne. È una vecchia strada dell’era coloniale. Alla fine, si collega con un’altra strada ancora piú impervia e antica che raggiunge la Route 82 e arriva a Derby Line. In origine, era una pista indiana, dei mohawk e dei micmac, usata dagli inglesi durante le guerre contro i francesi e gli indiani, e dopo la rivoluzione è stata sfruttata dagli americani nel loro tentativo di invadere il Canada.

Dove va la Route 82 da Derby Line? domanda Fife.

Be’, lí si è praticamente sul confine con il Canada. Potrei raccontarti un mucchio di cose su quel passaggio. Al college ho aiutato diversi ragazzi che volevano sottrarsi alla leva.

Davvero? Fife ne è sorpreso. Non aveva mai pensato che Stanley potesse essere un attivista politico.

Ne sono sorpreso anch’io. Non ho mai cercato di sottrarmi alla leva; anzi, ho fatto due anni di servizio militare, e per questo i ragazzi si fidano di me piú di quanto farebbero se fossi un pacifista integralista. Io, chiaro, ho fatto il militare prima del Vietnam. Con questa cazzo di guerra, però, è come dice Dylan: se non sei parte della soluzione, sei parte del problema, giusto?

Giusto. E quali sono i consigli che dài?

Li invito ad andare in Canada. Distribuisco manuali pubblicati dal Toronto Anti-Draft Programme, che spiega chi contattare in una serie di città canadesi e come ottenere il permesso di soggiorno, come trovare casa e lavoro e cosí via. C’è tutta una rete di supporto, lassú. Per i ragazzi, però, è un gran passo, e hanno paura delle conseguenze. Una volta attraversato il confine, bisogna ricominciare daccapo. Non c’è possibilità di tornare indietro.

Fife fa un passo indietro e indugia ancora un po’ con lo sguardo sul camioncino di Stanley. Poi, a un certo punto, si girano e risalgono adagio il pendio per tornare a casa. Il freddo permea ormai tutti i vestiti di Fife, che comincia a tremare e a battere i denti. Arrivati quasi alla curva, si ferma di nuovo e si volta a guardare in basso, verso il nero della valle e le montagne retrostanti e, al di là delle montagne, il Canada.

Oh, Canada.

Il cielo è un immenso cappuccio tempestato di stelle che si stende da un orizzonte all’altro. Fife non vede piú il camioncino e neanche la strada. Sente la presenza di una conca profonda e vuota circondata da oscure e informi montagne. La valle sottostante si allontana rapidamente dal punto in cui lui si trova sulla collina, si spalanca a creare un’assenza che lui percepisce, un vuoto che attira tutti i suoi atomi, l’intera massa del suo corpo. Riesce a sentirne il rumore che risucchia ogni luce. Assapora quella secca e polverosa negazione, ne annusa le tracce magnetiche e prive di aria. Se fosse su un precipizio, invece che sul pendio di una collina, non potrebbe evitare di lanciarsi.

Il suo sguardo devia da quel ventre vuoto, da quello spazio che ha davanti, e scivola giú verso una radura piatta nel punto piú profondo della valle, dove tutto ciò che cresce e si muove e giace sulla terra circostante si allunga con violenza, come attratto dalla forza gravitazionale del buco nero di una stella collassante. La forza attrattiva è irresistibile per Fife, che protende le braccia e si aggrappa con tutte le sue forze al tronco affusolato di una betulla argentata. Il tempo passa – non sa dire se siano secondi, minuti o ore – finché non trova la determinazione per distogliere lo sguardo dal buco nero, riuscendo di nuovo a immaginare il vuoto soprastante, che riempie la valle come un profondo mare interno. Fife si stacca dalla betulla e si volta verso le montagne piú lontane, esponendo la sua fragile struttura umana alla brutale intensità della massa oscura dei monti. Per qualche secondo, regge il confronto. Respira a fatica, come se avesse visto qualcosa di indicibilmente crudele. È investito da un’onda di senso di colpa. E non ha fatto altro che voltarsi a guardare dov’è appena stato.

Stanley gli domanda se è pronto per tornare su.

Fife dice di sí, che è pronto, e in silenzio ripercorrono il resto della strada fino a casa.