E che cos’ha fatto lui, che gli altri non hanno fatto? Fife non si è mai posto la domanda in questi termini. Per tutti quegli anni si è sempre interrogato al contrario: Che cosa non aveva fatto che invece Stanley e Ralph e Nick avevano fatto? E la risposta era sempre stata la stessa. Il servizio militare.
Domanda sbagliata. Di conseguenza, risposta sbagliata.
Lui era un resistente prima che esistesse una resistenza, dice a Malcolm. La sua cartolina precetto l’ha ricevuta a Boston nel dicembre del 1961, e un mese dopo si è presentato alla visita medica. Domanda a Vincent se sta ancora filmando. È ancora microfonato?
Sí, stiamo riprendendo tutto. E il microfono è quello dell’asta.
Non ho sentito il ciak, dice Fife.
Malcolm batte le mani e dice: Intervista a Leonard Fife, Montréal, 1° aprile 2018. Terza scheda. Dico bene, Vincent? Ho perso il conto.
Sí, è la terza.
Fife si domanda che cosa avrebbe pensato Joan Baez di come lui ha gestito la questione della leva, se l’avesse conosciuta allora, dietro il palco, dopo un concerto al Club 47, a Cambridge, e se lei e Stanley e il coinquilino di Stanley, Bobby Zimmerman, che poi sarebbe diventato Bob Dylan, fossero tornati a Boston con la DeSoto del ’53 di Stanley per poi andare tutt’e quattro a bere birra da Gainsborough, il locale preferito di Stanley. Era il febbraio del 1962: neve, traffico scarso, per fortuna, perché le gomme della DeSoto di Stanley sono lisce e l’auto scivola, slitta e sbanda per tutta Massachusetts Avenue fino a Cambridge e a Boston. Sono un po’ brilli e fanno girare una canna e sono abbastanza giovani da credere di non dover mai morire.
Ehi! Aspetta un attimo, Leo. Vuoi dire che hai fumato erba con Joan Baez e con Bob Dylan prima che diventasse Bob Dylan e sei uscito a bere con loro?
Fife lo ignora. Gli torna in mente Gainsborough, un lungo e buio locale con il bancone a ridosso di una parete e una decina di miseri tavoli e sedie a ridosso della parete opposta. È una birreria che serve anche superalcolici, per uomini e donne che non sono braccianti né operai della catena di montaggio ma si vestono come se lo fossero, e il juke-box offre un’ampia scelta di canzoni di cantanti folk come Peter, Paul and Mary e il Kingston Trio e Joan Baez. La clientela è in buona parte formata da artisti e insegnanti della School of the Museum of Fine Arts di Boston e da musicisti che studiano o insegnano al New England Conservatory, con l’aggiunta di un miscuglio di beatnik, bohémien e aspiranti poeti e scrittori che vivono nei condomini di mattoni o nelle case a schiera assiepate tra la Symphony Hall e i Fens. L’appartamento di Stanley, dove Baez alloggia con Zimmerman, è in Symphony Road, alle spalle della Hall, a un isolato di distanza. La casa di Fife, dove ha vissuto per sei mesi con Amy e Heidi e dove ora abita da solo, è a dieci isolati, invece, al di là dei Fens, in Peterborough Street. Non sa dire se Zimmerman e Baez stiano insieme. Si comportano piuttosto come fratello minore e sorella maggiore.
Stanley parcheggia la DeSoto in uno spazio davanti al Gainsborough, e lui e Fife e Baez e Zimmerman entrano ridendo e rabbrividendo per il freddo e scrollandosi petali di neve dalla testa e dalle spalle. Zimmerman ha un giubbotto di jeans leggero, una camicia da lavoro marrone, jeans e stivali da motociclista, mentre Baez indossa un poncho messicano sopra una camicetta rossa e la gonna da contadina che indossava sul palco del Club 47, al concerto di quella sera. Stanley sfoggia una giacca di montone foderata di lana e un berretto di lana, mentre Fife ha un giaccone militare verde oliva che ha comprato un anno fa alla svendita di rimanenze dell’esercito e della marina in Boylston Street, dove lui e Amy stavano dopo l’arrivo a Boston dalla Florida. È diventato il suo capo d’abbigliamento preferito e lo mette sempre, che ci sia il sole o piova o nevichi.
Se si esclude Stanley, sono tutti senza cappello, e le loro teste sono coperte di rigogliose chiome giovanili. Sotto il berretto, Stanley ha una folta zazzera nera. Zimmerman è un groviglio di ricci spettinati, e Baez ha i capelli lunghi, lisci e lucenti, neri come il carbone. I capelli di Fife sono di un castano lucido e gli cadono sul colletto della camicia e sulle spalle. Sono tutt’e quattro sani e belli e sexy e brillanti, e tre di loro si crogiolano nell’abbondanza del loro talento e dei riconoscimenti da poco ricevuti. Stanley, che ha frequentato la School of the Museum of Fine Arts approfittando degli aiuti ai veterani garantiti dalla G. I. Bill, è stato invitato dal direttore del dipartimento di pittura a tenere due corsi nell’ambito del programma estivo dopo essersi laureato a maggio. Il secondo album di Joan Baez è arrivato al tredicesimo posto nella classifica di «Billboard» ed è stato candidato a un Grammy. E Zimmerman ha appena firmato un contratto con la Columbia per il suo primo album, che pubblicherà con il nome di Bob Dylan, per la produzione del leggendario John Hammond. Fife, che non è riuscito a farsi pubblicare nemmeno una poesia, sta pensando di cominciare un romanzo incentrato sul suo matrimonio adolescenziale da poco finito. Ha ventun anni ed è convinto di essersi già rovinato la vita, anche se pensa che questo non interessi a nessuno, a parte lui.
Quella sera, al Club 47, Baez per due volte, a metà dei suoi due set, ha invitato Bobby sul palco perché cantasse un paio delle sue canzoni originali, e tutti evidentemente hanno apprezzato i testi dei suoi pezzi e l’intensa concentrazione di Bobby e ne volevano ancora, ma lui si è defilato, e quando è tornato al tavolo ha detto a Stanley e a Fife che non voleva fare ombra alla perfetta luce dorata di Joanie. Stanley e Fife si considerano appassionati di jazz e il loro interesse per la musica folk è inferiore allo zero; anzi, prima di questa sera non erano neanche mai stati al Club 47. Hanno seguito il coinquilino di Stanley e la sua bella amica sull’altra riva del fiume Charles fino a Harvard Square solo perché attratti dalla bella amica. Associano la musica folk e il Club 47 alla Harvard University e vedono le tre cose con un lieve disprezzo da hipster disincantati. A Fife è sembrato che Zimmerman fosse stonato e cantasse con il naso, mentre le canzoni di Baez gli sono parse nostalgiche e sentimentali, anche se trova che la sua voce abbia un che di dolcemente lamentoso. Inoltre, è rimasto molto colpito dall’immaginario delle canzoni di Zimmerman, soprattutto Song to Woody. L’altra, invece, Talkin’ New York, non l’ha proprio capita.
Baez dice che le piace il giaccone di Fife e domanda dove l’ha comprato. Ha per caso fatto il militare?
Al negozio delle rimanenze di esercito e marina, risponde lui. Vuoi provarlo?
Lei ride e dice di sí e si alza in piedi, sfilandosi il poncho.
Fife si toglie il giaccone e glielo porge. Sta’ attenta a dove vai quando lo metti, le dice.
Lei gli dice di provare il suo poncho. Una taglia va bene per tutti. Si infila il giaccone di Fife e si attorciglia i capelli da un lato, rialzandosi il colletto. Perché dovrei fare attenzione a dove vado quando lo indosso? gli domanda.
Lui infila la testa nel poncho, lasciandolo ricadere sulle spalle. È piú pesante di quel che immaginava e su di lui risulta piú corto. Troppo corto, pensa. Forse non è vero che una taglia va bene per tutti. Ammira Joan con il suo giaccone militare: sembra una corrispondente di guerra sexy e disillusa. Decide di raccontare a Joan Baez una storia perlopiú vera.
Come questa, dice alla videocamera di Vincent. Emma non è piú di fianco al letto. Si sporge in avanti verso di lui dal fondo, con le mani serrate sul bordo piatto del telaio che ogni tanto si staccano dal metallo per massaggiare i piedi del marito sotto la coperta di cotone, mentre Vincent, che si è seduto dove prima c’era Emma, tiene la camera puntata sulla faccia di Fife. Dopo aver controllato i battiti di Fife, Renée modifica leggermente il dosaggio dei farmaci, aumentando il flusso della morfina. Poi, sistemata la flebo, si ritira in posizione di guardia accanto alla finestra.
Una sera tardi, una settimana fa, dice Fife a Joan e a Bobby – Stanley ha già sentito questa storia ed è andato al bar a prendere da bere per tutti –, stava camminando in Huntington Avenue, diretto al Lobster Claw. È il bar preferito di Fife, non di Stanley. E Stanley è in cerca di una fidanzata, diversamente da Fife, che invece ne ha una nuova, Alicia Chapman, una studentessa del Simmons College che viene da Richmond, Virginia. Lui dice di preferire il Lobster Claw al Gainsborough, perché al Lobster Claw è raro trovare studenti di arte e di musica e i loro insegnanti. I frequentatori abituali, lui incluso, sono perlopiú persone che lavorano nel quartiere, camerieri e cameriere e lavapiatti e cuochi fuori servizio dei ristoranti della zona e commessi dei negozi di Huntington e Boylston Street e custodi e amministratori dei palazzi, molti dei quali vivono nel vicino South End. A giudicare dalla sua canzone su Woody Guthrie, a Zimmerman piacerebbe il Lobster Claw, gli dice Fife. La clientela è varia, a livello di razza, piú che al Gainsborough, e dato che non servono solo quello che c’è scritto sul menú, un bicchiere di birra alla spina al bancone costa quindici centesimi, non venticinque, e il juke-box è pieno di jazz moderno. Niente canzoni folk, aggiunge, e sorride, mentre in sottofondo risuona Where Have All the Flowers Gone.
Quando si avvicina all’ingresso del Lobster Claw, due uomini bianchi, di qualche anno maggiori di lui, stanno uscendo dal locale, racconta Fife. Hanno entrambi addosso un giaccone militare come il suo, con sotto la divisa dell’esercito, però. Soldati, sottufficiali. Uno dei due è basso e scuro e muscoloso, l’altro è piú alto di Fife e piú massiccio. Sbarbati di fresco e con i capelli cortissimi, hanno un’aria tonica e aggressiva. Sotto l’insegna con l’aragosta di neon rosso che pende sopra l’entrata, i due barcollano un po’, come se fossero brilli. Quello basso estrae il suo basco ripiegato da una tasca del giaccone e se lo piazza in testa squadrando Fife; il suo compagno protegge con una mano a coppa una sigaretta, mentre con l’altra usa uno Zippo cromato per accendersela. Con la sigaretta che gli penzola dalle labbra, si mette a sua volta in testa il basco a due mani e comincia come l’amico a squadrare Fife. Sul berretto hanno uno stemma con tre strisce che, agli occhi di Fife, li qualifica come sergenti.
Lui li aggira e fa per entrare. Il corto lo afferra per un polso. Dice: Aspetta un attimo, amico, con una voce acuta e sottile che lo coglie di sorpresa.
Fife dice: Qual è il problema?
Sei davvero dell’esercito? Ti sembra uno che è davvero nell’esercito, Kenny? dice all’amico.
Mi sembra un beatnik del cazzo.
Dove l’hai preso quel giaccone militare, amico?
L’ho comprato. Al negozio delle rimanenze di esercito e marina. È legale. Non bisogna essere davvero dell’esercito per portarlo. E comunque non sono tuo amico, dice di aver detto Fife.
Bobby Zimmerman sorride e dice: Oh, wow! Pessima idea.
Stanley è tornato dal bar con quattro bottiglie di Narragansett. Volete i bicchieri? domanda. Gli rispondono di no scuotendo la testa.
Renée porta a Fife un bicchiere d’acqua e glielo avvicina alle labbra; lui beve qualche sorso con una cannuccia. A bassa voce, gli dice: Forse le conviene smettere di parlare almeno per qualche minuto.
Fife sente la voce di Malcolm come se stesse parlando dal piede di una ripida rampa di scale. Lo sente che domanda a Vincent: Dove sono le prime due schede? In soggiorno?
La seconda ce l’ho in tasca, risponde Vincent, in cima alla scala immaginaria. L’altra è rimasta in soggiorno nella mia borsa.
Cristo, Vincent, ti dispiacerebbe tenerle tutte insieme? E non in una cazzo di tasca, magari. Questo materiale è prezioso e non abbiamo modo di girarlo di nuovo. Renée, può andare in soggiorno a prendere la borsa di tela nera di Vincent? La borsa con le schede è quella piú piccola.
No, devo restare qui con Monsieur Fife. Non lavoro per voi.
Diana dice che va lei a prenderla ed esce dalla camera, mentre Fife riprende a parlare, anche se con voce piú bassa e flebile di prima, e piú lenta, con frasi brevi, separate da lunghe pause.
Non sa di preciso quel che dice alla videocamera, ma ricorda di aver detto a Bobby Zimmerman e a Joan Baez che quei due sergenti mezzi ubriachi fuori dal Lobster Claw avevano almeno in parte ragione. Per un paio di dollari, Fife può permettersi di indossare un giaccone per cui i soldati pagano un prezzo assai piú alto. Ed è quello che dice anche ai sergenti. E si offre di pagar loro una birra. Loro accettano, e tutt’e tre entrano al Lobster Claw, dove i sergenti, dopo svariati giri di bevute, gli raccontano che a Fort Benning, Georgia, in dieci settimane trasformano le reclute ventenni in soldati.
Joan Baez dice: È una bella storia. Tutto è bene quel che finisce bene, ma sicuramente farò attenzione a dove lo indosserò.
Fife non dice a lei e a Zimmerman, e non ha detto neppure a Stanley, che dopo il primo giro di birre il piú alto dei due sergenti gli ha domandato com’era messo riguardo al servizio militare. Fife ha mentito, dicendo che non era stato ancora chiamato.
Non hai ancora ventuno anni, allora? dice il sergente con la voce acuta. Non è che usi un documento d’identità falso? gli domanda, strizzando l’occhio.
Fife non risponde, e il sergente fa un gran sorriso. Fife non dice, né a lui né a Kenny e neanche a Stanley o agli amici cantanti folk, che poco meno di un mese prima, seguendo le indicazioni fornite nella lettera dell’ufficio leva di Boston, si è presentato per gli esami medici al Second Battalion Military Entrance Processing Command, che si trova tra schiere di magazzini giú in Summer Street, nel South End. Si è preparato per la visita psicoattitudinale inalando metamfetamina senza sosta per tre giorni e tre notti insonni di fila. Arriva al centro di reclutamento con i capelli lunghi e non rasato, smunto, pallido e tesissimo, con enormi occhiaie scure sotto gli occhi. Gli avevano detto che per gli esami medici bisogna spogliarsi tenendo solo mutande e scarpe, senza calze, e lui per distinguersi dalla massa ha deciso di indossare un sospensorio al posto delle mutande e stivali da motociclista.
La procedura comincia con un test attitudinale su carta, ricorda Fife, e lui mira a un punteggio alto, ma si assicura di fallire il test scrivendo nome e indirizzo sulle righe sbagliate del foglio iniziale e rompendo piú volte la punta della matita. Per correggere l’errore, chiede una nuova matita e cancella nome e indirizzo cosí brutalmente da bucare il foglio, tant’è che deve richiederne un altro. Dopo di che ripete la scena. Ci sono quaranta o cinquanta altri ragazzi a fare l’esame con lui, e Fife è il primo a finire. Quando consegna il fascicolo numerato e registrato al militare responsabile dello svolgimento dell’esame, dice che vuole entrare nei carristi. Gli piacciono i carri armati. Fa il rumore di un carro armato, brumm-brumm. Il militare rimane impassibile.
Quando tutti hanno finito il test attitudinale, un altro militare li conduce a passo di marcia in uno spogliatoio adiacente a una grande palestra al primo piano, dove ordina loro di spogliarsi, mutande e scarpe escluse. Alcuni dei coscritti che stanno intorno a Fife lo guardano scuotendo la testa e dando di gomito ai vicini. Lui rivolge loro sorrisi bonari.
Vengono sollecitati a prendere il primo foglio del test attitudinale e a spostarsi dallo spogliatoio alla palestra. Fife lascia il suo foglio sulla panca, davanti all’armadietto, e quando tocca a lui sottoporsi all’esame della vista deve tornare di corsa a riprenderlo e mettersi in fondo alla fila. Sembra incapace di distinguere l’occhio destro dal sinistro, sicché continuano a esaminargli l’occhio sbagliato, finché il medico non si rende conto di quello che sta accadendo e, puntando lentamente il dito, gli spiega di volta in volta quale occhio deve coprire quando legge la tabella.
Ora ha l’impressione di averla raccontata, questa storia, a Stanley e a Zimmerman e a Baez in quella serata di neve, al Gainsborough, perché sta ancora domandandosi che cosa penserebbe di lui Joan Baez, se sapesse come ha affrontato il problema della leva. Sta di nuovo confondendo i ricordi, e se vuole raccontare a Joan e a Bobby quello che ha fatto quando ha ricevuto la cartolina-precetto, deve dimenticare il concerto di Mariposa e la severa denuncia dei resistenti e dei disertori da parte di Baez, secondo la quale per fermare la guerra del Vietnam si sarebbero dovuti rassegnare al carcere come suo marito, David Harris, invece di fuggire in Canada.
Descrive il passaggio dei coscritti, nella palestra, da un medico all’altro. Dopo l’esame della vista, si mettono in fila per quello dell’udito, a cui Fife si sottopone, ma solo dopo aver fatto per tre volte cadere a terra le cuffie, rompendo la protezione di plastica di un auricolare e costringendo gli addetti a cambiargliele. È facile per lui sbagliarlo dalla A alla Z, perché nessuno sa che cosa sente o non sente attraverso le cuffie, perciò risponde sí e no e forse completamente a caso.
Poi li visitano in cerca di ernie, e Fife rende le cose difficili perché dopo il primo colpo di tosse richiesto sembra incapace di smettere. Segue quello che si rivelerà l’ultimo esame per Fife: quello delle urine. Il medico gli porge la boccetta di plastica da poco piú di un decilitro e, invitandolo a ritirarsi dietro una tenda, gli dice di pisciarci dentro. Lui fa come gli è stato detto, ma invece di riempire la boccetta per un quarto o a metà, va avanti fino a farla traboccare. La restituisce con attenzione al medico che lo guarda storto e la prende tra le punte di pollice e indice, spostandola con prudenza, per non bagnarsi le mani nude.
All’improvviso, gli compare accanto un sergente con una cartelletta marroncina. Leonard Fife?
Sissignore! Leonard Fife, signore!
Vieni con me, Fife.
Sissignore!
Il sergente fa dietro front e lo conduce attraverso la palestra fino a una stanza senza finestre nell’angolo opposto dell’enorme stanzone. Il sergente bussa ed entra e fa segno a Fife di seguirlo. È un piccolo ufficio, con una scrivania sgombra e quasi spoglia di fronte alla quale c’è un’unica sedia dallo schienale dritto. Dietro la scrivania, seduto, c’è un uomo di mezza età, atletico, capelli grigio chiaro dal taglio militare ed eleganti baffetti castano scuro alla Errol Flynn, che fuma la pipa. È un ufficiale – Fife non sa dire quanto importante – con tre barrette d’argento sulle spalline. Un capitano, forse. La stanza è illuminata soltanto da una bassa lampada da tavolo al neon, nient’altro. L’alta finestra alle spalle del capitano è oscurata da una veneziana.
Il sergente saluta il capitano, che Fife immagina sia uno psichiatra. Il capitano risponde al saluto svogliatamente e dice a Fife di sedersi. Il sergente dice il suo nome, posa il foglio iniziale dei test e la cartelletta sulla scrivania e, dopo aver risalutato, se ne va. La sedia è fredda contro la schiena e le natiche nude di Fife.
Lo psichiatra apre la cartelletta e consulta il fascicolo che c’è all’interno.
Come ti chiami?
Leonard Fife.
Data di nascita?
Lui conta in silenzio fino a quindici, come per cercare di ricordarsi la data. Poi indica il foglio iniziale e dice: C’è scritto tutto lí.
Sí. Volevo accertarmi che questo dossier fosse proprio il tuo e non di qualche altro idiota.
Grazie, signore, dice Fife, prima di snocciolare la sua data di nascita.
Lo psichiatra aspira dalla sua pipa gorgogliante, che sembra essersi spenta, e legge lentamente i risultati degli esami di Fife, incluso quello del test attitudinale, presume lui. All’improvviso, l’ufficiale si volta e tira il cordone della veneziana, inondando di luce la stanza e gli occhi di Fife. È la stessa luce bianca e accecante che ha visto nel soggiorno-galleria di Stanley la notte che ha fatto quello strano sesso con la moglie di Stanley. Non era sesso, era qualcos’altro. Cos’era? Masturbazione? Di certo non voluttà né desiderio. Tradimento? Vendetta? Forse soltanto paura, paura di quel che stava per succedere. Lui, a quel punto, sapeva già che cosa sarebbe successo. Semplicemente, non poteva ancora dirlo, neanche a sé stesso.
Ragazzo, dice lo psichiatra, sei omosessuale?
Fife si stropiccia gli occhi con i pugni per alcuni secondi. Alla fine, risponde. Non esattamente, dice.
Lo psichiatra estrae un modulo stampato da un cassetto della scrivania e ci scarabocchia su qualcosa alla svelta, come se stesse compilando una ricetta, prima di porgerlo a lui. Prende uno Zippo di ottone e si riaccende la pipa. Fife si domanda: Cos’è questa storia dei militari e dello Zippo? Forse, allo spaccio, li vendono con lo sconto.
Lo psichiatra dice: Sei un 4-F, Fife. Prendi questo modulo e la tua cartelletta e presentati dal sergente che ti ha portato qui. Fatti dare i vestiti e tornatene a casa. Riceverai la cartolina-precetto per posta nel giro di qualche giorno, dice.
Fife prende il modulo stampato tra le mani e legge quello che ha scritto lo psichiatra: 4-F. Personalità schizoide. Riformato.
Stanley scoppia a ridere e dice: Cristo, gli dispiace di non averci provato quando è stato chiamato alle armi nel 1955. Forse, se la guerra di Corea fosse stata ancora in corso, ci avrebbe pensato. Ma la guerra a quel punto era finita. L’esercito lo ha messo nella polizia militare e l’ha spedito in Francia, dice, perciò ha visto un mucchio di opere d’arte a spese del governo.
Joan Baez non ride e neppure sorride. Con aria pensierosa e da signora, beve un sorso dalla bottiglia di Narragansett, come se non fosse abituata a bere dalla bottiglia e preferisse, invece, bere dal bicchiere.
Zimmerman si sporge verso Fife e gli dice: Hai fatto la cosa piú giusta. È come se la leva fosse la catena di montaggio della macchina bellica. È una parte vitale del complesso militare-industriale, come diceva Eisenhower. Il comportamento tenuto da Fife quel giorno è stato, in sostanza, un sabotaggio della catena di montaggio, dice. Se piú persone facessero quello che ha fatto Fife, la fabbrica che produce i soldati si fermerebbe, e i signori della guerra dovrebbero trovare un altro modo, piú costoso, per produrre soldati. E se le persone come Fife rendessero troppo alto il prezzo della guerra, quella gente sarebbe magari costretta a trovare un altro lavoro, un lavoro che non abbia come risultato finale la morte e la distruzione.
Joan non è d’accordo. Per come la vede lei, il posto di Fife in quella fabbrica è stato occupato da qualcuno che, altrimenti, non sarebbe stato precettato. È andata bene a Fife, che in questo modo eviterà la leva e non indosserà la divisa. Ma che ne sarà del povero ragazzo che si trovava appena dietro di lui in fila? Il numero quarantuno o quel che è. Avanza di un posto, e si ritrova intrappolato per due anni nell’esercito e avrà piú probabilità di finire ammazzato o di uccidere gente in qualche Paese in guerra, in Africa o in Asia, o di invadere la Russia, che non di andare a vedere dipinti francesi a spese del governo.
Fife, che è rivolto verso la porta, vede Alicia Chapman entrare al bar. È alta e magra e bella. Si ferma appena entrata nel locale, si toglie la neve dal cappotto e spinge indietro il cappuccio, come Cappuccetto Rosso, per poi guardarsi intorno in cerca di Fife. I suoi capelli castani sono lunghi e dritti come quelli di Joan Baez.
Forse Fife sta annegando, perché, come si dice sempre, tutta la vita gli passa in un lampo davanti agli occhi. Non è soltanto un cliché, dunque.
Sa che non si tratta di un vero e proprio annegamento, ma sta morendo, e il flusso del tempo ha rotto gli argini e le dighe che hanno trattenuto i suoi segreti per quasi tutta la sua vita. La sua mente è inondata dai ricordi, e il loro traboccare porta con sé i detriti dei suoi timori e sogni piú reconditi, delle sue speranze e ambizioni e fantasie, insieme a canzoni, racconti, poesie e film che ha amato – le macerie della sua vita – e lui, incapace di distinguerli, li racconta tutti.
Alicia si fa strada tra gli avventori al banco, verso Fife e i suoi amici, e solo allora lo vede. Da quando è entrata non ha mai sorriso, ma ora la sua espressione si irrigidisce per la rabbia.
Fife si alza in piedi per salutarla e si rende conto di avere addosso il poncho messicano di Joan Baez, mentre quest’ultima indossa il giaccone militare di Fife, ed è per questo che Alicia è arrabbiata. Lui ha fatto qualcosa che si sarebbe ben guardato dal fare se lei fosse stata presente, e Alicia lo sa. Ha flirtato con un’altra donna, particolarmente affascinante ed esotica. Alicia non sa che la donna con cui lui ha flirtato è Joan Baez, la famosa cantante folk, ma se lo sapesse sarebbe ancora piú arrabbiata.
Fife dice: Ehi, Alicia, credevo saresti rimasta al pensionato, stasera. Agli altri dice: È del Sud, odia la neve.
Alicia dice: Vaffanculo, Leo! Vaffanculo! Si volta ed esce dal locale, tornando sotto la neve, nella notte.
Stanley dice: Wow! Devi mollarla, quella stronzetta danarosa. Un giorno o l’altro ti taglierà le palle.
Joan Baez domanda a Fife che cosa ha combinato per farla arrabbiare cosí.
Bob Dylan dà l’impressione di conoscere la risposta, ma resta in silenzio.