Erano in pochi a conoscere Fosco. Arroccato su una falesia a picco sul mare, si raggiungeva percorrendo una strada a una sola corsia, stretta tra i monti e la costa. Ci si arrivava in punta di piedi o tra il fracasso di un motore acceso. Il paese sentiva e, a suo modo, sapeva accogliere.
In un tempo non troppo lontano, il cartello di benvenuto era crivellato di proiettili, e non c’era da cambiarlo. Nel giro di una notte, tornava a essere segnato. Era un bersaglio utile a esercitare la mira. Era un messaggio per i militari che sostavano sotto il sole, con il mitra spianato, sulla curva chiamata «delle guardie».
Il cuore del paese era piazza della Liberazione. Il nome sventolava su un pezzo di lamiera consumato dalla ruggine e pareva uno scherzo. Liberazione da chi, da che cosa. Liberazione da un’idea, da una storia o dalla pesantezza di un oppressore. Gli abitanti di Fosco si aggiravano silenziosi lungo il perimetro della piazza, dentro un intestino di vicoli illuminati soltanto dal giorno. Conversavano sfiorandosi. Le donne camminavano rasenti alle abitazioni e gli uomini sedevano al caffè di Peppantoni u citrata, davanti alle tazzine fumanti.
Ocra facciata, grigio tetto, nero gonna e bianco festa erano i colori dell’insieme. L’aria sapeva di pomodoro estivo e sale.
E poi c’era la spiaggia. Di sabbia finissima e protetta da una baia, era così silenziosa da permettere alle tartarughe di deporci le uova. Gli abitanti di Fosco non ci andavano. Guai. Non potevano essere sorpresi dalla vita, dalla morte o dai vicini di casa con i piedi in ammollo e le braghe flaccide di mare. I gnuri, i signori, avevano pronunciato il loro «non si può e non si deve fare». Nessuno doveva girare attorno alla baia. I rari panfili ormeggiati a pochi metri dalla riva appartenevano a gente forestiera che aveva l’autorizzazione di zi’ Totonnu, la persona più importante di Fosco. Ciò che zi’ Totonnu comandava, diventava legge. Se Totonnu diceva notte, notte era. Era stato lui a ordinare l’abbandono della scala che portava alla spiaggia: «Dimenticatela» aveva detto. I più vecchi si erano risentiti, bocche strette e occhi lucidi di rabbia. Quella scala l’avevano costruita loro, gradino dopo gradino. C’erano scesi per anni, attaccati al corrimano, trascinando bambini ai primi passi e borse cariche di provviste. Che male c’era a entrare dentro la natura? I loro padri, i padri dei loro padri, avevano vissuto di pesca e dell’odore spesso del mare. Le pareti delle case si erano annerite a furia di cucinare u pisci spata sulla griglia.
Impedire agli abitanti di Fosco di scendere al mare era stato come tagliare un ombelico da una pancia ancora gravida.
La scala era ridotta a un mucchio di pietre sconnesse. I gradini erano scompagnati e il corrimano di legno si perdeva tra i cespugli di stracciabraghe. C’era da lasciarci la carne, in mezzo alle spine incattivite dalla solitudine. Pescare e fare il bagno erano sfide destinate alla rinuncia.
I bambini si accontentavano di guardare il mare. Si arrampicavano sulle mura dell’antico castello e il custode gridava di scendere, mannaia a vui!, che c’erano le cinquecento lire da pagare per stare lì. Loro alzavano le spalle e correvano. Giunti a ridosso della baia stiravano le caviglie e frenavano la corsa. Più in là no. Oltre il muro l’orizzonte era così ampio da spaventare. Il mare non si doveva toccare perché era maledetto. Entrava negli occhi e increspava le onde per imporre loro il dovere di brillare. Luce. Fosco era accecato dalla luce, a dispetto del nome che era uno straccio di cotone buttato sulle case, con l’intento di trattenere e nascondere.
Anche i militari che arrivavano in paese si limitavano a guardare il mare dalla caserma costruita sopra la curva delle guardie. Per loro non c’era nessun divieto, eppure qualche cosa li tratteneva dal contatto. All’ultimo piano della caserma c’era un terrazzo dove, a fine turno, tiravano quattro calci a un pallone di cuoio e stappavano birre con gli occhi appiccicati all’orizzonte. Avevano per lo più le facce fresche dei vent’anni e una manciata di spavento negli sguardi. Molti erano di leva ed erano lì perché quello era l’ordine.
Zi’ Totonnu diceva che li avevano spediti al Sud a farsi lucidare il pelo e che, a furia di lisciare, di quei poveri disgraziati sarebbero avanzate soltanto le ossa. I gnuri godevano della sfacciataggine del capo. Davanti a lui, facevano la riverenza e parlavano a voce bassa, per non appesantirgli la testa. L’obbedienza manifesta era il migliore dei rifugi possibili. A Fosco, la disobbedienza e la fuga erano fatti privatissimi.