Marzo 1867, cinque anni dopo
La neve cominciò a cadere intorno a mezzogiorno.
Violet trattenne il cappuccio del sottile e del tutto inadeguato mantello grigio, piegò la testa all'indietro e aprì la bocca per catturare un fiocco di neve con la punta della lingua. Si sciolse all'istante e la goccia d'acqua gelida le scivolò in fondo alla gola. Neve. Non era mai stata all'aperto sulla neve, l'aveva sempre guardata cadere dalla finestra, e trovava la nuova esperienza rinfrancante.
Niente, nemmeno il brutto tempo, avrebbe potuto attenuare il suo buonumore. Avrebbe dovuto essere spaventata mentre, seduta sul retro di un vecchio carro traballante che risaliva sferragliando la brughiera, fuggiva da casa, dalle sue poche amicizie, da tutto ciò che le era sempre stato familiare, e invece si sentiva euforica. Perfino le aride lande di erica e ginestre non le incutevano timore, quella mattina, come succedeva di solito quando le guardava da lontano. Le davano invece un senso di libertà, sembravano sconfinate e piene di vita, proprio come si sentiva anche lei, finalmente. Nel giro di qualche ora aveva compiuto il viaggio più lungo che avesse mai fatto nei suoi ventitré anni di esistenza, non solo nello spazio, ma anche dentro di sé. Alla fine aveva preso in mano il proprio futuro, rifiutandosi di continuare a essere la Violet timorosa di sempre. Per la prima volta poteva essere orgogliosa di se stessa.
Un'impresa non da poco per il giorno del suo matrimonio.
«La miniera è proprio dall'altra parte di quel crinale!» le disse a gran voce il garzone del conducente, voltandosi. «Non vi preoccupate per il tempo, miss. Abbiamo visto di peggio.»
Lei gli rivolse un sorriso lieto e si appoggiò con la schiena alle cassette piene di viveri per i minatori di Rosedale. Il conducente le aveva promesso di proseguire per portarla fino a Helmsley, anche se Violet poteva solo immaginare che cosa potessero pensare di lei l'uomo e il suo garzone. La sua amica Ianthe si era fatta garante per i due, sia per la loro indole sia per la loro capacità di mantenere un segreto, eppure dovevano certo chiedersi perché una gentildonna avesse fatto in modo di incontrarli da sola al tramonto alla periferia di Whitby, come se stesse scappando dalle grinfie di qualche malefico tiranno.
Il che, in un certo senso, era la verità.
Aveva pianificato la fuga da una settimana, quasi dal momento stesso in cui Mr. Rowlinson l'aveva presa da parte al funerale di suo padre, dicendole che preferiva comunicarle le sue ultime volontà in privato. Non le era servito molto tempo per capire perché. L'avvocato aveva tenuto un tono contrito mentre leggeva il testamento, e l'aveva guardata con preoccupazione da sopra il bordo di metallo degli occhiali, tuttavia nessuno sguardo per quanto comprensivo avrebbe potuto mitigare la durezza di quelle parole. A ripensarci, si sentiva come distaccata dalla situazione, come se ci fosse stato qualcun altro seduto al posto suo, con le sembianze di una specie di statua vestita di nero, pietrificata dall'orrore, mentre suo padre la cedeva in matrimonio all'erede di Amberton Castle.
Cedeva!
In quel momento aveva avvertito qualcosa indurirsi dentro di sé, come se tutte le emozioni legate al dolore e alla perdita si fossero cristallizzate trasformandosi in altro, un sentimento più freddo e oscuro a cui non sapeva dare un nome, ammesso che si potesse definire sentimento. Sembrava più un'assenza, un vuoto in fondo all'anima, come se la capacità di provare qualcosa fosse sospesa.
Ricordava di avere riso. Doveva essere sembrata in preda a una crisi isterica perché Mr. Rowlinson si era affrettato a versarle un bicchiere di brandy e, per la prima volta in vita sua, lei lo aveva accettato. Il padre non le aveva mai permesso di toccare alcun tipo di bevanda alcolica, ma Violet aveva desiderato berne una bottiglia intera solo per fargli un dispetto.
Pochi sorsi erano bastati a farla desistere dall'idea, l'avevano fatta tossire, sputacchiare e le avevano procurato un capogiro più forte di prima, quando aveva cercato di capire come suo padre avesse potuto giocarle uno scherzo simile. Dopo tanti anni di obbedienza, durante i quali aveva vissuto nell'ombra, tollerato i suoi maltrattamenti e i suoi insulti, come aveva potuto combinarle un matrimonio senza nemmeno dirglielo... e tanto meno chiederglielo?
Proprio quando aveva pensato di essere finalmente libera...
Avrebbe dovuto saperlo che lui non l'avrebbe lasciata andare con tanta facilità. Non le aveva mai consentito di prendere delle decisioni da sola e sembrava che volesse continuare a controllarle la vita anche dopo la sua morte. I termini del testamento erano così rigorosi che Mr. Rowlinson aveva avuto qualche esitazione nel leggerli. Per quanto non fosse convenzionale celebrare un matrimonio subito dopo un funerale, le parole di suo padre erano oltremodo intransigenti e inflessibili. Se non avesse sposato l'uomo che aveva scelto per lei entro un mese dalla sua sepoltura, sarebbe stata diseredata, avrebbe perso la casa e il patrimonio a favore di un lontano cugino nel Lancashire. Valeva a dire che sarebbe rimasta senza un soldo.
A meno che non avesse fatto quanto le veniva detto.
I suoi pensieri confusi erano stati catapultati in un attimo al ballo di cinque anni prima ad Amberton Castle, l'unico evento di quel genere al quale avesse mai partecipato. Se non altro alla fine il testamento spiegava perché il genitore avesse stranamente voluto tanto che lei trascorresse del tempo con Arthur Amberton, non solo in quell'occasione, ma anche durante le visite mensili in cui lui accompagnava il padre e che erano continuate da allora.
Le era venuto qualche sospetto, soprattutto quando il padre aveva cominciato ad accennare al suo futuro, arrivando persino a dire, una volta, di avere combinato un matrimonio per lei, anche se Violet aveva concluso che fosse stato solo uno scherzo crudele. Dopotutto, lui l'aveva sempre definita piccola e poco attraente, sostenendo che solo un cacciatore di dote avrebbe potuto fingere di volerla, per cui era meglio che se ne stesse senza un marito. Quindi per lei non aveva avuto senso pensare che intendesse davvero farla sposare.
Per di più, nulla in Arthur Amberton aveva lasciato trapelare che fosse minimamente interessato a lei. Era apparso sempre abbattuto durante le visite, non meno della prima volta in cui si erano conosciuti, al ballo. Le loro rare conversazioni erano state forzate e colme di disagio, con i loro padri a vegliarli come due gufi dall'aria severa.
Arthur Amberton non aveva nemmeno mai accennato a un fidanzamento segreto, ammesso che ne fosse stato al corrente, ma, pur ammettendolo, non avrebbe potuto rendere più evidente il suo disinteresse a sposarla. Non più di quanto fosse interessata lei a sposarlo.
Eppure, persino lui sarebbe stato preferibile all'alternativa...
Violet si strinse il cappuccio intorno al viso, travolta da un'ondata di tristezza. Arthur Amberton era sparito in mare sette mesi prima, mentre navigava sulla sua piccola imbarcazione lungo la costa del North Yorkshire, in una tranquilla giornata di fine estate. Era uscito da solo, senza dire a nessuno dove sarebbe andato, e la barca era stata ritrovata il giorno dopo da alcuni pescatori, intatta e senza segni, ma non c'era stato modo di rintracciare lui. Erano state formulate numerose ipotesi: che avesse battuto la testa e fosse caduto in acqua, che fosse stato attaccato, che fosse andato a nuotare e fossero sopraggiunti i crampi. Tuttavia nessuno aveva voluto nominare la possibilità più ovvia: che si fosse tolto la vita, piuttosto che trascorrere un solo giorno di più con la sua disperazione. Piuttosto che sposarla.
Per ironia della sorte, era stata lei a insistere perché il padre venisse tenuto all'oscuro dalla notizia. In quel periodo era già allettato e Violet non aveva voluto dargli un'ulteriore pena. Aveva temuto che il padre di Arthur potesse presentarsi da loro, ma il giorno seguente era stato foriero di altre brutte notizie: Henry Amberton, nell'apprendere che la barca era stata trovata vuota, aveva avuto un fatale attacco di cuore. Genitore e figlio erano morti a distanza di ventiquattro ore l'uno dall'altro, e la proprietà era passata a un secondo erede.
Il capitano Lancelot Edward Amberton, il nuovo Visconte Scorborough.
Al solo pensiero, le vennero i brividi e le tornò la stessa sensazione di malessere e imbarazzo che aveva provato durante il loro unico incontro. Era stata un'inguaribile ingenua, innanzitutto, nel ritenere piacevole la sua compagnia. Si era sentita entusiasta e nervosa per il suo primo ballo, e fin troppo consapevole degli sguardi strani e dei commenti bisbigliati che la sua bassa statura e il suo estremo pallore suscitavano, ma il capitano Amberton aveva dato l'impressione di non farci caso.
Era apparso sicuro, affabile e aperto, a differenza degli altri uomini che aveva incontrato in precedenza, e le aveva dato l'impressione che incarnasse la libertà stessa che il ballo rappresentava. Era andato in suo soccorso quando il padre e il fratello si erano messi a discutere, l'aveva invitata a parlare quando era rimasta senza parole e l'aveva messa a suo agio quando aveva avuto troppa paura di ballare.
In effetti, Violet aveva sfidato il padre danzando con lui e non poteva negare di averlo trovato attraente, ben più del fratello, nonostante fossero gemelli identici, con i capelli castani pettinati all'indietro con cura, la corporatura imponente, muscolosa, e anche lo scintillio da furfante negli occhi che le aveva fatto venire voglia di sorridere. Quando il capitano l'aveva presa tra le braccia, aveva provato una sensazione nuova e alquanto allarmante, un fremito nel basso ventre che l'aveva fatta sentire al contempo stordita, eccitata e imbarazzata.
Tutto ciò era stato prima di rendersi conto che la stava prendendo in giro, che la stava canzonando riguardo alla possibilità di avere dei pretendenti, come se non ne dovesse mai avere. Si era già sentita abbastanza a disagio all'inizio della serata, ma dopo quell'episodio avrebbe voluto proprio ritirarsi nell'isolamento della sua camera da letto.
Malgrado l'umiliazione, tuttavia, la scena che era seguita era stata addirittura peggiore. Lui l'aveva disorientata perché aveva prima preso posizione in suo favore e poi l'aveva messa nella condizione di dover difendere il proprio padre. Il momento in cui le aveva detto che non avrebbe voluto sposarla era stato il più brutto della sua vita. Certo, non era lecito aspettarsi una risposta diversa, ma le sue parole avevano comunque fatto male come una stilettata al cuore.
Ciononostante, il conseguente misconoscimento da parte del padre era stato attribuibile a lei, in qualche modo. Quando era stato ormai troppo tardi, Violet aveva cercato di dire qualcosa per aiutarlo, ma non era riuscita a scongiurare il peggio. Se ne era andato via infuriato e lo sguardo che le aveva rivolto dalla soglia era stato tutt'altro che amichevole. Era sembrato piuttosto che la odiasse.
Suo padre, poi, l'aveva presa in disparte e le aveva proibito di pronunciare il nome di Lancelot Amberton in sua presenza da lì in avanti, e lei aveva udito per caso dei pettegolezzi, sufficienti a fargliene capirne la ragione. Quelle che aveva pensato fossero insinuazioni su di lui si erano rivelate essere la pura verità. Era proprio come lo aveva definito suo padre, uno scapestrato. Un ubriacone, un giocatore d'azzardo, un famigerato donnaiolo... e ora anche l'uomo che avrebbe dovuto sposare!
Suo padre non avrebbe mai e poi mai inteso lasciarla alla mercé di un individuo del genere, ma aveva commesso un grosso errore nel testamento. Non aveva specificato un nome, aveva solo scritto l'erede della proprietà degli Amberton... e l'attuale erede era Lance.
Violet si era rifiutata anche solo di prendere in considerazione l'idea del matrimonio con lui. Era tornato nello Yorkshire qualche mese prima, congedato un mese dopo i decessi del fratello e del padre, per una ferita di arma da fuoco alla gamba, o così aveva sentito dire, anche se a Whitby nessuno lo aveva visto. Si vociferava che vivesse recluso in casa, senza mai oltrepassare i confini di Amberton Castle.
Non era nemmeno andato al funerale del padre di Violet né aveva mandato dei fiori o un biglietto di condoglianze. L'unica comunicazione da parte sua era arrivata due giorni dopo per mano di Mr. Rowlinson: un messaggio laconico per dire che intendeva onorare i termini dell'accordo tra i loro genitori e che l'avrebbe incontrata e sposata di lì a una settimana esatta, alle dieci in punto, il giorno dieci del mese di marzo del 1867.
Perciò era scappata. Era l'ultimo uomo al mondo che volesse vedere, figurarsi sposare, ma aveva un gran timore che, se fosse rimasta, alla fine avrebbe ceduto. Dopo una vita di obbedienza, non era del tutto sicura di come farsi valere e Lancelot Amberton le aveva dato l'impressione di essere il tipo d'uomo che sapeva bene come ottenere ciò che voleva. E lui voleva il suo patrimonio... di quello era certa. Era l'unico motivo possibile che avesse per sposarla.
Era quindi giunta alla conclusione che non le restasse altro che nascondersi e aspettare che i termini del testamento di suo padre scadessero. Il capitano Amberton avrebbe potuto tentare di trovarla in quel lasso di tempo, ma una volta trascorso il mese, avrebbe perso interesse e lei si sarebbe salvata. Ciò l'avrebbe lasciata quasi senza un soldo, a parte una piccola somma che le aveva donato sua madre, ma avrebbe significato la libertà, e di certo perfino una vita di povertà sarebbe stata preferibile a lui.
Aveva confidato i suoi piani alla sua più cara amica, Ianthe Felstone, la quale, benché non avesse approvato la sua scelta, l'aveva compresa. Dopo un'iniziale riluttanza, l'aveva aiutata a organizzare la fuga. Aveva preso accordi perché Violet salisse sul mezzo di rifornimento che partiva dall'emporio di suo marito Robert ogni due settimane, diretto alle miniere di Rosedale. E poi si era offerta di andare alla stazione di Whitby la mattina del matrimonio, coperta da un pesante velo nero per fare da esca e prendere il treno per Pickering. Si era rifiutata con decisione di farla viaggiare senza una chaperon, quindi l'aveva spinta a coinvolgere la sua eccentrica zia Sophoria, che lei avrebbe incontrato a Helmsley; da lì, loro due avrebbero proseguito per York.
Malgrado fosse agitata, il pensiero di visitare una città tanto grande con i suoi musei e le gallerie d'arte e i parchi la entusiasmava. Aveva deciso di passare più tempo possibile a York perché in seguito...
A essere sincera, non aveva idea di cosa avrebbe fatto dopo, ma ci avrebbe pensato. Intanto sarebbe scappata e poi avrebbe riflettuto sul futuro. Avrebbe potuto fare l'istitutrice o la dama di compagnia, se qualcuno l'avesse assunta, ma su una cosa era assolutamente determinata: non avrebbe mai vissuto sotto il controllo di nessun uomo, mai, mai più. Nessuno le avrebbe detto cosa fare, né cosa pensare di se stessa o di qualsiasi altra cosa. Da quel momento in poi, sarebbe stata libera.
Serrò i pugni al pensiero, ma li riaprì di colpo quando il carro sobbalzò in avanti all'improvviso e poi all'ingiù, emettendo uno stridio assordante mentre si piegava su un lato con tale forza da sbalzare anche lei, che batté la testa contro una delle cassette. Per alcuni secondi tutto intorno sembrò vorticare e annebbiarsi, e i fiocchi di neve assunsero i colori dell'arcobaleno, prima che Violet mettesse a fuoco il viso del ragazzo che la guardava dall'alto.
«State bene, miss?»
Lei si portò esitante una mano alle tempie. Si sentiva un po' stordita, ma per il resto era incolume. Fu un sollievo. Ferita non sarebbe andata molto lontano.
«Credo di sì.» Prese la mano che le veniva offerta e scavalcò in modo poco elegante la sponda del carro, per spostarsi davanti al veicolo. «Cosa è successo?»
«Una buca. Una ruota si è staccata dall'asse.»
«Potete aggiustarla?» Violet avvertì un'ondata di panico al pensiero di dover tornare indietro.
«Sì.» Il conducente era chino su un lato del carro e stava esaminando il telaio. «Dobbiamo solo uscire da questa buca, prima.»
«Posso esservi d'aiuto?»
«Una personcina come voi?» Scosse il capo e non prese in considerazione l'offerta. «Ma se volete rendervi utile, fate andare i cavalli un po' più avanti e fermateli lì.»
Violet afferrò le briglie di cuoio e trattenne il risentimento mentre accompagnava per qualche passo avanti gli animali, che trascinarono il carro di nuovo in piano. Era abituata al fatto che le persone facessero commenti sulle sue fattezze minute, ma il garzone del conducente non era poi tanto più grande di lei. Non era del tutto un'inetta, comunque la pensassero gli altri. Poteva fare molto di più, ne era sicura, se solo gliene avessero concessa l'opportunità.
«Bene così.» L'uomo si passò una mano sulla fronte. «Ora dobbiamo solo sollevare il telaio e... Quello chi è?»
Il cuore quasi le fuoriuscì dal petto a quelle parole. La strada nella brughiera era utilizzata ormai di rado da quando la ferrovia aveva rimpiazzato le vecchie diligenze, e durante la mattinata non avevano superato nessun altro veicolo. Non che ci fosse ragione di allarmarsi, ovvio. In quel momento, con molta probabilità, il capitano Amberton stava inseguendo il treno, o al limite cavalcando lungo la costa verso Newcastle. Eppure...
Violet sentì i nervi tendersi quando si sporse oltre il carro e vide, in fondo alla strada, due bai che stavano scollinando dietro di loro, uno cavalcato da un uomo dai capelli castani, avvolto in un lungo soprabito nero.
No! Ritirò la testa. Non poteva essere lui. I due a cavallo erano ancora troppo lontani per averne la certezza, ma di sicuro si stava sbagliando. Come era possibile che l'avesse trovata? Anche se chissà come avesse scoperto che non era salita sul treno, non avrebbe avuto modo di immaginare in che direzione stesse viaggiando, ancor meno con chi... o sì?
«Danno l'impressione di andare di fretta.» Il conducente si spostò al centro della strada per fare loro un cenno. «Ma magari ci daranno una mano.»
«Aspettate!»
Violet cercò di farsi sentire, ma la voce sembrava averla abbandonata e più che un grido emise solo un sussurro disperato. E comunque era troppo tardi. I due stavano già rallentando per fermarsi, tirando le redini a pochi passi dal carro.
Lesta, lei si infilò fra i due cavalli, lieta per una volta della statura bassa che le permetteva di nascondersi con maggiore facilità. Con un po' di fortuna non l'avrebbero notata, ma, nell'eventualità, aveva pur sempre il cappuccio che le copriva la testa. Se avesse tenuto lo sguardo basso non avrebbero potuto vederle il viso, e, si sperava, avrebbero pensato che fosse un altro garzone. La fuga era ancora possibile, purché non attirasse l'attenzione su di sé... sempre che si trattasse di lui.
«Possiamo esservi d'aiuto?»
Violet si sentì il cuore di piombo. Era lui. Il capitano Amberton, o il suo persecutore, come ormai lo vedeva. Anche a distanza di cinque anni, non era possibile sbagliarsi sulla sua voce, piena e profonda, sebbene senza l'accenno di allegria che aveva accompagnato tutto ciò che le aveva detto la sera del ballo. In quel momento il tono era del tutto serio mentre conversava con il conducente, dicendo qualcosa riguardo alla ruota, anche se il sangue che le pulsava forte nelle orecchie non le permetteva di distinguere le singole parole. La tensione era insopportabile. Si sporse di nuovo, sperando con tutta se stessa che l'immaginazione l'avesse ingannata e che si stesse sbagliando...
No! Trattenne un'esclamazione di stupore. In qualche modo, finché lui era stato solo un'idea lontana, il cattivo solitario che non vedeva da cinque anni, la fuga era sembrata realizzabile, addirittura facile. Ora che le stava così vicino, Violet si domandò come poteva aver mai pensato di imbrogliarlo.
Si era dimenticata di quanto fosse imponente fisicamente, alto e con le spalle larghe, una presenza virile che intimoriva e che lei riusciva a percepire persino dal suo nascondiglio. Era avvenente proprio come la prima volta che si erano incontrati, ma aveva il viso più magro, più spigoloso, come se i tratti morbidi fossero stati scolpiti e resi più marcati. I baffi scuri e la barba corta e ispida gli conferivano l'aspetto rude di un uomo che non badava a ciò che gli altri pensavano di lui, di un uomo che avrebbe potuto ragionevolmente fare qualsiasi cosa, e bene.
Scese da cavallo davanti a lei, trasalendo quando gettò la gamba destra oltre la sella, anche se dal modo in cui serrò la mascella Violet ebbe la netta sensazione che stesse cercando di non lasciare trasparire il dolore. Rimase sospeso soltanto per un attimo, reggendosi sulle braccia, e poi saltò giù con un tonfo improvviso.
L'uomo che era con lui smontò da cavallo nello stesso momento, ma non offrì alcuna assistenza, notò lei, e si mise da una parte come se fosse una questione di principio non farlo.
Violet trattenne il respiro vedendo che il suo persecutore si avvicinava al carro poggiando il peso del corpo sulla gamba sinistra e zoppicando con la destra. A quanto pareva, la ferita, o qualunque cosa gli fosse successa, era stata più grave di quanto avessero riportato i pettegolezzi. Dopo cinque mesi trascorsi a casa, il danno sembrava essere permanente. Lei avvertì un pizzico di pietà, subito repressa, anche se di certo era possibile provare pietà per lui ma continuare a non volerlo sposare, no? Dopotutto, i motivi per cui non lo voleva non c'entravano nulla con la gamba.
I due uomini si fecero un segno d'intesa, presero da un lato il carro e lo sollevarono a mani nude.
«Riuscite a rimettere a posto la ruota?» domandò il capitano Amberton al conducente.
«Penso di sì.» Il conducente si mise subito al lavoro, inserì la ruota sull'asse e sistemò svelto il perno con il martello, dopodiché si tirò su, soddisfatto. «Ecco, dovrebbe reggere per ora. Vi ringrazio.»
«Non c'è di che.» Il persecutore indicò la strada. «Andate a Rosedale?»
«Sì, sir. Dovevamo proseguire per Helmsley, ma sembra che stia arrivando il brutto tempo.»
Violet alzò lo sguardo al cielo, allarmata. Il ragazzo aveva detto che erano abituati a viaggiare in quelle condizioni, ma non si poteva negare che la neve stesse scendendo sempre più fitta, accumulandosi a terra, mentre fino a poco prima si scioglieva. Cosa avrebbe significato per la sua fuga?
«Allora farete bene a sbrigarvi.» Il capitano Amberton accennò un saluto con il capo. «Lieti di essere stati d'aiuto.»
Quando voltò le spalle, lei emise un sospiro di sollievo e quasi non poté credere a quanto vicina apparisse la salvezza. Lui se ne stava andando! Non l'aveva vista! Anche se fosse arrivata tardi a Rosedale, era comunque libera...
«Miss Harper?»
Ebbe un sussulto al suono del proprio nome, e il cuore prese a batterle forte, così forte da darle l'impressione di fuoriuscirle dal petto. Si sporse appena in avanti, ma lui era di spalle, e continuava ad allontanarsi. Non si era nemmeno voltato quando l'aveva chiamata. Se non fosse stato per gli sguardi di tutti gli altri puntati su di lei, avrebbe potuto pensare di averlo immaginato, ma chiaramente non era così. Come aveva fatto a sapere che lei era lì? Non aveva dato il minimo segno di essersi accorto della sua presenza.
«Miss Harper?» Sembrò più insistente.
«Sì?» rispose Violet con poco più di uno squittio.
«Stiamo partendo.»
L'abitudine a essere obbediente era talmente radicata in lei che per un attimo fu sul punto di seguirlo, ma subito dopo un moto di indignazione la trattenne. Come osava chiamarla a raccolta come se si trattasse di uno dei suoi soldati, come se pensasse di poter impartire ordini che lei doveva eseguire, alla stregua di suo padre? Be', non era tenuta ad andare con lui. Era una donna libera... in teoria, almeno. Poteva fare ciò che avrebbe dovuto fare fin dall'inizio, e cioè rifiutarsi e basta. Gli avrebbe detto che non voleva sposarlo, in nessun caso. Quanto poteva essere difficile farsi valere?
Violet uscì dal proprio nascondiglio e andò sul sentiero, tenendo il cappuccio abbassato sul viso per non fargli vedere quanto fosse agitata.
«No.»
Lui si fermò di colpo e si voltò, con uno sguardo che riusciva a essere allo stesso tempo avvenente da lasciare senza fiato e gelidamente minaccioso. Cercava di non lasciare trasparire nessuna emozione, eppure un fondo di tensione era palpabile.
«Anche per me è un piacere rivedervi, Miss Harper.»
Lei avvertì un brivido che la scosse. Come poteva un uomo che era sembrato tanto affascinante con i suoi modi affabili, la prima volta che si erano incontrati, essere in quel momento tanto freddo? Stentava a riconoscerlo. C'era qualcosa di pericoloso in lui, come se ciò che stava contenendo non fosse solo rabbia. I nervi di Violet si tesero sotto la potenza di quel suo sguardo cupo che incuteva timore, ma non rispose, non fece alcun inchino, né tantomeno abbassò il capo. Aveva la fastidiosa sensazione che, se si fosse mossa, avrebbe perso la propria risolutezza e ceduto. Avvertiva già l'impulso di andare da lui, come se la attraesse con la sola forza del pensiero.
Il capitano Amberton inarcò piano un sopracciglio ma, se anche era preoccupato della mancata reazione di Violet, non lo diede a vedere.
«Mi scuso per non avervi fatto visita prima del nostro appuntamento di questa mattina, ma mi rincresce affermare che ero indisposto.» Il tono non era affatto di scuse.
«Non siete venuto al funerale di mio padre» lo accusò lei, ritrovando infine la voce, solo che suonò penosamente flebile.
«Soltanto perché preferisco non aggiungere l'ipocrisia alla lunga lista dei miei difetti. Dubito che lui avrebbe gradito la mia presenza e sono stato informato dei termini del testamento solo dopo il funerale.» Scrollò le spalle. «Comunque, ora sono qui e sono disposto a procedere.»
Disposto a procedere?
Violet inspirò di colpo a quelle parole d'insulto. Sembrava che le stesse facendo un favore. Come se la sola ragione per cui lei era scappata fosse che lui non le aveva fatto visita prima del matrimonio, come se si trattasse di una semplice questione di orgoglio ferito e non di assoluto ribrezzo... come se lei potesse desiderare di sposare uno scapestrato del genere!
Sollevò lo sguardo, sdegnata. «Vi sbagliate se pensate che mi sia offesa per la vostra assenza. Non ho alcun desiderio di rispettare l'accordo dei nostri padri.»
«Ma davvero?» commentò lui, con aria di sfida. «Posso chiedervi, allora, quali sono i vostri piani?»
«Sto andando a Rosedale.»
«Per intraprendere la carriera di minatore, magari?»
«Questo non vi riguarda.»
«Al contrario. La volontà di vostro padre era piuttosto esplicita in merito a questo. Mi ha reso responsabile di voi.»
«So badare a me stessa!»
«Sul serio?» Apparve scettico. «Lo avete mai fatto prima d'ora?»
«No.» Violet si indispettì all'insinuazione. «Ma non significa che non sia in grado di farlo.»
«È vero, tuttavia a quanto pare vostro padre la pensava in un altro modo. Mi ha nominato vostro tutore.»
«Intendeva vostro fratello, non voi!»
Gli occhi color ambra sfavillarono, accesi da un forte turbamento, subito represso. «Resta il fatto che avete solo me. Vostro padre voleva che un Amberton si prendesse cura di voi e, a quanto sembra, io sono l'unico rimasto.»
L'accesso d'ira fu tanto incontenibile da farla tremare tutta, come se avesse trattenuto la rabbia così a lungo da renderla pronta a esplodere. Le parole proruppero all'improvviso come un torrente in piena che non riuscì a fermare né a contenere.
«A mio padre non è mai importato se qualcuno si prendeva cura di me o no! Voleva solo che io mi prendessi cura di lui. Voleva controllarmi. E lo vuole tuttora. Ecco perché mi ha messo nelle vostre mani!»
Si tappò la bocca alla fine dello sfogo e si guardò intorno imbarazzata, ma gli altri non la stavano più fissando. A un certo punto si erano spostati da un lato e, dandole le spalle, si erano messi a contemplare la brughiera, neanche fosse stata una bella giornata per godersi il panorama piuttosto che l'inizio di una bufera, e l'avevano di fatto lasciata sola con il capitano Amberton.
«Non voglio sposarvi» dichiarò, dopo avere tolto la mano dalla bocca, con tutta la convinzione che le riuscì.
«Non più di quanto lo voglia io. Ma dal momento che entrambi non abbiamo scelta, suggerisco di fare buon viso a cattiva sorte.»
«Io vado a Rosedale.» Forse, se avesse continuato a ripeterlo, lo avrebbe accettato anche lui...
«Non con questo tempo o con quel carro. Considerate le circostanze, non sarebbe saggio sollecitare ancora l'asse. Non siete d'accordo, signor conducente?»
«Oh... sì.» L'uomo si voltò verso di lei con un'espressione mortificata. «Mi dispiace, miss, ma non ce la faremo ad arrivare a Helmsley adesso. Potremmo doverci fermare alle miniere per un po' a eseguire le riparazioni, e non è un posto adatto a una signora.»
«Ecco, appunto.» L'espressione del suo persecutore era gelida. «Sembra che non abbiate scelta. Alla fine dovete tornare a Whitby con me.»
Violet sostenne il suo sguardo, piena di risentimento. Era vero, non aveva scelta. Anche se non fosse nevicato, Helmsley era troppo lontana per andarci a piedi e, come sempre, a nessuno interessava quello che voleva lei. Inoltre, aveva il forte sospetto che il suo persecutore non avrebbe accettato un diniego. Se avesse continuato a opporglisi, avrebbe potuto anche caricarla in sella a forza.
Indicò una borsa da viaggio sul retro del carro e cercò di fingersi calma. «Il mio bagaglio.»
Il capitano Amberton gettò un'occhiata alla borsa e parve sorpreso. «È tutto ciò che avete portato?»
«Sì. Visto che sarei stata diseredata, non mi sembrava giusto prendere più di quanto non fosse mio di diritto.»
«E quelli sono tutti i vostri averi?»
«Sì.»
«Davvero onesto da parte vostra.» Dal tono, non sembrava impressionato. Indicò con un cenno del capo l'uomo che era con lui. «Porterà Martin la vostra borsa. Ora, però, posso suggerire di metterci in viaggio, prima che la neve cada ancora più abbondante?»
Violet andò verso il capitano con passo altezzoso, impossibilitata a indugiare ancora, e guardò prima lui, poi il cavallo, pressappoco con la stessa inquietudine. Sperava di essersi ingannata, da lontano, sulla stazza dell'animale, invece da vicino era addirittura più grande di quanto avesse temuto, così alto che con la testa gli arrivava a malapena alla sella.
Si fermò lì accanto, e abbassò la voce per l'imbarazzo. «Non sono capace di andare a cavallo.»
«Lo immaginavo.» Il capitano emise un sospiro. «Dovete solo mettere il piede nella staffa e tirarvi su. Non vi farò cadere.»
Lei si bloccò. Non vi farò cadere... Le aveva già detto quelle parole, cinque anni prima, quando l'aveva invitata a danzare. Le erano rimaste impresse. Aveva trascorso ore a rivivere ogni momento umiliante di quella serata, rammaricandosi di essere andata con lui sulla pista da ballo. Era stato il suo primo assaggio di libertà, o almeno così aveva pensato in quell'occasione, l'unica, a cominciare dall'infanzia, in cui si era sentita felice e spensierata. Mentre volteggiava tra le sue braccia le era parso di essere finalmente fuori di prigione, prima di ripiombare nella cruda realtà.
La disinvoltura con cui si era preso gioco di lei l'aveva oltremodo ferita. Violet aveva fatto la figura della stupida di fronte a tutti per avere ballato con uno scapestrato che l'aveva incoraggiata a ribellarsi per nessun altro motivo che il proprio divertimento, così da potersi prendere gioco di lei con più facilità.
E ora stava di nuovo schernendo lei e il suo tentativo di ribellarsi, come se fosse solo una bambina incapace di badare a se stessa, cosa che le aveva già detto. Ogni volta che lei tentava di farsi valere, lui mandava tutto all'aria.
Serrò i denti al pensiero. Be', non glielo avrebbe consentito. Non sarebbe più stata piccola e indifesa. Il capitano poteva anche avere ostacolato il suo tentativo di fuga, ma sarebbe stata l'unica vittoria che gli avrebbe concesso. Sarebbe tornata a Whitby, però non lo avrebbe mai sposato, per quanto lui avesse provato a convincerla o l'avesse intimorita. Lo detestava.
«Sembrate infreddolita.»
«Cosa?» Le sue parole la riportarono di colpo alla realtà.
«Ho detto che sembrate infreddolita» ripeté, impaziente.
«No» mentì lei. «Niente affatto.»
Si strinse il mantello intorno alle spalle con un atteggiamento difensivo. Era il capo più caldo che avesse, ma era pur sempre inadeguato. Suo padre non le aveva permesso di trascorrere molto tempo fuori casa, perciò non aveva mai avuto bisogno di vestiti davvero caldi, ma di certo non lo avrebbe confidato al capitano Amberton. Lui ne avrebbe approfittato per dimostrare che non era in grado di prendersi cura di se stessa.
«Tenete.» Si tolse il cappotto e glielo posò sulle spalle.
«Morirete di freddo!» protestò lei, indicando la sua giacca.
«Ho vissuto in Canada. Ci sono abituato.»
«Ma siete ferito!»
«Allora siamo fortunati che non sia il tipo di ferita che risente del freddo.» Il capitano Amberton sospirò di nuovo. «Ora potete salire prima che finiamo tutti assiderati? Credo che abbiate scomodato questi uomini, e anche me, abbastanza a lungo.»
Lei lo guardò con rabbia, le guance in fiamme nonostante il gelo. Scomodato. Non avrebbe potuto essere più chiaro. Ecco cosa era per lui, un incomodo con un patrimonio che faceva comodo. Per questo l'aveva inseguita... per i soldi, non per lei. Infilò furente il piede nella staffa, si issò per salire in sella, poi inspirò di colpo, inorridita, quando sì sentì afferrare per un attimo la caviglia.
«Che fate?» Le si bloccò il fiato in gola. Nessun uomo le aveva mai visto, men che mai toccato, le gambe!
«Vorrei montare anch'io a cavallo.» La guardò con aria sarcastica. «O pensate che dovrei camminare?»
«Certo che no.»
«Bene. Perché se è il decoro che vi preoccupa, vi ricordo che siamo fidanzati. Se non fosse stato per questa scappatella, saremmo già sposati.»
Montò dietro di lei, emettendo un piccolo brontolio di dolore quando passò la gamba ferita dall'altra parte del cavallo. Lei si spostò subito un po' in avanti, cercando di evitare che i loro corpi si toccassero, ma la curva della sella lo rendeva impossibile. Sentiva le cosce del capitano strette intorno alle proprie e il fondoschiena premuto contro il suo...
Chiuse gli occhi, mortificata.
«Comoda?»
«No!» Dal tono aveva capito che la stava di nuovo prendendo in giro.
«Allora vediamo di fare in fretta, che ne dite?» Le cinse la vita, imprigionandola tra le proprie braccia, strinse forte le redini e le fece scattare con un colpo secco.
Violet dentro era furibonda, la paura del cavallo quasi sparita. Non provava rimorso per avere accettato il suo cappotto. Anzi, si augurava proprio che lui avesse freddo. Gli stava bene, non solo perché le aveva rovinato i piani, ma anche perché l'aveva fatta sentire una stupida. Una piccola stupida, ingenua e indifesa. Proprio come diceva sempre e la faceva sentire anche suo padre!
Guardò indietro, da sopra la spalla del suo carceriere, e sbatté le palpebre per cercare di trattenere le lacrime di frustrazione mentre osservava il carro svanire in lontananza, offuscato da una mutevole cortina di neve. Come era possibile che la sua fuga fosse fallita così miseramente? Come aveva fatto a trovarla? Non gli avrebbe certo dato la soddisfazione di chiederglielo né di farsi vedere piangere, eppure avrebbe voluto saperlo, anche se non aveva più importanza ormai. Il piano era naufragato e lui la stava portando...
Violet trasalì. Dove la stava portando? Quella non era la strada che aveva percorso con il carro, la mattina. Non era nemmeno una strada. Era la brughiera, il terreno incolto e paludoso sul quale era sempre stata messa in guardia. Si voltò allarmata, e si accorse che il compagno di viaggio del suo carceriere, o servitore da quello che poteva sembrare, cavalcava al loro fianco; tuttavia, chiunque fosse, non aveva proferito parola. Dove la stavano portando, tutti e due?
«Avevate detto che saremmo tornati a Whitby.» Cercò di non fare trapelare il panico dalla voce.
«Ho mentito.» Il tono era implacabile. «Per quanto sia sicuro che Martin sarebbe lieto di stare di guardia davanti a casa vostra, è più facile tenervi d'occhio ad Amberton Castle.»
«Pensate che proverò a scappare di nuovo?»
«Non lo farete?»
Sì. Non lo disse ad alta voce, anche se, in quel momento più che mai, la risposta era scontata. Stava cavalcando nella brughiera con un uomo che disprezzava, per tornare nel luogo in cui si era sentita ferita e umiliata cinque anni prima, un posto in cui non sarebbe voluta tornare mai più. Ovvio che avrebbe cercato di scappare un'altra volta. Il prima possibile.
«Proprio come pensavo.» La bocca del capitano assunse una piega dura e decisa. «Vi porto ad Amberton Castle, Miss Harper, la vostra nuova casa.»